No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20131130

fortezza

Fortress - Alter Bridge (2013)

Poi ci sono le band come gli AB, che, come dicevo qualche giorno fa, sfornano dischi che non si differenziano così tanto da quelli precedenti, e però mica sono brutti, naturalmente, per chi ama questo genere un po' démodé, ma che annovera ancora molti proseliti, perfino tra i giovanissimi (e io ancora sto qui a chiedermi perché, nonostante la mia profezia di tanti anni fa).
Stranissima storia, quella della band basata ad Orlando, Florida, come credo ormai saprete. Formatisi in seguito allo scioglimento dei Creed, non sono terminati con la loro reunion, ma sono divenuti la prima, forse, band che vive a periodi alternati. Alternandosi, appunto, con i Creed, con i quali condividono tre quarti della formazione.
Non finisce qui: gli AB sono capitanati da un axe hero che una volta era timido, adesso è solo un bravissimo chitarrista che non ama troppo mettersi in mostra, anzi, addirittura lascia ampio spazio, anche live, al cantante, che è pure un buon chitarrista. Riprenderò il concetto, dell'axe hero che fu timido e adesso non proprio, in seguito. I componenti della cosiddetta sezione ritmica (Brian Marshall al basso e Scott Phillips alla batteria), seppur musicisti di tutto rispetto, rocciosi e senza sbavature, mantengono il loro ruolo di gregari, senza mettersi troppo in mostra e pestando duro, dritto per dritto. L'altra grande, enorme, immensa risorsa di questa band, è la voce del cantante, Myles Kennedy, che come detto suona pure la chitarra, e che possiede, senza ombra di dubbio, una delle voci più belle, estese, impressionanti, del rock odierno.
Ora, chi di voi ama il rock, sa che chitarrista fenomeno e cantante pure, ti fanno essere già oltre la metà dell'opera. E così è, almeno questa volta, per questo quarto disco che, almeno secondo me, è superiore al precedente, e consolida gli AB come una delle realtà più scintillanti del metal non estremo, tendente al classic. Fortress è un disco che è piacevole da ascoltare nella sua interezza, solido e spesso come una parete antica, con un wall of sound chitarristico sostenuto, alternato ad intermezzi acustici atti più che altro a riprendere fiato, composto da svariate driving song. Dentro la musica degli AB ci sono le influenze classiche dell'hard rock e dell'heavy metal, come pure, tra le righe, quelle del blues (Lover), un songwriting magari non sublime e ricercato, ma tutto sommato efficace perché osa poco ma fa rendere al meglio gli arnesi a disposizione. Che non sia un disco intellettuale lo si capisce pure dai testi, ma non è che possiamo sempre girare con gli Arcade Fire negli orecchi (band che, ricordiamocelo, secondo me fa abbastanza cagare, e ultimamente pare se ne stia cominciando ad accorgere perfino una parte della cosiddetta critica specializzata), o con i Dirty Projectors (già molto, molto meglio).
Tanto per estendere i concetti delle cose migliori del disco e della musica degli AB, e per scrivere qualche riga in più, riprendo la cosa dell'ex axe hero timido. Parliamo, come molti di voi già sapranno, di Mark Tremonti, chitarrista molto quotato, personaggio molto amato anche dalle truppe statunitensi, amante forse più dei riff granitici che degli assoli. Molti, me compreso, conoscendolo e vedendo cosa era (è) capace di fare con le sei corde, si lamentavano che fosse troppo parco negli assoli. Pian piano, il ragazzo ci ha lavorato sopra, uscendo lo scorso anno con un debutto solista niente male, e mettendosi pure a cantare (e perfino qui, con gli AB, funge da lead vocals su Waters Rising), ma quel che è, secondo me, più importante, pur rimanendo un grande chitarrista che "gioca per la squadra", meglio, che si mette sempre al servizio delle canzoni, anziché di quelli che fanno affiorare una canzone in mezzo ad un assolo, ha, come dire, vinto la timidezza, e si lancia senza timore in assoli travolgenti, seppure mai debordanti, che più spesso arricchiscono e infiocchettano i pezzi degli AB, mostrando uno dei valori aggiunti del sound AB.
Concludendo, tra le tracce da ricordare, la splendida partenza di Cry of Achilles (appunto, ricca di assoli), la sincopata The Uninvited, le riffose Peace Is Broken, Farther than the Sun (forse la mia favorita) e Cry a River, la ballad niente male All Ends Well (dove Kennedy raggiunge vette davvero importanti), ma nella sua interezza, Fortress rappresenta un disco considerevole.

PS La copertina, non male, è opera di uno dei fratelli di Tremonti, Dan.

20131129

i giorni sono andati

Days Are Gone - Haim (2013)

Dal fatto che la band non abbia ancora una pagina Wikipedia in italiano possiamo evincere che ancora non hanno "sfondato" qui da noi: lo faranno presto, a meno che le orecchie italiane non siano foderate di prosciutto.
Este Arielle Haim (27 anni, basso e backing vocals, ma suona anche la chitarra in realtà), Danielle Sari Haim (24 anni, batteria, chitarra solista e voce principale) e Alana Mychal Haim (22 anni ancora da compiere, chitarra ritmica, tastiere, piano, sintetizzatori e backing vocals) sono tre sorelle californiane della San Fernando Valley, nate da famiglia di origini ebree, che formano le Haim assieme al batterista Dash Hutton (figlio di Danny, cantante statunitense di origini irlandesi, attivo da metà anni '60 in svariate band); questo Days Are Gone è il loro disco di debutto, uscito a fine settembre dopo quattro singoli che hanno generato un hype importante, e c'è da dire che anche se l'indie pop non fosse esattamente il vostro genere preferito, se provate ad avvicinarvici potreste rimanerne fortemente colpiti.
Genitori musicisti amatoriali ma grandi appassionati di musica rock e americana, Danielle ed Este già nelle Valli Girl, band che ebbe un discreto successo negli anni zero, dal 2006 decidono di formare una propria band assieme alla sorellina Alana. Mentre espandevano i loro interessi musicali al pop e all'r'n'b più commerciale (influenza che si sente prepotente in diversi pezzi, ma che le ragazze riescono a mescolare mirabilmente in sede di songwriting, creando un'amalgama invidiabile e dannatamente catchy) e completavano gli studi, si mettevano in mostra come musiciste non certo alle prime armi. Danielle soprattutto: batterista per una band che apriva per un tour di Jenny Lewis, poi chitarrista proprio per Jenny Lewis, chitarrista e percussionista per Julian Casablancas che l'aveva vista suonare per la Lewis, in seguito anche nelle Scarlet Fever, la backing band di Cee-Lo Green.
Paragonate spesso ai Fleetwood Mac, solo il tempo ci dirà se se lo meritano. E' vero che oggi le band di qualsiasi genere durano molto ma molto meno, ma è innegabile che Days Are Gone mostra una classe cristallina e, come detto, un'amalgama di influenze diverse ma ben miscelate. Non ultimo, un songwriting davvero impressionante. Non fermatevi ai numerosi singoli e ai pezzi più orecchiabili quali Falling (ennesima rivisitazione di Don't Stop 'Til You Get Enough), The Wire, Forever (irresistibile, sbarazzina, fresca anche se anche questa sa tantissimo di Michael Jackson), Don't Save Me, If I Could Change Your Mind (molto The Strokes, ma con una deriva, per così dire, pop-caraibica), ma ascoltate di cosa sono capaci, e arrivate fino a Running If You Call My Name (che a me piace tanto). Sinceramente, non mi frega niente di chi le ritiene leggerine e pompate dalla cosiddetta critica specializzata. Se si mantengono...

