No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20101231

libero


Born Free - Kid Rock (2010)


Personaggio strano, Kid Rock. O probabilmente è strano il mio "rapporto" con il suo personaggio. Nonostante le sue controversie, i suoi paradossi, le sue spacconaggini, le sue idee vagamente razziste, destrorse, maschiliste e chiaramente, da sudista statunitense medio (notare le pistole nell'apposita fondina dietro i sedili dell'auto in copertina), non riesce a rimanermi antipatico. Ho apprezzato molte delle cose che ha fatto (compreso il matrimonio con Pamela Anderson, sia chiaro), non solo il precedente Rock N Roll Jesus, come vi dissi.

Mi aspettavo grandi cose anche da questo. Grandi, insomma, diciamo un disco divertente, cazzaro, con canzoni fischiettabili e qualche ballatona strappamutande.

Invece, devo dire che questo Born Free, nonostante la presenza di Martina McBride e T.I. (Care), Zac Brown (Flyin' High), Mary J. Blidge (la versione demo di Care), e addirittura Sheryl Crow e Bob Seger (voce e piano su Collide), il disco appare moscio, ripetitivo, con davvero poco mordente.

Peccato.

donkey


La bellezza del somaro - di Sergio Castellitto (2010)

Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Giudizio vernacolare: fa ridé!!


Marcello e Marina Sinibaldi, rispettivamente affermato architetto e psicologa della mutua, fanno parte dell'alta borghesia romana, progressisti, ecologisti, simpatie di sinistra e antipatia per Berlusconi. Quasi cinquantenni, apparentemente soddisfatti delle loro vite, nascondono (eufemismo) sotterfugi ed insoddisfazioni. Sempre alla ricerca della giovinezza perduta, soprattutto Marcello, che ha l'amante bella e giovane, e due amici, Duccio e Valentino, dai tempi della scuola, con i quali cazzeggia in ogni occasione.

Incapaci di farsi rispettare perfino dalla colf russa, i due sono sempre più in apprensione per la figlia diciassettenne Rosa, sveglia, intelligente, brillante, ma instabile sentimentalmente. Dopo aver rotto con Luca, il figlio di Duccio, Marcello e Marina capiscono che c'è un altro uomo nella vita di Rosa, e muoiono dalla curiosità. Equivocando un abbraccio, visto da Marina che morbosamente ha spiato Rosa all'uscita dalla scuola, pensano che sia un ragazzo di colore, e non vedono l'ora di sfoggiare il loro atteggiamento aperto e progressista accettandolo di buon grado. Quale migliore occasione del ponte dei Morti (o dei Santi) di inizio novembre, nel loro elegantissimo e finto povero casale ristrutturato in Toscana, invitando tutti, ma proprio tutti, gli amici, le amiche, e i parenti?

La sorpresa sarà enorme, andrà al di là di ogni possibile comprensione, e metterà a nudo le nevrosi non solo di Marcello e Marina, ma anche degli altri.


Davvero ingrate le critiche, anche piuttosto feroci, a questo film, il terzo di Castellitto da regista. La cosa mi destabilizza un po', visto che, al contrario, un po' a tutti era piaciuto il precedente Non ti muovere, mentre a me non aveva fatto impazzire. Come sapete però, il mondo è bello perché è vario, e quindi, vi dirò che a me La bellezza del somaro è piaciuto molto (nonostante una locandina a dir poco orrenda), mi ha fatto ridere di gusto (e la sala pure, pareva molto divertita), e dato spunti di riflessione, che sono si, piuttosto palesi nell'economia del film, ma non fanno mai male, se ci permettono di fermarci un momento a riflettere sui nostri tempi e su dove stiamo andando.

Bisogna, secondo me, riflettere sul fatto che se non sapessimo di cosa consta il turning point della storia, apprezzeremmo ancora di più il film. Detto questo, la pellicola è costantemente in bilico tra teatro, citazioni alte (letterarie, psicologiche e cinematografiche), spunti surreali e visionari, quasi felliniane, e battute a volte terra terra, a volte un po' ricercate, ma come detto, si ride molto. Ho letto che si accusa il film di essere scollegato dalla realtà: vi pare che in giro non ci siano cinquantenni che vogliono sembrare giovani? Forse chi muove questa critica è fuori dalla realtà.

E' vero, forse, che c'è un eccesso di grida, ma in questo caso la cosa mi ha infastidito molto meno rispetto a Ricordati di me di Gabriele Muccino. Qualcosa vorrà dire.

Regia diligente, cast affiatato e costantemente sopra le righe (a parte i giovani), con Castellitto mattatore anche per quanto riguarda la recitazione, ottimo come sempre Marco Giallini (Duccio), bravissima, come sempre, Barbora Bobulova (Lory). Sorprendente Enzo Jannacci (Armando).

20101230

dissenso assoluto


Absolute Dissent - Killing Joke (2010)


Nonostante tutto, i Killing Joke non se ne sono mai andati. Cambi di formazione, varie fasi, scioglimenti e reunion, morti, innumerevoli tentativi di imitazione, ma alla fine ti metti lì, ascolti un disco dei Killing Joke del 2010, e ti rendi conto che hanno ancora da insegnare a tutti.

Post punk, industrial, elettronica, gothic, metal e post new wave, e una invidiabile nonchalance nel passare da un genere all'altro mantenendo la barra dritta, riuscendo nell'invidiabile missione di rilasciare un disco compatto come molti giovinastri se lo sognano.

A 50 anni suonati (battutone), in alcuni casi portati anche piuttosto male esteticamente, Coleman, Walker, Glover e Ferguson riescono ancora a dare lezioni e ad incantare. The Raven King (riferimento ovvio) è un capolavoro di emozioni, ma ne troverete altri degni di nota, e anche se Depthcharge somiglia un po' troppo a The Wait, è sempre farina del loro sacco. Un pezzo migliore dell'altro. Un disco sontuoso.

hjem til jul


Tornando a casa per Natale - di Bent Hamer (2010)


Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)

Giudizio vernacolare: sufficienza risi'ata


Vigilia di Natale in Norvegia, a Skogli. Ognuno ha la sua storia. Alcune si incrociano, anche solo per un attimo.

Una donna si prepara per la visita del suo amante, che le promette da anni di lasciare la moglie per lei. Un giovane uomo invece è stato cacciato dalla moglie, che si è messa con un altro, e non gli fa vedere i figlioletti neppure per Natale. Un dottore, felicemente sposato, lavora anche per Natale: sua moglie vorrebbe un figlio. Lui esce per il turno di notte, e si imbatte in un immigrato disperato, che lo minaccia perchè soccorra la moglie che sta partorendo in una baita sperduta (la notte di Natale...). Un barbone tenta di tornare a casa, ma viene sbattuto giù dal treno perchè non ha più un soldo. Un ragazzino nega di essere cristiano (e di avere il cenone di Natale che lo aspetta a casa) pur di passare la serata accanto alla compagna di classe musulmana, sul tetto di casa di lei, a guardare le stelle col telescopio. Un anziano si muove per casa tentando di portare al piano di sotto la moglie (o la madre).



Hamer ha uno stile piuttosto personale, e nonostante l'impalpabilità (uso impalpabilità non del tutto negativamente) di alcuni suoi film, quest'ultimo così come il precedente Il mondo di Horten, si fa sempre apprezzare per questo suo approccio minimale, tutt'altro che didascalico, sussurrato, addirittura appena accennato (vedi la storia dell'anziano che fa di tutto per portare la vecchietta al piano inferiore della casa).

Ispiratosi ad un libro di racconti del compatriota Levi Henriksen Bare mjuke pakker under treet (Solo i pacchetti morbidi sotto l'albero), Henriksen al quale viene pure regalato un cameo nel film, consigliatogli dalla moglie, adeguatamente tagliato, riveduto, corretto, con l'aggiunta del prologo slavo, che si "risolve" nel finale, Hamer ci regala un film dei suoi, rarefatto e sospeso tra Kaurismaki (abbastanza) e Von Trier (meno), che però, come accennato prima, come il precedente O' Horten, dà l'impressione di non andare decisamente fino in fondo (ho volutamente escluso dai ricordi Factotum perchè non mi piacque per niente, e perchè probabilmente era fuori contesto per Hamer, e Eggs, che ancora non ho visto).

Cast ben scelto, tutte le prove sono più che buone; mi preme sottolineare che il film ci permette di vedere, o di rivedere, Trond Fausa Aurvaag, nei panni di Paul (lasciato dalla moglie e in pena perché non può rivedere i figli neppure per Natale, come accennato nella trama): era il protagonista, se non l'avete visto cercatelo, di Den brysomme mannen.

Film apprezzabile, rispettabile, ma ricordandoci Kitchen Stories, ci rimane la sensazione netta che il regista norvegese possa dare di più, e la speranza che, in futuro, lo farà.

20101229

terra


Land Of The Free-ks - Jingo De Lunch (2010)


Quando ho letto che c'era in giro questo disco, non ci volevo credere. Quanti anni sono passati?

Quanti che siano, i berlinesi capitanati da Yvonne Ducksworth, riunitisi per un tour celebrativo nel 2007, pur con qualche cambio di formazione in seguito, sono evidentemente rimasti con la voglia di suonare, e sono arrivati fino ad oggi, rilasciando anche un disco di materiale nuovo.

