No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20120229

Battle for the Planet of the Apes


Anno 2670 - Ultimo atto - di Jack Lee Thompson (1973)

Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Giudizo vernacolare: firmetto

In un futuro che si colloca tra il primo film della serie ed il secondo, e la seconda parte del ventesimo secolo, durante il quale si sviluppano il terzo ed il quarto, il Legislatore, con l'aiuto delle scritture, racconta ad un gruppo di piccoli umani e di scimmia, le vicissitudini del Pianeta dopo l'era atomica. L'illuminato scimpanzé Cesare, dopo aver guidato la rivolta delle scimmie, guida la convivenza tra scimmie ed umani fuori dalla grande città, ormai completamente distrutta e contaminata dalle radiazioni. Ma i gorilla, sobillati dal generale Aldus, spingono per una cultura anti-umana, mentre Cesare tenta di mantenere l'uguaglianza, consigliato dallo scienziato orango Virgilio, e dall'umano MacDonald (fratello del MacDonald che aveva aiutato Cesare nel film precedente). Questi tre, decidono di recarsi alle rovine della grande città, per tentare di recuperare qualcosa dei genitori di Cesare, delle testimonianze che possano guidare questa nuova realtà "mista". Ma umani mutanti sopravvivono nel sottosuolo della città, e non sono felici di veder arrivare delle scimmie. Cesare e gli altri due trovano un nastro registrato di Cornelius e Zira, ma gli umani lanciano un'offensiva verso la comunità mista, mentre all'accampamento, Aldus riduce in fin di vita Cornelius, il giovane figlio di Cesare e Lisa. Cosa uscirà da questi tumulti?

Ultimo atto, come dice il titolo italiano, dei film degli anni '70 ispirati al rimanzo di Pierre Boulle. Il regista del film precedente, e lo sceneggiatore dei quattro episodi seguenti al film iniziale, tentano di chiudere idealmente il cerchio, ma lo fanno in maniera goffa (vedi la scena della battaglia tra umani e comunità delle scimmie). Roddy McDowall è ancora Cesare, John Huston è il Legislatore, Claude Akins è il generale Aldus. Si poteva concludere in maniera migliore.

20120228

fifty fifty



50 e 50 - di Jonathan Levine (2012)


Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Giudizio vernacolare: ridé sur cancro un è da tutti


Seattle, Washington USA. Adam ha ventisette anni, non ha la patente di guida perché trova che le automobili siano pericolose. Non beve, non fuma, ricicla tutto. E' una persona posata, calma, divertente con moderazione, equilibrata. Vive in una bella casa, al momento con la bella fidanzata Rachael, che fa la pittrice, e con la quale sta cercando di far progredire la relazione. Non vede spesso i genitori: la madre Diane è sempre troppo apprensiva, mentre il padre Richard, affetto da Alzheimer, ormai non lo riconosce più. Adam lavora come scrittore di programmi radio in una grande stazione della città, insieme all'amico fraterno Kyle, che gli vuole bene più che a un fratello. Da qualche giorno avverte strane fitte alla schiena, e sta facendo degli accertamenti. Finiti gli accertamenti, il dottor Ross, con molto poco tatto, lo informa che ha un cancro alla spina dorsale. Le possibilità di sopravvivere sono del 50%. Entro breve dovrà cominciare la chemioterapia. Adam è incredulo, ma da persona estremamente razionale, affronta i primi passi di questo nuovo cammino con una calma che gli altri stentano a capire. Comincia la chemio, e contemporaneamente inizia a vedere una terapista per un supporto psicologico, anche se la dottoressa, Katherine, è giovane ed inesperta. Rachael, nonostante Adam le dica chiaramente che capirebbe se volesse lasciarlo, decide di rimanere e di prendersi cura di lui; mamma Diane accusa duramente il colpo. Kyle, dopo un iniziale sconforto, tiene duro e arriva addirittura a ridere, scherzare, addirittura ad usare la malattia di Adam per rimorchiare. Si, perché nel frattempo, Rachael, sempre più presa dalla sua vita da pseudo-artista, sta dedicando sempre meno tempo ad Adam, e una sera Kyle, mentre è ad un appuntamento con una commessa di una libreria dove, insieme ad Adam, si è recato per acquistare dei libri che Katherine ha consigliato di leggere (e dove Kyle, appunto, ha usato il "gancio" della malattia dell'amico per intenerire Claire, questa commessa), vede proprio Rachael che sta amoreggiando con un altro.


Di certo non è un capolavoro, questo nuovo film di Levine, che abbiamo conosciuto con All The Boys Love Mandy Lane, prodotto interessante e particolare seppur non perfetto, e che, dicono, abbia proseguito con l'interessante Fa la cosa sbagliata (The Wackness), che cercherò a questo punto di recuperare per parlarvene, ma a me è piaciuto. Un po' per il cast, un po' perché il cancro è una cosa che personalmente mi tocca, e soprattutto, anche se molte cose della sceneggiatura sono prevedibili, è bello, e non comune, riuscire a ridere su un tema del genere. A proposito della sceneggiatura (spoiler alert!), scritta da Will Reiser, si basa sulla sua vera esperienza con il cancro; Reiser, che appare in un cameo al party che Kyle organizza per Adam (è il tizio che dice ad Adam che anche suo zio ha avuto il cancro), è nella realtà amico di Seth Rogen, che in effetti interpreta la parte (di Kyle) che ha avuto nella realtà affrontando il cancro insieme a Reiser. E' proprio Rogen che ha convinto Reiser a scrivere una sceneggiatura sulla sua esperienza. Il film è appunto divertente e a tratti commovente, leggero ma non insulso. Bella la colonna sonora (la scena finale, che sfocia nei titoli di coda, è una chicca per appassionati, e mi è parso un omaggio alla città che fa da sfondo alla storia, Seattle), essenziale la regia, che si lascia andare a qualche particolarità in un paio di casi, belli alcuni personaggi secondari. Cast all'altezza, che recita con naturalezza. Il protagonista Adam è portato sullo schermo da Joseph Gordon-Levitt, che curiosamente nello stesso periodo è nei cinema italiani con un personaggio completamente opposto (Hesher), e che recita quasi sempre sottotraccia, risultando comunque convincente. Gordon-Levitt ha preso il posto di James McAvoy (ringraziato nei titoli di coda) all'ultimo momento. Seth Rogen, come detto, interpreta Kyle, e risulta il solito simpatico faccia da culo. La grande Anjelica Huston è mamma Diane, ed è sempre un piacere vederla. Matt Frewer e Philip Baker Hall, coppia di caratteristi bravissimi, sono Mitch ed Alan. Anna Kendrick (Tra le nuvole) interpreta la timida terapista Katherine, e nonostante non sia uno schianto è sempre carina da veder recitare. Per finire, perdonate ma è una mia debolezza, Bryce Dallas Howard, qui nei panni di Rachael per la sua seconda parte consecutiva da antipatica (dopo la Hilly Holbrook di The Help), è sempre di una bellezza terrificante. Il titolo (che in originale è 50/50, mentre in Italia diventerà 50 e 50), ci dicono i trivia di imdb.com, è uscito da una sua idea, ed ha convinto lo sceneggiatore. Uscita italiana prevista per venerdì 2 marzo. Ultima curiosità, sapete che ogni tanto mi piace soffermarmi su questioni di marketing: le taglines. Quella originale è It takes a pair to beat the odds (ci vuole una coppia per battere le probabilità). Quella italiana è in inglese e diventa piena di melassa: all we need is love. Mah.

20120227

Life During Wartime






Perdona e dimentica - di Todd Solondz (2010)




Giudizio sintetico: da vedere (4/5)
Giudizio vernacolare: inniorante




Qualche anno dopo gli accadimenti di Happiness, la vita delle sorelle Jordan è andata avanti. Joy ha sposato Allen Mellencamp, il molestatore telefonico di Helen, ma nonostante gli sforzi di quest'ultimo, continua a ricadere negli stessi errori. Nel contempo, Joy continua ad essere turbata dal ricordo tangibile dell'ex fidanzato Andy, morto suicida. Trish si è trasferita in Florida ed è andata avanti senza il marito Bill, incarcerato per pedofilia, ed ha cresciuto i tre figli da sola, ma adesso sente che è arrivato il momento e la persona giusta per sposarsi di nuovo. La persona giusta è nientemeno che Harvey Weiner, il padre di Dawn di Welcome to the Dollhouse. Nello stesso periodo, Bill ha finito di scontare la sua pena in carcere, e sta viaggiando per la Florida. Il figlio maggiore Billy è al college e sta facendo la sue prime esperienze di vita da solo, mentre Timmy, il secondo, sta per festeggiare il suo bar mitzvah. Joy si prende un periodo di tempo per stare lontana da Allen, e va a fare visita a Trish, dopo di che si reca in California, dove adesso risiede l'altra sorella, Helen, ormai affermata sceneggiatrice per il cinema, che pare avere una relazione con il famoso attore di nome Keanu.




