No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20121031

luci spente

Lights Out - Graveyard (2012)

Fate come vi pare, ma anche il terzo disco degli svedesi Graveyard (che, come potete evincere dal cappello che il cantante porta nel primo video ufficiale tratto da questo disco, si ispirano giustamente al vate Nicke Andersson), senza muovere un passo verso il cambiamento, l'innovazione o il crossover di qualche genere, è ugualmente bellissimo. Ruvido, fiammeggiante o caldo come il cognac stagionato quando serve, serve sia ai dinosauri che ai giovani che magari non hanno mai provato l'emozione del rock-blues selvaggio, suonato con i capelli bisunti durante gli anni '70.
Lì per lì, al primo ascolto, mi sono stupito di trovare una ballad come Slow Motion Countdown, uno di quei pezzi che mentre ti fanno fare headbanging selvaggio (in modalità rallentata, sia chiaro) ti strappano l'anima dalla bellezza, che però è entrata subito in una compilation di lenti per i momenti di autocommiserazione. Memore degli album precedenti, non mi attendevo cose del genere, ma i Graveyard, almeno in questo, riescono a stupire. Sul versante rallentato, tra l'altro, troviamo pure Hard Times Lovin', altro pezzo della madonna, nella quale, pensate un po', ricordano decisamente i mai troppo rimpianti norvegesi Madrugada.
Un disco snello, che va via in un attimo, con un alternarsi di atmosfere lente e veloci, ma che viene immediatamente voglia di riascoltare.

20121030

Savages

Le belve - di Oliver Stone (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Laguna Beach, California, USA. Chon (che nome del cazzo) e Ben, amici per la pelle, sono proprietari di un piccolo impero fondato sulla marijuna con il THC più alto del mondo. Chon è un ex Navy SEAL, ha fatto Iraq e Afghanistan, insomma non gli rompete il cazzo perché vi farebbe saltare in aria, e non ha paura di nessuno, neppure dei narcos messicani. Ben è una sorta di post-hippy, buddista, pacifista, razionale, accomodante, gentile, sensibile, dolce. Come dice O. (abbreviazione di Ophelia, solo lei sa perché), la loro donna comune, Chon scopa, Ben fa l'amore. Ma ci arriviamo tra poco. Un bel giorno sulla spiaggia, Ben, doppia laurea in economia e botanica, chiede a Chon, mentre si fumano uno sbambarozzo, da dove viene la maria migliore. Chon risponde Afghanistan, ed è lì che nasce tutto. Chon, dalle sue missioni, riporta i migliori semi, Ben li coltiva con amore, ed ecco la miglior qualità al mondo. Siccome la qualità si paga, e nonostante tutti i governi del mondo si ostinino a non legalizzarla, la marijuana la consumano in tantissimi, Ben e Chon diventano ricchi ricchissimi. O. è una ragazza annoiata di famiglia ricca, che trova nei due uomini i due lati della mascolinità che spesso non convivono, e accetta di buon grado il ménage à trois (magari se fossero stati degli homeless ci avrebbe pensato su). Quindi, peace & love? Non proprio: alcuni ex commilitoni di Chon si occupano della sicurezza, perché non si sa mai. Sex & drugs & rock and roll? Si, ma anche Wall Street: Spin, un ex impiegato bancario ha lasciato appositamente il lavoro per "lavare" i soldi di Ben & Chon. Fin qui tutto bene, tenendo conto pure di Dennis, agente della DEA, di un certo peso (basta con le battute, visto che è interpretato da John Ciccio Travolta), che prende cospicue mazzette dai due in modo da non avere problemi di sorta. Almeno, sul territorio. Ma, come dice proprio Dennis, benvenuti nella recessione: i grossi marchi vogliono esplorare nuovi territori. Mentre Ben sta tornando da uno dei suoi viaggi dove verifica e mette a punto progetti di solidarietà e scolarizzazione per bambini delle parti svantaggiate dell'Asia e dell'Africa, uno dei cartelli messicani più potenti, invia messaggi non proprio subliminali alla premiata ditta. Tutto per poi far loro un'offerta niente male, per poterli inglobare nell'organizzazione e vendere il loro prodotto, che del resto è il migliore sul mercato. Ai due la cosa non piace molto, però la fronteggiano ognuno a modo suo: Ben vorrebbe abbandonare tutto e starsene lontani dalla civiltà per qualche anno, per poi provare a tornare, oppure cambiare mercato imprenditoriale, Chon vuole fare la guerra a detto cartello. Mentre ci pensano su, e decidono di adottare il piano di Ben, la boss del cartello, individua il punto debole dei due giovani: O., naturalmente. E quindi...

Savages (titolo originale) è senza dubbio un film ben fatto, da tutti i punti di vista diciamo tecnici: montaggio, spettacolarità delle riprese, fotografia, colonna sonora. Ma è un film che posso aspettarmi che ne so, da un Michael Mann, da un Ridley Scott, perfino da un Guy Ritchie particolarmente parco. Qualche bravo mestierante con la fissa dei gangster, per intenderci. Da Oliver, pretendo qualcosa di più. Le belve è una specie di Natural Born Killers 2.0 con la variante della marijuana, ma senza un messaggio chiaro. E, per quanto mi stia simpatico, e per quanto sia sicuro che ha un avvenire garantito, sia nei film d'azione che in quelli pseudo-romantici dove ci vuole il bello e stronzo, Taylor Kitsch (Chon) non è Woody Harrelson (e Blake Lively - O. - non è certo Juliette Lewis; Aaron Taylor-Johnson - Ben - è lì per caso, perché serviva uno con la faccia da Harry Potter stonato). Tratto dall'omonimo libro di Don Wislow e adattato da Shane Salerno insieme a Stone, forse, nelle intenzioni del regista, voleva da una parte sollevare l'attenzione sul fatto che la marijuana dovrebbe essere legalizzata, e dall'altra voleva ribadire l'atrocità dei narcos. Forse. Il fatto è che i narcos di Le belve sono si, selvaggi e fanno cose atroci, ma sono pure buffi. E la legalizzazione della maria mi è parsa sostenuta da motivi inesistenti (magari si sono persi per strada, magari non era quello che interessava al regista). Alla fine, un film molto lungo che però scorre benissimo, molto ben fatto, recitato discretamente (su tutti Benicio Del Toro - Lado -, che però, ripeto, rende il personaggio più cattivo di tutti un po' troppo simpatico), ma che non cambierà le opinioni sul tema e soprattutto non verrà certamente ricordato come uno dei migliori lavori di Oliver Stone.
Shea Whigham è Chad, Demián Bichir è Alex, Salma Hayek è Elena, Emile Hirsch è Spin.

20121029

buona fortuna

Good Luck - Giardini di Mirò (2012)

Sorvoliamo sul fatto che vengano da Cavriago anche loro, ma che siano nati prima. Il loro percorso è diverso, e c'è stima tra loro e gli Offlaga, come saprete tutti ormai. E' interessante, invece, proprio il fatto che il loro percorso sia diverso. Post-rock, anche questo lo saprete, è una di quelle definizioni come americana, che significano tutto e niente. I Giardini (di Mirò, of course) sono teste di serie del post-rock italiano, e la loro evoluzione è quasi stupefacente. In questo nuovo Good Luck, il loro quinto album, ci sono i Mogwai, loro seminale ispirazione, ma rimangono sul fondo: in superficie ci sono tante buone canzoni, ben scritte e, udite udite, ben cantate. Per una band che fino a qualche anni fa suonava praticamente musica solo strumentale, o che comunque denotava una certa incertezza sulle parti vocali, è tutto dire. Corrado Nuccini si occupa della maggior parte delle linee vocali, e ci sono due ospiti di eccezione. Su There is a Place c'è Sara Lov dei Devics, mentre in Spurious Love (un pezzo con un intro in puro stile Marlene Kuntz, e che nostalgia, ma che prosegue in maniera del tutto originale, e risulta uno dei migliori) e in Rome c'è nientemeno che Angela Baraldi ai cori. Nonostante tutto ciò, il pezzo migliore, quello più diretto, che mi è parso più completo, è Ride.
E' un bel disco, di una band italiana da sostenere, e che dopo quasi due decenni di storia sta ancora crescendo.

