No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20110831

cagne da schiaffi



Bitch Slap – Le superdotate – di Rick Jacobson (2011)



Giudizio sintetico: da evitare (1/5)
Giudizio vernacolare: soffete porno

Hel, Camero e Trixie sono tre procaci ragazze che si mettono “in società” per qualcosa di losco: almeno, così pare, visto che il film inizia con le tre che rapiscono Gage, un poco di buono legato ad un’organizzazione criminale che fa capo al temibile ma sfuggente Pink. Hel pare la più determinata, mente fredda e rapidità di decisione; Camero è la muscolare del gruppo, ed è quella che da subito dà l’idea di avere decisamente tendenze lesbiche. Trixie è una spogliarellista che apparentemente non ha un’intelligenza sopraffina, ma è senza dubbio la più sensuale del terzetto.
Stanno cercando qualcosa che è nascosto vicino ad un ranch nel deserto californiano, ma Gage non sembra volerle aiutare. Camero si innervosisce ed uccide Gage. Il telefono dell’uomo si mette a squillare: è Pink. Poco dopo arriva anche un poliziotto. Le cose si complicano.

Cosa ci si poteva aspettare dal regista di Xena principessa guerriera come pure di molti episodi di Baywatch? Niente, appunto, o al massimo una sorta di soft-porno. La cosa più avvilente è che questo film sia accostato (come fa ad esempio la scheda Wikipedia) ad un capolavoro come Faster, Pussycat! Kill! Kill!, film citato da molti ma chissà visto da quanti.
Una trama che non sta in piedi, ma girata alla Memento, una fotografia stupenda, questo va detto, tre attrici al limite del presentabile (ma sto parlando del lato recitativo, non certo di quello estetico), e che naturalmente recitano costantemente sopra le righe, espedienti a volte ridicoli (il ralenti infinito nella scena dei gavettoni tra le tre, per esaltare l’effetto bagnato dei corpi procaci), e una durata infinita, snervante, che lo rende oltremodo pesante. C’è veramente poco da salvare.

20110830

pretty tax



Sicuramente è colpa di un giornalista rompicoglioni. Certo è che, mentre nella nostra italietta si vara un'ulteriore finanziaria che mette qualche toppa qua e là, e si accanisce sui soliti poveri, sapere che in Germania non solo le prostitute che lavorano in appartamento pagano le tasse, ma che addirittura qualche comune, come quello di Bonn, non solo non fa come fanno molti dei nostri, che provano in tutte le maniere a scoraggiare questo genere di commercio facendo lo slalom tra una legge che non c'è ed emettendo ordinanze ridicole, ma addirittura, dopo aver messo a disposizione dei box dove piazzare la macchina per consumare la transazione, per regolarizzare pure la prostituzione in strada, tassa le "lucciole" facendo loro pagare un ticket tramite parcometro, lascia allibiti per pragmatismo e lucidità.









Sarebbe inutile aggiungere altro, ma vorrei ribadire, ancora una volta che, senza entrare nel merito di una questione spigolosa, la cosa esiste ed è inutile negarla, quindi o si proibisce e si combatte, per una ragione ideologica, oppure si prende atto ed, eventualmente, si "sfrutta" (termine inappropriato, ma passatemelo per una volta) appunto per scopi sociali. Al perché nel nostro paese non si faccia né l'una né l'altra cosa, rispondetevi da soli.

posseduto


Possessed By The Rise Of Magik - Ramesses (2011)

I Ramesses, band del Dorset (Inghilterra) formata da ex membri degli Electric Wizard, sono una band che cambia ad ogni piccolo passo. Non avevo ancora "digerito" il disco dello scorso anno Take The Curse, che mi sono dovuto aggiornare con l'EP Chrome Pineal (in realtà un full length con alcune tracce live) e questo nuovo disco di sette tracce, dove gli sludge/doom metallers proseguono il loro cammino rallentato, innestando molti passaggi quasi psichedelici su lunghe, a volte lunghissime tracce decisamente marziali ed horror. Il cantato growl lascia pian piano il posto, in alcune tracce, a clean vocals apparentemente claudicanti, e sovente poco convincenti dal punto di vista tecnico, ma i riff torrenziali, insieme ad effetti vari, e ad una produzione ruvida e scarna, produce sensazioni effettivamente inquietanti.
Non siamo di fronte quindi, ad una di quelle band che effettua variazioni sul tema sabbathiano, ma che cerca di muoversi all'interno dei generi citati poc'anzi, ricercando un minimo di originalità.

20110829

sono con te (o contro?)




I’m With You – Red Hot Chili Peppers (2011)

I RHCP sono stati una band statunitense formatasi a Los Angeles nel 1983. A loro si deve grande innovazione nel campo del crossover, soprattutto tra rock, hip-hop e funky. Si sono caratterizzati per testi a forte sfondo sessuale, piuttosto misogino, ed atteggiamenti irriverenti. Particolarmente sfortunata la loro storia “chitarristica”, per così dire. Hillel Slovak, il chitarrista che formò il nucleo primordiale della band, morì per overdose nel giugno del 1988, e fu sostituito da John Frusciante, giovanissimo, che contribuì a portare al successo planetario la band stessa, ma che ebbe gravissimi problemi di droga lui stesso (così come altri componenti, uniti a problemi di alcolismo).
Oltre ai seminali primi dischi, ruvidi, rozzi, ma contenenti in nuce geniali guizzi, appunto, di crossover genuino tra generi fino ad allora considerati profondamente inconciliabili, lasciano capolavori quali Mother’s Milk (1989) e Blood Sugar Sex Magik (1991), dischi belli ma poco apprezzati dalla critica (One Hot Minute del 1995, disco uscito nel periodo in cui Frusciante aveva lasciato la band – versione ufficiale – e che vede alla chitarra Dave Navarro, altro chitarrista interessante, all’epoca orfano dei Jane’s Addicition), ed un ritorno dignitoso alla formazione del 1989 con Californication, disco del 1999 che li consacrò come band capace di riempire gli stadi.
I dischi seguenti, quest’ultimo compreso, sono suonati da una cover band che mescola le influenze dei veri RHCP con il sound degli ultimi periodi, ammorbidendolo con forti influenze pop. Questo nuovissimo I’m With You non è un disco brutto, ma è un disco del quale non sentirete la mancanza in futuro, e che potete evitare tranquillamente di ascoltare se siete in debito di tempo per ragioni vostre. Anche perché probabilmente lo sentirete forzatamente nell'aria, o alle manifestazioni che sostituiscono il Festivalbar.

20110828

selezione



Triage – di Danis Tanovic (2009)



Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: lavoraccio eh…


Mark Walsh, fotografo di guerra, torna dal Kurdistan piuttosto acciaccato. E’ rimasto coinvolto nell’esplosione di un ordigno imprecisato, ha perso conoscenza, ma è vivo, anche se zoppicante. La bella fidanzata spagnola, che vive con lui a Londra, Elena Morales, è felicissima di riabbracciarlo, ma dopo qualche giorno capisce che c’è qualcosa che non va: anche a livello psicologico, Mark non si è per nulla ripreso. Nel frattempo, l’amico nonché collega David, che era con lui all’inizio di questa “missione” lavorativa, ma che è ripartito qualche giorno prima, con l’intenzione di smettere di fare questo lavoro e piuttosto impaurito, non è ancora rientrato, e giustamente, la fidanzata Diane, incinta e vicina al parto, è fortemente preoccupata…

Ennesima variazione sul tema (se si esclude, tra i film da noi conosciuti, il precedente L’enfer, che però fu diretto da lui dopo la morte di Kieslowski, a cui era destinato) da parte del regista bosniaco, quello della guerra, basato sull’omonimo libro di Scott Anderson, giornalista statunitense nonché corrispondente di guerra, è sicuramente quello meno riuscito, per colpa probabilmente sua, visto che in effetti la storia è interessante. Quello che manca davvero, insieme ad un po’ di verve aggiuntiva, che poteva venire da un cast di nomi noti, ma poco in forma collettivamente, e una maggiore fluidità di fondo, una fluidità che era doveroso attendersi da uno sviluppo vagamente alla Memento, a ritroso, con l’inizio posto poco prima del finale, che spiega il tutto.
Ed è un peccato. Colin Farrell (Mark Walsh) ha perso oltre 15 kg per le scene in cui è convalescente (molte). La spiegazione del titolo (io non ne ero a conoscenza) la trovate qui, e la vedete “applicata” nei primi minuti della pellicola.