20131128

il gene egoista

Ancora una puntata di Head to Head con il prof. Richard Dawkins, da qualcuno indicato come il pensatore vivente più importante del mondo. Il gene egoista è il titolo italiano del suo primo libro.

20131127

This Is the End

Facciamola finita - di Evan Goldberg e Seth Rogen (2013)
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)

Una sera come tante altre a Los Angeles, in quella L.A. dove vivono e cazzeggiano tutti i giovani attori brillanti e altre star di rilievo sulla scena statunitense. Jay Baruchel arriva dalla costa opposta per passare un po' di tempo con il suo grande amico Seth Rogen, che amorevolmente lo va a prendere all'aeroporto, lo conduce a casa sua per fargli vedere le novità, e poi lo porta con sé ad una festa che si svolge a casa di James Franco. A dire il vero, Seth deve insistere un po': Jay se la dice poco con tutti questi protagonisti della costa ovest, li sopporta a malapena. A casa Franco c'è un sacco di gente: Jonah Hill, il più odiato da Jay mentre, apparentemente, Jonah è gentilissimo con lui, il simpatico Craig Robinson, l'antipaticissimo Michael Cera, la sempre più figa Emma Watson, l'imbranato (per davvero?) Christopher Mintz-Plasse, David Krumholtz, perfino Rihanna. Quando Jay e Seth escono per un attimo, accade una cosa stranissima, che Seth inizialmente nega anche a se stesso di avere visto, ma che, purtroppo, si rivela solo il preliminare di quello che accadrà di lì a poco: in breve, l'Apocalisse. Quella vera. Voragini, terremoti, distruzione, mostri, gente che muore ogni millisecondo. E Jay, Seth, James, Jonah, Craig, raggiunti poco dopo da Danny McBride, si ritrovano a dover sopravvivere dentro la casa che, poche ore prima, faceva da sfondo ad una festa spensierata, col terrore di dover fare i conti con quello che c'è fuori, e col giudizio divino.

Ok, è vero, l'idea di tutto questo gruppo di giovani attori brillanti che interpretano la versione peggiorata di se stessi può essere un'idea interessante. Qualche battuta divertente, siparietti passabili, citazioni e parodie da appassionati di cinema di tutti i tipi. Che la colonna sonora sia praticamente eccezionale è vero. Però, non ho davvero capito tutte le recensioni positive che questo film ha avuto. Che sia la versione allungata del cortometraggio Jay and Seth Versus the Apocalypse, del 2007, è evidentissimo, e 107 minuti di allungamento del brodo sono davvero troppi. Un fumettone, nemmeno troppo divertente, una variazione sul tema bromance allargato, pompato a dismisura, che non vale il prezzo del biglietto. Seth Rogen, che scrive la sceneggiatura con Evan Goldberg e Jason Stone, sarà anche un bravo attore comico, ma non è Kevin Smith, quando si tratta di inventare storie, nonostante tutti i film brutti che ha fatto Kevin Smith.

20131126

new look

Era l'ora o no?

The Trouble with Islam Today

Ho ritrovato, su youtube, la famosa trasmissione (Head to Head) per mezzo della quale ho conosciuto questa scrittrice, Irshad Manji. Se ne avete voglia, e se avete voglia di mettere alla prova il vostro meraviglioso inglese, eccola a voi.

20131125

abbandono

Abandon - Pharmakon (2013)

Ecco. Quando sei curioso, capita poi che ti imbatti in roba come Abandon, primo disco dopo una serie di demo su cassette e CD-R della ventiduenne newyorkese Margaret Chardiet, figlia di genitori punk, totalmente dedita alla sperimentazione noise con voce e sintetizzatori. Un disco come Abandon richiede coraggio sia da parte di chi lo pubblica, come pure dalla parte di chi lo ascolta, o almeno ci prova. Abandon è decisamente estremismo sonoro, all'ennesima potenza. Droni elettronici, spirali di suoni ripetitivi, lamenti e urla della ragazza di New York che molti accostano a Throbbing Gristle e Swans, ma che a me ha fatto pensare, fatte le dovute proporzioni e considerando i terreni sonori leggermente, ma solo leggermente distanti, alla diabolica Diamanda Galàs.
L'atmosfera è da film horror, il disco è davvero terrificante (se riuscite a recuperare la bonus track Sour Sap, 27 minuti e 10 secondi di follia, potrete dire, dopo averla ascoltata, di aver capito cosa accade durante un esorcismo), paradossalmente nel senso buono del termine: ti spaventa, ti scuote, ti spiazza, ti destabilizza, ti proietta in una dimensione che va oltre quella del semplice ascolto. Richiede impegno e sopportazione, e so che normalmente soprattutto il secondo aspetto deporrebbe a sfavore di un disco. Ma, come detto, e come forse sono riuscito a farvi intuire, qua siamo ai confini della musica.
A voi la sfida.

20131124

diventando per sempre

Forever Becoming - Pelican (2013)

Parlando francamente, ci sono un sacco di band che continuano a rilasciare dischi senza aggiungere niente di più a quello che hanno già detto; penso, tanto per rimanere agli ultimi mesi, alle nuove uscite di Monster Magnet o degli immarcescibili Motorhead. Nonostante ciò, gli ascolti rimangono esperienze piacevoli, anche se non eccitanti o rivelatori.
Nel caso dei Pelican, attivi dal 2000/2001 ed autori di un post rock che confina con il metal e con lo stoner rock, si potrebbe dire lo stesso, eppure ascoltare le loro arzigogolate cavalcate fatte di saliscendi metallici, con contrappunti di chitarre più pulite e ispessite da bassi distorti all'ennesima potenza e chitarre in modalità drone, personalmente mi dà un certo godimento, sarà perché ogni volta ho l'impressione di essere trasportato in sala prove per delle jam session selvagge, immedesimandomi nel drumming forse poco virtuosistico, ma dannatamente potente e preciso, di Larry Herweg.
Meno "intellettuali" (e quindi meno noiosi) dei Godspeed You! Black Emperor, versione metal dei Mogwai, forse meno carismatici degli Isis ma di certo in possesso di una certa personalità, seppure low profile, il quartetto (di recente uno dei chitarristi fondatori, Laurent Schroeder-Lebec ha abbandonato amichevolmente la band, sostituito dal componente dei The Swan King, Dallas Thomas, che per il momento accompagna la band in tour ma non partecipa al processo creativo) di Chicago continua sulla strada della musica completamente strumentale, aggiungendo un altro tassello alla loro carriera; che non sarà mai sotto i riflettori o sostenuta dall'hype, ma di certo non è meno luminosa di altre.
Evocativa e ipnotica, a volte prevedibile, la musica dei Pelican deve possedere qualcosa, se riesce a far dire a Colin St.John di Pitchfork, a proposito del singolo (qua di seguito) Deny the Absolute (titolo straordinario, come molti dei Pelican): "Una canzone straordinaria, sorprendentemente ancor più centrata. Sbuffa a lungo in maniera sinistra e feroce, come qualcosa che il colonnello Kilgore potrebbe aver scelto di suonare dopo la Cavalcata delle Valchirie" (non dovrei dirvelo, Apocalypse Now).