20121028

l'uomo ossessionato

The Haunted Man - Bat For Lashes (2012)

Il terzo disco di Natasha Khan in arte Bat For Lashes è bello. Molto bello. E ribadisce una teoria che porto avanti da un po': le cose migliori in campo musicali, negli ultimi anni vengono esclusivamente da donne.
C'è un'alternativa, però, a questa teoria, bisogna ammetterlo: che la mia sensibilità stia cambiando, con l'età, avvicinandosi molto ad una sensibilità spiccatamente femminile. Mi fa riflettere su questa controteoria, il fatto che la musica di Bat For Lashes mi abbia conquistato lentamente: leggete quel che scrivevo a proposito del suo debutto del 2006 Fur and Gold, poi sul suo secondo del 2009 Two Suns. Magari son cambiato io; quello che pare a me, mettendo assieme ricordi confusi, è che la trentaduenne londinese di padre pachistano, dal nasino talmente perfetto che pare disegnato, abbia in un certo qual modo superato la sua Bjork-dipendenza (anche se rimane il punto di riferimento più immediato), mantenendo l'uso dell'elettronica moderato, puntando comunque su basi suonate con strumentazioni e suoni particolari, scarni, minimali ma non freddi, ma soprattutto sviluppando enormemente la capacità di songwriting, andando verso la creazione di un genere musicale universale, che possa abbracciare un range di pubblico potenzialmente enorme. La voce è pulita, impeccabile, eterea. Non mancano episodi più sperimentali e di nicchia (Oh Yeah, Horses of the Sun, The Haunted Man), ma di fronte a canzoni tremendamente belle ed esteticamente indefinibili se non come classica forma-canzone, quali Laura, Lilies, All Your Gold, non ci resta che applaudire, e godere ascoltando. Poche stranezze (forse perché proprio Bjork ci ha abituato a ben altro), semplicità e grande musica. L'arma vincente di Bat For Lashes. Gran bel disco.

20121027

un taglio al mondo

Cut the World - Antony and the Johnsons (2012)

Ogni tanto mi trovo a pensare che mi potrei stancare di Antony Hegarty e della sua musica così raffinata e delicata, soprattutto tenendo a mente che dentro di me batte un cuore ruock. Poi, arriva all'improvviso un disco dal vivo, registrato a Copenhagen con la Danish National Chamber Orchestra, con dieci pezzi già conosciuti, un solo inedito (Cut the World, che oltre a dare il titolo al disco esce con un videoclip straordinario dalla forza straordinaria e con la partecipazione straordinaria di Willem Dafoe e Carice van Houten, Melisandre in Game of Thrones; quest'ultima è pure cantante, ed è uscita con il suo album di debutto poco tempo fa, See You on the Ice, dove trovate un duetto con Antony stesso e un featuring di Marc Ribot) e un discorso di sette minuti e trentacinque secondi dove Antony illustra il suo pensiero sul Future Feminism, dicendo in breve che sarebbe meglio che governassero le donne per salvare il mondo (qui trovate il "pezzo" con i sottotitoli, e se non avete mai visto Antony live potrete pure capire che è anche un personaggio colto dal senso dell'umorismo ficcante), ed ecco che la magia si ripete. Qualche tempo fa ho scoperto per caso che una donna che lavora nell'impresa di pulizie che si occupa anche del mio ufficio, è una fan di Antony. Sapevo che ascoltava musica datata, ma di un certo stile, tipo Elvis, e sono rimasto sorpreso da questo suo endorsement, quasi quanto lei è rimasta sorpresa dal fatto di trovare in me un conoscitore di Antony. Potrebbe essere un particolare irrilevante, ma come forse immaginerete, tendo a dare alle piccole cose grande importanza, ed il fatto che Antony riesca a far breccia in un pubblico così variegato non credo sia irrilevante.
Ma tornando a bomba, la versione sinfonica di pezzi ormai immortali come Cripple and the Starfish, I Fell in Love With a Dead Boy, Epilepsy is Dancing o You Are My Sister che mi commuove sempre alle lacrime, vale assolutamente la pena di uno o più ascolti.


20121026

apocrifo

Apocryphon - The Sword (2012)

Abituato al capolavoro di due anni fa Warp Riders, che era il loro terzo disco e che ho ascoltato fino a poco tempo fa da quanto mi piaceva, i primi ascolti di Apocryphon sono stati contraddistinti dal classico "è buono, ma non come il precedente". Ora, se ripensiamo anche ai precedenti Age of Winters e Gods of the Earth, la qualità è sempre stata alta. Il problema  stavolta, risolto quello del batterista (Kevin Fender ha rimpiazzato il defezionario former member Trivett Wingo per i tour portati avanti nel 2010 e nel 2011, ma adesso dietro ai tamburi c'è in pianta stabile Santiago Jimmy Vela III - e che nome! -), era dare un senso alla progressione che i texani avevano messo in atto con Warp Riders, senza però snaturarsi troppo. Non abbiate paura: non è accaduto. Apocryphon è un (ulteriore) signor disco, che crescerà con gli ascolti, fino a rasentare il masterpiece. Come ogni buon seguace del culto del sabba(th), i The Sword partono dal blues (provate ad ascoltare la parte di basso di Seven Sisters: che cos'è se non blues?), infondono un tocco epico al tutto, con un attitudine un po' doom, un po' stoner, ma che in realtà non è pienamente né l'una, né l'altra. Spruzzate di street metal qua e là (Hawks and Serpents), ma soprattutto, assimilata la lezione sempreverde di band di culto quali Trouble e Saint Vitus, si sono dati un suono. Il suono è quello che per prima cosa mi ha affascinato nella musica dei The Sword: frustate elettriche, retrogusto sabbathiano, e, come accennato, col disco precedente avevano grandemente affinato le qualità del songwriting, toccando l'apice in almeno tre situazioni. Qua cercano di mantenere alto il livello per tutte le dieci tracce, e, in misura minore, di introdurre cose nuove (nello specifico, un synth nell'ultimo brano, la title-track). E, ci vogliono diversi ascolti per apprezzarlo, ci arrivano molto vicini. Perché a volte, scrivere belle canzoni non vuol dire rendere orecchiabile qualsiasi cosa; anzi, spesso i The Sword tendono a complicare cose che potrebbero essere suonate più semplicemente. Apocryphon, in definitiva, è un disco dentro il quale perdersi, in mezzo a rullate coraggiose, assoli fulminanti, riff micidiali raddoppiati al momento giusto. Sarà un luogo comune, un riassunto facile, ma i The Sword riescono a fare una summa di tutto il metal possibile e immaginabile: c'è tutta, dentro Apocryphon.
Pezzo preferito l'opener, The Veil of Isis, che però ha vita difficile se confrontata con la superba Dying Earth; ma ascoltatelo, ed è possibile che scopriate ogni giorno un pezzo diverso che scalzi il preferito del giorno prima! Un consiglio sull'album: suonatelo al massimo volume: se oggi, e scusate se ripeto all'infinito il nome della band che ha inventato il metal, i Black Sabbath dovessero scegliere i loro successori, non ci sarebbe dubbio alcuno. The Sword, from Austin, Texas. Signore e signori, ancora una volta, giù il cappello (e via con l'headbanging).

20121025

notte sportiva

Sports Night - di Aaron Sorkin - 2 stagioni (45 episodi; ABC) - 1998/2000

La rete statunitense via cavo CSC (Continental Sports Channel), controllata dalla Continental Corporation, ha il suo programma di punta in Sports Night, un telegiornale sportivo, in onda dagli studi di New York, condotto da due anchor man piuttosto famosi, Casey McCall e Daniel Dan Rydell. I due sono vecchi amici, non è la prima volta che lavorano insieme. Casey è divorziato da poco, ha un figlio di 9 anni circa, piace alle donne ma è naturalmente un po' arrugginito. E' leggermente più famoso di Dan, e ha vinto qualche premio. Dan è uno sciupafemmine, ma ha dei contrasti irrisolti soprattutto col padre; ha il bisogno di piacere. Il Managing Editor (in pratica il direttore della trasmissione) è l'anziano, esperto, simpatico Isaac Jaffe, che funge un po' da padre dello staff,  la produttrice esecutiva è Dana Whitaker, compagna di scuola di Casey e legata a lui da sempre da un rapporto non ben definito, il Senior Associate Producer è Natalie Hurley, una giovane efficiente ed ultra-dinamica, il produttore associato e analista di ricerche è Jeremy Goodwin, un altro giovane di belle speranze, molto intelligente, una sorta di nerd (ante litteram), sensibilissimo e molto educato. Insieme al resto dello staff, formano una squadra compatta, dal grande spirito, persone che lavorano moltissime ore al giorno e con grandi difficoltà riescono ad avere una vita al di fuori del lavoro. Al tempo stesso, il loro lavoro è costantemente sottoposto agli indici d'ascolto, e quindi al volere della rete e della corporation proprietaria. Essendo giornalisti, anche l'etica professionale ha la sua parte, nelle scelte e nel lavoro di tutti i giorni. D'altra parte, lavorare e stare a strettissimo contatto tutti i giorni, crea la condizioni per storie d'amore, ma anche per continui battibecchi.