Il sound pare non essere cambiato per niente, così come la voce di Yvonne. Non c'è quindi niente di nuovo, ma fa piacere, e il disco non è male.

Per chi non avesse idea di come sia il loro sound, era ed è un punk-rock energico, punteggiato dalla voce femminile davvero particolare e potente di Yvonne; belle melodie, riff prevedibili mutuati dall'heavy rock alla AC/DC.

ti stimo molto


Volevo solo dormirle addosso – di Eugenio Cappuccio (2004)


Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: ganzetto


Marco Pressi è un giovane in carriera in una multinazionale. Fa il motivatore delle risorse umane, e lo fa bene. Ma l’azienda per la quale lavora, iniziando uno degli interminabili cicli di ristrutturazione, lo promuove a capo della gestione del personale e gli chiede di "liberarsi" di 25 persone in meno di 3 mesi, senza problemi col sindacato, con un budget relativamente basso, e senza compromettere il clima aziendale. Premio, un ricco bonus. La vita privata di Pressi, già incasinata, diventa una barzelletta, amplificata dal suo carattere caustico. Da beniamino di tutti diventa odiato, una sorta di nemico pubblico numero 1. Alla fine, il target è raggiunto, ma a quale prezzo?

Cappuccio, già co-regista dell’ottimo indipendente Il Caricatore, si ispira ad un romanzo di Massimo Lolli che lo accompagna anche nella stesura della sceneggiatura.
Ne esce un film dal ritmo alto e dalle tematiche interessanti e ultra-moderne. Chiunque lavori in ufficio, soprattutto per multinazionali, riconoscerà le dinamiche e anche i personaggi di contorno (davvero indovinati, macchiette terrificanti ma, purtroppo, fin troppo corrispondenti alla realtà), il linguaggio surreale (su tutto il tormentone "ti stimo molto" e altre perle, anche molto milanesi, che collocano giustamente il non luogo dell’ufficio) tipico di questa realtà. Ottima la verve comica, spesso anche greve, che coinvolge lo spettatore fino a fargli dimenticare il dramma che si sta consumando, in una finzione cinematografica che è assolutamente vicina alla realtà odierna del lavoro, al punto che, dopo essersi divertiti si esce dalla sala e ci si domanda "ma che cazzo c’avevo da ridere che magari domani capita a me?".
Interpreti giusti, e soprattutto un Pasotti sempre più apprezzabile, che dipinge alla perfezione la discesa all’inferno del giovane manager.
Un film divertente e intelligente, purtroppo sottovalutato e mal distribuito, come troppo spesso accade in Italia. Ripescatelo.

20101228

out


Fuori - Ministri (2010)

Lo ammetto: anch'io, come molti altri, al primo ascolto del nuovo dei Ministri ho pensato fosse un disco inaspettatamente moscio. Adesso, più lo ascolto e più non riesco a ricordare perché lo pensassi all'epoca. Sarà, forse, per un uso diffuso, ma alla fine parsimonioso, delle tastiere, di qualche pezzo dal ritmo rallentato, ma davvero è un aggettivo che non si può usare per definire Fuori nella sua interezza.
Terzo full length per la band milanese, che è a tutt'oggi una delle più belle realtà rock italiane. Innegabile la ricerca di un progresso, il progressivo distacco dal furioso approccio quasi punk degli esordi, per una serie di pezzi dalla grande apertura melodica, l'uso, come detto, diffuso delle tastiere, e di una interessante, e quasi fuori moda, "porzione" elettronica, tanto elementare quanto grottesca, per un risultato sorprendentemente sarcastico, così come l'approccio "intellettuale" dei Ministri.
E' certo che ci sono, in questo disco, pezzi dalla difficile interpretazione, a livello strettamente musicale, quali Le città senza fiumi, che pare una sorta di cantilena, difficile da giudicare positivamente, ma senza dubbio intrigante, sempre perché presentata da una band che rimane costantemente sull'orlo dello sberleffo. Non mancano però i pezzi furiosi, per intero o in buona parte, che rimangono quelli che preferisco: Una questione politica, Mangio la terra, Il sole (è importante che non ci sia), Che cosa ti manca, Gli alberi, Noi fuori (forse la mia preferita, davvero selvaggia e punk). Non per questo risultano meno importanti pezzi simili a ballate, ma non propriamente tali, quali Vestirsi male, Tutta roba nostra. Negli altri pezzi si intravedono tentativi di diversificare l'offerta, per non fossilizzarsi, e non possiamo che considerarli in quest'ottica, comunque positiva.
Testi mai banali, come sempre, con diverse chiavi interpretative e ben piantati nell'attualità.
Un disco che ha forse il difetto di arrivare dopo Tempi bui, che ha sicuramente rappresentato un bello scossone alla scena nazionale; un disco positivo, probabilmente non eccezionale, ma che conferma una bella realtà.

in terapia


In Treatment - di Rodrigo Garcìa - Stagione 3 (28 episodi; HBO) - 2010

Come mi disse qualche tempo fa un amico parlando di In Treatment, Paul Weston, l'analista psicologo protagonista della serie, è un uomo che ogni volta che appare sullo schermo, ti fa venire voglia di abbracciarlo. 57enne irlandese, trasferitosi da bambino negli USA, una volta psicoterapeuta di belle speranze, poco propenso a mostrare i suoi sentimenti, un matrimonio fallito alle spalle, due figli ormai grandi che vede di rado a causa della distanza, dato che dopo il divorzio lui si è trasferito da Baltimora a Brooklyn, continua a vedere pazienti e ad avere enormi dubbi su se stesso e sulla sua professione, per non parlare del suo continuo rinchiudersi nel suo guscio. La sua attuale relazione con una bella ragazza di 20 anni più giovane di lui, Wendy, scorre senza arrecargli felicità, mentre lui è alle prese con la sua tendenza ad empatizzare con i suoi pazienti più difficili, e casualmente si ritrova ad andare lui stesso in analisi da una terapeuta molto più giovane di lui.

Questa terza stagione è la prima della serie che non si basa per niente sull'israeliano Be Tipul, ma non mi è parso che la cosa abbia avuto una ripercussione negativa sullo show. L'idea di continuare a cambiare i pazienti ogni stagione contribuisce a ravvivare il tutto, i frammenti extra rispetto alle sedute sono sempre fondamentali, perché diciamoci la verità, vorremmo sapere ogni cosa sulla "povera" vita di Paul, e le storie dei pazienti sono sempre avvincenti, interessanti, talmente familiari che ogni spettatore riesce a trovare un pezzetto della propria vita dentro a queste storie. I dubbi di Paul sono anche i nostri, le debolezze sue e dei pazienti pure.

Gabriel Byrne è ormai indescrivibile in quanto a bravura e delicatezza. Il suo tormento è anche il nostro. Debra Winger (Frances), nei panni dell'attrice in crisi è un piacevole ritorno, così come rivediamo volentieri, seppur in un ruolo marginalissimo, Sonya Walger, che avevamo apprezzato anche per le sue "doti" fisiche, in Tell Me You Love Me, qui nuora di Sunil, un sempre bravo Irrfan Khan, visto in molti film anche americani. Brava pure Amy Ryan (Adele), bravissimo Dane DeHaan nei panni di Jesse, attore che rivedremo nella quarta stagione di True Blood.

Una delle serie più "umane" che ci siano, una di quelle che mi mancherebbero molto se si fermasse qui, alla terza stagione.

20101227

alleanza


The Union - Elton John / Leon Russell (2010)

Diciamoci la verità, con i nomi che c'erano in gioco, era lecito aspettarsi qualcosa di più. E invece, The Union è si un buon disco, ma non un capolavoro. Nonostante quello che pensano in molti (troppa musica, troppa roba mediocre), di questi tempi non è granché: e il motivo è sempre lo stesso, dai migliori ci si aspetta e si pretende il meglio. Almeno, così ragiono io. Sir Elton John lo conoscono tutti, Leon Russell un po' meno; almeno, noi ignoranti. Meno male che c'è, tra le altre cose, Wikipedia a soccorrerci.
Oltre a questi due giganti della musica, c'è T-Bone Burnett alla produzione, Bernie Taupin, paroliere storico di Elton, Marc (con la c, diamine, che lo sbaglio sempre e non so perché) Ribot alle chitarre, Booker T. Jones all'Hammond B3, e tutta una serie di altri collaboratori di altissimo livello, senza contare le apparizioni da urlo: Neil Young alla voce su Gone To Shiloh (uno dei pezzi migliori), Brian Wilson (Beach Boys) su When Love Is Dying (altra perla). Per dire, addirittura per la copertina si è scomodata Annie Leibovitz.
Intendiamoci: siamo su livelli molto, molto alti, i pezzi sono quasi tutti molto interessanti, c'è un inedito mix tra la verve del pop sofisticato di Elton John e l'americana a tutto campo ma non solo di Russell, ma c'è del già sentito qua e là, e insomma, ci si pone all'ascolto, anche ripetuto, si gode di ottimi pezzi, una produzione corretta, mai invasiva o esagerata, ma si aspetta continuamente la sorpresa, il pezzo strappacuore, il ritornello devastante, ma non arriva (anche se i due pezzi citati possono lasciare il segno).
Per capirci: poteva essere un disco da 9/10, invece è solo da 8.

impero


Boardwalk Empire - di Terence Winter - Stagione 1 (12 episodi; HBO) - 2010

Se c'è una cosa che mi piace degli Stati Uniti d'America, è che molti dei loro cittadini non esitano a fare autocritica, a proposito della loro storia, densa di episodi sanguinosi e di personaggi connessi con la malavita organizzata, anche attraverso lavori artistici, come nel caso di questa serie televisiva molto attesa, tanto da essere addirittura presentata al Festival Internazionale del Film di Roma, dove è stato mostrato l'episodio pilota, diretto da Martin Scorsese.