20131122

prigionieri

Prisoners - di Denis Villeneuve (2013)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Pennsylvania, USA. Provincia profonda, uomini rudi in jeans, pick up e camicie da taglialegna, che educano i figli a sparare ai cervi, e quando i figli abbattono il primo (ciervo, alla Verdone) gli dicono "sono orgoglioso di te". I Dover (bianchi) e i Birch (neri) sono migliori amici: Keller, capofamiglia tutto d'un pezzo, e Franklin, padre e marito dolce e appassionato di musica, Grace e Nancy, madri amorevoli, Ralph ed Eliza, in procinto di fidanzarsi tra di loro (non c'è scritto da nessuna parte, ma credete a me), le piccole Anna e Joy, compagne di giochi. Il giorno del tacchino (Thanksgiving) naturalmente li vede ospiti, in un giorno sereno anche se fuori piove (a sprazzi). Le piccole vogliono andare fuori a giocare, mentre spiove, e ovviamente Keller incarica i figli grandi di tenerle d'occhio. Non accade niente, ma fuori c'è un camper sospetto. Il pomeriggio passa tra risate e amarcord, e le bambine vogliono giocare ancora. Misunderstanding di rito, e le bambine, d'un tratto, non ci sono più. Sparite, volatilizzate, come il camper. Come se l'avessi scritto io, inizia la corsa intorno all'isolato mentre ricomincia a piovere. Niente. Nada. Si avverte la polizia. Che magicamente non cita la solita frase di rito, che dopo anni e anni di film americani abbiamo imparato a memoria: se non passano tot ore non possiamo dichiararle eccetera, perché qui ci sono delle deliziose bambine e il mondo è piano di pedofili, anche se in questo film si intravede una chiesa a malapena (che cattivone che sono). Ricerche a tappeto, un detective che non sbaglia mai un colpo e che naturalmente è un po' strano ma anche un po' figo, un genitore che sbrocca (Keller) e l'altro che piange (Franklin), una che si rifugia negli antidepressivi (Grace) e l'altra che sorprende (Nancy).

Avrete capito dal tono del riassunto che 'sto film non mi ha esaltato. Eppure non sono riuscito a trovare una recensione negativa, e l'8,1 di imdb.com sta lì a guardarmi che sembra prendermi per il culo e dirmi "non ci capisci una sega, bello". Eppure, sentivo che dovevo dirvelo, dovevo riprendere a scrivere anche di cinema, che ormai è passato un po' di tempo. C'è da dire che dopo aver visto un film come Incendies (La donna che canta, per noi sfigati italiani), ma anche come Polytecnique (e non dimentichiamoci Maelstrom, che già ci dava delle dritte sul cinema che vorrebbe fare Villeneuve, altro tassello che ci dice che questo film qua non è farina del suo sacco), come dire, nulla ha più senso, e, come mi ripetevo a partire dai titoli di testa di questo Prisoners, questo è chiaramente un "film su commissione", una major ha messo insieme un cast da farci un bel gruzzoletto al botteghino e poi ha detto "chiamiamo un regista che ha fatto qualche bel film indie così ci diamo una patina di alternative", e così è andata.
Intendiamoci: piantandola di fare lo snob, Prisoners è un bel filmone pseudo-thriller che paradossalmente tiene lontana la suspense con un bel ritmo lento, inserendo gli elementi poco a poco, claustrofobico ma panoramico, grigio ma anche scuro, che prova ad essere perfino introspettivo (ma non ci riesce per niente, secondo me, ma magari sono io), che però si rivela il solito depistaggio con colpo di scena finale (minchia, ma mai una volta che l'assassino o lo stupratore o lo psicopatico di turno sia quello che si vede nella prima o nella seconda scena) e morta lì. Ecco, c'è da dire che dura due ore e mezzo e nemmeno te ne accorgi, sarà per le tonalità grigie, sarà perché per due ore e mezzo mi son chiesto se Jake Gyllenhaal (detective Loki, il fratello furbo di Thor) faceva finta o c'ha davvero il tic agli occhi, sarà perché per due ore e mezzo mi aspettavo che Hugh Jackman (Keller Dover, l'uomo che non deve chiedere mai, a parte quando va in chiesa) da un momento all'altro si mettesse a cantare, sarà perché per due ore e mezzo mi aspettavo che Maria Bello (quanto è strana la vita: una recita ne Le ragazze del Coyote Ugly, e poi dopo 5 anni si ritrova in A History of Violence) si spogliasse, sarà come sarà, mi è passata bene ma alla fine avevo voglia di farmi una pizza.
Ah, ci sono anche Viola Davis (Nancy Birch), Terrence Howard (Franklin Birch), Melissa Leo (Holly Jones), Paul Dano (Alex Jones), e che ci crediate o no, nessuno di loro mi ha fatto sobbalzare sulla poltroncina.