Ve lo dirò ancora una volta: sono malato. Sono arrivato a Sports Night, perché le molte critiche che ho letto su The Newsroom, mi ha convinto a guardarmi The West Wing, ed infine pure questa sorta di sit-com (nella prima stagione nell'originale e in alcuni doppiaggi - quello spagnolo, ma non in quello italiano, ad esempio - ci sono le risate registrate). Se non lo aveste capito, sono tre creature di Aaron Sorkin, in questo momento uno degli sceneggiatori più stimati e ricercati del mondo statunitense (The Social Network, Moneyball). Possiamo dire che in Sports Night, Sorkin getta le basi per i suoi progetti futuri, almeno quelli televisivi, che in seguito ricalcheranno gli stessi schemi (oltre a The Newsroom e a The West Wing, dei quali vi parlerò prossimamente, abbiate pazienza, c'è da includere Studio 60 on the Sunset Strip), cambiando gli ambienti entro i quali si svolgono: qui c'è la televisione sportiva, in Studio 60 ci sarà la televisione comica, in The Newsroom c'è la televisione di informazione (soprattutto politica) e attualità. Naturalmente, in The West Wing c'è la Casa Bianca, e quindi la politica, statunitense ma anche mondiale.
Insomma, ci sono persone molto intelligenti, di buona cultura, che discutono sull'etica del lavoro, e al tempo stesso lavorano talmente tanto da non riuscire ad avere una vita privata. Spesso non riescono a mettere a fuoco quali siano i loro sentimenti per altre persone accanto alle quali lavorano per tantissime ore al giorno, e "usano" i colleghi più come amici e confidenti. Ci sono le storie d'amore che durano una vita senza portare a nulla, solo perché queste persone intelligenti e brillanti sono completamente incapaci di esprimere i loro sentimenti alla persona amata, ci sono attori di cui Sorkin si fida e che quindi rivedremo in quasi tutti i suoi lavori, e ultimo ma non meno importante, c'è il fido Thomas Schlamme (regista), che proprio in questa sit-com molto dinamica, insieme a Sorkin, perfeziona l'ormai mitico walk and talk, in parole povere, i piani sequenza di due attori che camminano mentre parlano fittamente.
Il cast. Josh Charles (L'attimo fuggente) è Dan Rydell, Peter Krause (Six Feet Under) è Casey McCall, Felicity Huffman (Desperate Housewives) è Dana Whitaker, Robert Guillame (Big Fish) è Isaac Jaffe, Joshua Malina (che rivedremo in The West Wing) è Jeremy Goodwin, Sabrina Lloyd è Natalie Hurley. Apparizioni per William H. Macy, e per tutta una serie di attori e attrici che ritroveremo in The West Wing con parti più importanti: Teri Polo, Janel Moloney, Lisa Edelstein (Lisa Cuddy in House), Clark Gregg, Nina Siemaszko.
Sicuramente una visione di Sports Night adesso è strettamente per appassionati (sorriderete al vedere come vengono vestiti attori e attrici, e vi attraverserà una strana sensazione quando, in apertura di quasi tutti gli episodi, vengono inquadrate le Torri Gemelle), ma vi assicuro che non vi annoierete.

20121024

carne e ossa

Meat + Bone - Jon Spencer Blues Explosion (2012)

L'ottima Kitty Empire, sempre concisa ma brillante, sintetizza così nella sua recensione sul Guardian: "Before the White Stripes, before the Black Keys, there was the Blues Explosion, a roiling New York three-piece who played the music of wizened Delta men with the zeal of urban punks, repackaging it for hipsters". Come darle torto. Ma certo, Jon Spencer ed i suoi si sono sempre preoccupati poco o niente di chi è venuto dopo, anche se questo, per chi li segue da tempo immemorabile, non conta granché. Tra l'altro, per "noi", anche se lo iato è durato circa 8 anni, non è mai esistito, bastava rimettere su qualcosa di vecchio. Direi che non è cambiato granché: anche questo Meat and Bone suona antico e moderno al tempo stesso, come la ruota panoramica o la moda, cose che tornano sempre allo stesso punto. Un susseguirsi di rock'n'blues ruvidi e sporchi, ma deliziosi, da Black Mold a Zimgar, con la voce dell'uomo più bello del mondo che sembra perennemente uscire da un tombino, ma rimane bella come lui, a scandire slogan. L'apice è, forse, Get Your Pants Off, che suona un po' come un manifesto. Semplice (all'apparenza) ma bellissima.
Ti amiamo incondizionatamente Jon. No doubt about it.

20121023

mondo profumato

Fragrant World - Yeasayer (2012)

Ascoltare un disco dei brooklynesi Yeasayer è sempre come fare un passo indietro di quasi trent'anni (ogni volta mi sembrano meno, ma invece aumentano), tornare negli anni '80 quando musica come questa era la colonna sonora dei nostri pomeriggi di adolescenti al Luna Park e delle nostra scorribande sul calcioinculo (mi son sempre cagato sotto, e ci sono andato il meno possibile, inventando di volta in volta scuse sempre più patetiche). Meno (ma solo leggermente meno) mainstream dei MGMT, debitori in egual misura verso Japan e M, mi sono immaginato addirittura che siano un mix di Depeche Mode e Village People, senza dimenticare un pizzico di The Human League. Fatto sta che, se presi a piccole dosi, possono risultare ottimi e disintossicanti perfino per anime rock. Infatti, il difetto maggiore di questo, come dei precedenti (All Hour Cymbals e Odd Blood) dischi, è una certa ripetitività monotematica, che di fronte ai ripetuti ascolti disillude un po'.
Ad ogni modo Reagan's Skeleton tra le migliori, insieme a Damaged Goods, Fingers Never Bleed, No Bones e Longevity.

20121022

sarà finita?

Weeds - di Jenji Kohan - Stagione 8 (13 episodi; Showtime) - 2012

Mi ha spiazzato un po', l'esistenza di un'ottava stagione di Weeds, dopo che la Kohan assicurava che ne aveva avuto abbastanza eccetera eccetera, ma il mutuo da pagare, si sa, è una delle motivazioni che fa girare il mondo. E quindi, viste sette, mi sono diligentemente messo a vedere anche l'ottava e, speriamo davvero stavolta, conclusiva stagione. Si parte con una nota positiva, il ritorno di Little Boxes, il pezzo di Malvina Reynolds, che è stato riportato in auge dalle prime stagioni di Weeds (in realtà la seconda e la terza), e, come agli inizi, anche qua presente dapprima con l'originale, poi reinterpretato di volta in volta da nomi noti e meno noti del panorama musicale, ma stavolta anche dagli attori stessi. Aimee Mann, i The Bronx, ma pure Hunter Parrish e addirittura lo strano duo Steve Martin & Kevin Nealon, tanto per darvi un'idea. Anche la grafica che accompagna il pezzo è degno di nota.
Passando al plot, la stagione riprende da dove era terminata la precedente, e quindi non farò spoiler, ma lo fa in maniera davvero lenta e stanca, tortuosa e pressoché inutile, andando a rispolverare pure vecchie e vecchissime conoscenze pur di dargli un'autenticazione. Il finalone, una puntata doppia addirittura, fa un salto di diversi anni nel futuro, per mostrarci come finirà davvero.
Si fa qualche risata, Mary-Louise è sempre più bella, seppure ormai molto prevedibile nella sua mimica (e qui si potrebbe fare della facile ironia), ma davvero basta stavolta. Di questa stagione ci rimarranno i baffi di Alexander Gould/Shane Botwin, ma soprattutto l'enorme Kevin Nealon/Doug Wilson, che stavolta si inventa una setta, e si riconcilia col suo passato (e fate caso a chi interpreta il figlio Josh cresciuto). Come disse una volta, legendary!
Jenji, passiamo ad altro, per cortesia.

20121021

Near Dark

Il buio si avvicina - di Kathryn Bigelow (1987)

Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: capostipite

Caleb Colton è un giovane cowboy del Midwest americano; vive col padre Loy e con la sorellina Sarah di una vita semplice. Una notte, conosce Mae, una biondina bella, affascinante e misteriosa. L'attrazione tra i due è immediata, tanto da passare la notte insieme, ma poco prima dell'alba Mae morde Caleb sul collo e fugge velocemente. Caleb si accorge che la luce del sole gli brucia la pelle. Mae, quindi, è una vampira, e ha dato inizio alla trasformazione di Caleb. Dopo un po', Mae torna insieme al gruppo di vampiri con i quali ha formato una sorta di famiglia: Jesse e Diamondback, che fungono da padre e madre, Severen, una specie di figlio maggiore attaccabrighe, e Homer, appena un bambino. Il gruppo rapisce Caleb, Severen vorrebbe ucciderlo, ma quando Mae rivela di averlo morso, Jesse costringe tutti a concedergli una settimana di prova, per vedere se Caleb riuscirà ad integrarsi. Ma il ragazzo non riesce ad uccidere per nutrirsi, anche se dà qualche prova di solidarietà; al tempo stesso, il padre e la sorella, insieme alla polizia, sono sulle sue tracce.

Secondo lungometraggio della regista premio Oscar per The Hurt Locker, che potrebbe anche essere considerato il primo-bis, visto che il suo debutto The Loveless era co-diretto con Monty Montgomery, Near Dark è divenuto un cult, visto che ha avviato, assieme a The Lost Boys di Joel Schumacher, uscito tre mesi prima negli USA, il filone vampiresco "serio" (e romantico) dell'era moderna. Near Dark è una curiosa, grezza, ma riuscita, intrigante e affascinante combinazione di western, horror e azione, che lascia ampiamente intravedere le potenzialità della ex signora (James) Cameron (che qui appare in un cameo). Acerbo, non esente da difetti, ma con quell'atmosfera irriverente e sfacciata che determina un cult movie, il film vede nel cast il grande Lance Henriksen (Jesse) e un (all'epoca) giovane Bill Paxton (Severen), qui entrambi in grande spolvero.