Boardwalk Empire narra l'epopea dei Roaring Twenties, seguendo innanzitutto il personaggio cardine della serie, Enoch Nucky Thompson, burattinaio politico/malavitoso di Atlantic City. Il tutto prende il via con l'entrata in vigore del Volstead Act, il 16 gennaio 1920, che segna l'inizio del proibizionismo alcolico negli USA. La serie si basa sul libro Boardwalk Empire: The Birth, High Times, and Corruption of Atlantic City, del Giudice Nelson Johnson, la figura di Nucky si ispira decisamente a quella realmente esistita di Enoch Lewis Nucky Johnson, ed oltre a Scorsese, regista del pilot e produttore, e a Mark Wahlberg, anche lui produttore, si avvale di sceneggiatori e registi del "giro" della serie The Sopranos (il creatore, Terence Winter, era anche lui sceneggiatore per i Sopranos, e qui appare come creatore, anche se dovremmo approfondire cosa significa realmente questa parola nel caso delle serie tv, nonostante Scorsese abbia influito profondamente su tutta la serie, come si accorgerà chi la vedrà).

Serie decisamente affascinante, costata moltissimo, che non teme di essere troppo intrecciata, e di dilungarsi troppo sui particolari. Appare chiaro fin dall'inizio che la serie era destinata a non durare solo una stagione, quindi produttori e sceneggiatori se la sono presa "comoda", con tranquillità, nel senso che il tutto emana una certa sensazione di ampio respiro. Ogni personaggio, anche il più marginale, ha un discreto spazio, viene ben delineato, la trama si dispiega con la giusta lentezza, tutto viene ben "spiegato". I vari registi fanno a gara per emulare Scorsese, e si assiste, lungo i dodici episodi che formano la prima stagione, a molte scene con forte epicità, scene che vorremmo vedere più spesso al cinema, e che Scorsese stesso deve anche a Sergio Leone.

Tornando alla personalissima riflessione d'apertura, lo spaccato statunitense che ci viene offerto è spietato, implacabile, quasi vergognoso. Non si esita a presentare perfino un Presidente degli USA, Warren G. Harding, come un semplice burattino in mano agli affaristi senza scrupoli, come Nucky; Mafia e politica sono pressoché indistinguibili, la violenza è all'ordine del giorno, le vite umane contano pochissimo, e perfino la concessione del voto alle donne risulta essere più una scelta di convenienza che un esempio di democrazia illuminata e moderna. A volte, viene da pensare che si esageri, ma bisogna dare atto, come detto, ad un certo tipo di statunitense, di essere costantemente alla ricerca di un qualche tipo di onestà intellettuale.

Il cast è interessante, e denota ancora una volta di più, che ultimamente per molti bravi attori ed attrici, la televisione fatta bene risulta evidentemente più interessante del cinema.
Steve Buscemi è un tormentato ma spietato Nucky Thompson. Presenza e star incontrastata della serie, sa comunque essere sempre dentro le righe, e sceglie, nonostante sia sullo schermo fin dai titoli di testa, un profilo basso ma al tempo stesso di una notevole intensità. Kelly Macdonald (Margaret Schroeder, una povera immigrata irlandese che casualmente entra in contatto con Nucky, e ne diventa l'amante ufficiale), Michael Pitt (James Jimmy Darmody, braccio destro di Nucky ma non solo) e, devo dirlo, uno straordinariamente alienato Michael Shannon (agente federale Nelson Van Alden; vi ricordate il John Givings di Revolutionary Road?), compongono il terzetto di immediato contorno, e fanno la loro parte con assoluta grandezza. Tra i ruoli ricorrenti voglio segnalare una sempre bellissima Gretchen Mol (Gillian Darmody, giovanissima madre di Jimmy), Greg Antonacci (un inquietante Johnny Torrio), il sempre simpatico faccia da schiaffi Stephen Graham anche se interpreta un giovane Al Capone, e Paz de la Huerta, morbosa, conturbante, sensuale, disturbante Lucy Danziger, inizialmente amante di Nucky ed ex ballerina delle Ziegfeld Follies.

Titoli di testa (sull'ottima Straight Up and Down di The Brian Jonestown Massacre), regie, atmosfera, cura dei particolari e delle ricostruzioni storiche, cast e sceneggiatura, fanno di Boardwalk Empire un ennesimo esempio di cosa può essere una grande, grande fiction televisiva. A tutti gli altri Incantesimo a vita.




20101226

apri


Split Your Lip - Hardcore Superstar (2010)



Proseguono indefessi, gli svedesi, nel loro cammino verso il raggiungimento di un estasi glam-rock perfetta. Inglobato definitivamente Vic Zino alla chitarra, già attivo per il precedente Beg For It, a poco più di un anno di distanza eccoli di nuovo in pista con questo nuovissimo Split Your Lip, copertina esplicativa, a sciorinare roba fresca, anche se non c'è assolutamente niente di nuovo in quello che suonano.

Un paio di ballatone, Run To Your Mama e la migliore Here Comes The Sick Bitch, e tutto il resto è un festival di mid-tempos di motleycrueiana memoria, cantati, come dice la loro intervistatrice sull'ultimo Rockerilla, "da uno che canta come Steven Tyler ma è più figo".

Indossate gli spandex, e via con l'air guitar, motherfuckers!

le luci del petrolchimico


Provincia meccanica – di Stefano Mordini (2005)


Giudizio sintetico: si può perdere (1/5)
Giudizio vernacolare: fa veramente ca'à


Marco e Silvia Battaglia sono una giovane coppia sposata, già con due bambini, Sonia e Davis. Vivono vicino a Ravenna, e sullo sfondo c’è il petrolchimico e il porto; Marco lavora soprattutto di notte come carrellista in una ditta vicino al porto, Silvia ha un problematico rapporto con la sua famiglia, soprattutto con la madre.
Sono due persone fuori dalla realtà, e soprattutto, dalla società e dalle sue convenzioni; in casa oltre a un cane c’è un’iguana, Sonia va a scuola se ne ha voglia, Davis passa il tempo insieme a Marco alla playstation, la casa è perennemente sottosopra, mai un pranzo regolare, mai un piatto rigovernato.
I servizi sociali cominciano a "puntare" la famigliola, forse dietro suggerimento della madre di Silvia; quando l’assistente sociale toglie Sonia ai due e l’affida proprio a lei, si innescano dei cambiamenti, ma la coppia dimostra tutta la sua fragilità e immaturità, oltre ad amplificare la propensione ad essere avulsi dal mondo circostante.

Debutto così così dell’ex documentarista Mordini, che ha uno stile realistico, ovviamente poco "parlato", e che, infatti incontra difficoltà nei pur pochi dialoghi. L’atmosfera è a tratti angosciante (la aiuta anche Helicon 1 dei Mogwai, usata come sfondo musicale), ma più spesso sfiora il ridicolo, forse anche volutamente (Marco che si rivolge al mago quando Silvia va via da casa, o che prega il "rosso" di rimanere ancora a dormire da loro mentre lo spettatore sa che si sta scopando Silvia).
Ci sono spunti positivi (le difficoltà di chi decide di non sottostare alle regole implicite), ma il risultato non è poi granchè (difficile credere che questi due personaggi siano out per scelta consapevole).
Il film dovrebbe reggersi sui due protagonisti, che invece danno l’impressione di sfuggire. Leggermente meglio la Cervi, ma l’abbiamo vista dare di più; Accorsi cerca di uscire dalla trappola delle sue limitate espressioni, ma ci riesce poco.

20101225

edera


Ivy - Elisa (2010)


Strenna natalizia italiana: un disco di Elisa, una volta astro nascente un po' troppo tendente al metallaro, poi via via snobbata dagli alternativi (non si può mica, ha vinto pure Sanremo!); io personalmente non le perdono di aver duettato con l'insopportabile Sangiorgi (Negramaro, ma finalmente in questo disco c'è la rivincita: Ti vorrei sollevare cantata solo da lei, decisamente più bella), ma l'ho sempre osservata con simpatia.

Come dice lei stessa, la casa discografica le ha chiesto un disco di Natale, e lei ha, diciamo così, aggirato la richiesta facendo una compilation di cose che le piacciono da sempre: ha ricantato e risuonato pezzi suoi, ed ha coverizzato pezzi che ama da sempre, compresa la ninna nanna che canta usualmente alla sua bambina (Pour que l'amour me quitte, di Camille).