20131121

breathlessness

Le cose stanno così: affanno è la parola che mi si materializzava di fronte in questi ultimi giorni. Sono in affanno soprattutto per mantenere la media di un post al giorno, è questo che mi preoccupa maggiormente. Anche se non è vero, un po' mi scoccerebbe che quei pochi ma fedelissimi appassionati non trovassero l'ormai consueto post delle sei di mattina; cercandone la traduzione inglese, mi sono imbattuto in questo altrettanto bellissimo breathlessness che fa da titolo.
Come mai? Semplicemente, e senza farla troppo lunga che, in fondo, un po' vi interessa ma dopo un po' anche no, il lavoro. La settimana scorsa ancora nelle lande padane, una settimana ricca di amici, amiche, ma anche di quegli splendidi colleghi e colleghe di cui vi parlai la volta scorsa, fatta di cene in solitario in ristoranti a volte mai conosciuti come di sorprese, di qualche cinema, anonimi multisala ma pure cinemini di provincia in versione cineforum del giovedì con un pubblico di tutto rispetto, e di a letto presto perché in fondo è bello anche così, e i letti degli alberghi hanno quei materassi così rigidi che ci si dorme da dio.
Gli amici e le amiche hanno fatto come da parentesi a questa settimana lavorativa, terminata la quale mi sono sentito molto più sereno della volta scorsa. Poi, però, come se quella fosse la settimana di prova (che se poi ci ripenso mica è vero), si torna alla realtà e, complici alcune assenze e la voglia di capire tutto subito, il lavoro ti assorbe e ti succhia fino al midollo, che io mica sono capace di fare il distaccato.
Ci sono sere, quando attraverso il cancello che da 100 anni segna la fine del paese e l'inizio del lavoro, tornando verso casa, che mi domando se sono normale, a prenderla così di petto. E poi, con calma, quando la trovo, mi rispondo che adesso ci sono anche altre persone, alcuni pure amici, che da me si aspettano aiuto, guida, perfino incoraggiamento, da me che il complimento più largo che riesco a fare ad un collega è "sei duro" (che anche questo, se ci penso bene, mica è vero: dovreste leggere le email di ringraziamento che mi capita di scrivere ogni tanto). E realizzo, sempre un po' in ritardo, come l'impossibile di quella scritta che vidi su un muro di Rosario, Argentina anni fa, che è necessario (per me) cambiare discretamente mentalità, una di quelle cose che forse tutti noi ci ripromettiamo di non fare, da giovani. "Devi cominciare a pensare da manager" mi disse tempo fa la mia capa. C'è da rabbrividire, secondo da quale punto di vista la prendi. Eppure, non lo considero un tradimento, o cose del genere. Se per manager si intende, come faccio io, gestore di una squadra, una sorta di allenatore appunto, che indica la via e dà le direttive. E quindi come quello devo imparare ad usare bastone e carota, a diversificare i modi di parlare con i vari componenti, ad ascoltare, anche tra le righe, a dedicar loro un poco di tempo per volta, anche a farli sfogare. Una sfida tra le altre sfide.
Ecco, ora vi dico una cosa che a certuni suonerà come una sorta di giustificazione, un po' come tutta 'sta tirata, ma invece non lo è. Chi mi conosce a fondo (ci ho pensato, lo scrivo spesso, e mi viene il dubbio che magari non ci sia neppure chi mi conosce a fondo, chissà) sa che non sono una persona che aspira alla carriera, arrivista, che vuole avere qualcuno da giudicare, a cui piace dare ordini, impartire direttive. E, intendiamoci, non è che l'ultima svolta sia segno di "carriera". Certo, sicuramente è un passo avanti, un riposizionamento dell'intera struttura che di certo, mi inquadra potenzialmente più in alto di prima, nella struttura gerarchica di questa che amo definire pachidermica società multinazionale.
Alla fine, per me il lavoro è, ancora oggi, una sorta di "gioco serio", un compito giornaliero che serve ad un obiettivo, anzi a più di uno. Uno è certamente portare a casa la pagnotta a fine mese, ci mancherebbe; l'altro è la customer satisfaction, unito al problem solving. Ma, believe it or not, per me è ancora oggi, curiosità, sfida, cercare di far incastrare le cose al meglio, far di tutto perché tutti trovino anche solo un briciolo di soddisfazione, un sorriso per te stesso, che ti indica che hai fatto, appunto, il tuo lavoro, e lo hai fatto in maniera buona.
Idealista? Arrivista? Democristiano? Carrierista? Yes-man? Venduto? Capitalista? Uomo-azienda? Opportunista? Non lo so. So solo che quello che ho scritto, soprattutto nelle ultime righe, rappresenta la mia filosofia del lavoro, frutto di quello che mi ha insegnato mio padre, filtrato dalle mie esperienze personali e dalle mie personali, personalissime convinzioni.
Dove mi porterà, non ci è dato sapere. L'importante è riuscire a mantenere quella punta di curiosità che mi guida, spesso prima delle 6,00 del mattino, verso quel cancello lì.

20131120

Camila

Parafrasando quella vecchia barzelletta si potrebbe dire "o chi è quel vecchietto accanto alla Camila?". E se non sapete chi è Camila Antonia Amaranta Vallejo Dowling, 25 anni, appena eletta nel parlamento cileno, beh, non mi siete per niente sul pezzo.


20131119

cittadino o straniero 2

Mi perdonerete, ma ancora su youtube non si trova il secondo episodio, già andato in onda, quindi per chi fosse interessato, qui il link per vederlo direttamente sul sito di Al Jazeera.

http://www.aljazeera.com/programmes/specialseries/2013/06/201361314412558551.html

20131118

il dolore è bellezza

Pain Is Beauty - Chelsea Wolfe (2013)

Conosciuta casualmente (e in ritardo, per cui mi cospargo umilmente il capo di cenere e proseguo solo dopo aver fatto una passeggiata in ginocchio sui ceci), ma anche per la mia insaziabile curiosità musicale (sono andato a cercarmi musica sua immediatamente dopo aver ascoltato le imitazioni di Mark Lanegan, dove appunto l'ex Screaming Trees rifaceva la di lei Flatlands, quindi poco prima che esplodesse l'hype underground che ha preceduto e poi accompagnato l'uscita di questo suo quarto disco), bisogna ammettere che la signorina di Sacramento, un po' per la sua immagine ma soprattutto per la sua musica, che di certo non è scevra da influenze (le più disparate, a dire il vero), ha il suo dannato perché. PJ Harvey, Zola Jesus, Siouxsie, una base vagamente folk sulla quale la Wolfe innesta un mood decisamente dark (ma capace di stupire con scelte impensabili, vedi la base elettronica quasi anni '80 di The Warden), una voce perennemente filtrata (in maniera quasi impercettibile, il che in definitiva non toglie niente alla sua bellezza, sia chiaro), chitarre usate in modalità drone, melodie ariose che paradossalmente creano una sensazione claustrofobica, il tutto condito, lasciatemi dire amaramente, da testi ermetici quanto basta da far capire che Pain Is Beauty è un disco dettato dal dolore della perdita, ma calato nei nostri tempi e visto da una persona che, almeno nelle sue liriche, si sente romanticamente apocalittica. "No one ever told/I showed you how to hold my hand/and kiss me slow and unending/I'll show you how to love (an endless war)" canta in We Hit a Wall, uno dei pezzi più immediati, dando l'idea di quanto dolore ci possa essere in un amore. E, credetemi, ascoltare pezzi come They'll Clap When You're Gone (veramente bellissima), o The Waves Have Come (che Jenn Pelly di Pitchfork insinua essere un racconto di un sopravvissuto al terremoto/tsunami giapponese di due anni fa), anche se, come un po' tutto il disco, possono richiedere qualche ascolto per essere apprezzati, può diventare un'esperienza catartica e travolgente.