Solondz, stavolta con l'ausilio di una fotografia sfavillante che sottolinea l'ambientazione in Florida, chiude il cerchio "disegnato" da ben tre suoi film precedenti. Nelle dichiarazioni dell'autore, infatti, Life During Wartime ("l'amore in tempo di guerra", titolo originale, ma per stavolta è apprezzabile anche il titolo italiano Perdona e dimentica, che sottolinea il tema portante del film) è il terzo pezzo della trilogia cominciata con Welcome to the Dollhouse e proseguita con Happiness, ma i più attenti fanno notare che due caratteri qui presenti, nello specifico Harvey e Mark Weiner, sono presenti, oltre che in Welcome to the Dollhouse, anche in Palindromes, film, quindi, che in qualche modo forma un tutt'uno insieme agli altri tre (e del resto, anche lì i temi scottanti che tocca normalmente Solondz sono ben presenti). Detto questo, c'è anche da premettere che, sempre parlando di personaggi, gli stessi sono interpretati da attori diversi, a volte con risultati destabilizzanti (uno su tutti il personaggio di Allen Mellencamp, che in Happiness era interpretato da Philip Seymour Hoffman, mentre qui viene affidato all'ottimo attore di colore Michael Kenneth Williams, l'uomo dalla cicatrice sul viso che abbiamo imparato ad apprezzare con The Wire e, susseguentemente, con Boardwalk Empire). Il succo, però, è lì ed è indiscutibile: l'ennesimo film che, con un umorismo perfino macabro, quantomeno non per tutti i palati, che mette i brividi, con una serie di personaggi che incarnano difetti, paure ed insicurezze all'ordine del giorno, tiene incollati allo schermo con questa atmosfera mista tra divertimento e paura. L'ennesima scena madre, che tanto per cambiare vede protagonisti Bill e Billy Maplewood, stavolta beneficia della faccia di marmo di Ciarán Hinds nei panni di Bill, è una di quelle sequenze che fanno trattenere il fiato allo spettatore. Il dialogo finale tra Timmy Maplewood e Mark Weiner fa da contraltare a quello tra l'ormai (ennesimo) fantasma che perseguita Joy, quello di Allen, e la stessa Joy, e passa la palla del possibile perdono allo spettatore.



Cast come sempre ben diretto, fatto di ottimi caratteristi e qualche sorpresa. Oltre a quelli già citati, Shirley Henderson è Joy, Allison Janney (Juno, American Life) è Trish, Ally Sheedy è Helen, Michael Lerner è Harvey, il giovanissimo ma promettente Dylan Rilay Snyder è Timmy, l'ottimo Chris Marquette (Fanboys) è Billy, Paul Reubens (il "vero" Pee-Wee Herman) è il fantasma di Andy, e Charlotte Rampling, ammiccante come sempre, fa una breve parte nei panni di Jacqueline. La colonna sonora è come sempre interessante. La canzone che dà il titolo alla versione originale del film è suonata da Devendra Banhart sui titoli di coda, mentre durante il film è eseguita da Shirley Henderson stessa nei panni di Joy, il testo è di Solondz, e c'è lo zampino pure di Beck.



Un ennesimo gran film da uno dei migliori registi in circolazione, a mio parere.

20120226

i miei oscar


Facciamola breve, che sono impegnato a "mettermi in pari" con lo Shameless inglese, e stanotte ci sono gli Oscar dell'Academy.
Allora, qui ci sono le nomination.
Miglior film. Io voto The Artist. E sono anche abbastanza convinto che possa vincere.
Miglior regista. Io voto Scorsese per Hugo Cabret. Ma qui la corsa è aperta.
Miglior attore protagonista. Voterei Dujardin (The Artist), ma mi sa che vincerà (e sarei contento) Gary Oldman per La talpa.
Miglior attrice protagonista. Lo dico chiaro: se non vincesse Michelle Williams per My Week with Marilyn (l'ho visto, e mi è piaciuto molto, leggerete la recensione, che ho già scritto, tra una decina di giorni) sarebbe uno scandalo. Anche se Glenn Close (Albert Nobbs) e Meryl Streep (The Iron Lady) sono molto "spinte".
Miglior attore non protagonista. Quattro grandi prove dei vecchi (non mi è piaciuta granché quella di Jonah Hill in L'arte di vincere). Propenderei per Christopher Plummer per Beginners.
Miglior attrice non protagonista. Lotta durissima. Io voterei Jessica Chastain per The Help.
Miglior sceneggiatura non originale. Bisognerebbe aver letto i libri. Propenderei per La talpa.
Miglior sceneggiatura originale. Assolutamente Una separazione. Anche qui, se vince un'altra sceneggiatura sarebbe uno scandalo.
Miglior film in lingua non inglese. Qui il giudizio è falsato dal fatto che non ho visto né Monsieur Lazhar, né In Darkness. A naso lo darei a Bullhead (o Rundskop).
Miglior documentario. Ho visto solo Paradise Lost 3: Purgatory. Ma credo che sarebbe un vincitore degno.

narrazione




Storytelling - di Todd Solondz (2001)



Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)


Giudizio vernacolare: talliente



Fiction, prima parte. Vi e Marcus frequentano l'università, ed in particolar modo un corso di scrittura creativa, entrambi sperano di avere la stoffa dello scrittore. Hanno una storia di sesso che forse è qualcosa di più. Un particolare: Marcus è affetto da una paralisi cerebrale. Il professore di scrittura creativa, Mr. Scott, è un tipo particolarmente esigente, sa essere cattivo. Inoltre, sfrutta il suo potere per rimorchiare la studentesse. Marcus legge un suo racconto in classe, e Mr. Scott lo umilia. Vi non fa niente per prendere la sue difese. Marcus si arrabbia. Vi si pente. Esce, ed incontra Mr. Scott in un bar...



Nonfiction, seconda parte. Toby è un quarantenne parzialmente fallito. Vorrebbe essere un documentarista intelligente, e invece è solo un commesso in un negozio di scarpe, e non ha uno straccio di donna. Nell'estremo tentativo di realizzare qualcosa di interessante, si reca in una scuola superiore ed ottiene il permesso per realizzare alcune interviste per un documentario sui giovani e le loro aspettative. Individua in Scooby un adolescente che gli pare un soggetto perfetto. Sposta l'obiettivo sulla sua famiglia, li convince a farsi riprendere per alcuni giorni: il risultato è agghiacciante.



Sempre più stupefacente il lavoro di Solondz. Questo Storytelling, altro film dalla storia travagliata e dalla distribuzione inesistente, viene cronologicamente dopo il capolavoro Happiness, ma non ha apparentemente nessun legame con esso, anche se, in fondo, sempre del lato nascosto della provincia americana si parla. Il tema però è, come suggerisce il titolo, la narrazione, il racconto, e quanto può essere scorretto raccontare, così come può essere scorretta o corretta la ricezione di quanto ci viene raccontato.


Breve quanto intensa la prima storia, Fiction, con un'altra scena coraggiosa e difficilmente dimenticabile (Mr. Scott che scopa Vi ordinandole di dirgli "nigger, fuck me hard!", così come lo spettatore non potrà rimanere impassibile durante l'altra scena di sesso tra Vi e Marcus), spietata (come tutto il cinema di Solondz, per questo mi piace) e perfettamente articolata, seppur si sviluppi con una durata relativamente breve (anche se più lunga dell'altra), la seconda Nonfiction, con un cast superlativo, che mette curiosità solo a leggerlo, e divinamente diretto.


Protagonista di Fiction una Selma Blair che dimostra di avere le potenzialità per reggere un ruolo importante (se solo gliene dessero la possibilità; a proposito, tornerà nel nuovissimo Solondz, Dark Horse), mentre come detto in Nonfiction c'è un cast di stelle di innegabile bravura. Paul Giamatti è Toby, John Goodman è Marty Livingston, il padre di Scooby, e c'è perfino Franka Potente in una piccola parte, quella dell'editor di Toby.


Finale senza sconti, un altro grande tassello nella carriera di un grande regista/sceneggiatore (anche stavolta, sottolineo).

20120225

felicità




Happiness - di Todd Solondz (1999)


Giudizio sintetico: imperdibile (4,5/5)
Giudizio vernacolare: un campionario di lesionati


New Jersey, USA. Mona e Lenny Jordan sono due anziani coniugi annoiati l'uno dell'altra. Lenny non vuole il divorzio, ma non ne può più di vivere con la moglie. Mona la prende molto male. I due hanno tre figlie grandi. Joy è apparentemente la meno realizzata di tutte. Lavora in un call-center, ma è convinta di essere una cantautrice. Il suo ex boyfriend si suicida, lei molla il lavoro e prova a fare l'insegnante d'inglese in una scuola serale per immigrati, si ritrova a letto con uno dei suoi studenti, un immigrato russo che ha già una famiglia e le ruba quel che le trova in casa. Helen è una scrittrice di successo, bella e sensuale, che nonostante conoscenze famose e continui partner sessuali appetibili, è stranamente attirata da un molestatore telefonico, e si sente vuota dentro. Il molestatore non è altro che il vicino di appartamento, Allen, un insignificante impiegato sessualmente represso e fondamentalmente segaiolo, che a sua volta è l'oggetto del desiderio sessuale di un'altra vicina, l'obesa Kristina, che si scoprirà essere tutt'altro che una cicciona mansueta. La terza sorella è quella che apparentemente ha tutto. Trish è sposata con Bill, psicologo in cura da un altro psicologo, una bella casa e una famiglia numerosa. Tre figli a loro volta: Timmy, Chloe e Billy. Quest'ultimo, il più grande, è alle prese con la masturbazione, alla ricerca della sua prima eiaculazione. Ne parla col padre, che però è turbato da un problema assai più grave. Quando Billy diventa amico, e porta a casa per giocare, il coetaneo Johnny Grasso, il bellissimo ed effeminato figlio del grezzo Joe, l'allenatore della squadra di baseball dei ragazzi, Bill non sa più come frenarsi, e firma la sua condanna.



Capolavoro dell'era moderna cinematografica, Happiness è il terzo lungometraggio di Solondz, e a suo dire si collega direttamente con Fuga dalla scuola media, anche se i collegamenti non sono evidenti. Saranno invece molto più palesi i legami con il seguente Perdona e dimentica, di cui parleremo a breve. La bravura di Solondz, più che nella parte tecnica, che comunque non è affatto malvagia, anzi, sta ovviamente nella stesura di una sceneggiatura ad incastri ed in crescendo, e nel riuscire a mettere in scena un film corale, dove però, rispetti a classici del genere, si va decisamente oltre con i contenuti. Perversione sessuale, e soprattutto, tema che sconvolge per come è trattato, pedofilia, pervadono le oltre due ore (nella versione uncut) di questo film denso, intenso, partecipato da un cast in stato di grazia, che è diventato un cult assoluto, e che lascia sconvolto lo spettatore. Solondz perfeziona inoltre l'uso della musica nei suoi film, inserendo un mix di musica classica (Mozart, Vivaldi), classici easy listening (Mandy di Barry Manilow, All Out of Love degli Air Supply, You Light Up My Life di Joe Brooks) e musica originale (Happiness di Eytan Mirsky cantata da Jane Adams durante il film, e, chicca delle chicche, da Michael Stipe con Rain Phoenix sui titoli di coda), creando anche così dei contrasti che lasciano il segno.