Potremmo stare qui a discutere sul risultato flebile di cover come 1979 (Smashing Pumpkins), che però, se vogliamo usare il bilancino, è "pareggiata" da una Ho messo via che supera di gran lunga l'originale del Liga; sulla riuscita di I Never Came dei Queens Of The Stone Age dirò che è molto personale, e mi pare importante come scelta, seppur mi piaccia sempre di più l'originale.

Ma non è il caso di stare a disquisire su questo, perchè il risultato alla fine è un bel disco pop, cantato un po' in inglese, un po' in italiano (ed ovviamente anche in francese, per il pezzo di Camille), per una sempre splendida voce italiana, che, finalmente, fa qualcosa di esportabile. Non è poco.

meet the Fockers


Mi presenti i tuoi? – di Jay Roach (2005)

Giudizio sintetico: si può perdere (1,5/5)
Giudizio vernacolare: 'tristezza dé


Il calvario per Gaylord Fotter (Fockers nell’originale) non è finito. Dopo mille peripezie (nel primo episodio, Ti presento i miei) è riuscito a farsi accettare, ad "entrare nel circolo della fiducia" dal padre di Pam, l’ex agente CIA Jack Byrnes. Adesso i due devono fissare la data per le nozze, e Jack e Dina devono conoscere Bernie (ex avvocato, licenziatosi per fare il padre a tempo pieno) e Roz (terapista sessuale per anziani), i genitori di Gaylord; quanto di più opposto ci possa essere al mondo rispetto a Jack.
A complicare l’incontro, la presenza del nipotino dei Byrnes, ovviamente chiamato Jack, lasciato in custodia dall’altra figlia, e il fatto che Pam si scopra incinta. Ne succederanno di tutti i colori, come di consueto.

C’erano tutte le premesse per una commedia graffiante, che andasse al di là del precedente capitolo della saga, ma l’ironia sulla diversità politico-ideologica delle due famiglie si risolve in accenni di qualche battuta; il resto, sono gag intuibili e già viste, con De Niro e Hoffman ad impersonare uomini-caricatura (ad essere sinceri, sembra che Hoffman si diverta, De Niro non proprio), e tutti gli altri (e le altre soprattutto) a fare i comprimari. Teri Polo (Pam) e Blythe Danner (Dina) ci sono abituate, ma Ben Stiller (Gaylord) e più che altro Barbra Streisand (Roz) non molto, e si vede che sono imbrigliati, limitando il potenziale della commedia.
Chi non si assoggetta è il piccolo Jack (sono due gli interpreti, i gemelli Pickren), strepitoso nella mimica e assolutamente il mattatore. Se ci dovesse essere un terzo episodio (che Dio ce ne scampi), facciamolo protagonista.
Poco più che un Neri-Parenti made in USA.

20101224

(ex) captain


Un po' come tutti quelli che amano Livorno e il Livorno calcio, anche io ho scritto molto su Cristiano Lucarelli: basta digitare "Lucarelli" in alto a sinistra e poi premere il tasto "Invio" e ve ne accorgerete. Questo, per dire, ne è un esempio.


Ora, riassumendo per chi non è della zona, cosa è accaduto in questi ultimi anni? Cristiano è andato a Donetsk, poi a Parma, poi a Napoli. Ha dato una grossa mano (soldi) alla cooperativa presieduta dal padre, ha fondato un quotidiano locale, che ha chiuso dopo parecchi stenti, ha acquistato una quota societaria della Carrarese calcio.

Per dare un quadro completo, suo fratello Alessandro, come sapete anche lui calciatore, dopo il Livorno ha giocato nella Reggina, nel Genoa, adesso nel Parma. Cristiano, nonostante l'amore dei tifosi per le pagine straordinarie scritte con la maglia amaranto, era sempre meno amato, ma negli ultimi mesi la situazione è precipitata. Oltre alla chiusura del giornale con relative polemiche, la madre è risultata assegnataria di un alloggio popolare (a 13 euro al mese, pare), nonostante non ne avesse i requisiti, e nella storia ci entrerebbe pure Alessandro. Come se non bastasse, interpellato sul fatto, il padre ha rilasciato dichiarazioni che definire vergognose sarebbe un complimento. Adesso, pare che i due fratelli abbiano intenzione di querelare alcuni utenti di un popolare forum di tifosi, che hanno scritto post di dileggio in seguito alle suddette dichiarazioni del padre.

Per farvi un'idea più completa, potete leggervi questi tre pezzi, gentilmente segnalatemi da Piazza XX:





Che dire. Di getto, due cose. La prima: il denaro sciupa sempre le cose migliori. Sicuramente. La seconda, già detta (nel mio post linkato in apertura): non credo che Cristiano sia in malafede, ma quel che mi sembra, da sempre, è che sia stato costantemente mal consigliato.


Come che sia, una grossa delusione. Potrei mettermi a fare della retorica, ma non servirebbe. A niente e a nessuno.

senza fine


Endlessly - Duffy (2010)

Sarà perchè è Natale, sarà perchè dischi come questo servono a farti passare le preoccupazioni anche se solo per un momento, non ce la faccio proprio a parlare malissimo del secondo disco della gallese. Certo, non è una bomba strappamutande come il disco recensito ieri, anche perchè stiamo parlando di una donna, ma insomma, se le Pipettes ci hanno abbandonato per suonare musica di merda, e che per di più non ci diverte come prima, qualcosa dobbiamo pur trovare.
Sempre che non vi disturbi la sua voce senza dubbio particolare e molto nasale, ecco allora che si può andare oltre il tormentone Well, Well, Well, e scoprire canzoncine retrò, che durano un attimo, ma possono andare.
Come detto, per un attimo.

seom


L’isola – di Kim Ki-Duk 2000


Giudizio sintetico: da vedere - solo per palati forti (4/5)

Giudizio vernacolare: storia d'amore tra due di fori; ma parecchio di fori

Corea del Sud; Hee-Jin è una bella ragazza, taciturna (o forse muta), che gestisce uno stagno dove si trovano alcune casupole galleggianti, frequentate da gente in ferie che si dedica alla pesca, ma anche da ricercati, mariti in fuga con le amanti, prostitute che si offrono ai pescatori, gente in cerca di solitudine. Lei, senza dire una parola, con la sua vecchia barca a motore, trasporta le persone, porta loro cibo, ami per la pesca, puttane, si prostituisce lei stessa.
Hyun-Shik è un cliente in cerca di se stesso e di pace della mente, ex poliziotto che ha ucciso la moglie colta in flagrante tradimento. Nasce un amore dalla violenza e dalla potenza incontrollabile, soprattutto da parte di lei, e si fa strada in maniera che definire inusuale è poco.


Doppio finale, che lascia spazio a miriadi di interpretazioni.
Paragonabile al Dolls di Kitano (e non solo), in Kim Ki-Duk convivono la violenza e la tenerezza, il sadomasochismo e l’amore senza confini. Folle e irriverente, simbolico e devastante, disturbante e di poche, pochissime parole, parto, senza dubbio, un cineasta estremo.

Ai pochi palati forti che riusciranno a vederlo, lascerà un ricordo pressoché indelebile.

20101223

lo sventrapapere


The Lady Killer - Cee Lo Green (2010)

Attenzione: il disco più "felice" del 2010, arriva in dirittura finale. Marvin Gaye, Al Green, Curtis Mayfield, Prince, Earth, Wind And Fire, sono stati scomodati questi paragoni. Insomma, il terzo disco solista di ciccio Thomas DeCarlo Callaway, ex Goodie Mob, metà degli Gnarls Barkley, insieme a Danger Mouse, è un lavoro che riempirà di felicità ed allegria le vostre case, anche se è inverno.
Un pezzo migliore dell'altro, impossibile scegliere il prossimo singolo (i primi due sono stati Fuck You - la versione radio edit si intitola Forget You - e It's Ok). Motown a "rotta di collo", e via andare. Pochi i featuring (su Love Gun c'è Lauren Bennett, e dategli torto, su Fool For You l'indimenticabile Philip Bailey, degli Earth, Wind And Fire, appunto, ma che ha messo lo zampino in successi formidabili anche dopo, come solista, vi ricordo solo il pezzo con Phil Collins, Easy Lover, dal suo album Chinese Wall del 1984, che conteneva anche l'altra, bellissima, Walking On The Chinese Wall), molti come detto i potenziali singoli, in ogni modo una sequela di pezzi godibilissimi.
Sorpresa si, ma fino ad un certo punto. Prince è avvertito.

estação Carandiru


Carandiru - di Hector Babenco 2003 (2005 in Italia, dvd)


Giudizio sintetico: da vedere (4/5)
Giudizio vernacolare: ganzabbestia


Sul finire degli anni '90, un medico illuminato e di larghe vedute, iniziò a prestare servizio volontario, ai fini di uno studio sul virus dell'HIV nella prigione brasiliana di Carandiru, nome comune per la Casa de Detenção de São Paulo. Qui venne a contatto con una realtà a parte, fatta di uomini, storie, fantasie, regole non scritte, umanità varia e, tutto sommato, speciale. Il film racconta questa storia, fino al 2 ottobre 1992, giorno in cui fu messo in atto quello che passò alla storia come Massacro di Carandiru, e cioè l'uccisione di 111 detenuti da parte delle truppe scelte, con la motivazione di sedare una rivolta che si era scatenata in una parte del carcere.