20131117

cittadino o straniero 1

Un bel documentario, presentato qualche giorno fa da Al Jazeera English, diretto da Jon Kalina, racconta la storia di una famiglia somala che si è separata una ventina d'anni fa a causa della guerra civile, e si è radicata in sei differenti nazioni.

http://www.aljazeera.com/programmes/specialseries/2013/06/201361314412558551.html


20131115

Puente Rìo Bravo

The Bridge - di Meredith Stiehm e Elwood Reid - Stagione 1 (13 episodi; FX) - 2013

Una sera qualsiasi. Sul Bridge of the Americas, quello che collega USA e Messico tra El Paso, Texas e Ciudad Juàrez, Chihuahua, viene ritrovato un cadavere di una donna. E' stato messo lì esattamente nel momento in cui tutta l'illuminazione è saltata. Ed è stato posizionato con precisione al confine tra i due Stati. I due detective non discutono per l'assegnazione del caso: Marco Ruiz, quello messicano, calmo, lento e claudicante (capiremo poi perché), è ben contento di lasciare il caso a Sonya Cross, quella statunitense, metodica, quasi robotica, che ha evidentemente problemi a relazionarsi con il prossimo (capiremo poi perché), e che si trova quasi immediatamente a lamentarsi di Marco, nonostante il messicano si disinteressi al caso (lui lascia passare un'ambulanza con a bordo un anziano con problemi di cuore, mentre lei non vorrebbe contaminare la scena del crimine). All'obitorio, ci si accorge che il cadavere, che sembrava appartenere ad una giudice statunitense, in realtà, è (spoiler alert) composto da due parti di cadaveri (il busto appunto alla donna giudice, ma le gambe no), viene formata una task force incaricata di occuparsi del caso, che poco dopo assume proporzioni importanti, perché il colpevole si serve della stampa in maniera sfacciata, e coinvolge allo stesso tempo USA e Messico, non mancando mai di sottolineare che a Juàrez le donne spariscono continuamente, e niente si muove. Marco e Sonya si ritrovano quindi a lavorare fianco a fianco, formando una coppia inizialmente impensabile da mettere assieme.


Mi perdonerete se ho semplicemente copiato e incollato il riassunto usato per Bron I Broen, cambiandoci nomi dei protagonisti e nazionalità; infatti, come annunciato, dal 10 luglio al 2 ottobre è andata in onda questa The Bridge, il primo remake della serie danese/svedese. Il risultato, ve lo dico senza girarci troppo intorno, mi è piaciuto meno dell'originale. Voi penserete che c'era da aspettarselo, e io vi risponderò che ci ho pensato anch'io: trattandosi di un giallo, conoscere la trama a grandi linee sicuramente non contribuisce a renderlo più appetibile, anzi. La produzione di FX ha comunque provato a cambiare un po' le carte in tavola, soprattutto con le storylines "parallele", e approfittando di un'ambientazione che favoriva decisamente un mood truce e desolante: Ciudad Juàrez è considerata la città con il più alto tasso di criminalità al mondo, davanti a Caracas e a New Orleans, ed è famosissima in tutto il mondo per essere praticamente comandata dai narcos e per le sparizioni delle donne che lavorano alle maquiladoras (alcune cifre non ufficiali sembrerebbero indicare che sono oltre 4500 le donne scomparse dal 1993 a oggi, probabilmente almeno 1000 morte). La condizione paradossalmente diametralmente opposta delle forze dell'ordine tra due nazioni separate solo da un ponte è una delle cose più interessanti della serie: da una parte polizia, FBI e chi ne ha più ne metta, dall'altra polizia corrotta al limite dell'incredibile, addirittura più colpevole delle criminalità organizzata; e poi, coyotes, tunnel che oltrepassano la frontiera e trafficanti di droga ma anche di esseri umani che li gestiscono, un sottobosco terribile che fa sembrare le nostre vite tutto sommato "normali" dei paradisi.

Nonostante tutto ciò, avrei potuto dire "tutto questo ben di dio" ma non mi pareva il caso, anche se effettivamente, per uno sceneggiatore è un po' come avere metà del lavoro fatto, specialmente se stiamo parlando di un poliziesco, The Bridge non riesce ad andare oltre il procedurale con qualche superficiale approfondimento sulle personalità di alcuni dei protagonisti più in rilievo.
La serie è stata comunque rinnovata per una seconda stagione, e la presenza nel cast di alcuni elementi che personalmente mi piacciono, potrebbe far sperare in un colpo di reni per il meglio.
Demiàn Bichir è Marco Ruiz, abbastanza bravo (ma secondo me poteva anche dare di più) nel disegnare questo detective messicano onesto, ma incapace di tenerlo nei pantaloni, e per questo punito più volte. Bichir lo abbiamo apprezzato in Weeds, è stato un Fidel Castro quasi fotocopia dell'originale nel Che di Soderbergh, e ultimamente è stato pure candidato all'Oscar con A Better Life, un film dimenticabile. Diane Kruger è Sonya Cross, e a mio modesto parere nella seconda parte della serie "sbraga" un po', per essere impegnata in una parte che dovrebbe soffrire di una patologia ben definita. Interessante Annabeth Gish (Charlotte Millwright), vista sempre come caratterista, così come Thomas M. Wright (Steven Linder), già visto di recente in Top of the Lake, e, forse perché dotato del ruolo più istrionico, uno dei più convincenti del cast. Piacevole rivedere sugli schermi Ted Levine (il Buffalo Bill de Il silenzio degli innocenti) nei panni di Hank Wade, il capo di Sonya, Emily Rios (Adriana Mendez), notata in Breaking Bad (era Andrea, la madre di Brock), ma qualcuno potrebbe averla vista anche in Friday Night Lights e addirittura da protagonista, giovanissima in Non è peccato - La Quinceanera, e Catalina Sandino Moreno, qui Alma Ruiz, la moglie di Marco, ma per noi per sempre la straordinaria Maria dello straordinario Maria Full of Grace. Spettacolari Ramòn Franco, già visto come caratterista in molti film e di recente come El Sucio in Weeds, qui nei panni del boss Fausto Galvan, Arturo del Puerto nei panni di Hector, e Alma Martinez nella parte di Graciela Rivera, ci sono anche Lyle Lovett (Monte P. Flagman), Matthew Lillard (Daniel Frye) e Brian Van Holt (Cougar Town), pessimo nella parte di Ray, così come pessimo mi è parso Eric Lange, caratterista visto molto volte, nei panni di Kenneth Hasting.
Discrete le regie e bella fotografia.
I titoli di testa scorrono sulle belle note di Until I'm One with You di Ryan Bingham; per i più malati, come me ad esempio, il 22 settembre scorso è partita la seconda stagione di Bron/Broen sulle tv svedesi e danesi, e il 16 ottobre è partita, su Sky Atlantic in UK (in novembre su Canal+ in Francia), The Tunnel, ennesimo remake di questa storia, con ritrovamento del cadavere nell'Eurotunnel sotto la Manica, protagonista Stephen Dillane, ovvero Stannis Baratheon. Non temete: sono già al lavoro per voi.