Il cast, dicevo. Tre attori in forma straordinaria. Jane Adams è Joy Jordan, e quando guardate Hung non potete non pensare alla sua prestazione in questo film. Philip Seymour Hoffman è Allen, in una delle interpretazioni che lo ha elevato allo status di grande. Dylan Baker è Bill Maplewood, anche lui in una prestazione stratosferica (la scena della "confessione" al figlio Billy è entrata nell'Olimpo delle scene madri), un attore che purtroppo non è stato sfruttato al meglio nel proseguimento della sua carriera. Impossibile non citare Ben Gazzarra (Lenny Jordan), Louise Lasser (Mona Jordan), Camryn Manheim (Kristina), Cynthia Stevenson (Trish Maplewood), la stupenda Lara Flynn Boyle (Helen Jordan). Bravissimo anche il piccolo (allora) Rufus Read nei panni di Billy Maplewood.


Il defunto Premiere inserì Happiness nella lista Top 25 Most Dangerous Movies. Giusto. Happiness è un film spietato (e divertente, anche se è un divertimento che a volte ti fa sentire in colpa), forte per stomaci forti, e spettatori che non temono di affrontare temi scabrosi ma, purtroppo, attualissimi. Come detto, un capolavoro dell'era moderna. Imprescindibile.

20120224

Welcome to the Dollhouse





Fuga dalla scuola media - di Todd Solondz (1996)



Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)


Giudizio vernacolare: strano



New Jersey. Dawn Wiener è la secondogenita della famiglia, ed è una dodicenne che più sfigata non si può. Dentoni, occhiali spessi, bruttina. Il fratello Mark è un pre-nerd, la sorella più piccola, Missy, è il tesoro dei genitori. Lei, invece, a scuola è ghettizzata, presa continuamente in giro, chiamata con i peggiori appellativi. L'unico amico è Ralphy, un coetaneo già chiaramente gay, e per questo già ghettizzato a sua volta dai loro coetanei, e tiranneggiato da quelli più grandi, come lei, del resto. A Dawn davvero non ne va bene una: nonostante sia timida, insicura, incapace di nuocere a chicchessia, riesce a farsi sospendere e a farsi redarguire continuamente. I genitori paiono incredibilmente insensibili ed incapaci di comprendere il suo dramma. Lei si innamora di Steve, un diciannovenne popolare che entra a far parte della band del fratello, e nel contempo sembra poter legare con Lolita, una coetanea che si autoesclude, dal carattere ribelle, e invece pure lei risulta crudele verso Dawn. Alla fine, Dawn troverà un alleato/complice e pure qualcosa di più proprio in Brandon, pseudo-fidanzato di Lolita, bulletto in erba, che dopo qualche prepotenza annuncia a Dawn che la violenterà alle 16 precise, all'uscita della scuola.



Secondo film del regista ebreo americano Todd Solondz, anche sceneggiatore, dopo l'invisibile Fear, Anxiety & Depression (nel cui cast figurava Stanley Tucci), Welcome to the Dollhouse è un must non fosse altro perché è il primo film di una trilogia particolarissima che Solondz ha portato avanti fino al suo penultimo film Perdona e dimentica del 2009 (alla fine del 2011 ha realizzato Dark Horse, che ancora sta girando i festival e cercando distribuzione). Sono andato a rivedermelo per raccontarvi il grosso della sua filmografia, perché questo regista è uno dei più spietati autori statunitensi, senza peli sulla lingua, senza timori, senza freni. In questo film è ancora abbastanza con le briglie tirate, ma seppur non eccelso, anche questo Fuga dalla scuola media (come sempre, una pessima traduzione italiana) vi lascerà un ricordo pressoché indelebile, per il suo mix di personaggi perdenti, weird, linguaggio sboccatissimo, umorismo asimmetrico, sessuale e nero, un pizzico di John Waters, e lo sguardo caustico sulla mediocrità ma soprattutto sull'orrore della profonda provincia americana, un po' come quello di Lynch con Twin Peaks ma con molto meno fascino glamour e più sfrontatezza. Una sfilza di facce difficili da dimenticare, una su tutte quella dell'allora esordiente Heather Matarazzo nei panni della protagonista Dawn (nessuno mi toglierà dalla testa che il personaggio di Olive in Little Miss Sunshine sia totalmente ispirato a lei), l'allora tamarrissimo Eric Mabius (Steve Rodgers), e l'ottimo (già allora) Brendan Sexton III (Brandon). Da recuperare.

20120223

speciale


Come detto nei commenti di Fear, Anxiety & Depression, dato che le recensioni sono quasi sempre "random", che nei mesi scorsi mi sono rivisto la sua filmografia per parlarvene (perché mi sono reso conto che vi avevo parlato solo di uno dei suoi film, Palindromes), che prima o poi riuscirò a trovare il suo nuovo Dark Horse, e che considero Todd Solondz uno dei registi più interessanti dei nostri tempi (nonostante la faccia, vedi foto), ecco con quello di oggi, e con quelle dei prossimi giorni, una visione spero piuttosto completa del lavoro di questo regista di Newark, New Jersey.
Quindi domani leggerete di Fuga dalla scuola media (Welcome to the Dollhouse), dopo domani del suo capolavoro Happiness, domenica di Storytelling, e lunedì di Perdona e dimentica.
Sperando di avevi fatto cosa gradita.

paura, ansia e depressione


Fear, Anxiety & Depression - di Todd Solondz (1989)


Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Giudizio vernacolare: in che stato lulì dé



Ira Ellis è un giovane aspirante scrittore per il teatro, profondo ammiratore di Samuel Beckett, frustrato dal suo rapporto con i genitori, con poco carattere, sfigato con le donne. Il suo unico amico, Jack, è un aspirante artista concettuale, pieno di sé, che lo tratta con sufficienza e non gli è mai di grande aiuto. La fidanzata di Jack è un'aspirante attrice, che però non viene mai richiamata dopo i provini. Ira casualmente conosce Sharon, che gli si attacca addosso senza che in realtà Ira voglia più di tanto; riesce finalmente a mettere in scena una sua pièce, che la critica distrugge, mettendo in luce i suoi conflitti irrisolti. In una spirale di sfiga, Ira si ritrova i suoi genitori con il fiato sul suo collo, non sa come liberarsi di Sharon, conosce Junk, un'altra aspirante artista stramba ma attraente, della quale si innamora immediatamente, e si imbatte in Conny, un vecchio compagno di liceo senza la minima sensibilità artistica, che sta avendo successo proprio come autore di teatro. E il peggio deve ancora venire...



Debutto di Solondz poco conosciuto, e senza dubbio con uno stile ancora da mettere a punto, che tra l'altro deve moltissimo a Woody Allen, ma che nonostante sia prevedibile, fa piuttosto ridere, quindi diverte, e ironizza in modo anche forte sul mondo "artistico" (teatro, arte, cinema) e sulle sue idiosincrasie. Molto "alla Woody Allen" anche la prova attoriale dello stesso Solondz, che interpreta il protagonista Ira Ellis; buone anche le prove di Jane Hamper (Junk) e di Jill Wisoff (Sharon). Strepitoso, come sempre, Stanley Tucci, nei panni del tamarrissimo Conny.

Per curiosi, ma comunque interessante.

20120222

le stelle sono indifferenti all'astronomia



The Stars Are Indifferent To Astronomy - Nada Surf (2012)






Inutile che mi metta a (ri)farvi il pippone su quanto una marea di band più o meno emo o indie o alternative rock debbano al terzetto newyorkese. E' così e basta. Dopo If I Had A Hi-Fi, disco di cover del 2010, e ad ormai quattro anni di distanza da Lucky, ecco il nuovo disco di una band che ha debuttato ormai vent'anni fa, esordendo nel 1996 con High/Low. Probabilmente commuove solo chi ha una certa età, sentire una band di quasi cinquantenni che suona come un gruppo di teenager, riflettendo su come vedeva la vita quando era davvero un post-adolescente. Però, per ricevere una certa dose di piacere dalla musica, ci sono altre cose che contano. Saper scrivere le canzoni, saper suonare, toccare gentilmente il cuore delle persone (oppure travolgerle con la violenza di uno schiacciasassi, ma questo è un altro caso). Sono cose che i Nada Surf sanno ancora fare, oggi, con estrema semplicità, e questo, almeno in alcuni momenti, è una cosa che apprezzo. Se siete stanchi di troppe complicazioni, perfino nella musica, prendete The Stars Are Indifferent To Astronomy, e mettete su che ne so, Looking Through, e dimenticate per un momento lo spread tra i BOT e i Bund.

20120221

Conquest of the Planet of the Apes



1999 - Conquista della Terra - di J. Lee Thompson (1972)


Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Giudizio vernacolare: dai e dai...