20121020

Millennium Trilogy

Uomini che odiano le donne (2007)
La ragazza che giocava con il fuoco (2008)
La regina dei castelli di carta (2009)
di Stieg Larsson

Svezia, oggi. Nell'immaginario collettivo, paese ordinato, educato, democratico; il paese del welfare "dalla culla alla tomba", dove tutto funziona, dove tutto è limpido. E invece.

Millennium 1
Mikael Blomkvist è un esperto giornalista investigativo, che vanta anni di esperienza, coscienza incorruttibile, etica profonda. Ma è appena terminato un processo dove lui era imputato, ed ha perso. E' condannato, causa diffamazione a mezzo stampa ai danni del finanziere Wennerstrom, ad una discreta pena pecuniaria, e ad una detenzione di qualche mese. Decide quindi di dimettersi dalla carica di direttore responsabile della rivista Millennium, da lui fondata insieme all'amica e amante Erika Berger, per evitare altri problemi alla rivista stessa e ai suoi collaboratori. Millennium riflette il carattere di Blomkvist: è un mensile politico/economico che sferza continuamente i potenti, e che mette in pratica un giornalismo investigativo che non fa sconti. Stavolta qualcosa è andato storto, con Wennerstrom. Mikael, vista la situazione, accetta un incarico "privato": l'ex magnate industriale Henrik Vanger gli affida il compito di scoprire qualcosa di più sulla scomparsa della nipote prediletta, Harriet, scomparsa trentasei anni prima. Contrariamente a quanto ci si aspetti, Blomkvist sarà affiancato, in questa indagine, da Lisbeth Salander, personaggio fondamentale della saga. Lisbeth è una ragazza di circa 24 anni, minuta, asociale, che ha subito sicuramente dei traumi infantili; è una hacker di livello mondiale, e collabora con la Milton Security, una società di investigazione privata. Ecco perché l'accoppiata è inaspettata: in realtà, Lisbeth viene incaricata inizialmente dalla Milton, su richiesta dell'avvocato di Vanger, di svolgere delle indagini sulla vita privata di Mikael. La strana coppia scoprirà un segreto terribile.


Millennium 2
La conclusione dell'indagine su Harriet Vanger, ma soprattutto la fine dell'impero Wennerstrom, ha portato a Lisbeth una enorme "indipendenza economica". La ragazza si prende quindi un lungo periodo di vacanza; ma in Svezia, una concomitanza di eventi fa si che lei stessa si ritrovi sospettata di un triplice omicidio. Mikael, che ha sviluppato un'affezione particolare per lei, si schiera immediatamente dalla sua parte, pronto a difenderla a tutti i costi, e parte quindi per la sua indagine personale. Tutti questi avvenimenti convincono Lisbeth che è arrivata l'ora per regolare definitivamente i conti con il suo passato.

Millennium 3
La resa dei conti è stata cruenta, ma le vittime sono state solo "collaterali": i protagonisti sono ancora tutti vivi, ancorché malmessi. Con Lisbeth tenuta sotto sorveglianza in ospedale, in attesa di essere trasferita in carcere per lo strascico dell'inchiesta della seconda parte, e per i fatti che l'hanno relegata in ospedale, e l'artefice di Tutto il Male (così Lisbeth chiama quello che le è successo tra i 12 e i 14 anni, un'esperienza che ha forgiato il suo carattere di merda, ma pure la sua forza di volontà) nella stanza adiacente, comincia una guerra di nervi. Nel frattempo però, l'instancabile Mikael convince Lisbeth ad assumere come avvocato difensore la di lui sorella Annika, e mette in atto alcuni stratagemmi che permetteranno di affinare la difesa stessa. Sorprendentemente, la resa dei conti avverrà in tribunale. E scopriremo che la vita di Lisbeth non è stata altro che una merce di scambio, dentro una storia molto più grande.

Come vi dicevo nella recensione di Uomini che odiano le donne (e in quella del remake statunitense), e come correttamente faceva notare l'amico Monty, noi pseudo-intellettuali cinematomusicofiloletterari siamo fondamentalmente degli snob vestiti da straccioni, ma straccioni relativamente puliti, per intendersi non come i punkabbestia che stanno fuori dai centri commerciali a chiedere gli spiccioli col sorriso sulle labbra, o nei parcheggi vuoti con le loro roulotte e i cani. E quindi, essendo casual-snob, figuratevi con quale superiorità ci impegniamo ad evitare i libri che tutti, ma proprio tutti leggono. (So benissimo che vado a dirvi cose che avete già letto e sentito migliaia di volte, ma mi piace allungare il brodo ogni tanto) La cosiddetta Millennium Trilogy dello svedese Stieg Larsson, giornalista e scrittore svedese esperto di organizzazioni neonaziste, fondatore della rivista antirazzista Expo, morto a 50 anni nel 2004 (in pratica, a parte la morte, è piuttosto chiaro che Larsson si è creato un alter ego con Blomkvist, e così come avremmo fatto tutti - noi maschi - lo ha fatto più bello e gran scopatore), è uscita interamente postuma anche in Svezia, è stata tradotta in molte lingue, ha venduto milioni di copie (e sta avendo due trasposizioni cinematografiche). Tra l'altro, Larsson aveva intenzione di allungare di parecchio la saga, c'è chi dice arrivando a sette libri, c'è chi sostiene addirittura che voleva arrivare a dieci; ma la sua morte improvvisa ha segato questa possibilità.
E quindi, il caso spesso è importante nelle cose che ci accadono. Succede che gli amici mi stanno quasi convincendo (prima Monty, come detto, poi pure Massi, che ogni anno mi ospita in Polonia), e succede che in agosto, nel bel mezzo di un periodo in cui leggo romanzi e libri da 150 pagine in un solo giorno, vado per dieci giorni in Polonia, ma per contenere peso e volume del bagaglio non mi porto dietro nessuna lettura. A casa di Massi, in italiano ci sono solo il primo ed il terzo volume della suddetta trilogia, e quindi mi leggo il primo in tre giorni, e il terzo (per secondo) in cinque (stiamo parlando di libri di oltre settecento pagine); torno verso casa, e alla stazione di Milano Centrale mi compro il secondo volume, leggendone quasi metà durante il viaggio in treno fino a Livorno, e lo termino nei primi giorni di settembre, sotto l'ombrellone.
E' giustificato il successo che ha riscosso la trilogia? In effetti, si. La storia, anzi le storie, sono avvincenti e ben sviluppate; la prosa è piuttosto elementare, comprensibile da chiunque, e la scorrevolezza quindi è assicurata. Linguaggio semplice, storia avvincente, più, ultimo ma non meno importante, una serie impressionante di personaggi, non solo quelli principali, assolutamente ben disegnati, sfaccettati, complessi, diversi tra di loro. C'è pure da aggiungere che Larsson, anche se ambienta alcuni passaggi nei luoghi più disparati del globo, basa tutto sulla Svezia e su Stoccolma, riuscendo a renderla talmente intrigante che dal 2008, nella capitale svedese si organizzano tour nei luoghi dove si svolgono le storie dei libri.
Non è tutto. L'ideale etico-giornalistico permea le tre storie, Blomkvist ne è il paladino; la struttura dello Stato democratico è un altro fulcro delle storie. E poi c'è il maschilismo, gli "uomini che odiano le donne": c'è un messaggio fortemente femminista, se così vogliamo definirlo, nella saga: Lisbeth è una specie di crociata dell'argomento.
I libri sono decisamente migliori dei film, che non sono male, come detto nelle scorse settimane, ma che soffrono di mancanza di "spazio". Vale davvero la pena di leggerli. Per riprendere il discorso dello "spazio", di tutte le cose interessanti che le versioni cinematografiche hanno "sacrificato", e dare sfogo ad una delle mie/nostre (relativamente) nuove passioni, a mio giudizio (che combacia con quello dell'amico Massi) Millennium poteva tranquillamente essere trasformato in una serie tv da almeno 6 stagioni, 12 episodi da 50 minuti (minimo). HBO, forza!