20131114

la connessione

The Connection - Papa Roach (2012)

Come vi ho raccontato nella recensione del loro disco precedente, li avevo "persi di vista" per anni, e quando li ho ritrovati quasi non li riconoscevo, ma mi sono piaciuti ugualmente. Si vede che è destino, visto che stavolta ho realizzato che era uscito un loro nuovo lavoro quasi un anno dopo la sua uscita. Leggendo alcune recensioni in rete, ci si diverte un mondo. Si capisce decisamente quali sono i siti metal oriented, e quali quelli più vicini al mainstream e al pop. I primi continuano a gridare al tradimento, i secondi esaltano le doti camaleontiche e melodiche dei ragazzi di Vacaville, California. In realtà, anche se non ho trovato The Connection un disco esaltante, i Papa Roach stanno semplicemente proseguendo per la loro strada, provando ad inglobare cose nuove (più elettronica ed effettistica del genere), ma continuano ad avere un certo gusto per scrivere bei ritornelli robusti e discrete canzoni. Non che tutte le ciambelle riescano col buco, ma del resto non stiamo parlando dei Led Zeppelin. Alcuni pezzi risultano sempre robusti al punto giusto (il trittico iniziale Still Swingin', Where Did the Angels Go e Silence Is the Enemy), dopo di che si fanno strada influenze più "leggere" a dosi alterne, fino alla quasi eccessiva(mente popLeader of the Broken Hearts, che però ha ugualmente un suo perché, almeno a mio modesto parere. Jacoby torna perfino a rappare, su Not That Beautiful e Won't Let Up, ottenendo curiosamente un effetto alla P.O.D. (ascoltandolo senza leggere le note mi ero convinto ci fossero un paio di comparsate di Sonny Sandoval, giuro, provare per credere). Quindi, un piacevole ascolto perfettamente in bilico tra post nu metal e pop rock, una versione riveduta e corretta di quei bolliti dei Linkin Park, che ultimamente provano a fare gli U2. Le traiettorie musicali a volte sono meglio dei racconti di fantascienza.

20131113

The Italy that breaks your heart - 2

Continua da ieri. Articolo del The New York Times, ripreso e tradotto da Internazionale sul nr. 1024. Autore, Frank Bruni.

Medico e paziente
Nel secondo trimestre del 2013 il debito pubblico dell’Italia è salito al 133 per cento del suo prodotto interno lordo, uno dei più alti dell'eurozona, secondo solo a quello greco. Il calo dell’8 per cento del suo pil rispetto al periodo precedente alla crisi è superiore a quello della Spagna e del Portogallo. Non si è visto ancora alcun segno significativo di ripresa, anche se verso la fine di quest’anno potrebbe finalmente esserci una modesta crescita. Ma non c’è bisogno di conoscere le cifre per capire che l’Italia è alla deriva. Basta scendere dal treno ad alta velocità (che è fantastico) o uscire dall'autostrada e percorrere le strade secondarie, che cadono a pezzi. O provare a gettare una coppetta di gelato vuota in uno dei cestini dei rifiuti della capitale. Sembra che siano sempre pieni, se non traboccanti. Uno di quelli vicino alla camera dei deputati non veniva svuotato da tempo. La gente lascia i rifiuti alla base del cestino, dove si è formata una collinetta, l’ottavo colle di Roma. In una città il cui bilancio in rosso e l’inefficienza rispecchiano quelli del paese, la spazzatura è diventata un grosso problema, un sintomo del pessimo stato di salute della classe politica. Il 22 ottobre sono andato a trovare il medico che si occupa del caso. Si chiama Ignazio Marino. A giugno è stato eletto sindaco di Roma battendo il sindaco uscente appoggiato da Berlusconi, e conquistando il 64 per cento di voti. Un risultato che lasciava chiaramente trasparire il desiderio di cambiamento degli italiani. Marino, 58 anni, è entrato in politica solo sette anni fa. Prima ha lavorato come chirurgo specializzato in trapianti di fegato (e anche reni e pancreas) e ha vissuto a lungo in Pennsylvania. Mi ha detto che amministrare Roma non è poi molto diverso dall'eseguire un intervento chirurgico. “È un’emergenza controllata”, mi ha spiegato. Marino ha l’ufficio più bello del mondo, in un palazzo rinascimentale sulla piazza del Campidoglio, progettata da Michelangelo. Il balcone accanto alla sua scrivania è proteso, come l’affusolata prua di una nave, sugli archi e le colonne del Foro romano. Lì ai nostri piedi, c’era il posto da cui si dice che Marco Antonio fece la sua arringa dopo l’assassinio di Cesare. E non lontano c’è il tempio di Saturno. È una vista molto suggestiva, ma anche l’amaro ricordo di un passato glorioso, di una grandezza che non esiste più da tempo. Da un’altra inestra dell’ufficio di Marino abbiamo visto dove parcheggia la bicicletta con cui viene al lavoro ogni giorno, anche per incoraggiarne l’uso in una città con troppo traffico e con un sistema di trasporto pubblico insufficiente. Aveva un’aria terribilmente solitaria. I romani preferiscono gli scooter. Ma anche se i trasporti e la raccolta dei rifiuti sono tra le sue priorità, al primo posto c’è un problema ancora più grande: garantire un’amministrazione trasparente che raggiunga dei risultati, cioè l’esatto contrario del sistema in vigore oggi in Italia e che secondo Marino, e secondo molti italiani con cui ho parlato, si basa sui rapporti personali, lo scambio di favori e l’anzianità, invece che sul merito. “Se riusciremo a cambiare questo, i soldi e gli investimenti arriveranno”, dice. Racconta inoltre di essere tornato in Italia per candidarsi, al senato, alle elezioni politiche del 2006 perché riteneva che fosse ora di smettere di lamentarsi dei mali del paese e cominciare a curarli. Medico, guarisci la tua patria. Gli ho chiesto quali fossero le condizioni del paziente, cioè di Roma. Dopo una lunga pausa di riflessione ha risposto: “È salvabile”. Gli ho chiesto anche dell’eredità lasciata da Berlusconi. “Il danno principale è la cultura che ha creato”, ha risposto Marino. “Una cultura in cui la trasparenza e il senso di responsabilità non sono valori”. Berlusconi ha trasformato l’Italia in una festa di adolescenti, un’infinita sfida alle regole, in cui quello che realizzi conta meno di quanto riesci a farla franca, e il bottino va al più furbo. Adesso è arrivato il momento del risveglio. Il 14 ottobre, sul quotidiano La Stampal’editorialista Luca Ricolfi si è scusato di non aver scritto per un po’ di tempo, spiegando di non aver avuto niente di nuovo da dire. L’Italia non si muove da vent'anni. “Tutto è fermo e congelato”, ha scritto. Il 21 ottobre, sul Corriere della Sera, un altro editorialista, Ernesto Galli della Loggia, si è rammaricato degli “anni e anni di paralisi” del paese, durante i quali una sorta di gerontocrazia ha impedito che si affermasse il vero merito. Ma si è affrettato ad aggiungere che anche se l’Italia si sta “lentamente disfacendo”, non sta ancora “precipitando nell'abisso”. Un buon numero di italiani sembra essere ancora abbastanza soddisfatto e resta aggrappato allo status quo e a quello che ha adesso. Ma così non fa che aumentare l’incertezza su quello che avrà domani. Il futuro si costruisce con la flessibilità e i sacrifici, affrontando i problemi piuttosto che annaspando. Eppure gli italiani continuano ad annaspare. In questo sono in buona compagnia in Europa occidentale e negli Stati Uniti. “È incredibile”, dice Paolo Crepet, psichiatra italiano e docente: “Siamo un popolo creativo. Siamo famosi nel mondo per la nostra creatività”. Ma quello che riscontra nei suoi pazienti e nelle persone non è il dinamismo, bensì il senso di impotenza. “Aspettano qualcuno che li tiri fuori da questa situazione”, ha detto. “Stanno aspettando Godot”. Sentendolo parlare, mi si è stretto lo stomaco. Dopo troppi anni di pessimismo è naturale arrivare al fatalismo? È in questa direzione che stanno andando anche gli Stati Uniti? Per la mancanza di direzione dell’Italia, c’è una metafora fin troppo facile: i cartelli stradali diventati illeggibili perché coperti dai rami degli alberi. Passavo davanti a cose meravigliose, attraversavo un paesaggio splendido. Ma non avevo idea di dove stessi andando.