Siamo, nonostante il titolo italiano, nel 1991. Cesare, il figlio di Cornelius e Zira, ha ormai vent'anni, ed è rimasto con Armando ed il suo circo: lo scambio (spoiler alert, anche se a proposito del film precedente) con un cucciolo di scimmia non parlante, è avvenuto di comune accordo tra Zira e Armando, nel corso del film precedente, Fuga dal pianeta delle scimmie. In questo modo, Cesare è sopravvissuto. Le cose sulla Terra, nel frattempo, sono molto cambiate: un'epidemia ha sterminato cani e gatti, e la scelta preferenziale come animali da compagnia, è caduta sulle scimmie. La convenienza ha poi voluto che le scimmie, simili agli umani, oltre che per la semplice compagnia, siano usate come verie e proprie schiave. Le scimmie, però, essendo trattate sempre peggio, iniziano a dare qualche segno di resistenza. Durante una passeggiata in una città nord americana, Cesare, in compagnia di Armando, non sopportando la visione di maltrattamenti di suoi simili, inveisce contro la polizia. Armando si prende la colpa, ma il sospetto che esista una scimmia in grado di parlare riporta d'attualità la possibilità, appunto, dello scambio di cui sopra, in ambienti politici. Cesare è costretto a fuggire, e a "mimetizzarsi" insieme a scimmie "da compagnia", un carico in arrivo dal Borneo, che viene messo all'asta. Finisce al servizio del Governatore Breck, uno schiavista che sospetta dell'esistenza di un esemplare parlante. Cesare scopre che Armando è morto sotto tortura per difenderlo, ed inizia ad organizzare la resistenza scimmiesca; il Governatore Breck risale a lui tramite la scoperta di un'anomalia nel carico al quale Cesare si è mescolato, e tenta di giustiziarlo. Ma le scimmie hanno sorprendentemente, degli alleati tra gli umani...


Non ai livelli del capostipite, ma davvero interessante e dark questo terzo sequel del pianeta delle scimmie. Sceneggiatura dinamica e stringente, finale apocalittico. Buone le prove del cast: Roddy McDowall, dopo aver interpretato Cornelius nei film precedenti, adesso è nei panni di Cesare, Don Murray è il Governatore Breck, Hari Rhodes (anche in Radici) è MacDonald, Ricardo Montalban ritorna nei panni di Armando. Regista è l'inglese J. Lee Thompson (I cannoni di Navarone), che dimostra di essere a suo agio con l'azione.

20120220

Sherlock is back


Sherlock - di Mark Gatiss & Steven Moffatt - Stagione 2 (3 episodi; BBC) - 2012

Ritorna più aggressivo (a livello cerebrale, sia chiaro: in una battuta di questa mini-serie, se non ricordo male, qualcuno pronuncia la tagline di The Big Bang Theory, "smart is the new sexy") che mai lo Sherlock Holmes firmato BBC: 3 episodi da un'ora e mezzo andati in onda lo scorso mese, visti da una media di oltre 10 milioni di persone. Nel primo episodio, A Scandal in Belgravia, Sherlock e Watson hanno a che fare con Irene Adler, una dominatrix (o mistress) con clientela di altissimo livello (Casa Reale compresa). Trama come sempre complessa, ma la cosa interessante è che Irene per la prima volta, mette in discussione la sessualità di Sherlock. Gustoso. In The Hounds of Baskerville, il secondo episodio, il duo investigativo viene ingaggiato da un giovane apparentemente instabile, per investigare su strani episodi che avvengono nelle vicinanze, in un sito gestito dal Ministero della Difesa. Decisamente il mio preferito di questa mini-serie, ha un intreccio avvincente che spiazza in continuazione, e come sempre grande humour inglese. L'episodio conclusivo, The Reichenbach Fall, rimette in pista alla grande l'arcinemico Moriarty, che apre l'episodio con tre colpi spettacolari, dopo i quali si lascia catturare, e nel finale tende un trappolone a Sherlock, ormai mito della stampa, fino ad un classico finale a sopresa.
Scoppiettante, ritmato discretamente, intelligente, ammiccante, coinvolgente, recitato in maniera ottima, il duo Benedict Cumberbatch (Sherlock) / Martin Freeman (Watson) funziona alla grande, le regie sono molto dinamiche. La terza mini-serie, strettamente legata alla fine della seconda, dovrebbe essere pronta prima della fine del 2012.

20120219

The Ides of March


Le idi di marzo - di George Clooney (2011)

Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: nulla di novo sotto 'r sole

Stephen Meyers è un giovane idealista, che fa parte dello staff politico del Governatore (democratico, supponiamo) Mike Morris, che sta partecipando alla corsa delle primarie del suo partito, per avere il posto per correre alla presidenza degli Stati Uniti d'America. Meyers è il numero due dello staff, dopo il boss/guida Paul Zara, più esperto e scafato, ma Meyers è giovane, brillante, fa un ottimo lavoro di ghost writing e sa come intercettare i consensi. Lavora così bene anche perché crede ciecamente in Morris. Anche Mike è un uomo, fatto di carne. Da una parte, anzi dall'altra, Tom Duffy, il capo dello staff dell'altro candidato democratico in corsa per le primarie, il Senatore Pullman, lo lusinga con un'offerta per cambiare sponda, lui inizialmente chiama Zara per metterlo al corrente, questi non risponde, e dopo aver parlato con Duffy (che gli dice che il suo idealismo è mal riposto, in un mondo come quello), quando Zara lo ricontatta, non gli dice la verità; poi, quando Molly Stearns, una stagista che lavora per Morris, con la quale aveva già lavorato insieme ma della quale non ricorda nulla, lo invita ad uscire, Mike ne rimane affascinato, e i due fanno sesso. Dopo poco tempo, Mike scopre che qualcosa non va. Qualcosa di molto grave.

A parte la parentesi leggera (e deludente) di Leatherheads, Clooney regista pare che abbia un'idea molto molto chiara su che tipo di cinema vuole dirigere: Confessioni di una mente pericolosa e Good Night, and Good Luck sono abbastanza chiari. Esseri umani intelligenti e con dei valori, che vengono trascinati in situazioni losche. (Anche) Questa volta c'è la politica di mezzo, ma probabilmente stavolta è affrontata in maniera diretta, dal di dentro. Il film è bello, interessante, ritmato, ben diretto e ben recitato. E ci mancherebbe: Ryan Gosling (Stephen Meyers), George Clooney stesso (Governatore Mike Morris), Philip Seymour Hoffman (Paul Zara), Paul Giamatti (Tom Duffy), Evan Rachel Wood (Molly Stearns) e la sempre splendida Marisa Tomei nei panni della giornalista politica d'assalto Ida Horowicz. What a cast!
Niente di nuovo sotto il sole, ma ogni tanto è bene ricordare che "la più grande democrazia del mondo", come qualcuno si ostina a definirla, ha le sue zone d'ombra.

20120218

Generation A


Generazione A - di Douglas Coupland (2010)

Per riuscire ad affrontare quella rivelazione, scelsi di utilizzare lo strumento principe in natura per l'autoconservazione: decisi di sbattermene i coglioni. Zack.

In un futuro molto prossimo, le api e molti altri insetti sono scomparse, sparite, estinte, cancellate. Contemporaneamente, un medicinale è diventato fonte di dipendenza accettata: si chiama Solon, e cancella l'ansia per il futuro, rendendo il soggetto che lo assume più solitario, tendente ad isolarsi. Nello spazio di poche ore, cinque persone, in differenti parti del Pianeta, vengono punte da api. Significherà qualcosa? Come sia, le cinque persone, Zack Lammle, un giovane coltivatore di mais dell'Iowa (punto mentre stava disegnando un pene enorme in uno dei suoi campi), Samantha Tolliver, una ragazza neozelandese punta mentre stava facendo un Earth Sandwich* con un'altra ragazza in Spagna (*questa dovete leggervela nel libro), Julien Picard, un giovane francese, studente fuori corso, dipendente da World of Warcraft, Diana Beaton, canadese dell'Ontario con la sindrome di Tourette e un recente litigio col prete della sua chiesa (del quale era innamorata), e Harj Vetharanayan, un abitante dello Sri Lanka che pochi anni prima ha perso l'intera famiglia in uno tsunami, e che lavora in un call center di Abercrombie & Fitch, vengono immediatamente messe in isolamento per un mese, senza poter avere contatti con nessuno, al di fuori di una voce che è modulata sulle richieste di ognuno dai cinque personaggi. Dopo di che...

Rendersi conto di essere innamorata fu doloroso, e poche cose fanno sentire soli a questo mondo come l'amore non corrisposto. Diana.

Probabilmente ve l'ho già detto, ma il canadese Coupland fa parte di quegli scrittori che, probabilmente con un po' di supponenza, considero far parte della mia generazione. Non intendo rifilarvi il pippone sull'autore che ha "inventato" la definizione Generazione X (proprio Coupland, col suo folgorante debutto del 1991), e vi invito inoltre a non tener conto del fatto che questo libro viene presentato come l'ideale seguito di quel libro (e introdotto da un estratto di un discorso di Kurt Vonnegut, che usa quella definizione - quella della X - e conia questa - quella della A -). Vi riferisco questo fatto, per avvertirvi che i miei giudizi sugli scrittori che sento in qualche modo a me vicini, sono sempre falsati, forse per troppo amore. Fatto sta che Coupland, che a differenza di altri ho seguito a fasi alterne, e che oltre a scrivere libri caustici e brillanti (Generazione X, Microservi, La sacra famiglia), è riuscito a scrivere cose bellissime e commoventi, senza perdere la sua lucidità spietata, come Fidanzata in coma, un libro che ancora oggi mi commuove solo a pensarci. E fino ad ora, non mi ha mai "tradito": ogni suo lavoro mi sembra fresco, rigenerante, intenso, pieno d'umanità e, al tempo stesso, spietato con i problemi di quella che comunemente chiamiamo "società occidentale". Stesso discorso per questo Generazione A, appassionante, brillante, apocalittico e post-qualcosa, come quasi tutti i libri dell'autore canadese, visionario e, al tempo stesso profondamente omaggiante alla bellezza e alla forza della letteratura, dei libri e dell'azione di leggere. Un autore che sembra non smettere di maturare.

In genere la storia delle nostre vite finisce molto prima della morte e passiamo gli anni del tramonto a scaldarci le mani alle braci della memoria. Harj.