Hector Babenco, argentino naturalizzato brasiliano, ce lo ricordiamo per il bello ma estenuante Il bacio della donna ragno, con una indimenticabile Sonia Braga, e Ironweed. Mi ero perso, colpevolmente, questo straordinario Carandiru, affresco costantemente in bilico tra il finto documentario (le "testimonianze" dei sopravvissuti sono reccontate dagli attori che impersonano i carcerati sui quali si focalizza il racconto pre-massacro), la tragedia, la commedia (nera, rosa, di ogni colore), lo spaccato sociale e, perchè no, politico e scientifico. Si ride, si piange, si condividono vite fuori da ogni canone. Regia frizzante e moderna, fotografia perfetta, il film è lungo quasi due ore e mezzo ma, grazie all'espediente che nella abbondante prima parte, ci racconta le storie di parecchi carcerati, che si confidano col Dottore, non annoia mai. Il cast è soprattutto brasiliano, e devo dire, strepitoso. Qualche curiosità: troviamo Caio Blat, che abbiamo visto in L'anno in cui i miei genitori andarono in vacanza, qui nei panni di Deusdete, Rita Cadillac, ballerina e showgirl brasiliana, passata anche al porno, nei panni di se stessa (spassoso il suo spettacolo per i detenuti, a sfondo "scolastico"), un sempre più sorprendente Rodrigo Santoro, che sto conoscendo a ritroso, qui nei panni di un gay che diventa trans (è brasiliano: era in Leonera facendo l'argentino, lo abbiamo visto nel doppio Che di Soderbergh nei panni di Raul Castro con un ottimo accento cubano, addrittura è stato nel cast di 300, interpretava nientemeno che Serse, è Paulo in Lost), molto bravo, e, secondo me, straordinario Milhem Cortaz, nei panni di Spada (in originale è Peixeira), visto in Tropa de Elite e in un paio di episodi di Cidade dos Homens versione tv, qui identico ad Alioscia dei Casino Royale, più fisicato e cattivo. Un film davvero bello. Splendida, e amara (capirete vedendo il film), la locandina.


Per la cronaca, voglio aggiungere due note importanti.

1)Il "dottore" volontario esiste, ed ha scritto diversi libri, da uno, Estação Carandiru appunto, è stato tratto il film; il dottore è un grandissimo personaggio, e si chiama Dráuzio Varella.

2)Il colonnello Ubiratan Guimarães, che comandò l'irruzione della Polizia militare, fu inizialmente condannato a 620 anni di carcere, ma poi la sua condanna fu ritirata poiché eseguiva gli ordini dei suoi superiori. (da Wikipedia)

20101222

carrarmato rock


Il Teatro degli Orrori + Love In Elevator, giovedì 16 dicembre 2010, Firenze, Auditorium Flog

Vi ricordate come chiusi la precedente recensione di un live dei TDO? Ve lo ricordo io: "a me rimane la voglia di vederli in un'altra location". Succedeva circa un anno fa. Nel frattempo, soprattutto a causa della delusione dovuta ai suoni inascoltabili di quella sera, non ho più colto altre occasioni per vederli in un altro luogo. Senza pensarci bene, dopo circa un anno torno a vederli alla Flog, con amici.

Aprono i Love In Elevator. Ci metto un po' per capire. Dopo un po', non mi dispiacciono per niente. Sono quattro, ma in realtà il quarto componente, seconda chitarra, tastiere, backing vocals, mi pare proprio Franz Valente, batterista dei TDO. Gli altri tre sono (dopo parecchie ricerche) Roberto Olivotto alla batteria, stile pestone, simile a quello di Valente, del resto, qualche sbavatura ma efficace, Christian Biscaro alla voce e al basso (ma verso la fine si scambierà lo strumento con il componente che vado a dirvi dopo), Anna Carazzai, voce e chitarra e un bel vestito da sera attillato, unica componente originale rimasta.
La voce di Anna non mi è piaciuta, ma l'attitudine della band è interessante, ne esce fuori qualcosa in mezzo al noise, allo sludge, vagamente art-rock. Particolare importante: vedo i primi pezzi dal "piano terra" dell'auditorium, poi uno degli amici mi chiama al piano di sopra per un posto a sedere. I suoni sono molto migliori di sopra rispetto al basso.

Come sempre tardissimo, ecco i TDO nella formazione a cinque. Sono curioso anche di questo. La fuoriuscita di Giulio Ragno Favero al basso è stata "compensata" da due arrivi: Nicola Manzan (componente unico di Bologna Violenta), che alterna seconda chitarra e violino, e Tommaso Mantelli (Captain Mantell) al basso. Entrambe, così come da sempre Gionata Mirai (chitarra fin dagli inizi dei TDO, ma ricordiamolo, Superelasticbubbleplastic), danno una "voce" ai cori.
Inizio con una parentesi di riflessione. Una persona che è con me ad assistere al concerto, mentre ci rechiamo a mangiare una pizza prima, dice che i TDO fanno musica emo. La cosa mi spiazza un po', a me non pare proprio. Ma mi fa notare meglio il pubblico che entra nella Flog. Ci sono, in effetti, dei giovanissimi evidentemente emo. Quindi, una parte di verità c'è. Rifletto, durante e dopo, sul fatto che probabilmente questi giovanissimi sono attirati, forse dal loro (dei TDO) vestirsi di nero, ma soprattutto da quella sorta di spleen "involontario" presente nei testi di Capovilla, soprattutto da quel suo parlare d'amore in modo disincantato e sottilmente pessimista, tipico e, diciamocelo, proprio di una generazione (la mia, due anni soli di differenza tra me e Pierpaolo) che assiste praticamente impotente alla disgregazione della società, anche per colpa di una classe politica ipocrita perfino sul senso di famiglia. E' una nuova chiave di lettura, almeno per me, della realtà del Teatro degli Orrori. Ha una sua valenza.
Andiamo avanti, e purtroppo devo subito dire che o il tecnico dei suoni non gradisce la Flog, oppure ha sbagliato mestiere, perché anche questa sera è praticamente indistinguibile il suono delle chitarre: e pensare che stavolta ce ne sono due. E' quindi un peccato, perché i pezzi sono leggermente modificati, ma è difficile capire come: basso e batteria sovrastano troppo il tutto, a parte la voce. Capovilla è naturalmente mattatore assoluto, si gode una sorta di adorazione da parte del pubblico, e si lascia andare più volte ad un lungo crowd surfing, e a parte questo sembra più sobrio del solito.
La band pare abbastanza oliata, Gionata è carico e sicuramente il più mobile di tutti, mentre apprezzo sempre di più lo stile massiccio e sincopato di Franz, una vera colonna.
L'apertura è da piegare le ginocchia: E' colpa mia, e subito a ruota A sangue freddo. Come da indiscrezioni, si risentono pezzi dal primo disco messi da parte nei concerti precedenti: Carroarmatorock! è uno di questi, e spacca davvero, l'altro è Lezione di musica, che chiude il concerto, nei due bis, dopo La vera prigione, una poesia, naturalmente di Ken-Saro Wiwa.
Difficile scegliere un climax, ma probabilmente Compagna Teresa è, se facciamo un mix tra esecuzione e risposta del pubblico, quella che vince la palma della serata.
Promossi tutti, Il Teatro degli Orrori si conferma una delle band con maggior seguito live in Italia, a livello non-mainstream, escluso il tecnico dei suoni.

Il comportamento sessuale nel maschio umano


Kinsey – di Bill Condon (2005)

Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: popo' di perzonaggio che era luilì dé


Kinsey Alfred Charles, nato a Hoboken, New Jersey nel 1894, morto a Bloomington, Indiana, nel 1956; Direttore dell’Istituto per le ricerche sul sesso dell’Indiana University, noto per i vasti studi sulla vita sessuale dell’essere umano.

Un’altro bio-pic, su un personaggio sconosciuto ai più, ma che dette un’enorme scossa ai puritani e bigotti Stati Uniti d’America verso la fine degli anni ’40.
Il film è decisamente interessante, ed è strutturato come una lunga intervista, di quelle che usava lui, da vero ricercatore, dove si racconta insieme alla sua carriera di studioso; infarcito da molti flashback, non risulta pesante, e alla fine fa entrare in sintonia con una figura piuttosto particolare, con un’infanzia frustrante, una evoluzione curiosa sia come scienziato (da entomologo a sessuologo), sia come essere umano, anche se, come ci dimostra il film mettendoci al corrente della situazione pre-rivoluzione sessuale, può essere stata un’evoluzione comune a molte persone a quel tempo.
Liam Neeson, che interpreta Kinsey, è ovviamente il mattatore della pellicola, come sempre alla sua maniera. Non aspettatevi un altro A Beautiful Mind; qui Neeson non va mai sopra le righe, e dipinge un uomo dapprima spaventato, dopo pragmatico e infaticabile, quasi col paraocchi, un uomo che accetta con pragmatismo da scienziato perfino un triangolo amoroso con la moglie e uno dei suoi assistenti, e che finisce suo malgrado nella lista nera di McCarthy.
Quello che sgomenta è lo sfondo del bigottismo imperante, anche alla luce del rigurgito quasi fanatico delle associazioni religiose negli USA del dopo 11 Settembre.
Lineare e preoccupante.