20110827

agosto

giornata di vento oggi. sole splendido e limpidezza.
finalmente ho sistemato il mio spazio sonoro.
ho anche iniziato a registrare qualcosa, qualche base.
un mix tra elettronica e rock.poi qualcosa verrà accantonata e qualcosa passerà per le mani delle sorelle.
lo spazio sonoro è sotto terra. piccole finestre vicine al soffitto ricordano una delle scene finali di "bianca" , il film di nanni moretti, la scena delle scarpe.
navigando ho visto che ci sono un pò di video ben fatti del lallapalooza.
questo è per fabietto. ne parlammo:



Caim



Caino – di José Saramago (2009)

La vita “alternativa” di Caino, primo uomo nato (da una coppia) nella storia umana, secondo la Bibbia, e pure primo assassino, condannato da Dio ad essere nomade, ma anche a non poter essere ucciso, tant’è che Dio stesso gli pose sul capo un segno apposito.

Il caustico e grandissimo scrittore portoghese, si dilettò, con questo breve libro, ancora una volta ad ironizzare in maniera dura e senza sconti, sulla religione (anzi, a dire il vero sulle religioni, Cristianesimo ed Ebraismo, stavolta), dopo Il Vangelo secondo Gesù Cristo, ma, così come in quel caso si occupò del Nuovo Testamento, stavolta prende in considerazione il Vecchio Testamento.
“Usando” il nomadismo forzato di Caino, lo fa viaggiare nel tempo, in maniera che possa “incontrare” i fatti salienti, trovarvisi coinvolto, quantomeno in qualità di spettatore, a volte (l’Arca di Noé) passando all’azione, in tutti i casi sottolineando le incongruenze ma soprattutto, l’ingiustizia e la cattiveria di un Dio che dovrebbe essere misericordioso, soprattutto.
Prosa forbita, ottima verve comico/caustica (il libro strappa più di una risata), in questo libro, come detto, breve, che quindi si legge in un lampo, Saramago come sempre non fa sconti, soprattutto alla mistificazione e all’interpretazione che, nel corso degli anni, la struttura ecclesiastica ha imposto alle cosiddette sacre scritture. Si capisce bene quindi perché, quando lo scrittore è morto l’anno scorso, L’Osservatore Romano non lo abbia ricordato trattandolo con i guanti bianchi.

Libro leggero, ma fino ad un certo punto. Provateci.

20110826

Bill



Ti presento Bill – di Bernie Goldman e Melisa Wallick (2007)



Giudizio sintetico: da evitare (0,5/5)
Giudizio vernacolare: depilati ma ‘r cervello…


Siamo negli USA, provincia medio-grande, periodo pre-crisi. Bill è un uomo sulla quarantina, che ha sposato Jess, una bella donna di famiglia molto ricca, e soprattutto ha sposato la sua famiglia, la famiglia Jacoby: Bill, infatti, lavora nella banca presieduta dal padre di Jess, e ne è totalmente succube. Per non parlare del fatto che, in pratica, Bill occupa una posizione inutile, non produttiva, non ha poteri decisionali, non possiede niente di veramente suo. Questa sua situazione lo porta ad essere un mediocre, a trascurare la sua persona in generale. Jess naturalmente lo tradisce con un anchorman di una tv locale, e nonostante tutte le sue frustrazioni, la goccia che fa traboccare il vaso di Bill è la scoperta del tradimento della moglie, una cosa che avrebbe potuto benissimo immaginarsi prima. Bill aggredisce Chip, l’anchorman, e la cosa finisce ovviamente su youtube; Jess, come si usa dire, forte della dipendenza di Bill dalla sua famiglia, “rigira la frittata”, finendo per far sentire in colpa Bill, anziché scusarsi. Sono in pratica separati, ma Bill vorrebbe riconquistare Jess, e la serenità. Il cambio di marcia nella vita di Bill, lo dà un ragazzino delle superiori, che lo elegge come tutor nell’ambito di un programma scolastico patrocinato dalla banca del padre di Jess, e da una commessa che lavora nel grande magazzino di proprietà del fratello di Bill, Lucy, più grande del ragazzo, ma della quale il ragazzo è invaghito.

Mi conforta il fatto che questi due registi non abbiano più diretto un film dopo di questo, che era il loro debutto. E posso capire il fatto che Jessica Alba (Lucy) abbia preso il posto, pare, di Lindsay Lohan (fonte mymovies.it), che non considerava i registi all’altezza (certo, dispiace un po’ pensare che la Lohan si possa permettere delle scelte che, evidentemente, la Alba non si può permettere). Quello che proprio non arrivo a capire, è come possa prestarsi a film del genere un attore come Aaron Eckhart (anche se, dopo aver visto Neverwas, si dimostra pure recidivo). Detto questo, il film è un vero disastro, umorismo bassissimo mascherato da film sulla crisi d’identità di un uomo senza carattere, che risolve decidendo di depilarsi, in pratica. Il peggio del peggio.
Nel buio generale, si distingue Elizabeth Banks, nei panni di Jess, dignitosa.

20110825

gates of Valhalla



Valhalla Rising – Regno di sangue - di Nicolas Winding Refn (2009)



Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: la prossima vorta portativi la bussola…


Siamo intorno all’anno 1000 DC. In una imprecisata landa verde e brumosa del nord Europa, One Eye è un guerriero muto e ormai senza un occhio (appunto), tenuto prigioniero, incatenato ed ingabbiato, da un gruppo errante di vichinghi; viene liberato dalla gabbia (ma non dalle catene), solo per combattere contro altri prigionieri, durante scontri mortali, solo per il divertimento dei suoi carcerieri. Tra di loro, solo il piccolo Are mostra un pizzico di comprensione, pietà mista a paura, verso di lui. One Eye è capace di imprese straordinarie, quasi sovrannaturali, e quando sembra stanco della prigionia si libera, massacrando il gruppo che lo teneva prigioniero, e fugge insieme ad Are, che lo segue fedelmente. Si aggregano ad un altro gruppo di vichinghi cristiani, che hanno intenzione, di lì a poco, di partire per la Terra Santa ed unirsi alle crociate. Durante il viaggio, che si dimostra molto più lungo del previsto, un periodo di bonaccia prolungato fiacca i partecipanti e fa si che terminino le provviste e, soprattutto, l’acqua. Anche questa volta, una decisione improvvisa di One Eye darà la svolta alla situazione. Ma il luogo dove sbarcano non sembra essere la Terra Santa…

Ultimo (ancora per poco: il suo nuovo Drive uscirà in Italia, sembra, il 30 settembre 2011) lavoro del giovane regista danese, che, a mio modestissimo parere, e nonostante molte critiche avverse, sta probabilmente seguendo un verso di una delle canzoni più belle degli Afterhours (Posso avere il tuo deserto): “dando alla violenza una profondità”. Se seguite, e avete potuto farlo anche senza vedere tutti i suoi film, leggendone le recensioni su fassbinder, il suo percorso artistico, vedrete appunto che questo Valhalla Rising viene immediatamente dopo Bronson, bistrattato da una parte della critica, mai uscito in Italia, ma sicuramente personale e particolare. Creando una figura semi-mitologica come One Eye, anziché agganciarsi ad un’altra realmente esistita (come nel caso di Michael Gordon Peterson in, appunto, Bronson), il regista tenta la sublimazione della violenza, coronandola con la catarsi del sacrificio, ponendo le basi per un film dal respiro epico, disseminandolo di citazioni a grandissimi registi del passato, registi che hanno calcato degnamente questo tipo di genere. Sia chiaro: non è un film per tutti. E’ un film lento, un film che dura un’ora e mezzo ma che sembra durarne tre, diviso in capitoli dai titoli roboanti (Wrath, Silent Warrior, Men of God, The Holy Land, Hell, Sacrifice), con dialoghi rarefatti (il protagonista, One Eye, non emette neppure un suono in tutto il film), ma che lascia decisamente il segno, grazie agli stupendi scenari naturali scozzesi, alla fotografia, lasciatemelo dire, meravigliosa, di Morten Soborg (comprese le “virate” acide in rosso, che paiono suggerire i pensieri di One Eye), alla regia che abbonda con ralenti ed altri accorgimenti spiazzanti, e alla grande prova, ancora una volta, di Mads Mikkelsen (One Eye), che pur mettendo in scena un personaggio sfingeo, riesce a suscitare ammirazione totale; il tutto contribuisce a creare un’atmosfera (come detto) epica, cupa ed evocativa (che, prelevo la notizia dai Trivia di imdb.com, chissà come poteva essere se, come nelle intenzioni iniziali del regista, le musiche fossero davvero state affidati ai Mogwai, anziché al fido Peterpeter), che affascina.
Come detto, un film non per tutti, ma che si imprime nella mente.