20120217

30 minuti o anche meno


30 Minutes or Less - di Ruben Fleischer (2012)

Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Giudizio vernacolare: mah

Michigan, cittadina di provincia. Nick è il fattorino di una pizzeria che promette consegne in 30 minuti o anche meno; al contrario, le pizze saranno gratis. Il suo miglior amico è Chet, ma Nick è innamorato di sua sorella Kate, e non trova il coraggio per dirlo né a lei, né a lui. Nel frattempo, nella stessa cittadina, Dwayne, un bamboccione di oltre trent'anni, completamente succube del padre, ex marine, per tutti The Major, sta seriamente pensando di farlo fuori. Il padre, che anni prima ha vinto la lotteria e quindi possiede un bel mucchio di soldi, lo tratta come un ritardato. Insieme all'amico, altrettanto poco vispo, Travis, mettono a punto un piano: ingaggiano, tramite una spogliarellista (in realtà, quella che ha piantato nel cervello bacato di Dwayne il baco dell'omicidio), un killer che faccia fuori il padre di Dwayne. Ci vogliono 100mila dollari. Come recuperarli? Semplice. Rapiscono Nick, gli piazzano un giubbotto esplosivo addosso, lo costringono a rapinare una banca e recuperare i 100mila. Andrà tutto liscio?

Il regista di Benvenuti a Zombieland continua a non convincermi. Anzi, questo film è probabilmente meno convincente del precedente: almeno in Zombieland c'è questo senso del grottesco accettabile, mentre in questo 30 Minutes non si capisce bene dove il regista, e lo sceneggiatore Michael Diliberti, vorrebbero andare a parare. I personaggi di Dwayne, Travis e The Major sono davvero difficili da credere, la storia tra Nick e Kate è tirata per i capelli. Insomma, certamente qualche risata si fa, ma il film è talmente debole, che ci si può permettere perfino di pensare ad altro.
Il film è uscito il 4 gennaio 2012 direttamente in dvd.

20120216

guerriero


Warrior - di Gavin O' Connor (2011)



Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Giudizio vernacolare: andatici cor caschetto a vedello


La famiglia Conlon sta cercando di mettersi alle spalle un passato che definire burrascoso è poco. Tommy, il fratello più piccolo, una volta grande promessa della lotta, torna dall'Iraq all'improvviso, e pur facendosi chiamare Reardon, col cognome della madre, va a cercare il padre, Paddy, anche lui ex marine, che anni prima allenava entrambe i fratelli con metodi poco ortodossi (da marine). Poi, qualcosa è accaduto, Tommy è partito con la madre, malata terminale, mentre Brendan, il fratello maggiore, è rimasto col padre, alcolizzato, per rimanere vicino alla fidanzata di allora, Tess, che adesso è diventata sua moglie, e madre delle sue figlie. Tommy si iscrive ad una palestra nella quale si allena Mad Dog, un lottatore abbastanza quotato, e lo stende da sparring partner, diventando un fenomeno attraverso youtube, venendo riconosciuto perfino da alcuni commilitoni in Iraq, per i quali è un eroe. Brendan, da sempre meno dotato, e messo da parte anche dal padre, fattosi responsabile, è diventato un insegnante amatissimo dai suoi alunni; ma nonostante tutti i suoi sforzi, uniti a quelli della moglie Tess, non naviga in buone acque, finanziariamente parlando. Cerca un altro lavoro, ma la cosa più semplice è lottare di nuovo, in categorie locali. I soldi sono facili, ma questo impegno gli causa una sospensione dall'insegnamento. Sei mesi durante i quali si iscrive nella palestra del suo vecchio amico e allenatore Frank Campana. Entrambi i fratelli, per ragioni diverse, vogliono iscriversi a Sparta, una competizione spietata ad eliminazione diretta, alla quale saranno ammessi solo 16 partecipanti, per stabilire chi sia il miglior lottatore al mondo. In palio, 5 milioni di dollari.


Film ad alta intensità fisica ed emozionale, questo Warrior, a cura del regista che in precedenza aveva diretto Edward Norton e Colin Farrell in Pride and Glory. Diciamocelo, i film sul combattimento, sono un po' tutti figli di Rocky, e seguono un po' tutti un canovaccio visto e rivisto. O' Connor, anche sceneggiatore insieme ad Anthony Tambakis e Cliff Dorfman, prova a complicare un po' le cose, tessendo una tela abbastanza ramificata e lasciando qualche piccola ombra, permettendo poi che i tre attori protagonisti (anche se Nick Nolte è andato in nomination come attore non protagonista) drammatizzino il tutto. I combattimenti sono rapidi e spietati, ma è interessante la diversificazione che viene fatta tra lo stile di lotta di Tommy (impetuoso e tutto fisico, rabbioso), e quello di Brendan (tecnico, fatto di attese, riflessivo). Colonna sonora tendente al rock duro, durata un po' eccessiva, ottima prova, oltre a quella di Nolte, per Joel Edgerton (Brendan, già visto con piacere in Animal Kingdom), ma a mio parere eccezionale quella di Tom Hardy (Tommy), un attore che più vedo e più apprezzo. Film vibrante.

20120215

mezzanotte a Parigi


Midnight in Paris - di Woody Allen (2011)


Giudizio sintetico: si può vedere, ma anche no (2,5/5)

Giudizio vernacolare: leggerino



Gil, statunitense, scrittore mancato, amante dei classici e affascinato dalla cultura europea, ma attualmente sceneggiatore di discutibile livello, sta per sposare la sua fidanzata Inez, un classico esempio di statunitense middle-high class, figlia di due genitori discretamente ricchi e spocchiosi, abbastanza di destra e mediamente ignoranti. Sono in viaggio pre-matrimoniale, proprio insieme ai suoceri di Gil, e naturalmente, le cose che interessano a Gil sono l'opposto di quelle che interessano a Inez. A metterci il carico da undici, c'è pure l'incontro con Paul e Carol, una coppia di amici di Inez; Paul è un personaggio particolarmente supponente, esperto di tutto, Inez ne è affascinata mentre Gil prova repulsione. Stanco e frustrato, si prende un momento per sé, e mentre è in giro da solo per Parigi, viene invitato a salire su una macchina d'epoca da una comitiva che sembra proprio uscire da un tempo diverso. Sono Francis Scott Fitzgerald e sua moglie Zelda, e Gil si ritrova negli anni venti.



Ci sono diverse ragioni per parlare male di questo film. Però, Woody è un po' come uno zio anziano (dovrebbe ringraziarmi per non avergli dato del nonno, tra l'altro), e in fondo ci sta simpatico. Si capisce benissimo che questo film è un atto d'amore, una specie di realizzazione di un omaggio a tutto quello che lui ama profondamente, sullo sfondo di uno dei tanti luoghi che, alla stessa maniera, ama e rispetta: naturalmente, alla maniera americana. Riesce perfino ad infilarci una morale educativa: una specie di "l'erba del vicino è sempre più verde", riferita però alle epoche storiche. Ci strappa qualche risata, ma i bei tempi sono lontani.

Ci descrive una Parigi da cartolina, esattamente come la vede uno statunitense, e fa recitare i personaggi principali in modo da non poterli giudicare, perché macchiettistici. Però Marion Cotillard (Adriana) è sempre stupenda, e Adrien Brody che fa Salvador Dalì fissato coi rinoceronti è senza prezzo.

Quattro candidature agli Oscar. Non sono solo ad essere troppo buono con Woody.

20120214

non lasciare nulla al caso




A chi interessasse, dopo la première dell'11 dicembre, è partita su HBO a pieno ritmo Luck. Serie ambientata nel mondo delle corse dei cavalli e delle scommesse, da un'idea di David Milch (Deadwood) prodotta da Michael Mann (che dirige anche il pilot), si apre con Splitting the Atom dei Massive Attack (e prosegue musicalmente alla grande, leggi Sigur Ròs), e nonostante l'incedere lento e il sapore un po' retrò, sfoggia un cast d'eccezione: Dustin Hoffman, Dennis Farina (indimenticabile in Get Shorty), John Ortiz (Carlito's Way), Kevin Dunn, Richard Kind (A Serious Man), Ian Hart (Terra e libertà), Nick Nolte. In questi primi episodi poco spazio a caratteri femminili, nonostante ci siano le brave Jill Hennessy (Crossing Jordan) e Kerry Condon (The Last Station). Siamo solo all'episodio 3, così non rimanete indietro.

Pina Bausch


Pina - di Wim Wenders (2011)

Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: perzonaggione

Philippine Bausch detta Pina, è stata una delle coreografe mondiali di maggior fama. Visionaria e innovativa, tenace e quasi zen, sostenitrice del Tanztheater, è stata amata, rispettata, seguita, ed è morta di cancro nel 2009, a 68 anni. Il connazionale Wim Wenders, di lei amico da dopo aver assistito al suo Café Muller nel 1985, rifletteva da anni insieme alla coreografa sulla possibilità di fare un film insieme. Wenders, con l'avvento e la messa a punto del 3D, ha capito che era la tecnologia giusta per far conoscere, anche a chi lo ignorava, il lavoro di Pina.

Dopo molti anni di lavori tutto sommato mediocri, Wenders ha avuto davvero una buona idea, e l'ha realizzata ottimamente. Sono uno di quelli che conosceva Pina Bausch solo di nome e di fama, e sono andato a vedere questo film solo per riempire due ore: a volte le sorprese che escono da casualità come queste, sono le migliori.
Wenders fa parlare praticamente tutti i componenti della compagnia di Pina, senza fretta, un po' alla volta, sul loro rapporto personale con la grande coreografa, sui suoi lavori, su come riuscisse a tirare fuori da loro il meglio, come riuscisse ad estirpare da loro le paure. Alterna le interviste (che in realtà sono più dei monologhi, su primi piani muti, dei ballerini) con estratti dei lavori della Bausch, mettendo in scena con scenografie sontuose, anche in esterno, e sfruttando in pieno la potenza del 3D. Un lavoro di grande impatto, che si è guadagnato la nomination all'Oscar nella categoria documentari.