20131112

The Italy that breaks your heart

Mi piace viaggiare, lascio un pezzo di cuore in ogni paese straniero che visito, forse prima di morire vorrei andare ad abitare da un'altra parte. Ma è qui che vivo, è qui che sono nato, è qui che lavoro. E, come dice Frank Bruni, corrispondente del The New York Times dall'Italia, il mio paese mi spezza il cuore. Da Internazionale nr. 1024, un articolo che ti tocca inesorabilmente.

L'Italia che spezza il cuore
La prima sera che sono tornato in Italia, durante una cena a Milano, ho visto e sentito una coppia di successo, sulla quarantina, progettare la fuga da un paese che ama ma nel quale ha perso fiducia. Hanno sparecchiato la tavola, tirato fuori un portatile e cominciato a cercare una casa a Londra, dove a uno dei due era stato offerto di trasferirsi per lavoro. Sono rimasti inorriditi dai prezzi, ma non si sono scoraggiati. Hanno un figlio di dieci anni e temono che l’Italia, con la disoccupazione giovanile al 40 per cento e un’economia la cui debolezza comincia a sembrare la norma, non possa offrirgli un futuro roseo. Due giorni dopo, e a trecento chilometri a sudest di Milano, è stata una donna di settant'anni a lamentarsi del suo paese. Stavo pranzando sull'Appennino marchigiano e, con le salsicce di cinghiale nel piatto e un castello davanti, avrei potuto convincermi di essere in paradiso. “In un museo”, mi ha corretto lei, “è in un museo e in un giardino inselvatichito”. È questo che è diventata l’Italia, ha aggiunto. Ogni anno il paese perde un po’ del suo dinamismo, e della sua importanza. Dato che ho avuto la fortuna di vivere qui e continuo a tornarci regolarmente, sono abituato al teatrale pessimismo degli italiani, al loro talento per le lamentele. È una specie di sport, una sorta di opera lirica cantata con ampi gesti e toni drammatici e, in passato, con il sottinteso che in realtà non esisteva nessun altro posto dove avrebbero preferito vivere. Ma questa volta la musica è cambiata. E anche lo stato d’animo. Provate a chiedere a uno studente italiano che cosa lo aspetta alla fine del suo corso di laurea, e vi risponderà con un’alzata di spalle. Provate a chiedere ai suoi genitori quando o come l’Italia uscirà dalla crisi e vedrete sul loro viso la stessa espressione sconcertata. Oggi si sente parlare molto di più della possibilità di emigrare negli Stati Uniti o nel Regno Unito. Molto più di quanto si dicesse dieci o cinque anni fa. C’è meno fiducia nel futuro. Sono rimasto sorpreso. E anche un po’ spaventato, perché ero arrivato qui dritto dal nostro shutdown, e ho visto il malcontento italiano attraverso il filtro dei guai degli Stati Uniti, prendendolo come un ammonimento. L’Italia è l’esempio di quello che succede quando un paese sa bene quali sono i suoi problemi ma non riesce ad avere il rigore necessario per risolverli. È l’esempio di quello che succede quando il malfunzionamento della politica si trascina all'infinito e il buon governo diventa un miraggio, un mito, una barzelletta. L’Italia si adagia sulla sua fenomenale ricchezza e non ci investe sopra, perdendo terreno in un’economia globale piena di concorrenti più determinati. C’è tanta bellezza qui, e tanto spreco. L’Italia spezza il cuoreE non è tutta colpa di Silvio Berlusconi. La sua recente condanna per frode fiscale, con la conseguente interdizione dai pubblici uffici, non ha provocato il sollievo e la voglia di ricominciare da capo che ci saremmo aspettati. Ha piuttosto costretto gli italiani a riconoscere che, anche se Berlusconi ha perso tempo, peggiorato le cose e rappresentato una buffonesca distrazione, i problemi del paese (le regole eccessive e la bizantina burocrazia che soffocano le imprese, il sistema clientelare che impedisce qualsiasi iniziativa, la corruzione e il cinismo che tutto questo genera) vanno oltre il Cavaliere.

Continua domani

20131111

Eccetto quello che abbiamo sbagliato, abbiamo fatto tutto giusto

The Newsroom - di Aaron Sorkin - Stagione 2 (9 episodi; HBO) - 2013

Alla ACN, ed esattamente nella redazione di News Night, sta accadendo qualcosa di grosso. C'è un processo in arrivo, e pare proprio che il governo ce l'abbia con la rete. Qualcosa a proposito di una cosa chiamata Operation Genoa. Ma di che cosa si è trattato, di cosa si tratta? Andiamo per gradi. E però tutto comincia con Jim Harper, che per allontanarsi da Maggie, dopo il casino avvenuto giusto verso la fine della passata stagione, si fa mandare a sostituire l'inviato della stessa ACN che seguiva la campagna presidenziale di Mitt Romney, infortunato, anche se questo comporta in pratica una momentanea "retrocessione", e il suo abbandono, sempre momentaneo, della sua posizione di producer. Al suo posto, dalla sede di Washington D.C. arriva l'omologo Jerry Dantana, ambizioso e propositivo, che dopo un'iniziale sbaglio (la scelta di un esperto in un dibattito) si sente il dito puntato. Accetta quindi una soffiata dallo stesso "esperto" che non si era dimostrato all'altezza in precedenza, e comincia a seguire la pista di un'operazione coperta dell'esercito statunitense, conosciuta in codice come Operation Genoa.
Come vediamo dai primi flashback, anche Maggie ha scelto una via drastica per allontanarsi un po' dalla redazione e si è fatta inviare in Africa, mentre Will è inizialmente in calo di gradimento, per aver definito il Tea Party "i talebani d'America", cosa che comincia a creare qualche grattacapo alla rete.