20110824

la voce di oggi

Ditiràmbico


voce dotta, latino dithyrambicu(m), dal greco dithyrambikòs "relativo al ditirambo"

aggettivo (plurale maschile ditirambici)



che concerne il, o è proprio del, ditirambo



Ditiràmbo



voce dotta, latino dithyrambu(m), dal greco dithyrambos, di etimologia incerta

sostantivo maschile

1) canto corale in onore di Dionisio

2) (figurato) componimento o discorso destinato a lodare con entusiasmo qualcuno o qualcosa



Incontrato (per la prima volta in vita mia, anche questo) nella traduzione italiana di La carta e il territorio.

olocene

Accoppiata canzone/video meravigliosa. Nonostante, come vi ricorderete, conosca l'album, sono venuto a conoscenza di questo video sbirciando il blog di Pétur, che naturalmente lo segnalava visto che è girato in alcuni luoghi particolarmente suggestivi dell'Islanda.





20110823

la voce di oggi

Ubertà

voce dotta, latino ubertate(m)
sostantivo femminile
1) (letterario) fertilità, fecondità: lodare l'ubertà dei propri campi
contrario: sterilità
2) (figurato) abbondanza, copiosità

Aggiungo, per i curiosi come me, che ho "scoperto" questo sostantivo tramite il suo suffisso elativo irregolare uberrimo (fertilissimo), letto (per la prima volta in vita mia) nella traduzione italiana di un libro di Saramago. Finito questo libro, ed iniziatone un altro (di Almudena Grandes) in castigliano, vi ho trovato, dopo poche pagine, la versione spagnola della stessa parola.
Qui, sempre per i curiosi, la scheda wikipedia dei suffissi elativi irregolari.

Umibe no Kafuka


Kafka sulla spiaggia - di Murakami Haruki (2002)

Nakano, Tokyo. Tamura Kafka è il nome falso che decide di adottare un ragazzo quindicenne, taciturno, intelligente, solitario, che fugge dalla casa dove vive da anni col padre, famoso scultore, e dove la madre lo ha abbandonato, andandosene con la sorella di Tamura Kafka, molti anni prima, tanto che non riesce più a ricordarne il viso. E' deciso, determinato: mette quello che gli occorre in uno zaino, prende abbastanza soldi dal cassetto del padre, si reca alla stazione degli autobus e parte alla volta di Takamatsu. E' lì che, per il momento se ne starà per un po'. Non è che precisamente ha intenzione di cercare la madre e la sorella, anche perché suo padre gli ha lanciato una sorta di maledizione, che lui spera non si avveri.
Nello stesso quartiere di Tokyo, vive il signor Nakata, un anziano che, molti anni prima, in seguito ad uno strano incidente, ha disimparato a leggere, rendendolo vagamente ritardato; parla di sé in terza persona, e riesce a dialogare con i gatti. A parte il sussidio statale, infatti, il signor Nakata arrotonda ritrovando gatti scomparsi. Mentre sta cercando, per conto dei padroni, una gatta di nome Goma, si ritrova coinvolto in un omicidio, di un tale che dice di chiamarsi Johnnie Walker. Il signor Nakata si consegna immediatamente alla polizia, ma il poliziotto di guardia non crede ad una parola, e lo lascia libero di andare. Il signor Nakata, quindi, parte, anche lui verso sud, ma senza sapere precisamente dove andare. Senza sapere precisamente il perché, comincia ad emettere strane previsioni, che puntualmente si avverano.

Dapprima un po' spiazzante per me, questo Kafka sulla spiaggia, dato che di Murakami Haruki avevo letto solo il celeberrimo Norwegian Wood (Tokio Blues) poco dopo la sua uscita, e poi più nulla, questo romanzo che in molti iscrivono nella categoria del realismo magico, ha decisamente il suo fascino, anche se, come spesso mi accade anche con altre cose che vengono dall'Oriente (libri ma anche film), trovo questa sorta di misticismo spirituale a momenti alterni affascinante e ingenuo. La formula, in definitiva, funziona, perché, sempre a mio giudizio, quando l'ingenuità si trasforma in umorismo a volte involontario, creando dialoghi e situazioni al limite del ridicolo, si allenta quella cappa spesso ridondante di sovrannaturale misto a filosofia.
Inizialmente contorto, lo sviluppo binario (anzi, in verità il libro parte con tre storie distinte, due delle quali sono strettamente legate fin da subito) da una parte alleggerisce un po' la narrazione, non esattamente scorrevolissima, dall'altra preannuncia un finale scoppiettante, che in verità si rivela forse troppo onirico e poco rivelatorio.
Intrigante, ma non esattamente uno di quei libri che ti rimangono dentro all'infinito.

20110822

figlio prediletto


Gallantry's Favorite Son - Scott Matthew (2011)

Nuovo disco per Scott Matthew (occhio alla esse finale, che in questo caso non c'è), disco che conferma tutto quello che vi avevo detto con il precedente; aggiungerei, che in questo Gallantry's Favorite Son ho sentito un po' di quel cabaret che ultimamente ha stregato nientemeno che Marc Almond, e naturalmente un pizzico di quel baroque-pop che caratterizza soprattutto Baby Dee.
Disco non trascendentale, ma che come al solito contiene canzoni decisamente sapienti, che possono pure lasciare il segno, quali Sweet Kiss In The Afterlife, Buried Alive, l'opener Black Bird e la splendida Duet.
Matthew si conferma songwriter di classe, artista estroso, da seguire con attenzione, adatto ai momenti di riflessione della giornata.

20110821

spacciatore di droga - terza parte


Pusher III - L'angelo della morte - di Nicolas Winding Refn (2005)

Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: aririboiadé!!!

Copenhagen. Milo, uno dei più grossi trafficanti di droga presenti in Danimarca (presente in entrambe i precedenti capitoli della saga), di origine serba e non più giovanissimo, che ha come copertura un bar/ristorante piuttosto dimesso, è tesissimo e sotto grande stress, tant'è che è pulito da cinque giorni, e frequenta le riunioni dei Narcotici Anonimi, provando a praticare la teoria dei Dodici Passi. La cosa curiosa è che, nonostante sul "lavoro" ci sia un problema impellente (la partita di eroina che aveva richiesto al suo fornitore, l'albanese Luan, si è rivelata di ecstasy; in seguito alle lamentele di Milo, Luan promette quanto prima una nuova fornitura di eroina, ma acconsente a che Milo e i suoi provino a vendere l'ecstasy; Muhammed, un ambizioso giovane venditore associato di Milo, di chiare origini arabe, si impunta per gestire l'intera partita di ecstasy, anche se Milo non è d'accordo), la causa dello stress di Milo è il venticinquesimo compleanno dell'amata figlia Milena. Il boss si è impegnato a cucinare personalmente per i molti invitati, ed ha paura che a causa di questa pressione, possa facilmente ricadere in tentazione.
Muhammed, che ha promesso di risolvere tutto in un'ora, ritarda, il ristorante dove si svolgerà il compleanno di Milena (che non è lo stesso di proprietà del padre) comincia a gremirsi, i "dipendenti" di Milo cominciano a lamentare un avvelenamento da cibo dopo aver assaggiato (a forza) il piatto forte che il boss stesso ha preparato per il compleanno, e il fidanzato, nonché a breve marito di Milena, non piace granché a Milo...