20120213

richiesta di integrazione


Margin Call - di J.C. Chandor (2011)

Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: vesta grisi stori'amente è un po' come l'olocausto per ir se'olo passato

Siamo presumibilmente nel 2008, nello sfavillante distretto di Wall Street. Nella sede di una importante finanziaria, è tempo di ristrutturazione. Le "truppe" impiegatizie che annunciano i licenziamenti arrivano veloci, e velocemente si disfanno degli esuberi. Stavolta è Eric Dale che cade: un senior analyst dei rischi piuttosto rispettato da tutti. Peter Sullivan, un ingegnere aerospaziale prestato alla finanza, ha imparato molto da lui, e lo accompagna fino alla porta. Eric lo saluta, e gli dà una chiavetta USB, raccomandandosi di dargli un'occhiata alla svelta, era un lavoro che ha dovuto lasciare a metà, ed è importante. Mentre tutti se ne vanno a casa, Peter rimane e, a notte inoltrata, porta a termine il lavoro. Chiama per primo l'amico e collega Seth. La cosa è davvero tremenda: mettono al corrente il superiore, Will Emerson, che non appena mette a fuoco la gravità enorme della cosa, sveglia il capo Sam Rogers, che a sua volta, allarma tutta la dirigenza. In pratica, sono sull'orlo della bancarotta, e stanno vendendo titoli spazzatura. Durerà pochissimo. L'Amministratore Delegato Jared Cohen convoca i legali Sarah Robertson e Ramesh Shah, e, sempre nel giro della stessa notte, arriva l'intero Consiglio di Amministrazione, compreso il super capo John Tuld. E si decide...

Così come succede ogni tanto (qualche anno fa accadde con lo sconosciuto, ma eccezionale, In The Loop), ci sono dei film poco conosciuti (o completamente sconosciuti in Italia), che arrivano, come in questo caso, alla candidatura all'Oscar per la miglior sceneggiatura. Effettivamente, oltre al cast ricchissimo e all'attualità del soggetto, questo Margin Call (termine molto tecnico per descrivere una situazione identica a quella che si verifica nel film) si sviluppa in maniera egregia e dinamica, per essere un film sulla finanza "d'assalto". Quindi, un po' The Social Network, un po' Too Big To Fail ma "anonimo", questo debutto (anche da sceneggiatore) per il figlio di un operatore Merril Lynch (il padre ci ha lavorato oltre trent'anni) risulta più che promettente, e ci ricorda, tristemente ed ancora una volta, come se ce ne fosse bisogno, che la colpa è si, di squali come quelli interpretati da Jeremy Irons (parte offerta in principio a Ben Kingsley), a proposito, finalmente una parte decente negli ultimi tempi per Irons, ma in parte è pure colpa nostra: ascoltate quello che dice il personaggio di uno straordinario Paul Bettany (Will Emerson), mentre cerca di spiegare come finirà a Seth Bregman (interpretato da Penn Badgley). Nel cast anche un sempre ottimo Kevin Spacey (Sam Rogers), Zachary Quinto (Peter Sullivan), Simon Baker (Jared Cohen), il grande Stanley Tucci (Eric Dale), una tesissima Demi Moore (Sarah Robertson; la parte doveva essere di Carla Gugino, che come Kingsley ha dovuto rifiutare per altri impegni, ma che è presente nei ringraziamenti).

20120212

I Will Always Love You


Ieri notte è morta Whitney Houston. Aveva 48 anni. Ok, ha vissuto una ventina d'anni di più della Winehouse, ma di sicuro non è morta di vecchiaia. Sarò un'anima semplice (anzi sempliciotta), ma a me 'ste cose colpiscono più di altre morti ben più eccellenti. E vi vado a ripetere degli orribili luoghi comuni: la Houston aveva tutto. Un grande talento, una voce eccezionale, era una donna bellissima, aveva venduto milioni di dischi per cui aveva anche un sacco di soldi. Prima ha scelto un marito che la gonfiava di botte, poi (o contemporaneamente) è rimasta impelagata con le droghe.
Minchia, ma che cazzo c'ha la gente nel cervello? L'omino del cervello (rotto), come Pasquale del Grande Fratello?

Edit: cazzo, ora è diventato memorabile (vedi Repubblica) anche The Bodyguard. Un po' di contegno.

Jane


Jane Eyre - di Cary Fukunaga (2011)

Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: 'carattere dé

Nell'Inghilterra Vittoriana, Jane Eyre è una piccola orfana che, alla morte dei genitori, viene presa in casa Reed, presso la zia, Mrs. Reed, che non la ama, e lascia che la piccola sia vessata dai figli. Dopo qualche tempo, la zia non perde occasione per rinchiudere Jane in un collegio, pieno di bambine senza famiglia, dove la vita è particolarmente dura, piena di regole e di lavoro intenso. D'altra parte però, alle ragazze viene data un'attenta istruzione: l'obiettivo è di farle diventare donne perfette da sposare, unica prospettiva contemplata all'epoca per una donna, ma Jane rivolta l'aspettativa, assorbendo tutta l'istruzione, superando la durezza dell'istituzione e perfino la tragedia della migliore amica che muore di tubercolosi, integrandosi perfettamente e divenendo lei stessa una delle insegnanti. Finché non viene scelta per fare da istitutrice ad Adele, la figlia adottiva di Mr. Rochester, che lei non conosce ancora, nella sua dimora di Thornfield Hall. Jane accetta di buon grado l'ennesima possibilità di rendersi indipendente e di lasciarsi alle spalle il suo passato, ed ottiene buoni risultati con Adele, finché non conosce Mr. Rochester. Inizialmente scontroso, l'uomo, ricco e potente, costantemente in procinto di sposarsi con Blanche Ingram, donna di famiglia altrettanto altolocata, si rivela profondamente interessato a Jane, e finalmente innamorato, al punto di volerla sposare. Ma la cosa si rivela impossibile: Rochester è già sposato, e nasconde un terribile segreto in una stanza chiusa di Thornfield Hall.

Se Jane Eyre, il libro di Charlotte Bronte, ha avuto decine e decine di adattamenti televisivi e cinematografici, influenzando pure la letteratura, un motivo ci sarà. La storia della Bronte descrive un personaggio fortissimo, di grande valore e di forti valori, praticamente rivoluzionario, che incarna una sorta di femminismo moderato e intelligente, equilibrato ma, nell'epoca vittoriana, sconvolgente e destabilizzante. Difficile dare al film un voto più alto, dato l'abuso che si è fatto di questa storia dal 1910 in poi, ma vi assicuro che la versione in questione è assolutamente meritevole di considerazione. La fotografia è "brumosa" quanto ci si aspetta, spesso tendente all'oscurità quando si è negli interni, i movimenti di macchina sono corretti, essenziali e funzionali. La storia viene racchiusa in un flashback (l'azione comincia con Jane che vaga sotto la pioggia, e viene raccolta esanime da St. John e le sorelle), viene racchiusa in due ore assolutamente non pesanti, e senza dilungarsi troppo o usare espedienti, il regista lascia tutta la caratterizzazione della figura principale a Mia Wasikowska (Jane Eyre), un'attrice che a 22 anni ci ha già messo all'angolo, privandoci di ulteriori aggettivi per descriverla: è davvero straordinaria. Una buona parte del lavoro grava pure sulle spalle (larghe abbastanza) di Michael Fassbender (Rochester): ribadisco che secondo me dà il meglio in parti maggiormente fisiche, ma c'è da dire che stavolta se la cava molto bene. Come dice correttamente Exit, l'alchimia tra i due funziona a meraviglia. Nel cast figurano anche Jamie Bell (St. John), una irriconoscibile Sally Hawkins (Mrs. Reed), Judi Dench (Mrs. Fairfax), Imogen Poots (Blanche Ingram). Apparizione fugace per Valentina Cervi (è Bertha Mason), musiche del pisano Dario Marianelli, già Oscar per Espiazione.
Film realizzato ottimamente, e realmente emozionante. Se siete curiosi e bravi con l'inglese, leggetevi la recensione di Roger Ebert e la sua similitudine goth-vampiresca.

20120211

paradiso perduto


Paradise Lost 3: Purgatory - di Joe Berlinger e Bruce Sinofsky (2011)

Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: boia che storia!