20101221

il festival della doppia cassa

Fear Factory + High On Fire + Daath, domenica 12 dicembre 2010, Bologna, Estragon

Lo dico subito, sono qui per gli High On Fire, del resto mi interessa relativamente.

Ma arriviamo che la band di apertura, i Daath di Atlanta, ha iniziato da poco (eravamo in coda per i biglietti). Sciorinano un death metal piuttosto classico, pose del cantante (che ha la barba lunga quanto i capelli) comprese, ma bisogna ammettere che sono molto tecnici, batterista (Kevin Talley, ex Dying Fetus tra gli altri) e i due chitarristi (Eyal Levi, fondatore della band - il nome Daath è di ispirazione ebraica - e fratello di un direttore d'orchestra, ed Emil Werstler, più dinamico sul palco e spettacolare, un po' alla Dillinger Escape Plan per intenderci) su tutti. Tutto questo fa si che i passaggi degli assoli risultino interessanti, così come i velocissimi passaggi di batteria che punteggiano i pezzi, figuratevi che nei 30 minuti abbondanti di set ci fanno entrare pure un mini-assolo di batteria.

Come sempre all'Estragon, gli orari sono perfettamente rispettati, e alle 21,30 cominciano gli High On Fire, che per chi non lo sapesse sono una sorta di power-trio proveniente dallo doom metal, ma che inglobando elementi di sludge ha dato vita ad una interessante carriera low
profile ma costellata di dischi onesti e sound particolare. Il leader è Matt Pike, che si presenta a torso nudo, sfoderando una pancia da bevitore incallito, incastonata in un fisico allampanato e piuttosto flaccido, ma del resto ha numerosi tatuaggi da sfoggiare, e non appena attacca a suonare mi diventa immediatamente simpatico. Usa una chitarra a nove corde, e mentre il bassista Jeff Matz segue una linea distorta ma piuttosto usuale, ed il batterista Des Kensel disegna ottime variazioni sostenute e variegate, con discreta tecnica, Matt giganteggia definendo riff colossali con, appunto, un suono tutto particolare, ed ogni tanto rilascia assoli ricercati. Il cantato è potente, aggressivo al limite del growl, e tra un pezzo e l'altro ringrazia sinceramente il pubblico che ben recepisce la loro proposta. Bastard Samurai mi pare il centro azzeccato dei 45 minuti precisi ma intensi. Per me la serata può finire qui.

Ma c'è ancora l'attrazione principale della serata, i redivivi Fear Factory, nella "nuova" formazione. Forse ha ragione l'amica che mi accompagna: i litigi, i cambi di formazione, gli scioglimenti e le reunion, ti fanno come ricominciare da capo, e ti costringono a suonare in luoghi tutto sommato piccoli, rispetto alla tua discografia, o quantomeno all'influenza che hai avuto rispetto al genere che suoni, oppure negli stessi luoghi che chi è stato profondamente influenzato da te riempie, mentre a te rimangono le briciole. In effetti, l'Estragon è tutto fuorché pieno questa sera, ci si largheggia anche se forse si arriva al migliaio di unità, forse no. I FF si presentano con un nuovo disco dal titolo Mechanize, e con Gene Hoglan alla batteria. Considerando che oltre a Hoglan, a Dino Cazares alla chitarra, al basso c'è il canadese Byron Stroud, tre personcine che pesano più o meno quanto me, pur essendo qualche decina di centimetri in meno, non vorrei essere nel catering che li serve. Ancora amenità, Burton C. Bell alla voce sfoggia un nuovissimo e moderno taglio di capelli da giovanotto, e t-shirt nera con disegno rosso coordinata con le sneakers (nere e rosse, appunto). Si dà inizio alle danze con un muro di suono naturalmente imponente, dove altrettanto naturalmente Hoglan sorregge praticamente tutto l'impatto ritmico, permettendosi perfino di scherzare con le bacchette sui mid-tempos, Cazares e Stroud si scambiano continuamente di posto ai lati del palco, Bell non è quel che si dice un atleta ma almeno non rimane impalato, e con la voce tutto sommato se la cava discretamente, perdendo qualche colpo sulle parti melodiche, ma tenendo botta con dignità. I quattro non si risparmiano, svariano lungo il repertorio, e verso la fine l'annuncio di Replica viene accolto da un'ovazione, e anche se il pubblico non è stato dei più caldi, Bell ringrazia e pare convinto. Assistendo al concerto, si nota che la parte industrial degli albori è stata lasciata da parte, ma ci si rende conto perfettamente che ogni band screamo o metalcore (Underoath, per fare un nome a caso), ha un debito profondo con i Fear Factory (e qui si torna al discorso iniziale sul ricominciare da capo).

Per mezzanotte siamo già al caldo nell'abitacolo della macchina, e via verso nuove avventure musicali.

in (una) buona compagnia


In Good Company – di Paul Weitz (2005)

Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: un è malaccio


Dan, 51enne direttore vendite pubblicitarie di SportsAmerica, magazine sportivo leader nel settore, marito felice con due figlie grandicelle, si ritrova nel giro di pochi giorni in una situazione instabile: la moglie incinta, la figlia grande, Alex, che vuole frequentare la NY University (con una retta altissima), e un nuovo capo 26enne, Carter, rampante ma inesperto, fresco di separazione dalla giovane moglie e caffeinomane depresso, in seguito all’acquisizione del gruppo da parte di quello di un magnate della finanza. Anche lui, quindi, rischia di perdere il posto, visto che le prime mosse strategiche sono accompagnate da tagli aziendali.
La situazione sembra normalizzarsi, anche se dolorosamente (vengono licenziati gli amici più cari), allorché Dan scopre che Carter esce con Alex.

Weitz (American Pie, più About a Boy diretto in coppia col fratello Chris) sembra crescere, e dà alla luce stavolta un film non eccelso, senz’altro ibrido e ancora alla ricerca di un indirizzo chiaro, ma quantomeno interessante per le intenzioni e scoppiettante in diversi momenti da classica commedia, con battute magari prevedibili, ma che funzionano eccome.

Cast di buon livello, Quaid decente, Grace un po’ macchiettistico, Johansson sempre più diva anche in un film del genere e quasi disturbante quanto è bella.

20101220

ladies and gentlemen, blues explosion!


Jon Spencer Blues Explosion + Urban Jr. + Sadside Project, venerdì 10 dicembre 2010, Firenze, Auditorium Flog

Flog che si riempie pian pianino questo venerdì. Ultima data del tour, per cui il tipo al banchetto del merchandise ci dice che son rimaste solo t-shirt da donna.
Nella sala concerti si attacca a suonare, e si sente un buon garage-rock, in tema con la serata. Sono (e lo evinco dopo parecchie ricerche in rete) i romani Sadside Project e non sono per niente male. Chitarra e voce più batteria, parlano poco e suonano a diritto per una trentina di minuti. Pare abbiano vinto il rock contest 2010. Bravi.
Dopo un po' di chiacchiere e di saluti a conoscenti, alzo gli occhi e vedo il tizio delle magliette sul palco. E' Urban Jr., una one-man-band simpatica, voce megafonata, con la destra suona rullante e piatto, con la sinistra campionatore e tastierine. Fa divertire. Vedo Russell Simins aggirarsi come un orso tra la folla. E', mi pare, sempre più grasso.
Sono, credo, le 23,37 quando l'uomo più figo del mondo (devo dirvi chi è?) sale sul palco insieme ai fidi scudieri Judah Bauer e Russell Simins. Dopo di che, parte un orgasmo lungo circa un'ora e quindici minuti.
Credo che ormai sia pressoché inutile raccontare un concerto della JSBX. Va visto e basta. L'occasione è una sorta di Greatest Hits uscito qualche settimana fa, Dirty Shirt Rock 'n' Roll: The First Ten Years, quindi è chiaro che si svaria lungo tutto il repertorio con nonchalance.
Nelle orecchie, rimane il pubblico che continua ad intonare il ritornello di Bellbottoms anche dopo che il trio si ritira per l'unica pausa, prima di rientrare per i bis.
Niente altro da aggiungere se non Blues Explosion!

Zivod Je Cudo


La vita è un miracolo – di Emir Kusturica 2005

Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: ganzo


Bosnia, 1992. Luka è un ingegnere serbo che sta dirigendo i lavori della ferrovia in costruzione nella regione bosniaca. Si è sistemato in una bella casa che probabilmente diventerà una stazione sulla stessa linea ferroviaria, in una zona bellissima sui monti, zona che, anche grazie alla ferrovia, si svilupperà come meta turistica. Luka è una persona colta, educata ed inguaribilmente ottimista. Insieme a lui, la moglie Jadranka, ex cantante d’opera, sciroccata ai massimi livelli, e il figlio Milos, promessa del calcio in procinto di giocare nel Partizan.
La guerra incombe, ma Luka prima non ci crede, poi non vuole saperne, eppure ne rimane coinvolto. Jadranka fugge con un musicista ungherese che suona nella banda con Luka stesso, Milos, nonostante sia chiamato dal Partizan deve partire militare e quindi andare al fronte, dove viene fatto prigioniero, l’ingegnere rimane solo, ma gli viene "consegnata" Sabaha, un’infermiera musulmana fatta prigioniera dai serbi per "scambiarla" con Milos.
Ma, con questa infermiera, Luka aveva già avuto un incontro durante una visita all’ospedale per la moglie. I due si innamorano, e la guerra infuria.