20121019

one

¡Uno! - Green Day (2012)

Che poi, c'è ancora chi crede ai dettami delle cartelle stampa (il primo dovrebbe assomigliare a questo, il secondo a quell'altro, il terzo a quell'altro ancora). Le quali (le cartelle stampa) avranno pure una parte di ragione, ma qui la questione è che i ragazzi hanno sviluppato una certa padronanza del mezzo, e quindi dei sottogeneri: chi li ha visti dal vivo ed è riuscito ad apprezzare in tutte le sue sfaccettature la medley dove in oltre una decina di minuti spaziano da Elvis a Jacko, può capire cosa intendo. Per onestà bisogna dire che effettivamente, ¡Uno! contiene pezzi dalla durata breve, ma, se ci fate caso, spesso le atmosfere riassumono il percorso greendayano dagli esordi fino al disco precedente: è questo il bello! At the end of the day, è il risultato che conta: e quello che so io è che quando metto su questo disco non lo tolgo più, e spesso lo metto in repeat. Dopo l'ingresso nell'Olimpo musicale con gli ultimi lavori, quelli che una volta erano i ragazzacci di East Bay (e adesso sono simpatici milionari) si lanciano nel loro Sandinista! (e lo so che bisogna sciacquarsi la bocca prima, e che è tutto diverso, e che le ultime frasi suonano come una colossale contraddizione in termini; però, con la scusa dello spagnolo - che modificheranno per il terzo disco, che invece di intitolarsi tres si intitolerà come il batterista -, hanno trovato il modo di infilare, nel titolo, un punto esclamativo...). E siccome prima di diventare quasi "impegnati", il loro marchio di fabbrica era la spensieratezza delle loro canzoni, la prima parte direi che è riuscita bene. Pezzi migliori il singolo Oh Love, col ritornello da cantare a squarciagola (dando anche una certa enfasi su tonight my heart's on the loose), e la mia preferita Sweet 16.

20121018

giù la testa

Head Down - Rival Sons (2012)

Niente da fare. C'ho provato in tutti i modi, a non farmi piacere il nuovo disco dei Rival Sons, non fosse altro che per dar contro all'amico Filo. Non c'è stato verso: anche Head Down ha un tiro micidiale, almeno per un suo buon 70% (escluderei la ballad Jordan, dove comunque dimostrano di essere senza dubbio più dotati dei Kings of Leon, e meno ruvidi dei Black Crowes, questi ultimi uno dei loro grandi punti di riferimento, come già ebbi a dire, e la doppia Manifest Destiny, dove esagerano con le dilatazioni psichedeliche, ma del resto questo tipo di hard rock ancestrale viene dal blues, e le jam session vengono da lì). Naturalmente, anche a questo giro dimenticatevi l'originalità, tanto che a volte si rasenta il ridicolo: All The War sembra Spirit in the Sky mista ad un sacco di altri classici hard-blues, ma piace ugualmente, se non si cercano i nuovi Talking Heads. Certo, li preferisco quando sono più sparagnini, quando non si dilungano, e soprattutto quando ci danno dentro anziché indulgere in giri a vuoto (vedi parentesi precedente): meglio la prima della seconda parte del disco. Perché se, come qualche recensore ha fatto giustamente notare, le "divagazioni" psichedeliche fanno addirittura tornare alla mente i Soundgarden epoca Bad Motorfinga, per quanto bravi siano Jay Buchanan (voce) e Scott Holliday (chitarra), non si avvicinano neppure lontanamente a Cornell e Tahyil, e manca l'asimmetria tipica, associata al retrogusto punk, che hanno fatto dei Soundgarden 1.0 una delle più grandi band della storia della musica. Quindi, cari Rival Sons, fly down, che tanto vi ascoltiamo lo stesso, ma il mito è un'altra cosa.

20121017

vai piano, oh Magellano

Swing Lo Magellan - Dirty Projectors (2012)

Ci ho messo mesi per scriverci qualcosa sopra. Ma, di solito, se ci metto molto è segno che o un disco, per me, è molto buono oppure che non vale niente. Nel secondo caso, dopo un po' lascio perdere e non ho rimorsi; in questo caso, sentivo di dover scrivere qualcosa di importante, perché, e so che di questa affermazione mi faranno pentire quelli di voi che spinti da me lo ascolteranno e ai quali poi non piacerà per nulla, Swing Lo Magellan è uno dei dischi più interessanti, complessi, originali dell'anno 2012.
Innanzitutto, devo dire per onestà intellettuale che nonostante sia il sesto disco dei Dirty Projectors, per me è il primo: non conoscevo o non ricordavo assolutamente niente di loro, nonostante avessero lavorato anche con Bjork poco tempo fa. Il fatto che questo disco finirà nelle top ten di molti critici, più o meno accreditati, vuol dire quindi che si, non si può conoscere tutto, ma che la grande musica, quando è grande musica, si riconosce sempre, anche se magari non ti è mai capitato di incrociarla prima.
Ora, chi li conosceva già magari sapeva cosa aspettarsi, anche se mi par di capire che i newyorkesi siano una band in continuo movimento, e Swing Lo Magellan sia un ulteriore passo avanti, o comunque diverso dai loro precedenti. Ma, per chi, come me, non conoscesse una virgola in proposito, bisogna che dia qualche coordinata. E non è facile. Di getto, le prime due cose che mi sono venute in mente, out of nowhere, sono stati i Vampire Weekend e i Talking Heads. Magari non ci ho preso, ma credetemi, è davvero difficile descriverli. Dei primi, certamente non hanno l'immediatezza. Dei secondi di certo hanno la genialità. I pezzi hanno tutti un che di asimmetrico, sghembo, irregolare. Ma sono come dei trapani, delicati però, che ti penetrano dentro. Piano piano, ti accorgi che l'intero disco è composto da canzoni bellissime, e ti rendi conto che sono stratificate in maniera sbalorditiva. Pennellate leggerissime, che hanno un che di bucolico al pari della copertina (fotografia scattata dal fratello del leader della band, il genietto Dave Longstreth che normalmente si incarica della maggior parte delle linee vocali; il soggetto è un vicino insieme allo stesso Dave e ad Amber Coffman, altra componente della band, nello Upstate New York dove l'album è stato registrato), chitarrine che a volte potrebbero sembrare quasi caraibiche, effettistica strana, fiati improvvisi e parti di drum machine, giri di chitarra folk e linee vocali (come detto) sghembe e, credeteci o no, praticamente gospel, ma un eleganza fuori dal comune. Un disco meraviglioso e stranissimo.

20121016

home sweet homeland


Ultimamente, se mi esalto per davvero nel bel mezzo della messa in onda di una stagione di un serial, vi scrivo qualcosa. Mi sta accadendo per la seconda stagione di Homeland. Quando inizia o finisce la visione, ci viene chiaramente ricordato il canale dove sta andando in onda, mentre quando appare durante la visione il logo della rete, si tende un po' a dimenticarlo. Mentre guardavo l'episodio 3, State of Independence, ho notato il logo di Showtime. E mi è venuto da riflettere sul fatto che di solito questa rete ci dà cose di minor spessore, molto divertenti, ma insomma, c'è chi dice che Showtime avrebbe addirittura una "quota" di tette e culi da rispettare per ogni serial.
Beh, stavolta Showtime l'ha proprio indovinata. E non perché ci siano tette e culi, bensì perché Homeland è una grande serie.

Dead Aid

La carità che uccide - Dambisa Moyo (2010)

Negli ultimi 60 anni, verso l'Africa sono stati erogati sussidi per oltre mille miliardi di dollari. E' sotto gli occhi di tutti, che negli ultimi 60 anni, la situazione in Africa non è migliorata; anzi, spesso è peggiorata. Ora, se una persona che si ritiene progressista sente dire a qualche compatriota "bisogna aiutare i paesi africani in loco, non bisogna accogliere gli immigrati africani, ma aiutarli a crescere nella loro terra d'origine", pensa subito che questo compatriota sia almeno un po' razzista. Ma se senti dire a un'africana: "è l'ora di smetterla con gli aiuti all'Africa, perché non fanno altro che peggiorare la situazione", ti viene da pensare.
E' la scioccante teoria di Dambisa Moyo, classe 1969, nata e cresciuta a Lusaka, in Zambia, ma poi laureatasi (economia, gestione pubblica, finanza, amministrazione, e addirittura in chimica) e specializzatasi negli USA (Oxford, Harvard, American University Washington D.C.). Economista, ha lavorato per la Banca Mondiale e per Goldman Sachs; figlia d'arte, in un certo qual modo (la madre è chairman della Indo-Zambia Bank - ovviamente una joint venture tra India e Zambia -, il padre dirige Integrity Foundation, una organizzazione anti-corruzione), ha scritto tre saggi dal grande successo. Questo è il primo dei tre, e il titolo originale recita Dead Aid: Why Aid Is Not Working and How There is Another Way for Africa; la Moyo argomenta, prima snocciolando i dati del fallimento di (appunto) sessant'anni di aiuti, poi criticando le celebrità che si fanno pubblicità "aiutando" l'Africa, continuando con un'analisi del perché non abbiano funzionato (gli aiuti), ed infine proponendo una serie di misure alternative, la prima delle quali è, semplicemente, smettere di inviare milioni di dollari di aiuti ai governi africani.
La tesi è ambiziosa, perfino orgogliosa, ma, almeno ai miei occhi, appare realistica. Fiumi di denaro che finiscono direttamente nelle mani dei governi africani e non "rendono", dimostrano il grado di corruzione (ma non ce n'era bisogno). Sicure entrate di questo genere, tra l'altro, fanno si che chi lavora nel pubblico impiego  abbia un atteggiamento pigro e svogliato (chiedete a chiunque sia stato in un qualunque paese dell'Africa subsahariana). Sempre secondo la Moyo, dato che l'Africa è ricca di materie prime che fanno gola a molti, bisogna farla camminare da sola, aprendo al libero mercato e, smettendo di erogare aiuti a pioggia, responsabilizzando governi e persone. Se proprio si vuole aiutare gli africani a fondo perduto, conviene mettere i soldi in mano a persone singole, e pretendere risultati; incrementare e diffondere il microcredito per solleticare la piccola e piccolissima impresa, non aspettarsi che la democrazia porti immediatamente con sé pulizia dalla corruzione e perfetto funzionamento dell'apparato statale (qui la tesi della Moyo corre sul filo del rasoio: sembra, in alcuni passaggi, quasi che invochi l'uomo forte per la maggior parte degli stati africani. Non è così, e vi invito a leggere attentamente i passaggi che trattano questo argomento). Moyo indica poi diversi sistemi (quotazioni in borsa, hedge found, emissione di buoni del Tesoro, creazione di mercati unici per acquisire maggiore rating) finanziari per affrancare gli stati africani dagli aiuti, non necessariamente all'improvviso. Interessanti, seppur decisamente "capitalistiche", le continue sottolineature sulla differenza tra gli investimenti cinesi e l'elargizione degli aiuti occidentali.
Nonostante il libro abbia provocato discussioni, polemiche, forti critiche all'autrice, vi ho trovato sincerità ed intelligenza, oltre ad un orgoglio africano forte. Questo, a dispetto del fatto che la Moyo stessa sia una bella donna che vive a Londra (e lavora in giro per il mondo, continuamente impegnata in conferenze ed interviste) e veste (bene) all'occidentale. Segno evidente, mi piace pensare, che le radici non si dimenticano.