Se il primo capitolo della saga Pusher è diventato un film di culto, questo terzo ed ultimo capitolo è senza dubbio uno dei migliori film del regista danese, cresciuto nel frattempo.
A parte la fotografia, interessante e corretta per continuare a dipingere il sottobosco criminale della capitale danese, ma al tempo stesso molto migliorata rispetto ai primi due capitoli, questo Pusher III è una girandola scoppiettante di etnie e provenienze, sceneggiato con sapienza (dallo stesso regista), che riesce al tempo stesso a mettere in scena una serie di personaggi interessantissimi (ed a delinearli discretamente, anche quelli con meno minutaggio), ad avvincere nella sua escalation, a risultare agghiacciante (la lunghissima scena della macellazione, superba) e divertente (tutta una serie di siparietti gustosi disseminati lungo il film).
Maestosa la prova del protagonista Zlatko Buric (Milo), ottimi pure Slavko Labovic (Radovan), Ramadan Huseini (Rexho) e Kujtim Loki (Luan).
Si può vedere anche senza aver visto i precedenti. Naturalmente, se invece avete visto, o avete intenzione di vedere, la saga completa, non potrebbe esserci finale migliore.

20110820

le carte et le territoire


La carta e il territorio - di Michel Houellebecq (2010)

Jed Martin è un artista. Fotografo e pittore, esteta, attento a tutto ciò che è bello, è un uomo capace di grandi intuizioni, quelle che lo porteranno ad un enorme successo, successo che gli porterà una ricchezza sufficiente a vivere di rendita per il resto dei suoi giorni dai quarant'anni in poi, baciato dalla fortuna, ma è anche un uomo schivo, capace al tempo stesso di riflettere sul senso profondo della vita e, proprio per questa sua capacità, a rimanere ugualmente deluso da questa molto precocemente. Madre suicida quando lui era ancora molto giovane, padre architetto di grande successo con il quale non riesce ad avere un rapporto profondo e soddisfacente, due grandi amori nella sua vita, amori che lascia sfumare quando si rende conto che nulla è per sempre, nessuna vera, grande, profonda amicizia, se non quella, potenziale, con un grande scrittore del suo tempo: Michel Houellebecq. Potenziale perché quando, dopo averlo conosciuto su raccomandazione del suo gallerista, che lo spinge a chiedergli di scrivere un introduzione al catalogo della sua seconda grande esposizione, cosa che lo scrittore farà contribuendo non poco al successo di Jed, lo incontra un altro paio di volte e capisce che hanno molto in comune, ne percepisce la vicinanza e le affinità, desidera rivederlo ancora e passare del tempo con lui, ma un giorno...

L'ultimo libro del grande scrittore francese non ha, probabilmente, la forza travolgente e visionaria del precedente La possibilità di un'isola, e magari neppure la desolante disamina sui valori occidentali di Piattaforma, ma contiene senza dubbio i temi portanti dell'opera di Houellebecq, proseguendo un percorso che i più attenti hanno riconosciuto immediatamente. In questo libro, infatti, a differenza dei precedenti, è quasi completamente assente il sesso, quasi a significare la progressiva perdita di importanza dello stesso. Nello stesso momento, lo scrittore adotta una forma molto più sottile per ironizzare su molti temi, introducendo il personaggio di se stesso, ed estremizzandone i difetti che la stampa gli ha fin'ora attribuito, e parodiando il genere noir nella parte finale del libro.
Non rinuncia alle iperboli futuristiche (l'esilio volontario di Jed, e la presa di coscienza del cambiamento totale dei residenti delle campagne francese dopo alcuni anni di isolamento), dissemina riflessioni profonde e sferzanti alla nostra società, diverte e, al tempo stesso, conserva quell'amarezza asciutta di fondo che caratterizza da sempre il suo sguardo nitido sul nostro mondo.
Scorrevole e relativamente semplice come sempre, riesce a far empatizzare il lettore col protagonista, seppure sia un individuo quanto più distante possibile dal lettore medio, e conferma l'enormità di uno dei più grandi scrittori viventi.

20110819

anelli di fumo per la mia aureola


Smoke Ring For My Halo - Kurt Vile (2011)

Quarto disco per il cantautore e chitarrista di Philadelphia, ma devo confessarvi che è il primo che ascolto, incuriosito da molte citazioni, negli ultimi tempi, ma spinto soprattutto dall'apprezzamento che ha fatto di lui in una recente intervista Umberto Giardini (ex Moltheni, adesso Pineda).
Anche lui è stato "indirizzato" da una frase rilasciata in un'intervista da Kim Gordon, che citava l'ascolto di Childish Prodigy (il disco precedente) di Vile tra i suoi "piaceri colpevoli" (guilty pleasure). E insomma, eccoci all'ascolto.
Vile è paragonato, tanto per capire da che parte dell'indie rock siamo, e fatte le dovute differenze, a Springsteen, Mellencamp, Dylan. Quindi, innanzitutto c'è ovviamente del folk, in questo pseudo-indie. Ed è vero che questo suo cantare svogliato, diciamo così, può ricordare vagamente Dylan (prima che iniziasse a biascicare), ma pure un J Mascis con un effetto-ubriaco leggermente meno marcato. Dal punto di vista musicale c'è, nei suoi pezzi, al tempo stesso un'attitudine rock low-fi, nell'uso di una parte delle chitarre, ma è un'attitudine senza dubbio più rilassata, se me lo concedete, rispetto a quella springsteeniana e mellencampiana. Verrebbe quasi da dire che è più grunge, anche se oggi un'etichetta del genere sembra avere poco senso. Forse ha ragione chi lo colloca tra Vic Chesnutt, M Ward e Devendra Banhart.
Ma, dopo tutta questa girandola di nomi che non sono i suoi, veniamo al trentunenne di Philly. Anche se non sembra un capolavoro, questo disco riserva diverse canzoni davvero notevoli. Sto parlando del folk asimmetrico di Peeping Tomboy, delle velleità pop-rock quasi eighties di Society Is My Friend, dell'americana scarnificata della title-track, dell'apertura soffice di Baby's Arms, dei suoni profondi di On Tour, del giro di chitarra acustica che ti si pianta in testa di Jesus Fever, e della stupenda Puppet To The Man, i cui armonici e la cui linea di chitarra elettrica danno vero e proprio godimento.
Non è poco, nell'insieme.

20110818

Youth: Scenes from Provincial Life II


Gioventù - Scene di vita di provincia - di J. M. Coetzee (2002)

Sono gli anni '60, John è uno studente di Cape Town, Sudafrica. Studia matematica, ma sogna di diventare un grande poeta. Si vergogna della sua famiglia, fa in modo di vedere i membri meno possibile, svolge tanti lavoretti per potersi mantenere da solo, e soprattutto, per andarsene a Londra, quanto prima. E' un tipo schivo, ma riesce ugualmente ad avere esperienze con le donne, esperienze che lo lasciano ogni volta sempre più deluso, soprattutto da se stesso, dal suo comportamento villano, senza carattere, senza profondità. Riesce a trasferirsi a Londra, dove spera di dedicarsi alla scrittura, ma diventa un programmatore informatico. Le sue esperienze con le donne proseguono sempre uguali, deludenti, e lui è sempre più un uomo solo.

Era lì, abbandonato chissà da quanto tempo, accanto a Vergogna, dello stesso autore. Qualche giorno fa, riprendendo in mano appunto Vergogna, visto che avevo visionato Disgrace (titolo originale, sia del libro, sia del film che ne è stato tratto, inedito in Italia) e volevo controllare alcune differenze, mi ricordo dell'esistenza di questo altro libro dell'autore sudafricano, insignito del Nobel per la Letteratura nel 2003. Lo prendo e lo leggo, in un giorno. Lo stile è inconfondibile, Coetzee è perennemente amaro, secco, fatalista e pessimista tanto da sembrare uno che odia l'umanità per la cattiveria insita in sé stessa. Gioventù è un libro che non lascia scampo, non lascia speranza. O, se vogliamo vederla positivamente, insegna che cosa non fare per vivere un'esistenza vuota e ripetitiva.
Secondo di tre libri semi-autobiografici (o di semi-fiction), che raccontano (appunto) romanzandola la vita dello stesso autore: il primo, del 1997 (tradotto in italiano nel 2001), è Infanzia. Scene di vita di provincia (Boyhood: Scenes from Provincial Life), mentre il terzo, del 2009 (2010 in Italia) è Tempo d'estate. Scene di vita di provincia (Summertime).
Un autore da tenere in considerazione, se ancora non l'aveste fatto.