C’è poco da fare, Kusturica è il capofila di una filmografia che non accetta compromessi, come tutte le cose che vengono a partire da Nova Gorica fino al Kazakhstan; se non siete pronti a vedere volare un letto con qualcuno sopra, è meglio che rimaniate a casa. C’è il Fellini di Amarcord virato in salsa balcanica, insieme ad una visione ottimistica e gioiosa della vita, impersonata dall’attore-feticcio Slavko Stimac (a parte Underground, guardatelo in Ti ricordi di Dolly Bell bambino e poi godetevelo in questo film; una faccia da eterno adolescente, che ti ricorda, appunto, che "La vita è un miracolo"), e a riferimenti dolorosi e incredibilmente autoironici sulla guerra jugoslava (la partita di calcio di Milos alla quale è presente l’osservatore del Partizan è un chiaro riferimento alla scintilla che ha innescato il tutto, per chi non lo sapesse, una partita di calcio).
La regia è nervosa e non esente da pecche, ma la sceneggiatura regge nonostante l’incipit sembri come al solito un’accozzaglia di gag, come in una rullata di batteria infinita che ritrova il tempo, ogni cosa va lentamente al suo posto; il film è un po’ troppo lungo, la fotografia mette malinconia, facendoci vedere ancora una volta come sia bella la ex Jugoslavia, quale paese sia stato rovinato da una guerra assurda; ci si diverte molto, si vedono gli animali più disparati che recitano davvero, al pari degli uomini (orsi, asini, galline, uccelli vari), si tifa perchè l’amore trionfi.
Se cercate tutto questo al cinema, anche se la genialità di Underground era un gradino più sù, in questo momento La vita è un miracolo è il film che fa per voi.

20101219

stella


Star Of Love - Crystal Fighters (2010)

Disco di debutto con risultati altalenanti per i baschi Crystal Fighters, che per loro stessa ammissione inglobano tipici strumenti della tradizione musicale basca in una dance-music con velleità electroclash, ma non troppo.
Come fanno giustamente notare un po' tutti, è innegabile l'influenza londinese (c'è perfino un pezzo dal titolo I Love London, che ha un sapore bhangra), visto che si sono trasferiti lì, non si capisce se in pianta stabile o solo per il disco, e su Star Of Love ci sono buonissimi spunti. Anche quelli che paiono più ingenui (In The Summer), finiscono per suonare comunque strani, quindi freschi.
Da provare, senza impegno.

killer couple


Dexter - di James Manos, Jr. - Stagione 5 (12 episodi; Showtime) - 2010

Bella stagione, la quinta di Dexter, il serial killer ematologo della polizia di Miami. Quantomeno, a me è piaciuta.
La struttura che normalmente veniva messa in scena (un serial killer "antagonista", e, non in tutte le stagioni, contemporaneamente un poliziotto che sospetta che anche Dexter lo sia) viene mantenuta, ma ci sono variabili importanti.
Queste variabili tengono alta la tensione e l'intreccio; il fatto che l'antagonista non sia unico non è la variante più importante. Il cuore della stagione è il fatto che Dexter, nel tentativo di catturare quello che è convinto essere un assassino impunito, salva una delle sue vittime. E' proprio questo fatto che introduce una serie interessante di, come detto, variabili e possibilità. Gli sceneggiatori la creano, e devo dire che la sfruttano egregiamente.
Alla fine, soprattutto nella seconda metà della stagione, c'è meno spazio per i colleghi di Dexter (anche se in centrale gli avvenimenti non mancano di certo), proprio perchè si introducono parecchi personaggi nuovi. La vita privata, che inizialmente pare impoverirsi, si ripopola man mano che vanno avanti gli episodi, fino a lasciar intravedere un po' di "traffico" per la prossima stagione, in cantiere per la prossima primavera.
Tornando un attimo sugli sceneggiatori, ancora una volta mi hanno fatto riflettere su quanto siano bravi, se riescono a far parteggiare per un assassino (vigilante) perfino me, che sulla pena di morte ho idee contrarie; senza contare la poesia che infondono a quella che il protagonista chiama alternativamente "oscurità" (darkness) e il "passeggero oscuro" (dark passenger), per definire la sua irrefrenabile spinta ad uccidere persone che hanno a loro volta ucciso, con la differenza che hanno ucciso persone innocenti.
Le regie rimangono su livelli discreti, mai roboanti, mai invadenti, ma valide, così come la classica fotografia piena di colori per descrivere Miami e la sua latinità (nell'ultimo episodio, Debra, la sorella di Dexter, ormai la miglior detective della Omicidi di Miami, frustrata da diversi "incontri" con persone che non conoscono quasi per niente l'inglese, promette di iscriversi ad un corso di spagnolo), con pochissimi vezzi (la telecamera dentro il frigorifero, per esempio).
Buone come sempre le prove del cast, al quale si aggiungono alcune guest star con carriere non scoppiettanti (Jonny Lee Miller, Maria Doyle Kennedy, Peter Weller), a parte Julia Stiles, la cui carriera sembra sempre sul punto di esplodere, che qui, grazie anche alla parte (Lumen Pierce), rilascia una prova che mi pare la migliore dell'intero cast.

20101218

punto della salvezza

uno dice: puntiamo alla salvezza.
quindi non a vincere il campionato.
quindi per non vincere il campionato dovrà perdere alcune partite.
quindi punta a vincere alcune partite e a perderne altre.
quindi giocherà per perdere alcune partite.
antisportivo!

se questo è un ministro della Repubblica

L'ho guardato e riguardato molte volte. E non me ne capacito.
Questo è il nostro ministro della Difesa. Punto.




simmetria


Simetria de Moebius - Catupecu Machu (2009)

Premessa: i Catupecu Machu sono una band argentina, attiva dal 1994, primo disco Dale! del 1997, che ho "scoperto" per caso in uno dei miei viaggi in Sud America. Dopo averne approfondito la conoscenza tramite tutta la discografia ed alcuni filmati live, considero sia una vera e propria ingiustizia che non siano per niente considerati in Europa.
Partiti da un suono molto vicino all'heavy metal, hanno seguito un percorso incredibilmente complesso, e continuano ad evolversi, riuscendo a stupire ancora oggi. Arrivo all'ascolto di questo loro disco, uscito nel novembre dello scorso 2009, con colpevolissimo ritardo, nonostante avessi avuto "segnali" che la sua uscita fosse imminente: nell'ottobre 2009 avevo ascoltato il singolo che anticipava questo Simetria de Moebius, e la prima impressione non era stata positiva, perchè cambiava radicalmente l'idea del loro sound.
Ascoltandolo nel suo complesso, il disco è un grande lavoro, sicuramente influenzato in primis dai Depeche Mode, ispirazione che non hanno mai negato, al contrario (I Feel You appariva nel loro Cuentos decapitados del 2000, ed è bene notare che in sette dischi ufficiali, le cover incise sono state questa, Come Together dei Beatles sul primo Dale!, una versione mozzafiato di Seguir viviendo sin tu amor di Luis Alberto Spinetta nel precedente a questo, Laberintos entre aristas y dialectos, Hechizo degli Héroes del Silencio su Cuadro dentro de cuadros, Heroes Anònimos dei Metròpoli su A Morir!, e Plan B: Anhelo de Satisfacciòn dei Massacre su El nùmero imperfecto), oltre che dalla loro esperienza immediatamente precedente, l'imponente doppio Laberintos, dove si avvicinavano ai suoni acustici e ai fiati.
Le chitarre elettriche quasi scompaiono, lasciando il posto a quelle acustiche e molto spagnoleggianti, ad un basso virtuoso, ad una batteria secca ma non impersonale, a suoni elettronici che però non tolgono spazio alle emozioni. Emozioni che la voce inimitabile del leader, Fernando Ruìz Dìaz, distribuisce a pieni polmoni, disseminando questo disco cupo, di melodie belle ma vagamente compresse, con un piglio da grande cerimoniere, come suo solito, del resto.
I primi due pezzi, Confusiòn e Piano y RD, paiono servire da "passaggio" e introduzione, verso il climax e, appunto, il "nuovo suono" della band, e non risultano tra i pezzi migliori. Scelta rischiosa, essendo proprio i due pezzi che aprono il disco. Ma già dalla terza canzone, la splendida Anacrusa, il livello diventa altissimo, e la tensione emozionale arriva alle stelle. Da lì in poi, è tutto chiaro. Non rinunciano neppure a coverizzare se stessi, un vezzo, o forse una necessità, rileggendo nel mood del disco la loro Batalla (già su Cuadros dentro de cuadros del 2002), che si inserisce alla perfezione in questo lavoro.
Canzoni killer come Nuevo libro, Alter ego...Grito alud, Vibora vientre, Juego sagrado, e la meravigliosa Cosas de goces, e i testi mai banali di Fernando, scrivono un altro capitolo importante di questa band che, ripeto ancora una volta, è ingiustamente misconosciuta al pubblico europeo.