20121015

febbraio

Allora, questo è un video girato dal mio amico Massi, quello che mi ospita ogni anno in Polonia. Il pezzo è tratto dall'ultimo disco di Roberta Barabino (Magot), un'amica di Massi che ho conosciuto ed è pure simpatica, oltre ad essere molto brava. Chi fosse incuriosito, può dare un'occhiata al sito di Roberta, che di recente con Magot si è classificata terza nella categoria esordienti al Premio Tenco.

felice

Dite quello che volete, ma io ancora mi emoziono quando sento queste cose. Un tizio che si paracaduta da 39 chilometri di altezza e arriva a terra sano e salvo, avendo raggiunto la velocità del suono solo per la forza di gravità, è una roba che se ancora fosse vivo Leonardo Da Vinci sarebbe morto ancora una volta. Per dire.
Il video, che vi assicuro, è davvero emozionante.

kerosene

Quero - di Carlos Cortez (2007)

Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Giudizio vernacolare: storiaccia
Porto di Santos, stato di San Paolo, Brasile. Quero, così chiamato perché sua madre, una prostituta, è morta dopo aver bevuto del kerosene, è un orfano di madre (e che non sa neppure chi sia suo padre) che cresce lì, un po' per strada, tra i container e le banchine, un po' nel bordello dove la madre lavorava. Non vuole lasciarsi ingabbiare dal FEBEM, una sorta di progetto correzionale per adolescenti che hanno commesso infrazioni, né dalla droga, tanto meno dai poliziotti (corrotti) che lo perseguitano. Naturalmente, non è per niente facile.

Trasposizione del libro del 1976 Uma Reportagem Maldita - Quero, di Plínio Marcos, libro già adattato con Barra Pesada (1977), Quero segna il debutto alla regia di Cortez e nella recitazione del giovane Maxwell Nascimento (Quero). Sceneggiato dallo stesso regista e da due esperti, Luiz Bolognesi ma soprattutto Bráulio Mantovani, che ha messo lo zampino in tutte le cose migliori arrivate oltre confine dal Brasile (Cidade dos Homens, City of God, Tropa de Elite, Tropa de Elite 2, L'anno in cui i miei genitori andarono in vacanza), il film risulta piuttosto prevedibile, anche se si basa su una storia cruda, composta da passaggi intensi, che non lasciano indifferenti. La recitazione del cast, e quindi il tenore del film stesso, tende ad andare un po' troppo sopra le righe; la fotografia è più che accettabile, la tecnica di regia discreta.
Nel cast, da segnalare tre attori che erano anche nel cast dell'ottimo Carandiru: Ailton Graça (qui Brandao), Maria Luísa Mendonça (qui Piedade) e Milhem Cortaz (qui Sr. Edgar), quest'ultimo sempre ottimo, da me segnalatovi più volte per le sue prove anche nei due Tropa de Elite (oltre a quella davvero degna di nota in Carandiru, appunto).

20121014

il doppio del diavolo

The Devil's Double - di Lee Tamahori (2011)

Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: popo' di demente lulì, peggio di su pà


Questa è la storia di Latif Yahia. E chi era costui? Yahia sostiene di essere stato il fedai (il sosia) di Udai Hussein, il primogenito di Saddam. Ha scritto ben tre libri in proposito alla sua esperienza (I was Saddam's Son, The Devil's Double, The Black Hole). Il film racconta che Latif, iracheno di origini curde, di famiglia agiata ed istruita, ex compagno di scuola di Udai, subito dopo aver combattuto nelle file irachene, nel 1987, la guerra contro l'Iran, viene contattato, appunto, per diventare il "doppio" di Udai. Dopo il suo iniziale rifiuto, viene imprigionato, torturato, la sua famiglia viene minacciata. Accetta. Viene sottoposto a piccoli interventi di chirurgia plastica per aumentare la somiglianza con Udai, viene "istruito" a comportarsi, muoversi, parlare come lui, gli viene dato accesso a praticamente tutti i suoi privilegi. Tutto ciò non allenta la tensione tra i due; Latif è comunque in soggezione nei confronti di Udai, dipinto come uno psicopatico sadico e senza scrupolo alcuno. Latif viene dato per morto in guerra, per non far insospettire la famiglia, ma nel tempo riuscirà a contattarla. Le tensioni tra lui e Udai si acuiscono allo scoppio della guerra contro il Kuwait, ed in seguito al fatto che Sarrab, una ragazza madre molto avvenente, una delle preferite da Udai, si innamora di Latif. Esasperati anche dai sempre più frequenti scatti d'ira di Udai, i due decidono di fuggire.

"Ritrovo" con piacere una regia decente di Lee Tamahori, del quale avevo amato il vecchio Once Were Warriors, e detestato (o addirittura non considerato) tutto il resto. Il film, basato su una biografia discussa, ma certo non difficile da credere, girato negli splendidi scenari di Giordania e Malta, ha un gran ritmo, una bella fotografia, un cast composto da bravi caratteristi, e soprattutto uno spettacolare ed istrionico Dominic Cooper (non mi metto a fare l'elenco, ultimamente si trova un po' dappertutto), che interpreta, con la dovuta "distanza", sia Latif Yahia che Udai Hussein; soprattutto nella parte di quest'ultimo, parte che gli permette di andare continuamente sopra le righe (e di ricordare in parte la sua prova in Tamara Drewe), risulta spettacolare e particolarmente odioso. C'è anche Ludivine Sagnier (bellissima attrice francese, in passato anche con Chabrol), nei panni conturbanti di Sarrab. Film non uscito in Italia.

20121013

Bravi bambini

Little Children - di Todd Field (2007)

Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: sposati vai vai...

Suburbia di uno stato del nord degli USA. Famiglie tutto sommato agiate, esteriormente perfette. Ma come sono, nella realtà, dentro le mura delle splendide case, di notte, a letto? Sarah Pierce, madre di Lucy, è una moglie (di Richard) insoddisfatta, che avrebbe bisogno di sentirsi nuovamente desiderata per il suo corpo e per la sua mente, oltre che per la sua dolcezza. Quando scopre che Richard le preferisce il porno su internet, capisce che deve fare qualcosa. Ma cosa? Non lontano dalla casa dei Pierce abitano gli Adamson. Brad fa praticamente il casalingo, si prende cura di Aaron, e quando è al parco le mamme, mentre lo compiangono, lo desiderano. L'unica che ha il coraggio di attaccarci bottone, però, è Sarah, attirando su di sé immediatamente i sospiri di disapprovazione delle altre. La situazione di Brad non è semplice. La bellissima moglie Kathy, documentarista di un certo successo, vorrebbe che lui passasse l'esame e si mettesse a praticare come avvocato; Brad non ne ha nessuna voglia, o meglio, non gli interessa per niente. E' naturale che tra Brad e Sarah nasca qualcosa, qualcosa che travalica la logica. Ma nel vicinato non ci sono solo i tradimenti in agguato. C'è di più. Ronnie J. è un maniaco sessuale che esce dal carcere e torna a vivere con la madre May, donna anziana ma leonina, disposta a tutto pur di difendere il figlio malato. Ovviamente, nel vicinato tutti sanno di Ronnie J. (se conoscete le disposizioni di legge statunitensi saprete perché), e in particolare Larry Hedges, conoscente di Brad, ex poliziotto, è deciso a rendergli la vita molto difficile, fomentando il vicinato contro il maniaco.