20110817

l'erpice e la raccolta


The Harrow & The Harvest - Gillian Welch (2011)

Ci sono dei dischi che ti ricordano il fatto che, usando una frase fatta, le note sono sette, e tutto è già stato fatto, detto e suonato. Ma che, nonostante ciò, sono pregni di classe e di bellezza.
E' il caso di questo nuovo disco della newyorkese di nascita Gillian Welch, il quinto, escludendo collaborazioni, partecipazioni e colonne sonore, che è uscito in febbraio, dopo una "pausa" di otto anni dal precedente Soul Journey.
La Welch, nata appunto a New York ma trasferitasi con la famiglia a Los Angeles, ed attualmente residente a Nashville, Tennessee, continua la collaborazione fissa con David Rawlings (chitarrista, songwriter e produttore), e prosegue fondendo elementi di folk, bluegrass, americana ed appalachian music, rilasciando un disco minimale, fatto di banjo, chitarre e voci, ogni tanto un'armonica, che però colpisce nel segno con pezzi dalla struttura classica, con ottime melodie e soffici ma convincenti linee vocali; grandi intrecci degli strumenti a corda.
Sembra poco, ma non lo è.

20110816

human smoke


Cenere d'uomo - di Nicholson Baker (2009)

Non comincerò come di solito, riassumendovi la trama del libro in questione. Vi parlo brevemente dell'autore, del quale mi rendo conto di avervi parlato solo nell'occasione della recensione del libro precedente a questo, Checkpoint. Baker è un autore senza dubbio difficilmente classificabile, estroso, del quale non ho letto tutto, ma che mi entusiasmò non poco con due dei suoi primi lavori, Vox e La pausa, il primo una ininterrotta telefonata erotica, il secondo la storia di un individuo che si rende conto di avere il potere di "mettere in pausa" il mondo, e lo usa per svestire le donne.
Questo suo Human Smoke: The Beginnings of World War II, the End of Civilization (devo dire che in questo caso, la traduzione italiana del titolo è meno esplicativa, ma più bella e suggestiva, seppur agghiacciante) è classificato sotto i suoi lavori di saggistica, ed è in pratica una raccolta di documenti e notizie del tempo (in ordine cronologico). Descrive, più che l'escalation che portò all'entrata in guerra degli USA, un punto di vista fortissimamente pacifista sugli accadimenti, appunto, della Seconda Guerra Mondiale, e ci fornisce un singolare sguardo sulla questione, uno sguardo documentatissimo (la bibliografia e l'elenco delle fonti d'archivio prendono circa quaranta pagine) che metterà in crisi le convinzioni di molti sull'argomento.
Due appunti personali, necessari per spiegarmi meglio: il primo, leggere questo libro immediatamente dopo Hitler di Genna è stata tutto sommato una scelta casuale ma azzeccata. E' passato abbastanza tempo per riflettere in maniera approfondita e pure critica sull'evento che ha cambiato le sorti del mondo. Il secondo: la figura di Winston Churchill che esce da questa lettura, è decisamente diverso dal simpatico ed intelligente statista interpretato dal magnifico Timothy Spall ne Il discorso del re.
Ora, non è necessario sposare il punto di vista completamente pacifista adottato dall'autore: i fatti sono già accaduti, e sono stati metabolizzati a forza dall'umanità. Ma, in tempi di cosiddette missioni di pace, una visione drastica, secca, per niente indulgente, anche su quella guerra, potrebbe fornire elementi di crescita e riflessione interessanti.

20110815

assoluto


Absolute II - Oneida (2011)

Philip Glass, Brian Eno, ambient, Eraserhead di Lynch, sfida, provocazione. Questo solo nella recensione di Pitchfork. Il terzo disco della annunciata, e a questo punto portata a termine, trilogia chiamata Thank Your Parents, comprendente i due dischi precedenti Preteen Weaponry e Rated O, è formato da quattro pezzi della durata di dieci minuti circa l'uno, sfiancanti, senza batteria, costruite sull'effettistica e sull'uso di sintetizzatori, loop, riverberi di suoni, manipolazioni della voce (Horizon). Spettrale, astratto, psichedelico al massimo, spiazzante e sconvolgente quanto l'uso di droghe leggere, Absolute II è un disco che può innervosire, ma che senza dubbio è un passo ulteriore in un cammino sicuramente personale e senza compromessi, come appunto quello della band di Brooklyn.
Un disco che ti prende e ti porta via.

20110814

raggamuffin?


Selah Sue - Selah Sue (2011)

Ad essere sincero, mi aspettavo un disco bomba. Non è propriamente così, nel caso del debutto full length della ventiduenne belga che probabilmente si sente un po' nera dentro.
All'anagrafe Sanne Putseys, alle spalle un paio di EP, il debutto della biondina non è per niente male, sia chiaro; certo, vi si sente un velo di malinconia: in pezzi come Raggamuffin, Explanations, Fyah Fyah, e, in maniera minore perché molto più pop, in Mommy ed in Summertime, ho sentito l'influenza (e la mancanza) fortissima della Lauryn Hill acustica, quella dell'MTV Unplugged con piantino annesso.
I riferimenti sono piuttosto chiari (perfino la pettinatura, secondo me, fa riferimento a qualcosa legato al soul/r'n'b), la voce è bella, particolare e interessante, i pezzi e le collaborazioni di tutto rispetto (Cee Lo Green duetta con la bambina in Please, in perfetto stile struscio/r'n'b), i singoli ci sono e ce li hanno già propinati fino alla noia, la spruzzata di dub/ragga contribuisce a rendere, in alcuni momenti, il tutto un po' diverso. Il disco è carino, non un capolavoro. Non carichiamola di troppe aspettative, lasciamola crescere e maturare senza fretta. Chissà che al capolavoro possa arrivarci.

20110813

spacciatore di droga - seconda parte


Pusher II - Sangue nelle mie mani - di Nicolas Winding Refn (2004)

Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: ariboiadé

Copenaghen. Tonny esce di prigione carico. Così come recita il tatuaggio che porta in bella evidenza, vuole il rispetto, soprattutto da parte di suo padre, il Duca, proprietario di un chop shop (un'officina, che in realtà serve per disassemblare auto rubate e rivenderle), vuole soldi, vuole diventare un boss. Invece, fuori, oltre all'indifferenza del padre, che dedica tutte le sue attenzioni al figlio piccolo, avuto dalla sua nuova donna, trova un'altra sorpresa non da poco. Le cose non vanno proprio come vorrebbe Tonny. E per entrare nelle grazie del padre, accetta un compito di quelli che ti segnano per sempre. Ce la farà?

Si dice che il regista danese sia dovuto correre ai ripari dopo il fiasco planetario del precedente Fear X, girando alla svelta questo sequel dell'osannato Pusher, film che gli aveva dato successo e notorietà, lanciandolo verso una carriera presumibilmente di successo. Può darsi. Nonostante ciò, questo seguito delle avventure di Frank, scomparso senza lasciare traccia da Copenhagen, è un buon film, sullo stile del precedente, leggermente migliore dal punto di vista della fotografia, ugualmente nervoso per la camera a mano invasiva, che punta molto sul carisma nascente di, lo confesso, uno dei miei attori preferiti, Mads Mikkelsen, che qui dimostra capacità interessanti, dipingendo un personaggio lunatico e in preda ad incertezza e vuoto esistenziale, passando da un estremo all'altro con estrema facilità. Forse la sceneggiatura gira un po' a vuoto nella seconda parte, ma il sottobosco delinquenziale è, ancora una volta, descritto in maniera asettica e, al tempo stesso, agghiacciante. Se avete intenzione di completare la trilogia, non potete esimervi.

20110812

fine dei giochi


Endgame - Rise Against (2011)

Il sesto disco del quartetto quasi interamente straight edge di Chicago, potrebbe essere il vostro disco per la fine dell'estate. Disco cupo nei testi, ma solare nella musica e nelle melodie, fedelissimi come sempre alla linea tracciata dai maestri Bad Religion, i Rise Against fanno grattare le chitarre, pompano la sezione ritmica al mitico ritmo tum-cha-tuntum-cha distintivo del punk rock potremo dire "all'americana", e via andare. Il quartetto di pezzi iniziale è impossibile non amarlo: Architects, Help Is On The Way, Make It Stop (September's Children) e Disparity By Design disegnano una partenza al fulmicotone, seppure senza aggiungere assolutamente niente a quel che è già stato detto da questo genere. C'è da dire che la musica dei Rise Against si potrebbe definire un ibrido, ascoltando ad esempio pezzi vagamente pop-metal alla Nickelback quali Midnight Hands o la semi-ballad, piuttosto intensa, Wait For Me.
Ci piacciono. Anche quando (ri)fanno i Green Day più scanzonati in This Is Letting Go.