Qualcuno di voi saprà chi sono i tre di West Memphis (Arkansas). Io non lo sapevo fino a che, nella quarta stagione di Californication, nella dichiarazione finale a suo favore di Hank Moody, lo stesso Moody li cita urlando di liberarli. Essendo internet un pozzo di informazioni, è facile trovarne diverse. Ma se volete capire qualcosa di più, anche del sistema legale statunitense, che ha i suoi problemi come li abbiamo in Italia, questo documentario, che è nella cinquina dei nominati per il miglior documentario, vi aiuterà senz'altro. I due registi, Joe Berlinger e Bruce Sinofsky, che lavorano spesso insieme, insieme hanno diretto Some Kind of Monster sui Metallica, ottimo lavoro, debuttarono nel 1992 con Brother's Keeper, occupandosi quindi già di un omicidio, ma soprattutto avevano già realizzato Paradise Lost: The Child Murders at Robin Hood Hills, documentario che sollevò l'attenzione sul caso (e segnò il debutto dei Metallica, che per la prima volta permisero di usare la loro musica per un documentario, e quindi segnò l'inizio della lunga collaborazione tra i registi e la band), e Paradise Lost 2: Revelations, documentari che mossero molte persone, famose e non, e portarono alla fondazione di un gruppo di supporto a favore di Damien Echols, Jason Baldwin e Jessie Misskelley Jr. (all'epoca 18, 16 e 17 anni), imprigionati pochi mesi dopo il ritrovamento dei corpi senza vita di Stevie Edward Branch, Christopher Byers e Michael Moore, in un bosco vicino alla cittadina, nudi, legati e parzialmente mutilati. I tre giovani furono accusati del terribile triplice omicidio, più che altro sulla base della loro apparenza (amavano il rock, Echols soprattutto vestiva sempre di nero, Baldwin era ritratto spesso con una t-shirt dei Metallica nelle foto sui giornali, e Misskelley, un ragazzo un po' "lento", li seguiva sempre) e di alcuni sospetti di satanismo. All'epoca del processo, a Misskelley, dopo 14 ore di interrogatorio (senza alcun testimone), fu estorta una confessione, risultata completamente falsa, che ammetteva in pratica qualsiasi cosa il poliziotto gli chiedesse. Echols, l'unico maggiorenne, fu condannato al braccio della morte in attesa di esecuzione (la sua ragazza di allora era incinta all'epoca), e gli altri due all'ergastolo.
Il documentario in questione, realizzato con mano sapiente e montato in modo da ottenere un ritmo incessante, utilizza ancora una volta la musica dei Metallica, riassume in un certo qual modo i due "episodi" precedenti, ed arriva in pratica fino ai giorni nostri (è andato in onda il 12 gennaio 2012 sulla HBO, che lo ha prodotto; parentesi nella parentesi, quando avremo una televisione con prodotti di questa qualità in Europa?), sviscera l'argomento in maniera chiara e abbondantemente esplicativa, ci racconta qualcosa dei sentimenti dei tre, ed arriva alla loro scarcerazione, avvenuta nell'agosto del 2011, usando un escamotage suggerito ai tre proprio dal tribunale stesso, l'Alford plea, che, in pratica, ammette l'errore del precedente giudice.
Come detto, grande ritmo, facce curiose della profonda provincia statunitense, facce e corpi che sono radicalmente mutati in questi 18 anni, un documentario che racconta una storia pazzesca, fortunatamente a lieto fine, e che dimostra il fatto che il documentario d'indagine può cambiare la storia. Facce straordinarie anche quelle dei tre protagonisti, storie straordinarie (come quella di Echols, che si è sposato con una donna conosciuta per il suo attivismo pro-innocenza dei tre, e che ha vissuto in isolamento e nel braccio della morte gran parte degli ultimi anni), apparizioni di personaggi famosi che si sono schierati a favore della liberazione dei tre: Eddie Vedder, Johnny Depp, Natalie Maines delle Dixie Chicks. Gran lavoro, appassionante come un fiction thriller.

20120210

Rundskop


Bullhead - di Michael R. Roskam (2012)

Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: popo' di groppone ticià luilì

Provincia di Limbourg, Belgio. Jacky Vanmarsenille è un giovane robusto e scontroso allevatore, che porta avanti la fattoria e l'allevamento di famiglia insieme al fratello, prendendosi cura della madre e soprattutto del padre vecchio e malato, conducendo una vita schiva e priva d'amicizie. Qualcosa nel suo passato lo ha segnato per sempre. L'allevamento del bestiame segue le solite, vecchie e cattive abitudini di sempre, ereditate dalla gestione del padre: le iniezioni di ormoni sono all'ordine del giorno, e ovviamente procurarsi quelle cose non è legale. Lasciando per un momento da parte il fatto che Jacky usa molti prodotti di quel tipo anche per se stesso, ciò ci porta al fatto che alcune conoscenze della famiglia non siano del tutto brave persone. Il conoscente Sam Raymond, legato all'ambiente della malavita, tenta di trascinarlo dentro un traffico di ormoni più grande ed esteso, gli combina un incontro, durante il quale Jacky, in apparenza un omone senza troppo cervello, ha un'impressione e una sorpresa: l'impressione è che lo stiano incastrando, la sorpresa è quella di incontrare, ad anni di distanza, l'amico fraterno Diederik Maes, testimone di quel fatto che gli ha cambiato la vita, e vecchio amico di famiglia. Jacky, scontroso ma deciso, se ne va e non ne vuole sapere più niente. Purtroppo, il fratello Stieve non è così sospettoso come lui, ed un bel giorno torna a casa con quattro cerchioni nuovi per la sua BMW...

Debutto davvero interessante questo Rundskop, film del regista belga Michael R. Roskam, girato proprio sul "confine linguistico", per cui recitato in neerlandese e in francese (cosa che genera alcuni siparietti divertenti, non tutti sono bilingui). Il film sgretola l'immagine del contadino/allevatore senza macchia e legato ai valori sani della terra, proiettando delle ombre lunghissime fin sulla nostra tavola, riuscendo nell'impresa di realizzare un dramma malavitoso/poliziesco, con una sottotrama umana di non minore impatto, e delineata con alcuni precisi flashback recitati da piccoli attori perfettamente in parte. L'ambientazione decisamente belga, non impedisce al regista di sciorinare omaggi e riferimenti vari a grandi film del passato, ed al tempo stesso di mettere in mostra una notevole tecnica ed un'ottima direzione del cast (senza dimenticare che è l'autore pure della sceneggiatura). Superba e convincente la prova del protagonista Matthias Schoenaerts (Jacky), che avevamo visto in una parte da non protagonista in Black Book di Verhoeven (insieme a Frank Lammers, qui nella parte di Sam Raymond), che, proprio come De Niro in Raging Bull, ha acquistato 27 chili per indossare i panni di Jacky Vanmarsenille. Speriamo vivamente che questo film trovi una distribuzione italiana.

20120209

una vita migliore


A Better Life - di Chris Weitz (2011)

Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Giudizio vernacolare: vitaccia

Los Angeles. Carlos Galindo viene dal Messico, ed è un padre single. Suo figlio Luis è nato negli USA, quindi cittadino americano, ma Carlos è ancora un immigrato clandestino. Quindi Luis ogni mattina si alza e va a scuola, una scuola di un quartiere di certo non high class, ma comunque una scuola, mentre Carlos, sempre con una certa circospezione, lavora dall'alba al tramonto come giardiniere, insieme a Blasco, un anziano messicano regolare che possiede una piccola impresa, comprensiva del pick up e degli attrezzi necessari per il giardinaggio. Carlos è impegnato nel dare al figlio un futuro migliore. Ecco perché è molto tentato dalla proposta di Blasco, che ne ha abbastanza per mollare tutto e tornare in Messico "da vincitore", di rilevare l'impresa, comprando da lui la camionetta e gli attrezzi. Ma lui non ha tutti quei soldi, e a quel punto, si rivolge alla sorella Anna, che lui ha aiutato quando ne aveva bisogno. Anna recupera i soldi, nonostante abbia sposato uno statunitense che non è d'accordo con tutto ciò, e li presta a Carlos, che rileva l'attività. Le cose però non vanno per il verso giusto: Carlos assume temporaneamente Santiago, un salvadoregno che aveva condiviso con lui il pranzo in un momento di difficoltà di Carlos, convinto che sia una brava persona, ma al contrario, alla prima occasione questo gli ruba l'intera attrezzatura. Nel frattempo, Luis sta uscendo con Ruthie, la nipote di uno dei capi della gang del quartiere, e il suo miglior amico è Facundo, un suo coetaneo completamente affascinato dalle gang, deciso ad entrare al più presto in quella del quartiere, per dedicarsi all'attività di gangster a tempo pieno.

Come detto più volte, diamo la precedenza, oltre ai film in uscita, a quelli che "contengono" almeno una nomination. Questo, diciamolo, mediocre dramma sulla pur verissima e attuale situazione dell'immigrazione dal Centro e dal Sud America verso gli USA, ha avuto una certa risonanza dalla nomination per Demiàn Bichir, qui nei panni del protagonista Carlos Galindo, come Best Actor In a Leading Role. Al momento non è prevista una uscita italiana. Dunque, dicevamo: il regista è Chris Weitz, regista (quella volta non accreditato) di American Pie (diretto insieme al fratello maggiore Paul), About a Boy - Un ragazzo (dal libro omonimo di Nick Hornby), New Moon della saga Twilight, La bussola d'oro (film per ragazzi) e Ritorno dal paradiso (un re-remake, di Il paradiso può attendere - 1978 - e L'inafferrabile signor Jordan - 1941 -, a sua volta tratto da una commedia teatrale, ma fermiamoci qui che può bastare): come dire, una sicurezza. Sarcasmo? Yep. Non c'era da attendersi granché, ed in effetti confermo quello che si potrebbe pensare: il film cerca la lacrima facile con una storia piuttosto scontata, turning point guidati dalla disperazione (ma azioni che nessuna persona sana di mente porterebbe a termine), giocando forse un po' troppo colpevolmente con situazioni, invece, che esistono senza dubbio, e sono certamente dolorosissime. Nonostante tutto ciò, si sente che è tutto molto stereotipato e forzato, il film ne risente molto e ci si annoia anche un po'. La prova di Bichir è indubbiamente l'unica cosa da salvare, anche se, permettetemi di fare un po' lo snob, non solo la sua presenza in Weeds, ma anche la sua splendida interpretazione di un giovane Fidel Castro nei due Che di Soderbergh, erano superiori. Solo per curiosi.

20120208

Meglio "tarda" che mai!

Ricevo e volentieri pubblico questo video di Goliardico, musicista livornese di base a Bologna, che appare anche nel video come barista. Sul suo sito troverete altre sue composizioni e maggiori info.

principianti


Beginners - di Mike Mills (2011)

Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: ma alla fine chi è morto? ir cane?

Los Angeles, 2003. Oliver Fields ha 38 anni ed è un grafico. E' single, ed ha da poco perso il padre Hal per un cancro, mentre la madre è morta 5 anni prima. Poco dopo la morte della madre Georgia, il padre, intellettuale e per lungo tempo direttore di un importante museo, ha fatto coming out dichiarando prima di tutti al figlio la sua omosessualità, ed il suo desiderio di essere gay "non solo in teoria, ma anche in pratica". Il rapporto di Oliver e Hal era divenuto più profondo, completo, ed Oliver, persona timida e abbastanza chiusa, che da sempre aveva avvertito un senso di stranezza nel rapporto dei suoi genitori, impara ad apprezzare il padre anche in questa sua nuova veste. Hal diventa un'attivista LGBT, si innamora, ricambiato, di un uomo molto più giovane di lui, Andy, vive la vita appieno, al punto che, quando gli viene diagnosticato un cancro, a parte il figlio, non avverte nessuno, finché non è costretto a passare gli ultimissimi giorni a casa. Oliver "eredita" Arthur, il Jack Russel del padre, col quale riesce a comunicare. Grazie a una coppia di amici, che si preoccupano per l'isolamento di Oliver, lo trascinano ad una festa in maschera, dove Oliver, vestito da Dr. Freud, conosce Anna, una bella ragazza francese, attrice in cerca di fortuna negli States, con la quale inizia una storia, non senza difficoltà.