Secondo lungometraggio per l'ormai ex attore Todd Field, dopo l'interessante In The Bedroom del 2001 e un episodio di Carnivàle, questo Little Children, basato sul libro Bravi bambini di Tom Perrotta, che scrive con Field a quattro mani la sceneggiatura, che ebbe diverse nomination agli Oscar del 2007, è stato ignobilmente ignorato dalla distribuzione italiana (so che esiste la versione italiana per la tv). Questo però non dovrebbe intimorirvi, come pure la sua durata (137 minuti): Little Children è proprio un bel film, drammatico, emozionale, con un tono cinico che permea l'intero lavoro, una storia che smaschera l'ipocrisia della società benestante, i suoi vizi, ricordando un po' i temi di Todd Solondz (suo omonimo) ma senza avere il suo tono sbeffeggiante, dissacrante e iconoclasta; una specie di versione seria di Solondz.
Field mi pare bravo come regista, riesce a costruire scene che si ricordano, usa bene la tecnica. Inoltre, così come per il film precedente, pure con questo mette insieme un cast che potrebbe dirigersi da solo, altro motivo per cercare e vedersi questo film: Kate Winslet (sempre bravissima) è Sarah, Jennifer Connelly è Kathy, Patrick Wilson è Brad, Jackie Earle Haley (spettacolare) è Ronnie J., Noah Emmerich è Larry, Phyllis Sommerville (Marlene in The Big C) è May, la madre di Ronnie J., anche lei con una prova superba. Nel cast anche Jane Adams (con Solondz in Happiness) nei panni di Sheila, e la piccola Sadie Goldstein, che abbiamo visto in Synecdoche, New York (lì era Olive a quattro anni, qui è Lucy).
Film "oscurato" ingiustamente.

20121012

Homeowners

Padroni di casa - di Edoardo Gabbriellini (2012)

Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: ovosodo fa 'r regista!

Elia e Cosimo sono due fratelli romani, che lavorano per una ditta di bioedilizia (che poi la mettano in pratica, è da vedere). Sono ingaggiati da Fausto Mieli, un ex cantante italiano, sempre abbastanza famoso, che da anni si è ritirato dalle scene, e vive in una elegante villa immersa nel verde dell'appennino Tosco-Emiliano. Devono rifare la grande terrazza; ci vorranno alcuni giorni di lavoro, i due saranno ospitati nella villa stessa. La villa è in un piccolissimo paese dove tutti hanno lo stesso cognome; appena arrivati, Elia si trova immediatamente a confronto con un locale, Davide. Elia, mentre il fratello sta facendo benzina, nota un lupo morto sul cassone di un pick-up parcheggiato lì a fianco; Davide lo invita bruscamente a farsi i cazzi suoi. Fausto accoglie i lavoratori con gentilezza, ma in maniera sbrigativa. Sta preparando il suo rientro sulle scene, con un grande concerto che si terrà proprio in paese; ha un rapporto complicato con la moglie, Moira, costretta sulla sedia a rotelle e praticamente muta, probabilmente la causa del ritiro di Fausto. Moira è accudita dalla badante Alina, ma si rifiuta di prendere regolarmente le sue medicine, e osserva incuriosita l'arrivo dei due estranei. Elia, senza pensarci troppo, quando Fausto dice loro che è testimonial del parco circostante, dove ci sono anche i lupi, rivela al cantante che ha visto un lupo morto giù in paese, su un pick-up. Fausto lo dice immediatamente al sindaco. Iniziano qui le tensioni tra i forestieri e i locali, e proseguono quando i due cominciano ad uscire la sera, frequentando gli stessi luoghi dei "padroni di casa"...

Gabbriellini, che tutti si ricorderanno per aver interpretato il protagonista Piero in Ovosodo di Paolo Virzì, meraviglioso affresco di una Livorno che forse non c'è più, oltre ad aver partecipato a un buon numero di film italiani come attore (non ultimo Io sono l'amore, dove copulava con Tilda Swinton, generando invidia un po' dappertutto, e voglio ricordare anche Ora o mai più, dove ha lavorato con Elio Germano, e Non pensarci, dove ha diviso la scena col protagonista Valerio Mastandrea), aveva esordito come regista ben 9 anni fa con lo stranissimo e felliniano B.B. & il cormorano, dove faceva recitare Selen. Ci riprova adesso con un altro film che è davvero difficile da inquadrare in un solo genere, dove dimostra ancora una volta influenze cinefile tra le più disparate, e costruisce un film, del quale scrive anche la sceneggiatura con altre tre persone, tra cui Mastandrea, che riesce a creare un atmosfera di costante tensione, seppur non esasperandola, e che spiazza lo spettatore che non comprende benissimo dove vuole andare a parare. A partire dalle scene iniziali, che ricordano un po' i maestri iraniani per l'attenzione al particolare naturalistico, fino al crescendo finale che in molti hanno accostato addirittura a John Boorman, magari esagerando, si comprende che il livornese ama il cinema nelle sue molte sfaccettature (notare la battuta su L'orca assassina che viene messa in bocca a Mastandrea), e osa, cercando di creare qualcosa che in Italia non sia troppo visto. Presumendo forse troppo, visto che l'ho incontrato solo una volta, all'uscita di un concerto di Tom Waits, credo che alla stessa maniera ami tutta la musica, e pure con questa osa, mettendo in piedi una colonna sonora varia e inusuale, dal black metal a pezzi di Cremonini scritti per Gianni Morandi. Si, perché adesso c'è da parlare un po' del cast che è riuscito a mettere insieme. I due fratelli sono interpretati da Elio Germano (Elia) e Valerio Mastandrea (Cosimo), così vi spiegate perché ho fatto riferimento a quei due "piccoli" film italiani prima, e c'è da dire che i due funzionano bene. Funzionano meno bene le altre due star, Gianni Morandi che interpreta Fausto Mieli, un po' un suo alter ego, ma molto più discutibile (anche se, in realtà, anche sul vero Morandi girano da anni voci "strane", ma non mettiamoci qui a far pettegolezzi), e Valeria Bruni Tedeschi, qui nella parte di Moira, un po' troppo sopra le righe, decisamente ingiustificata per la parte che è chiamata a fare.
Insomma, Gabbriellini di certo non si è inserito nella scia di Paolo Virzì (come pare invece, ad esempio, abbia fatto il fratello Carlo), e sta cercando decisamente, seppur faticosamente, di trovare una sua strada, un suo cinema (molto curata e da sottolineare anche la locandina). Lo apprezzo per questo; e per far vedere che non ho preconcetti, assegno al suo nuovo film lo stesso punteggio che assegnai l'anno scorso al debutto del pisano GiPi!

20121011

cielo di ferro

Iron Sky - di Timo Vuorensola (2012)

Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: fa stiantà dal ridé

Nel 2018, il Presidente degli Stati Uniti d'America, una donna della quale non conosceremo mai il nome, puntando alla propria ri-elezione per un secondo mandato, nel pieno della campagna elettorale (lo slogan suonerà familiare ai più: Yes She Can) sfodera l'asso nella manica: un nuovo equipaggio sulla Luna, con un astronauta nero. In realtà, James Washington, questo il suo nome, non è un vero astronauta, bensì un modello. Tutto calcolato, insomma. Quello che la Presidente e il suo staff non ha calcolato, è che sulla Luna, già dal 1945, si sono insediati i nazisti, ed hanno per così dire prosperato, impiantando una enorme base a forma di svastica, e preparando enormi quantità di elio-3. Washington viene fatto prigioniero, dopo che il suo compagno di missione è stato ucciso. I nazisti, per il loro ritorno sulla Terra, stanno lavorando ad un'enorme astronave, incontrando però problemi di propulsione. A capo del progetto c'è il Doktor Richter, che scopre, mentre arianizza (non ve la spiego, arrivateci da soli, o meglio, guardatevi il film) Washington, che il suo smartphone può implementare il progetto. Ma la batteria si scarica, ed ecco allora che il comandante Klaus Adler, che per ragioni di eugenetica è destinato a sposare, e a procreare puri ariani con, la terrologa Renate Richter, figlia del Doktor, si offre per andare sulla Terra a recuperare altri smartphone per riuscire a completare il lavoro sull'astronave madre (denominata Gotterdammerung). Si porta dietro Washington, visto che dice di conoscere personalmente la Presidente degli USA, e, a sua insaputa, anche Renate, convinta che il nazismo sia una sorta di fratellanza cosmica tutta pace e amore.

Incuriosito da alcune recensioni di contenuto opposto, e dalla tematica, mi sono visto questo film che nelle sale italiane dovrebbe uscire oggi: non fatevi ingannare dal cambio della tagline sulle locandine (da We come in peace - e The World is sick. And we are the doctors - a Saranno nazi vostri, che a mio parere rende tutto più grossolano, e potrebbe non invogliare uno spettatore mediamente intelligente), questo film è all'altezza delle migliori cose di Mel Brooks. Girato con un basso budget dal finlandese Vuorensola, anche attore (non in questo caso) e cantante della band dark ambient Alymysto, regista di Star Wreck: In The Pirkinning, parodia di Guerre stellari (ed altro) andata in onda in Italia direttamente in tv su Jimmy, Iron Sky è un film satirico divertente e intelligente, visivamente bello e con un cast di sconosciuti, escludendo il mitico Udo Kier nei panni del nuovo Fuhrer Wolfgang Kortzfleisch, davvero bravi a creare un'atmosfera ridanciana. Bellissima Julia Dietze (Renate Richter), convincente Gotz Otto (Klaus Adler), spassosi Stephanie Paul (la Presidente degli Stati Uniti d'America) e Christopher Kirby (James Washington).