20110811

ciao, sei sola?



Hola, ¿estás sola? - di Icíar Bollaín (1995)



Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)



Giudizio vernacolare: terma e luise senza dramma






Vallalolid. Nina vive col padre divorziato, e un po' soffocante, finché, anelando maggiore libertà, decide di partire con l'amica e coetanea Trini, lei completamente sprovvista di affetti familiari. Per dove? Dove ci sono le palme. Eccole quindi in viaggio prima per il profondo sud spagnolo e la Costa del Sol, dove lavoreranno come animatrici turistiche, poi per Madrid, dove vive la madre di Nina, madre che lei non ha voglia di rivedere, mentre Trini insiste per conoscerla.






Debutto alla regia per la madrilena anche attrice, che si cimenta immediatamente anche con la scrittura della sceneggiatura, per la quale però si fa aiutare dal già più esperto Julio Médem (la sua mano si nota nelle pieghe più assurde della trama).



Film acerbo, anche se pieno di buona volontà, budget ridottissimo, due attrici protagonisti alle prime armi ma promettenti: Silke interpreta Nina (la rivedremo bellissima e sexy in Tierra di Médem) con piglio selvaggio, Candela Peña è Trini (la rivedremo in molti film spagnoli, anche con Almodóvar - Tutto su mia madre - ed ancora con la stessa Bollaín - Ti do i miei occhi -) ed è divertente come quasi sempre.



Verranno tempi migliori.

20110810

crescent city




Treme - di David Simon & Eric Overmeyer - Stagione 2 (11 episodi; HBO) - 2011

E' vero. Ha ragione Gothic nella sua recensione su Serialmente.com: non ci sono colpi di scena repentini, nei lavori della premiata ditta Simon/Overmeyer, non dovete aspettarvi chissà che cosa. Ma, magari perché è dentro all'ultimo ed undicesimo episodio della seconda stagione, un po' perché è l'omaggio di una grande artista a New Orleans, l'essenza di Treme sta tutta dentro la sequenza che vede Davis e Annie piangere al Jazz Fest annuale, mentre ascoltano Crescent City live, eseguita da Lucinda Williams, ed usando le parole che Harley ha "insegnato" ad Annie, per giudicare se una canzone è buona oppure no.
Gli ingredienti sono: la musica, New Orleans, gente comune con storie comuni alle prese con un fatto straordinario (anche di abbandono, da parte del governo centrale), l'uragano Katrina e i suoi "postumi", la musica, New Orleans e ancora la musica.
E le storie comuni raccontate con tempi che sarebbero lenti anche per un film taiwanese (ecco perché mi stupisco che HBO abbia rinnovato perfino per una terza stagione di Treme), sono la metafora di New Orleans. Prendete Sonny, un personaggio tutto sommato antipatico. Pur non essendo originario di New Orleans, ha dato tutto durante l'uragano, il suo amore per le droghe lo ha lasciato senza niente, ma un musicista che appena conosce gli cambia la vita meglio che un centro di riabilitazione, senza neppure chiedergli il permesso. Non aggiungo altro, perché ho già spoilerato anche troppo, ma naturalmente potrete trovare metafore ed analogie simili in tutti i personaggi di Treme. Che, ancora una volta, riescono a farti amare questa città senza conoscerla, senza averla mai vista, senza averne mai calcato il suolo. Fate caso, inoltre, alla differenza di mood quando il montaggio saltella tra New Orleans e New York, dove Delmond vive e lavora, e dove Janette prova a rifarsi una vita.

Il cast, che ha perso John Goodman (che appare in qualche sequenza onirica, ed è sempre spettacolare), acquista Jon Seda (è Nelson Hidalgo, un "trafficone" che arriva in città per fare soldi, lo avevamo visto in The Pacific nei panni di Basilone) e la favolosa faccia da schiaffi di James Ransone, nella piccola ma divertente parte di Nick, co-inquilino di Janette a NY: lo avevamo visto in The Wire, e lo avevamo adorato in Generation Kill. Il resto del cast continua ad esibirsi ai massimi livelli.
Ricapitolando: chi ama la musica, e chi ama la vita, dovrebbe vedere Treme. Ancora inedita in Italia, non sto a spiegarvi come potete trovarla, ma come già segnalato da effemmeffe la scorsa serie, i sottotitoli li potete trovare su addic7ed. Personalmente voglio ringraziare farscaper e spanishred per quelli in spagnolo.
Vi lascio il video integrale dell'esibizione suddetta di Lucinda Williams, usata poi per l'episodio citato.










20110809

alcune

intanto per dirvi alcune cose:
- ben harper è il nuovo eagle eye cherry;
- le vacanze durano sempre troppo poco;
- frasi semplici mi han fatto sentire un re;
- vorrei acquistare una chitarra bianca e una nera, so anche i modelli;
- il verona giocherà il primo anticipo del nuovo campionato di serie b;
- di solito in estate faccio tanti propositi, quest'anno no!;
- la marmellata di fichi è la più buona in assoluto, un pò come il ghiacciolo all'anice;
- lq città è sempre più vuota.

The Nanny Diaries



Il diario di una tata - di Shari Springer Berman & Robert Pulcini (2007)



Giudizio sintetico: si può vedere ma anche no (2,5/5)



Giudizio vernacolare: n'avanza di bebisitte' così?






Annie Braddock si è appena laureata in economia, anche se ha uno smisurato interesse per l'antropologia. La madre Judy, infermiera, sogna per lei una sfolgorante carriera nel mondo che gira intorno a Manhattan, ma Annie non è del tutto convinta. Rimbalza da un colloquio di lavoro all'altro, senza convinzione, riuscendo solo a mettere a fuoco il fatto che non ha idea di cosa fare del suo futuro. Mentre è seduta in un parco, improvvisamente nota un bambino in uniforme in pericolo, e lo salva, riportandolo alla madre, la signora X, una spocchiosa super-benestante che, senza farla parlare, la scambia per una babysitter (solo perché ne ha appunto bisogno), e le dà il suo biglietto da visita. La voce si sparge, ed Annie è sommersa di offerte di lavoro da babysitter, tutte lautamente retribuite. Lo spiccato senso di maternità, unito al suo sentirsi persa per quanto riguarda il suo futuro, la fa accettare la proposta della signora X. Annie si trasferisce, mentendo alla madre, e si rende presto conto che la vita di persone come gli X è incredibilmente privilegiata, ma al tempo stesso assolutamente vuota ed incapace di un qualsiasi accenno d'affetto.






Tratto dall'omonimo libro di Emma McLaughlin e Nicola Kraus, il secondo lavoro di fiction della coppia già nota per American Splendor è una commedia mediamente divertente, che conserva qua e là tratti surreali, con un fondo (appunto) antropologico e critico verso la stratificazione della società statunitense, ed in particolar modo quella newyorkese. Troppo sdolcinato in troppi momenti, di contro agghiacciante (positivamente) in altri (le avances del signor X, la NannyCam), il film viaggia a velocità alterne e risulta appena sufficiente, anche se il messaggio è senz'altro positivo; manca una zampata feroce. Buona la regia, ottime le interpretazioni, soprattutto della coppia X (Laura Linney e Paul Giamatti), carina come sempre Scarlett Johansson nel ruolo della protagonista Annie, apparizioni per Alicia Keys (Lynette, l'amica del cuore di Annie) e Chris "Captain America" Evans (è il belloccio che va ad Harvard, Harvard Hottie in originale).

20110808

cinque



5 - Lamb (2011)






Tornano i Lamb dopo uno iato che a livello discografico è durato 8 anni. Di solito, ci si interroga quando accadono cose del genere. Per fugare ogni dubbio in apertura, vi dirò che i Lamb hanno ancora qualcosa da dire, e che questo disco è molto bello.