Il secondo lungometraggio di Mills, esperto videoclipparo, film che annovera un cast di una certa classe, e che ha "fregato" (secondo me) i distributori italiani, in quanto è uscito il 9 dicembre 2011 direttamente in dvd, ma poco dopo è entrato nelle nomination per gli Oscar, tramite Christopher Plummer (Hal Fields), nella cinquina per Best Actor In a Supporting Role, cosa che probabilmente poteva essere sfruttata meglio, ha, a mio avviso, alcune similitudini e vicinanze con un altro film, al momento inedito in Italia, e cioè il nuovo film di Miranda July The Future, del quale vi parlerò appena possibile: qui c'è un cane (Arthur) che si esprime con i sottotitoli (espediente dosato senza esagerare, va detto, trovata che risulta carina, anche se non fondamentale, ma contribuisce a dare un tocco naive al film), lì c'è un gatto randagio che comunica come voce fuori campo, ed entrambe le storie trattano, in maniera diversa naturalmente, una visione del futuro, la ricerca dell'amore da parte dell'essere umano e la sua fragilità davanti alla costruzione di un rapporto di coppia. Il film risulta lento ma piacevole, abbastanza coinvolgente nella sua asimmetricità, un tantino complesso nel montaggio che salta continuamente avanti e indietro nel tempo, seguendo almeno tre successioni temporali, porta lo spettatore a tifare fortemente per la relazione di Oliver ed Anna creando empatia, anche se procede a strappi, e rimane spesso nella sfera del non detto. Nomination "dovuta" per Plummer, oggi 82enne e mai nominato fino a due anni fa (ma non vinse), per The Last Station (altro film del quale vi parlerò appena possibile), ci sono anche Ewan McGregor (Oliver), la deliziosa Mélanie Laurent (Anna, era ne Il concerto e in Bastardi senza gloria, e scusate se ho già usato l'aggettivo "deliziosa" per descriverla in passato) e Goran Visnjic (l'attore croato che entrò nel cast di E.R., e che adesso è curiosamente sugli schermi anche con Millennium - Uomini che odiano le donne, anche lì con Plummer). Tocco leggero, a volte fin troppo, buone intenzioni: regista da seguire.

20120207

patria


Homeland - di Gideon Raff (e sviluppato da Howard Gordon e Alex Gansa) - Stagione 1 (12 episodi; Showtime) - 2011

Premettiamo due cose: la prima è che ne avrei scritto, ma magari più tardi. E invece Bruzzo l'ha chiamata, ed è giusto così. La seconda è che quando uscì In Treatment, una delle mie zie, che si reputa esperta di cose israeliane, pur non essendo ebrea, mi disse che in Israele sono piuttosto esperti nell'analisi, o meglio, che c'è una grande tradizione. Posso crederci, e l'idea della serie era ottima. Sicuramente non c'entra niente, ma pure questa serie è basata su una serie israeliana, Hatufim, e siccome si parla di servizi segreti, spionaggio, terrorismo, cellule dormienti (o non proprio), seguendo la scia dei luoghi comuni potremmo dire che si, tutto questo può avere un senso: sono esperti anche su questi temi. Si lo so, sto allungando il brodo. Ma posso fare anche di peggio. State a vedere.

Da una parte c'è Claire Danes, che non ho mai sottovalutato, ma che dopo il suo exploit in Temple Grandin ormai nessuno dovrebbe ignorare, che interpreta l'assoluta protagonista della serie: è Carrie Mathison, una giovane ma esperta agente CIA in forza all'antiterrorismo, che è molto brava ed intuitiva, ma ha qualche problema. Prima di tutto, sembra che a volte si rimproveri di non essere riuscita a fermare i terroristi dell'11 settembre, anche se la cosa viene lasciata un po' in sospeso, Carrie potrebbe essere stata troppo giovane, o forse no. Ma non sono questi i problemi: quello che scopriamo poco dopo l'inizio, è che una sua fonte in Iraq, che lei non è riuscita a salvare dall'esecuzione, le ha confidato che un prigioniero di guerra statunitense è passato dall'altra parte. Per riuscire almeno a parlare con la sua fonte, in attesa di essere giustiziato, rompe parecchie regole, e per questo viene fatta rientrare, e, per così dire, messa in osservazione. Non finisce qui. Il suo capo è David Estes, uomo in carriera e deciso praticamente a tutto per salire i gradini necessari, che ormai la vede come mina vagante ma ha, diciamo, un passato con Carrie. Poi c'è Saul Berenson, il capo della sezione medio-orientale della CIA, vecchio capo di Carrie e suo mentore, che ormai è stato un po' messo da parte, prende ordini da Estes, ha qualche problemino a casa, e il comportamento di Carrie sta cominciando ad esasperarlo. Pensate che sia finita qui? Wrong. Carrie ha un disturbo bipolare (e, per essere precisi, questa vi piacerà, è bipolare di tipo 1, cosa decisa dalla Danes stessa), chissà da quanto. E' riuscita a nasconderlo praticamente a tutti (a parte la famiglia; in effetti, lo ha ereditato dal padre), e lo tiene sotto controllo con dei forti medicinali che gli procura la sorella Maggie, psichiatra. Una roba che, se trapelasse, non potrebbe chiaramente essere conciliata con un incarico del suo tipo.

Dall'altra c'è Damian Lewis (ricordiamocelo: l'unico attore che, se facessero un film sui Kyuss, potrebbe interpretare Josh Homme) nei panni di Nicholas Brody, marine statunitense catturato otto anni prima da, si suppone, una cellula di al-Qaida insieme al suo commilitone Tom Walker, che dopo qualche tempo dal ritorno in patria di Carrie, viene liberato da un'azione statunitense, e che ritorna in patria acclamato come un eroe, raccontando che Walker è stato ucciso (ma scopriamo da alcuni flashback della memoria di Brody che è stato proprio lui ad ucciderlo); anche lui non è esente da problemi, naturalmente, dopo otto anni di prigionia (almeno, così racconta lui, ma almeno i primi episodi non ci fanno esattamente capire quanto c'è di vero), o comunque di assenza da casa, lui si deve riabituare lentamente, ma pure la sua famiglia. In effetti, quasi tutti lo davano per morto, soprattutto la (bellissima) moglie Jessica, che già da qualche anno aveva cominciato una relazione (che lei credeva) segreta con il miglior amico di Nicholas, Mike Faber (beh, questa lasciatemela dire: la telefonata di Brody che raggiunge la moglie - dopo otto anni eh, fate attenzione - proprio mentre sta scopando con un altro, non sarà originale ma è davvero senza prezzo), gli amici (appunto) e perfino i figli: Dana, la maggiore e già ribelle (uno dei personaggi che davvero potrebbero regalarci fuochi d'artificio nella prossima stagione, mi sa) lo ricorda, ma Chris, il più piccolo, è talmente confuso che quando lo rivede invece di abbracciarlo gli tende la mano e gli dà del signore. Eppure, il marine Brody nasconde qualcosa, e l'agente Mathison se lo sente. A chi dovremmo credere?

La migliore serie del 2011? Sono in diversi a pensarlo. Homeland ha vinto il Golden Globe come miglior serie drammatica, e Claire Danes ha vinto lo stesso premio come miglior attrice in una serie drammatica. Ci sta tutto. I ritmi di Homeland non sono da film d'azione, bensì da spy-story, che però sono suddivisi in episodi da 60 minuti (scarsi). Ebbene, il team degli sceneggiatori, credetemi, riesce a spiazzare lo spettatore perfino durante un solo episodio. Non solo mi sono ritrovato a dovermi ricredere nel corso degli episodi, su delle idee che evidentemente gli sceneggiatori volevano che lo spettatore si facesse, ma perfino, nel corso di alcuni episodi, a ripetermi "questo è tutto una perdita di tempo, potevano tagliarlo", e a ricredermi a pochi minuti dalla fine perché tutto acquistava un senso. E, vi garantisco, è una sensazione molto bella per un appassionato. Le recitazioni dell'intero cast sono all'altezza della situazione, è chiaro che a Danes e a Lewis sono richiesti gli sforzi maggiori (e devo dire che la prova di Lewis non è per niente inferiore a quella della nostra Claire), ma non ci sono rimostranze particolari da fare: certo, devo avvertirvi che la brasiliana (ma a New York dall'età di sette anni) Morena Baccarin (Jessica Brody, la moglie fedifraga del marine Brody), inserita nel cast dopo la defezione della scozzese Laura Fraser (è presente nella versione del pilot non andato in onda), è davvero bella e delicata, e che in qualche episodio c'è pure Brianna Brown (Lynne Reed, una escort sotto copertura che lavora per Carrie), la versione bionda di Amy Adams.
Anche a livello, per così dire, politico, non ho trovato esageratamente di parte questa serie. Certo, i cattivi sono quelli di al-Qaida, ma lo hanno pure ammesso, e non è che CIA ed alte cariche statunitensi siano presentate come figure trasparenti e cristalline. Certo, dentro c'è tutta la paranoia che una cosa come l'11 settembre 2001 può portare in un una nazione, ma i sensi di colpa evidentemente non riescono a sopraffare un certo tipo di arrivismo. A parte le riflessioni di questo tipo, che possono essere pure soggettive, è innegabile che Homeland è un ottimo prodotto, che fortunatamente tornerà sugli schermi prima della fine del 2012, per una seconda stagione che sicuramente ci regalerà sorprese e tensione.