20121010

Bir zamanlar Anadolu'da

C'era una volta in Anatolia - di Nuri Bilge Ceylan (2012)

Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: strano. E anche peso.

Regione dell'Anatolia, Turchia, vicino alla cittadina di Keskin. Una sorta di "spedizione", che comprende autista, il dottor Cemal, il commissario Naci, il procuratore Nusret, e un discreto stuolo di poliziotti, stanno conducendo in giro il sospettato di un omicidio; questi ha confessato di aver occultato il cadavere (ma non il suo omicidio), e si ricorda di averlo sotterrato vicino ad una collina e ad un albero. Ma quale collina, e quale albero? Il loro girovagare diventa una sorta di Odissea notturna, durante la quale fanno una sosta presso il sindaco di un villaggio minuscolo, che accoglie la squadra con tutti gli onori, e pure con tutta la desolazione della propria povertà. La ricerca continua, finché all'alba il corpo viene ritrovato. Deve, a questo punto, essere trasportato a Keskin per l'autopsia ed il riconoscimento da parte di un membro della famiglia.

Sesto film per il regista turco, che scrive la sceneggiatura con lo stesso team de Le tre scimmie (Ercan Kesal, attore per lui in Uzak, Le tre scimmie, e qui nella parte di Mukhtar) e alla moglie Ebru (che abbiamo visto ne Il piacere e l'amore come attrice). Struttura ispirata a Cechov (citato nei titoli), diviso in tre parti ognuna "dedicata" ai tre protagonisti (Cemal, Naci e Nusret), e con una storia raccontata, con grande "difficoltà" perché interrotta e ripresa più e più volte, tra i protagonisti, che fa da filo conduttore, quella della donna che aveva previsto la propria morte. Essendo uscito qui da noi, un po' in sordina a dire la verità, quest'anno (in giugno, per l'esattezza), mi sbilancio dicendovi che questo film lentissimo, della ragguardevole durata di due ore e mezzo, pesante come una traversina di legno per binari del treno, è uno dei film più belli, intensi, interessanti, visti in Italia, appunto nel 2012. Come sa chi ha seguito, anche in differita, come me, il percorso di Ceylan, il regista turco non è uno che cerca scorciatoie, e come dicono spesso critici più bravi e puntuali di me, chiede molto allo spettatore, attenzione e dedizione completa, ma alla fine lo ripaga sempre, anche se spesso a distanza di ore, o addirittura giorni.
Questo film, forse più di altri suoi lavori, è una chirurgica riflessione sull'esistenza, e al tempo stesso una spettacolare visione di cinema. Facce indimenticabili, come quella di Firat Tanis (Kenan, il sospettato), o quella di Taner Birsel (il procuratore Nusret), fotografia fantastica, scene di grandissimo impatto (tutta la sequenza della cena), per un cinema sicuramente di nicchia, ma che almeno non è dannatamente stereotipato. Vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes 2011 (a pari merito con Il ragazzo con la bicicletta).

20121009

Algeri, New Orleans

Algiers - Calexico (2012)

Forse non vi è mai capitato, a me si. Quella stranissima sensazione che vi dà il rendervi conto che amate una persona che, a sua volta, avrebbe potuto amarvi in un altro qualsiasi momento della sua vita, ma non in quello nel quale ve ne siete innamorati voi. Ecco, in una maniera simile mi sono sempre sentito nei confronti dei Calexico. Una band che prende il nome da una cittadina (di frontiera) che prende il nome tra un mix di California e Mexico, che fa suo un mix tra folk, americana, tex-mex e mariachi, quantomeno per la parte messicana non potrebbe non piacermi, in teoria. In pratica, non era mai scoccata la scintilla tra me e loro, in questi anni. Finché, galeotta Amparo Sanchez ed il suo meraviglioso Tucson/Habana, suonato con alcuni di loro, mi ha spinto inconsciamente a comprenderli appieno. A questo punto, a mia insaputa, la cotta era pronta; in questo modo, dal momento in cui ho messo su la fighissima versione Deluxe (contenente un secondo dischetto con versioni live di loro pezzi vecchi ma pure di alcuni contenuti in questo ultimo lavoro) di questo loro nuovo disco, che prende il nome da un quartiere di New Orleans (dove il disco è stato registrato), l'ho amato. Fin dall'apertura di Epic, dove appunto chitarre mariachi fanno da tappeto alla vellutata voce di Joey Burns, il disco mi è piaciuto tantissimo, ha fatto breccia nel mio cuore. Una sequela di canzoni dolci e malinconiche, che toccano l'apice con No Te Vayas, cantata dal trombettista/tastierista (e, ovviamente, all'occorrenza cantante) Jacob Valenzuela, un pezzo che in alcuni passaggi ha addirittura una vaga somiglianza con Comandante Che Guevara di Carlos Puebla, odora di Messico e finisce in un soffice jazz scandito da un'elegante tromba. Davvero un bel disco.

20121008

back in black

Attenzione: Black Mirror avrà una seconda stagione. Direi wow.
Dal sito della BBC: Black Mirror gets second series. Siete ancora in tempo per mettervi in pari.

maggiore età

Come of Age - The Vaccines (2012)

Secondo disco dei londinesi, dopo il debutto dello scorso anno What Did You Expect From the Vaccines, questo Come of Age non sposta di una virgola la descrizione che vi feci a loro proposito (sempre nella recensione del loro primo disco): echi di Ramones annacquati, quasi dei cloni meno emozionanti dei Glasvegas. Diciamo che sono andati sul sicuro, se non fosse che la cosa perde in freschezza e, di certo, non sorprende più. Canzoncine mediamente felici e ben composte, ma senza gridare al miracolo, che si ascoltano con una certa indifferenza non ostile, un paio di volte al massimo, e poi si dimenticano in breve tempo.
Passiamo oltre, senza rancore, ma grazie per averci provato, ragazzi.

20121007

tutti quelli che amiamo che ci lasciamo alle spalle

All We Love We Leave Behind - Converge (2012)

Tamponare un camion con un'auto familiare. Ribaltarsi con la macchina. Fare un testacoda triplo causa la strada bagnata. L'equivalente adrenalinico ed emozionale di ascoltare un disco dei Converge. Si inizia con un primo ascolto nel quale, per quanto tu possa amarli (solo perché appartieni alla categoria, minoritaria, che li ama; l'altra non è che li odia, è che proprio non li può sentire), ti dici che hanno rifatto l'ennesimo stesso disco. Poi entri nei particolari, dentro. Ed il fiume in piena dei tum-cha tumtum-cha di hardcorepunkiana memoria (seppure accelerati all'impazzata) ti travolge. Quando rallentano, dopo metà disco, tornano alla mente i Metallica (Coral Blue, Shame in the Way) quelli veri, quelli pre-Load (questa è una battuta che fa ridere solo me, ma mi piace lo stesso; il preload è una funzione di SAPP per la logistica intermodale); ma dentro il sound dei Converge, come saprà già chi li conosce, ci sono quarant'anni di metal e quasi altrettanti di hardcore punk, passando per il crossover che arrivò direttamente dal crust punk.  Il disco, dal titolo romantico e un po' decadente, segue di poco uno split con i Napalm Death, una sorta di investitura o di un passaggio di consegne, vedete voi. In questo split, i Converge rifanno (alla grande) Wolverine Blues degli Entombed di Nicke Andersson: il cerchio si chiude, per uno come me che nel 1978 era un kissomane, e adesso ascolta, quasi idolatrandoli, anche i Converge. Chi vuol capire capisca.
Il senso di, passatemi il neologismo, apocalitticità che da sempre contraddistingue la musica del quartetto di Salem, Massachusetts, è già racchiuso nella prima strofa del micidiale pezzo di apertura, Aimless Arrow:
"To live the life you want/You've abandoned those in need/A necessary casualty/Or so you believe/Your wake will always travel/And well up in the eyes/Of those that you sacrificed/In order to survive".




Andate alla title-track, la traccia 13 nella versione "normale", la 15 in quella Deluxe: sono i Black Sabbath suonati da una punk band. Seguite la traccia di chitarra di Kurt Ballou (come sempre, anche produttore): impressionante. Tralascio giudizi sul complessivo drumming di Ben Koller: il ragazzo è lo Stewart Copeland del metal.
Ancora una volta, ascoltatore colpito e affondato. Nel 2005, dopo averli visti live, scrissi che in mano loro, il futuro del metal era in ottime mani. Sono felice di averci preso.