La voce di Lou Rhodes è ancora bellissima, e quel geniaccio di Andy Barlow ci dimostra palesemente, se ancora qualcuno non fosse stato convinto dal ritorno dei Portishead, che il trip-hop può essere attualizzato e al passo con i tempi. Basta ascoltare una volta Wise Enough per innamorarsene. E non pensiate che ci siano solo delle ballate: ascoltate ad esempio la coppia che segue la traccia d'apertura (Another Language, bella anche questa), Butterfly Effect e Build A Fire (quest'ultima vagamente Sigur Ròs), due pezzi che paiono pronti per dei remix hardcore. Certo, prevale una certa atmosfera che definirei autunnale, non propriamente adatta alla stagione in corso, se riesco a spiegarmi. Cosa piuttosto palese anche nell'apertura del secondo disco, Dischord, con tanti archi e tanta malinconia. Interessante pure a seguire Back To Beginning, featuring Damien Rice, un pezzo di Barlow già usato con i Luna Seeds (vabbè dai, è il disco extra...). Seguono versioni strumentali, demo, a cappella, di quasi tutti i pezzi del primo disco: si confermano molto belle anche in queste vesti Wise Enough e Butterfly Effect.



Un bel disco, che forse ha l'unica pecca di essere poco "vario" (a volte, quando si è nel dormiveglia, le canzoni appaiono come un corpo unico), ma che quindi va ascoltato nella sua interezza, e che genera un'atmosfera calda ed avvolgente.

20110807

la baia



The Cove - di Louie Psihoyos (2009)



Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)



Giudizio vernacolare: mangia mangia le scatolette...






Ric O'Barry è una sorta di pentito. E' l'uomo che ha catturato ed istruito i cinque delfini che furono usati per la famosissima serie televisiva Flipper, ma, dopo che uno dei cinque delfini, secondo quello che racconta lui stesso, si lasciò morire tra le sue braccia, non sopportando più lo stress da cattività, si è convertito in uno dei paladini della liberazione dei delfini dalla cattività, e della sensibilizzazione del pubblico contro la cattività degli animali. Si parte da lui, insieme alla sapienza e alla passione di Louie Psihoyos, esperto fotografo e documentarista anche per il National Geographic, ed appassionato sommozzatore, e si arriva alla formazione di un gruppo di attivisti che decidono di documentare il periodico massacro di delfini che avviene con regolarità nella baia di Taiji, in Giappone, ogni mese di settembre.






Coinvolgente e spettacolare, The Cove vinse nel 2010 l'Oscar come miglior documentario meritatamente; fotografia spettacolare (un esempio fulgido lo avete nella locandina) e "sceneggiatura" che avvince, fin dalla formazione del gruppo "d'assalto", che somiglia un po' a quello di Ocean's Eleven, con personaggi vari, ognuno specializzato in qualcosa che servirà per nascondersi, riprendere, ascoltare, spiare e, come detto, alla fine documentare il massacro. Tutto da godere, ma non solo, visto che effettivamente, alcune scene che mostrano la mattanza fanno letteralmente rabbrividire.



Per riflettere e conoscere.

20110806

Route Irish



L'altra verità - di Ken Loach (2011)



Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)



Giudizio vernacolare: più guerre più lavoro






Liverpool. Fergus è un ex militare, divenuto un contractor dopo il congedo, prima al soldo di un capo, poi con la propria agenzia. Si sta celebrando il funerale, senza onori militari, di Frankie, morto a Baghdad sulla cosiddetta Route Irish, anche lui ex militare, poi divenuto contractor convinto proprio da Fergus. Fra i due, una lunga amicizia virile nata sui banchi di scuola, passata attraverso guerre, bevute, tatuaggi, donne. Rachel è la vedova, che inizialmente ce l'ha a morte con Fergus. Fergus la capisce: in effetti, si sente in colpa.



La verità ufficiale non convince Fergus, e non accontenta Rachel. I due si coalizzano, alla ricerca dell'altra verità. Ma Fergus non è un uomo comune: è un militare.






L'ultima prova del compagno Ken, coadiuvato sempre dal fedele Paul Laverty alla sceneggiatura, è come sempre un film dall'altissima valenza socio-politica di denuncia, ma lascia un po' di amaro in bocca in quanto posseduto da una deriva violenta inaspettata, da Loach, e da un eccesso di trama complessa, che lo ha fatto definire thriller, addirittura. Mettiamoci anche una durata eccessiva, per una trama così, e una svolta erotico-sentimentale sinceramente stucchevole, ed ecco che i palati più esigenti, seppur fans sfegatati e sostenitori di Loach, come me, non possono andare oltre la sufficienza.



Bravi i protagonisti, Mark Womack (Fergus) ed Andrea Lowe (Rachel), due attori televisivi che se la cavano alla grande, per gli amanti della cultura pop iberica segnalo una piccolissima parte di Najwa Nimri (Gli amanti del Circolo Polare, Lucía y el sexo).

20110805

spacciatore di droga - prima parte



Pusher - di Nicolas Winding Refn (1996)



Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)



Giudizio vernacolare: boiadé







Copenhagen. Frank è un pusher di medio livello: compra soprattutto da Milo, un trafficante di grosse quantità, di origini serbe, sul "lavoro" fa spesso coppia con Tonny, amico da una vita, svalvolato come pochi, nella vita invece fa coppia, anche se il termine è forzato, con Vic, prostituta di lusso. Milo lo tiene, come si suol dire, "per le palle", con alcuni debiti, e Frank prova a smarcarsi comprando una partita grossa, avendo trovato un compratore, per guadagnare molto più del solito. Le cose non vanno come previsto.







Debutto del regista danese, film ormai considerato di culto, girato come "espansione" di un corto fatto appositamente per una prova per la scuola film danese, Pusher è la storia di un "normale" fuorilegge, e di una escalation che lo mette sempre più sotto pressione.



Fotografia sgranatissima, macchina praticamente sulle spalle dei protagonisti, esplosioni di violenza gratuita ma non fuori luogo per personaggi di questo tenore, la peculiarità di Pusher è l'assoluta non-spettacolarizzazione delle storie raccontate: alcuni giorni di ordinaria malvivenza, di un sottobosco che vive senza pensare troppo al domani, e che evidentemente esiste anche nella culla della società socialdemocratica quasi perfetta.



Intensa interpretazione di Kim Bodnia nei panni di Frank (se avete visto In un mondo migliore, vi ricorderete di Lars, il padre prepotente che prende a schiaffi Anton e scatena il piano folle di Christian), degne di nota quelle di Laura Drasbaek (Vic), Slavko Labovic (Radovan) e di Zlatko Buric (Milo), spettacolare quella dell'enorme Mads Mikkelsen (Tonny), qui come Bodnia alle sue prime esperienze, adesso adottato anche da Hollywood, attore eccezionale quindi, fin dagli esordi.

20110804

una volta



Once - Una volta - di John Carney (2008)



Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)



Giudizio vernacolare: ganzo






Dublino. Un giovane (ma non più giovanissimo) musicista lavora di giorno insieme al padre, in un negozietto che ripara aspirapolvere, e la sera fa il busker, il musicista di strada, cantando i pezzi che la gente vuole sentire, tenendo per se le sue proprie composizioni. Una sera, mentre non c'è praticamente nessuno, suona e canta uno dei suoi pezzi; una ragazza, chiaramente proveniente da un altro paese, lo sente, si ferma, gli fa i complimenti. Gli domanda se il pezzo è suo, e perché normalmente non lo suona. Per chi lo ha scritto. Da cosa nasce cosa. I due si frequentano, ma non è una storia come le altre. Anche la ragazza è una musicista. Canta e suona il piano. Viene dalla ex Cecoslovacchia, a casa ha una bambina, sua madre, e altri immigrati che vengono a vedere la televisione nel suo appartamento. Per suonare il piano, in pausa pranzo va in un negozio di strumenti musicali: il padrone le lascia suonare i pianoforti, quando non c'è gente. Il ragazzo e la ragazza vanno nel negozio, e suonano una delle canzoni del ragazzo. Il risultato è più che soddisfacente. La ragazza lo convince a registrare un demo professionale.






Ero rimasto lontano da questo film per alcuni anni. Mi sembrava interessante, eppure alcune recensioni mi avevano fatto desistere. Poi, il giudizio incoraggiante di alcuni amici, e la prospettiva di vederlo rigorosamente in lingua originale hanno fatto il resto. Il risultato è stato come la prima esecuzione in coppia delle canzoni del film: più che soddisfacente.