Molte volte avrete sentito usare la frase fatta, ma spesso calzante, "vorrei ma non posso", per descrivere, appunto, qualcuno che vorrebbe raggiungere dei risultati, ma non è evidentemente dotato o talentuoso abbastanza per raggiungerli. Nel caso del mitico, ormai, Aaron Sorkin e del suo The Newsroom, serie che nonostante il tweet di Jeff Daniels ("we are excited about proceeding to a Season 3 and are continuing our conversations with Aaron about schedules") non è ancora stata rinnovata per una prossima stagione, invece si può usare l'esatto contrario "potrei, ma non voglio".
Memore delle critiche ricevute a proposito della scorsa stagione, Sorkin cambia l'approccio a questo giro, e usa una di quelle tecniche che si vedono spesso, quella del flashback totale (o quasi), partendo dalla fine (o quasi); infatti, come detto nel riassunto iniziale, si parte dalle deposizioni preparative che i membri della redazione rilasciano al team di avvocati della rete, capitanato da Rebecca Halliday (una Marcia Gay Harden in forma smagliante), per ripercorrere le vicende che hanno portato la squadra della redazione sull'orlo della disintegrazione (spoiler alert: la notizia sulla Operation Genoa, rivelatasi poi non fondata). Ottima intuizione, anche se, debbo ammetterlo anche io che mi reputo in grande fan di Sorkin, sviluppata in maniera a volte brillante, a volte molto meno. E non riesco a capire se i difetti stanno nell'eccessivo romanticismo dello sceneggiatore, nel suo voler a tutti i costi far chiudere le storie d'amore in maniera eccessivamente roboante (e spesso un po' troppo forzata), nel suo voler creare sempre personaggi con lati infantili esagerati, fatto sta che anche questa stagione di The Newsroom è piena zeppa di alti e bassi. Capisco che non è sempre facilissimo scrivere a livelli altissimi, ma quello che so è che quando si assiste ad un episodio come il 2x07 intitolato Red Team III, un capolavoro di intreccio, tensione, stile, concentrato in neppure un'ora di televisione, dispiace vedere altri episodi decisamente mediocri al confronto. Rimane comunque il fatto che, a livello di contenuti, di temi sollevati (e magari non approfonditi abbastanza), The Newsroom è comunque una delle cose più interessanti, e richiede una notevole attenzione come spettatori.
Cast che tutto sommato rimane di gran lusso, con ancora Jeff Daniels (Will McAvoy) e Jane Fonda (Leona Lansing) mattatori, quest'ultima anche se con molto meno minutaggio. Tra le new entry, oltre alla già citata e lodata Marcia Gay Harden, ci sono anche Hamish Linklater (Jerry Dantana), Constance Zimmer (Taylor Warren) e Grace Gummer (Hallie Shea), quest'ultima terza figlia di Meryl Streep, seconda attrice di famiglia a parte la madre (l'altre è Mamie Gummer).

20131110

tax

Un dirompente (come correttamente autodefinisce lo studio sul quale si basa l'articolo il giornalista che scrive) articolo di Die Zeit, tradotto su Internazionale nr. 1023, che apre nuove prospettive sulla gestione economica dell'Europa.

Tassare di più i ricchi non fa male
di Mark Schieritz
Uno studio del Fondo Monetario Internazionale sostiene che in molti paesi ci sono i margini per introdurre imposte più alte per chi guadagna di più. E senza danneggiare l'economia

Il Fondo monetario internazionale (Fmi) può essere considerato un’istituzione di orientamento liberista. In Africa ha imposto la liberalizzazione del mercato del lavoro e ai paesi asiatici colpiti dalla crisi negli anni novanta ha ordinato rigidi programmi di risparmio. Per questo lo studio pubblicato il 12 ottobre dall’istituto è una piccola rivoluzione, visto che consiglia di tassare i ricchi. “Sembra che in molti paesi sviluppati ci sia spazio d’azione, se si vuole, per ottenere maggiori entrate dalla fascia di reddito più alta”, scrive l’Fmi. Questo documento potrebbe provocare qualche polemica in Germania, dove la politica fiscale è stata il tema centrale dell’ultima campagna elettorale. La Spd e i Verdi volevano aumentare le tasse a chi guadagna di più per garantire allo stato più fondi per gli investimenti. Ma queste argomentazioni non hanno convinto molti elettori, visto che la Cdu di Angela Merkel e gli alleati della Csu, contrari all’aumento, hanno fatto il pieno di voti. I cristianodemocratici hanno avuto successo anche grazie alla capacità di convincere l’elettorato che l’aggravio fiscale avrebbe danneggiato l’economia. Eppure in passato l’Fmi si è espresso più volte contro l’aumento delle tasse, sostenendo il modello ideale dello stato snello che si tiene alla larga dagli affari dei cittadini. Evidentemente, ora gli esperti dell’istituto hanno appurato che il mondo è cambiato e ritengono che negli ultimi anni i sistemi fiscali siano diventati “meno progressivi”, cioè che abbiano imposto oneri meno pesanti con l’aumentare del reddito. Questo è dovuto, tra l’altro, al fatto che le aliquote fiscali più alte sono state ridotte e che molti stati ricorrono sempre più alle imposte indirette uguali per tutti, come l’iva. Secondo l’Fmi, in molti paesi la riduzione della progressività ha ampliato nettamente il divario tra ricchi e poveri. In Germania neanche un terzo del reddito nazionale complessivo è riconducibile al 10 per cento più benestante, che però possiede il 60 per cento del patrimonio. Negli Stati Uniti il governo ha trattato i ricchi con particolare riguardo. Se le aliquote fiscali per la fascia di reddito più alta fossero riportate ai livelli degli anni ottanta, si legge nello studio dell’Fmi, nelle casse statali arriverebbero fondi ulteriori pari all’1,5 per cento del pil. Anche in Germania lo stato potrebbe riscuotere più tasse senza danneggiare l’economia. Secondo l’Fmi, l’aliquota ideale per le fasce di reddito più alte dovrebbe essere compresa tra il 55 e il 70 per cento. Queste cifre potranno sembrare esagerate, ma negli anni cinquanta e sessanta negli Stati Uniti l’aliquota fiscale più alta era superiore al 90 per cento e l’economia era comunque fiorente. Oggi in Germania l’aliquota più alta è al massimo del 45 per cento, e comunque scatta da livelli di reddito più bassi rispetto al passato. Lo stato tedesco esita anche a tassare i patrimoni immobiliari. Le entrate derivanti da queste proprietà non arrivano neanche all’1 per cento del pil. In Francia, Belgio e Svizzera la percentuale è tre volte superiore. 
Una questione ideologica 
L’Fmi non vuole che il suo rapporto sia interpretato come un invito ad aumentare le tasse. Lo studio, affermano gli autori, propone un confronto internazionale tra i singoli paesi. Inoltre, tiene conto di fattori come il pil o la stabilità politica. Ma queste osservazioni non rendono meno dirompente lo studio, il quale dimostra che in fin dei conti quella del fisco è una questione ideologica e che in una prospettiva strettamente economica sarebbe sostenibile anche un aggravio fiscale a carico dei cittadini. D’ora in poi, quindi, la rivendicazione di tasse più basse potrebbe non essere più una dimostrazione di grande competenza in tema di economia. Probabilmente l’Fmi riceverà presto una telefonata indignata dal ministero delle finanze tedesco. Secondo le analisi degli esperti di Washington, infatti, la Germania è uno dei pochi paesi europei che non sfrutta fino in fondo il suo potenziale relativo alle entrate statali. Soprattutto con l’iva e l’imposta sul reddito, altri paesi impongono ai loro cittadini una tassazione molto più alta. Se i tedeschi raggiungessero i livelli degli altri paesi dell’Unione europea, l’aumento del gettito fiscale sarebbe di ottanta miliardi di euro all’anno: una cifra molto più alta rispetto a quella proposta dalla Spd e dai Verdi nel corso dell'ultima campagna elettorale.