Lemming


Due volte lei – di Dominik Moll 2006


Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Giudizio vernacolare: cazzo è un lemminghe?


Alain è un ingegnere domotico molto bravo e dotato, gli piace il suo lavoro. Si è trasferito di recente a Bel Air, a causa del suo nuovo lavoro, insieme alla sua compagna Benedicte, una ragazza dolce e tranquilla, che si gode il suo essere casalinga. Ha un ottimo rapporto col suo capo, Richard Pollock, proprietario dell’azienda, florida, nella quale è stato assunto ed ha un ottimo ruolo. Il suo capo stravede per lui, e dopo la presentazione dell’ultimo ritrovato, una web-cam volante, progettata e messa a punto proprio da Alain, Pollock si autoinvita a cena a casa di lui e di Benedicte, insieme alla moglie Alice. La cena si rivela un autentico disastro, a causa dell’atteggiamento di Alice, che si comporta da alienata, infuriata col marito per le sue presunte scappatelle, e alla fine sfoga la sua rabbia verbale pure su un’attonita Benedicte, che non reagisce come nel suo stile. Nel frattempo, il lavello dell’acquaio è sempre intasato, e, colto da insonnia dopo la brutta serata, Alain decide di stasarlo. Ci riesce, ma ritrova una specie di criceto, che pare morto, arrotolato nel tubo che va al sifone. Mentre Benedicte, il giorno seguente, scopre che il roditore non è morto e lo porta da uno strano veterinario, che le rivela che l’animaletto è un lemming, animale che vive solo nella penisola scandinava e non si spiega come possa essere arrivato lì, Pollock parte per un viaggio di lavoro in Corea e Alice si presenta in ufficio e fa delle avances piuttosto spinte a Alain. Il tutto assume una piega grottesca, quando un giorno dopo ancora, Alice si presenta a casa di Benedicte, mentre il compagno è a lavoro, e dopo averle rivelato di aver provato a portarsi a letto Alain, le chiede un letto per riposarsi. Un gesto disperato della donna complicherà ancor di più la faccenda.


Nuovo lavoro di Moll, dopo il curioso e degno di nota “Harry un amico vero” di alcuni anni fa, che conferma la personale attenzione alle tematiche dei rapporti interpersonali, sviluppate però con un piglio surreale, e, all’occorrenza, senza disdegnare l’horror e lo splatter, sia pure usati con un basso profilo. Il film parte molto bene, seppur con un ritmo molto lento ma funzionale, atto a creare una buona tensione narrativa e una certa atmosfera straniante, si muove, tanto per dare un’idea, tra Ozon (ma rispetto a lui è meno simbolico e contorto) e Haneke (mentre rispetto a quest’ultimo è meno “cattivo”, anche se cerca di arrivare ad essere spiazzante quanto l’austriaco); nella seconda parte diventa un po’ troppo complicato, e non convince fino in fondo quando “spiega”, in pratica, quello che sta accadendo e perché, anche se, magari, gli amanti di Lynch ci ritroveranno vagamente il sapore dell’amato/odiato “Mulholland Drive”.

Fotografia nitida e volutamente fredda, prevalentemente girato in interni, movimenti di macchina essenziali ma dinamici quanto basta per non risultare ingessati. Attori convincenti, anche se meglio le donne del cast (sempre bravissima Charlotte Rampling – Alice -, misurata e bellissima nella sua normalità informale Charlotte Gainsbourg – Benedicte -, ma, perdonatemi, su quest’ultima il mio giudizio è assolutamente di parte, sono da anni innamorato di lei) rispetto agli uomini (André Dussollier – Pollock – e Laurent Lucas – Alain -).

Film complicato, interessante introspezione sulla vita di coppia, scritto con una certa personalità, che però non nega i propri riferimenti, non adatto per tutti i palati.

20101217

caldo


Mentre qui si gela e nevica un po' dappertutto, un pensiero e un in bocca al lupo ad una cara amica, che, se non ricordo male, oggi, comincia un'avventura lavorativa piena di incognite, ma anche di possibilità, in Kenya.
Auguri e fatti sentire presto.

snow factory


pony argentato


Silver Pony - Cassandra Wilson (2010)

Ventesimo disco per la splendida voce del Mississippi, che parte dal jazz per inglobare elementi di pop, rock, funk e delta blues. Si tratta di un assortimento di pezzi registrati live durante il suo ultimo tour, ritoccati in studio. Pezzi suoi, traditional, cover (If It's Magic di Stevie Wonder e Blackbird di Lennon/McCartney, uno splendido duetto con John Legend - anche al piano - che chiude il disco, Watch The Sunrise, originariamente dei Big Star di Chris Bell e Alex Chilton, che seppure risulti un po' slegato dal resto, rimane impresso) personalizzate.
Marvin Sewell alle chitarre, Jonathan Batiste al piano, Reginald Veal al basso, Herlin Riley alla batteria, Lekan Babalola alle percussioni, band mostruosa che sa stare al suo posto, più Ravi Coltrane al sassofono in Beneath A Silver Moon, il risultato non può che essere di categoria superiore.

Khamosh Pani


Acque silenziose – di Sabiha Sumar 2005


Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Giudizio vernacolare: 'nteressante


Pakistan, 1977, il generale Zia Ul-Haq si impossessa del potere con un colpo di stato militare, arresta Alì Bhutto, poi lo impicca, impone una severa versione della legge islamica. Starà al potere molti anni. Su questo sfondo politico-sociale, in un piccolo villaggio pakistano vicino al confine con l’odiata India e la regione del Punjab, regione dove vivono i Sikh esiliati dopo la tremenda guerra di religione del 1947, ma che fino ad allora vivevano insieme ai musulmani, si svolge la vicenda che ha per protagonisti Ayesha e suo figlio Saleem. Dopo la morte del marito, Ayesha dedica tutto il suo amore al figlio, che cresce gentile, romantico e con la passione del flauto. La donna custodisce però un segreto: è l’unica donna del villaggio che non va al pozzo a prendere l’acqua. Le gentili vicine se ne incaricano per lei. Sulla scia della crescente tensione socio-politica della nazione, arrivano al villaggio, durante una festa di matrimonio, due attivisti di una associazione fondamentalista islamica, ed iniziano a far proseliti all’inizio tra l’indifferenza generale, in seguito in mezzo agli anziani sempre più preoccupati. L’arrivo di un gruppo di Sikh in pellegrinaggio per rivedere i luoghi nativi dalla vicina India alza ancor di più la temperatura. Saleem, all’inizio distante, per mezzo dell’insistenza di un amico si avvicina al gruppo, diventando in poco tempo uno dei più accesi militanti. Inizia a trattare male la madre e la fidanzata Zoubia, fino al punto di lasciarla in malo modo, rompendo un amore che sembrava immenso. Le sorprese non sono finite: l’insistenza di uno dei Sikh rivela il mistero che Ayesha custodiva da 30 anni, il figlio non lo sopporta. Neanche il gesto estremo della donna riporterà Saleem sulla strada della ragionevolezza.


Sabiha Sumar è una documentarista pakistana di 45 anni, e questo suo primo film ha vinto nel 2003 il Pardo d’oro a Locarno come miglior film, e il Pardo per la miglior attrice protagonista a Kirron Kher (Ayesha). In Italia, ovviamente, la distribuzione l’ha massacrato, rendendolo praticamente invisibile.

Il film dal punto di vista tecnico non è eccelso; se si escludono la fotografia, non male, e l’abilità di alcuni campi lunghi, aiutati, in questo genere di filmografie, sempre dai paesaggi stessi, la sceneggiatura è piuttosto schematica, e la fluidità del tutto ne risente. Ci sono alcuni momenti gustosi, che saranno apprezzati da chi, per esempio, ha un minimo di dimestichezza con il cinema di Bollywood, che alleggeriscono la pesantezza (intesa in senso “serio”) della storia, mentre, proprio per la staticità del film, che risulta piuttosto ingessato, le prove di tutto il cast sono da rimarcare in positivo. La cosa che però rende questo film da vedere, è la storia che racconta. Ci offre uno spaccato storico doppio, anzi, triplo se consideriamo l’epilogo contemporaneo, che dura quanto basta per farci capire come si vive adesso in Pakistan, e ci fa comprendere, anche se sommariamente, la tremenda storia che questo popolo ha dovuto sopportare; sopra tutto ciò, si staglia una storia-pretesto (anche se vera) che, attualissima, ci fa ancora una volta urlare di rabbia contro il trattamento riservato, dai regimi dove la religione diventa stato, alle donne. Senza contare i brividi che corrono dietro la schiena dello spettatore mentre si vedono i giovani che, lentamente ma inesorabilmente, si avvicinano alla Jihad. Alcune cose rimarranno a noi incomprensibili (solo leggendo un’intervista alla regista scopro che, ancora oggi, i muri delle scuole femminili in Pakistan, sono più alti di quelli delle scuole maschili), ma questo è cinema didattico, pur se non eccelso, che vale la pena vedere.

Fosse solo per quella frase che la regista fa pronunciare alla protagonista: “Non è che perché prego che ho smesso di pensare”.