La storia dietro a questo film è interessante quasi quanto il film. Il regista è l'ex bassista della band irlandese The Frames, il film è stato girato con un budget molto basso, con camere a mano, in tre settimane, con luci naturali e addirittura, con teleobiettivo durante le scene che vedono i due protagonisti in mezzo alla gente, per strada, senza autorizzazioni particolari. I due protagonisti, se si esclude una particina che Glen Hansard, il ragazzo, aveva fatto nel mitico The Commitments, sono praticamente esordienti, o almeno, attori non professionisti. Sempre su Hansard: è, ancora oggi, il leader, cantante e chitarrista, dei The Frames. La sua parte era inizialmente destinata nientemeno che a Cillian Murphy, che però declinò l'invito (pare non fosse a suo agio a recitare con una non-professionista, come pure che non avesse l'estensione vocale adatta per una parte incentrata sul canto), pur rimanendo tra i produttori (a quel punto, Carney si giocò la scommessa Hansard, vincendola). La protagonista femminile, Markéta Irglová, viene dalla Repubblica Ceca, ed aveva già collaborato con Hansard, dopo che si erano conosciuti durante un tour dei The Frames, che aveva toccato la città natale della Irglová. Non bellissima, ma splendida nella sua spontaneità e con una dolcezza ferma, molto brava a livello musicale, all'epoca delle riprese aveva 17 anni (i due, complice probabilmente la storia del film, oppure, come confessò Hansard, un amore inespresso a causa della giovane età della Irglová, dopo il film hanno fatto coppia per un periodo; ne ha sicuramente giovato l'espressività e la forza delle due recitazioni).



Fatte queste doverose premesse, per chi, come noi, è appassionato di musica, oltre che di cinema, il film è bello, con una storia coinvolgente senza essere travolgente (proprio perché plausibile, come la vita vera), ed un finale non scontato, anche amaro, ma anche qui, col gusto della vita. Alcuni critici hanno sottolineato qualche momento di "stanca" nell'arco dell'ora e mezzo del film, ma mi sembra un giudizio sommario, proveniente da chi evidentemente tende alla realtà falsata di gran parte del cinema americano da botteghino, che bandisce i tempi morti perché abbassano il ritmo.



Un film delicatissimo, che regala diversi momenti di puro godimento, non solo quelli strettamente musicali. Vinse giustamente un Oscar, per il pezzo Falling Slowly, ma ce ne sono almeno altri due all'altezza, e sono stato di manica stretta. Da non mancare.

20110803

Djävulens öga



L'occhio del diavolo - di Ingmar Bergman (1960)



Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)



Giudizio vernacolare: chi tromba solo la su' mollie un vor bene nemmeno a su' fillioli







"La verginità di una giovane è come un orzaiolo nell'occhio del diavolo". E' con questo proverbio irlandese che Bergman introduce questo film vagamente filosofeggiante ma soprattutto divertente. Il diavolo in persona si lamenta appunto per un orzaiolo, causatogli da Britt Marie, figlia di un pastore (nel senso di ministro di culto), che vuole arrivare vergine al matrimonio col fidanzato. Per ovviare al problema, il maligno affida la missione di seduzione, e conseguente capitolazione della giovane, nientemeno che a Don Giovanni, con l'allettante proposta di uno sconto di 300 anni sulla pena originaria. Ecco quindi che Don Giovanni, l'assistente Pablo, controllati da un demone travestito da frate, vengono trasportati sulla terra, dove "casualmente" assistono il pastore, al quale si è fermata l'auto. Ecco che comincia la giostra della seduzione...






Divertente, come già detto prima, leggero ma naturalmente non stupido, variazione sul tema del Don Giovanni, con implicazioni plurime, definito dallo stesso regista un "rondò capriccioso", questo film di Bergman è godibilissimo e splendidamente recitato dall'intero cast. E pensare che fu girato quasi forzatamente: una sorta di scambio col produttore Ekelund, che aveva finanziato La fontana della vergine, e basato su un vecchio testo conservato nell'archivio della casa di produzione (in effetti il film è molto "teatrale").



Quando c'è la classe, del resto...

20110802

non è mai stato



Neverwas - La favola che non c'è - di Joshua Michael Stern (2008)



Giudizio sintetico: da evitare (0,5/5)



Giudizio vernacolare: per fa addormentà i bimbi






Zach Riley è un buon psichiatra, con una carriera universitaria ben avviata. Non ha figli, né moglie, il padre è morto suicida e la madre vive nel suo ricordo, coccolando Zach quando può. Zach decide di lasciare la sua prestigiosa carriera per farsi assumere nel manicomio Millwood, diretto dal Dr. Reed; quest'ultimo stenta a capire il perché di questa decisione di Riley. Quello che Zach non dice, è che a Millwood, il padre T.L. Pierson, un famoso scrittore di libri per ragazzi, ha passato diversi anni internato, a causa di una forte depressione. Incredibile ma vero, a Millwood c'è ancora chi se lo ricorda, e questa persona riconosce immediatamente Zach...






Nei miei "percorsi" visivi, seguo spesso sentieri piuttosto lineari: la filmografia di un attore, di un'attrice, di un/una regista che mi piace. Mi ha portato a questo film Aaron Eckhart, che qui interpreta il protagonista Zach Riley, anche produttore. Ora, un film del 2005, uscito pure negli USA direttamente in dvd, che arriva in Italia 3 anni dopo, anche qui direttamente in dvd, qualcosa che non va ce l'ha quasi per forza. Certo, uno si legge il cast e dice "non può essere male": oltre a Eckhart ci sono nientemeno che Jessica Lange (la madre di Zach), Nick Nolte (il padre di Zach, T.L. Pierson), Ian McKellen (Gabriel Finch, l'internato che riconosce Zach), Brittany Murphy (Maggie, una compagna di giochi d'infanzia di Zach che torna anche lei nei luoghi d'infanzia), William Hurt (il Dr. Reed), Alan Cumming e Vera Farmiga (altri due pazienti di Millwood). E invece, il film è uno strazio totale, che gira intorno ad un'idea che qualche critico ha avvicinato a quella di Finding Neverland, ma che non gli si avvicina minimamente né a livello di intensità, né tantomeno a livello di genialità. Un film ingessato che rende gli attori del ricco cast delle macchiette che interpretano caricature di se stessi nei loro ruoli migliori. Si salva solo Jessica Lange, che dimostra di essere davvero una fuoriclasse.



Girateci alla larga.

20110801

riprendendo la domenica



Taking Back Sunday - Taking Back Sunday (2011)






Qualche giorno fa mi sono trovato a dire a me stesso che avevo veramente voglia di un bel disco emo, per svoltare il momento, forse perché mi vergogno un po' ad ammettere che mi piace abbastanza il nuovo di Avril Lavigne e quindi sopperivo con quello; adesso che c'è, eccomi tuffato a pesce sul nuovo Taking Back Sunday, seppure sia arrivato tardissimo su questa band, e, alla prima impressione, quella live, senza aver mai ascoltato niente di loro, mi apparvero più goffi e mainstream che altro. Eppure, sulle loro prove in studio mi sono ricreduto, finché ora, con questa cosa nuova, che segna il ritorno nella band di John Nolan (chitarra e cori) e Shaun Cooper (basso), che si ritrova quindi con la stessa formazione del disco d'esordio Tell All Your Friends, forse appunto eccitato dalla mia necessità emo-zionale, mi ritrovo ad ascoltarlo continuamente, e ad apprezzarlo pur nella sua semplice prevedibilità, nella ricerca di melodie classicamente (ormai) emo-rock di Best Place To Be A Mom, El Paso, You Got Me, della splendida Since You're Gone, nell'incedere già sentito ma dannatamente efficace di Sad Savior, nello sferragliare gagliardo ma, in fondo, innocuo delle chitarre, negli echi edulcorati dei Fugazi, ma dei Fugazi redenti e pronti per MTV, questi Taking Back Sunday che, guidati dalla voce e dalle liriche di Adam Lazzara non parlano certo di politica, ma soprattutto d'amore, e provano ad emozionarci. Ancora.



Come in un giorno d'estate, col vento in faccia, guardando l'orizzonte, pieni di speranza.

Per chi conosce l'inglese, qui una recensione dello stesso disco, fatta da uno che ne sa sicuramente più di me.