No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20150227

da credere

in vita mia non ho mai fatto il karaoke.

Mandarini

Mandariinid - di Zaza Urushadze (2013)
Giudizio sintetico: da vedere (4/5)

Molti le ignorano, o semplicemente non lo sanno, ma in molti stati della ex Unione Sovietica ci sono, o ci sono state, guerre. Una di queste, la guerra georgiano-abcasa, ebbe luogo tra il 1991 e il 1993, ed oltre a mietere quasi 5.000 vittime, ha generato una situazione che continua ad essere tesa tutt'oggi: l'Abcasia si considera de facto una repubblica indipendente (la Georgia non lo pensa). Ora, in Abcasia, fino al 1991, era presente una numerosa comunità estone; allo scoppio della guerra, la maggioranza fece ritorno in Estonia. Ma Mandariinid ci racconta la storia di Ivo e di Margus, due estoni testardi e lavoratori, che rimasero nonostante gli scontri. Margus per coltivare e raccogliere i mandarini dei suoi alberi, Ivo per fabbricare le cassette di legno per stivarli e trasportarli. Due uomini semplici e razionali, che loro malgrado, una mattina vengono "visitati" da due mercenari ceceni (che combattono con gli abcasi). Per Ivo, soprattutto, gli schieramenti non importano, accoglie i due combattenti e offre loro da mangiare e da bere. Quello che dei due sembra il capo, lo ringrazia e se ne va. Dopo qualche ora, un breve conflitto a fuoco, e un'esplosione proprio davanti alla casa di Margus. Diversi morti, due sopravvissuti: uno dei due ceceni, Ahmed, e un georgiano, Niko. I due estoni raccolgono i feriti, uno grave l'altro molto grave, e li curano come possono. Li mettono in due stanze separate, in casa di Ivo. Poco a poco, i due si riprendono, e si giurano vendetta reciproca, ma Ivo riesce a strappar loro una promessa: finché saranno convalescenti in casa sua, nessuno dei due tenterà di fare del male all'altro.

Come dico da un po', la sezione dei film in lingua non inglese della selezione per l'Oscar è quella che quasi sempre regala piccole perle. Anche quest'anno è stato così.
Mandariinid, film estone/georgiano scritto e diretto dal georgiano Urushadze (figlio di un calciatore - portiere - mediamente famoso, Ramaz, che negli anni '60 arrivò fino alla nazionale URSS), è una semplice riflessione sull'assurdità di tutte le guerre che mi ha ricordato vagamente lo straordinario No Man's Land di Danis Tanovic, un film lento ma asciutto, divertente, amaro, breve ma ficcante, se volete pure telefonato nel suo dipanarsi, ma, ancora, semplicemente molto bello.
Girato in Georgia in mezzo a scenari mozzafiato, avvolge e affascina lo spettatore, spettatore che non potrà fare a meno di rimanere profondamente colpito dalle facce e dalla recitazione del quartetto protagonista, e che non potrà esimersi dall'amare profondamente la figura eccezionale del personaggio di Ivo, interpretato da un meraviglioso Lembit Ulfsak. 
Luogo comune, frase fatta, ma a volte basta davvero poco per fare grande cinema.

20150225

Ida o Anna?

Ida - di Pawel Pawlikowski (2013)
Giudizio sintetico: da vedere (4/5)

Siamo nella Polonia comunista, nel 1962. Anna è una giovane novizia, orfana, in un convento polacco, ed è sul punto di prendere i voti da suora. La madre superiora, prima di farle fare il passo definitivo, la convoca e le impone di andare a trovare l'unica parente conosciuta che le è rimasta, la zia Wanda Gruz. E' giusto che la conosca, prima di compiere il grande passo. Non del tutto convinta, la giovane parte con pochi bagagli, decisa a trattenersi pochissimo e a tornare quanto prima alla sua vita monacale.
L'impatto è brusco, perfino superficiale. Wanda, giudice stalinista decaduta, è una donna disillusa, semi-alcolizzata, accanita fumatrice, sessualmente promiscua. Sembra che si diverta amaramente a sconvolgere la ragazza, che dopo qualche minuto è già decisa a salutare mestamente e a tornare in convento, quando Wanda le rivela tutto d'un tratto il suo passato. Anna in realtà è ebrea, si chiama Ida Lebenstein, è nata in un piccolo paese di campagna da una coppia ebrea, e i di lei genitori sono stati uccisi durante l'occupazione tedesca. Wanda e Ida partono dunque per recarsi al paese natale della giovane, per ritrovare il passato e far luce sulla morte dei genitori.

Questo "piccolo" film polacco è quello che ha vinto l'Oscar di quest'anno, nella categoria che personalmente ritengo più importante: quella del miglior film in lingua non inglese, categoria dalla quale escono, normalmente, i film più strani, interessanti, quelli fatti col cuore, tanto per usare un luogo comune.
Tragitto travagliato quello del polacco Pawlikowski, trasferitosi prima in Germania, poi in Inghilterra, conosciuto (poco) ai più per My Summer of Love (con Emily Blunt agli esordi), ai meno per i suoi documentari poetici ed ironici degli inizi. Prima di questo Ida, aveva diretto il misconosciuto The Woman in the Fifth, con Ethan Hawke e Kristin Scott Thomas (mai uscito in Italia). Scritto a quattro mani insieme a Rebecca Lenkiewicz, sceneggiatrice soprattutto di teatro inglese di origini ebraiche, Ida è uno di quegli oggetti di culto che appassionano e, a dispetto dall'incedere lento e di sicuro non hollywoodiano, non annoiano (anche perché dura poco più di un'ora). I fan di un certo tipo di cinema non potranno fare a meno di notare un'impronta kaurismakiana (ingigantita anche dal bianco e nero), presente sia nell'ironia graffiante, sia nell'ombra pessimistica dell'insieme. Le due protagoniste? Meravigliose e diversissime.
Il finale è perfetto e lascia impietriti senza essere drammatico. Non è un film perfetto, ma si lascia dietro di molte spanne moltissime produzioni recenti.

20150224

L'uomo/uccello, o l'imprevedibile virtù dell'ignoranza

Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) - di Alejandro González Iñárritu (2014)
Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)

Broadway. Riggan Thompson è un attore. Ancora famoso, ma solo per aver interpretato, alcuni anni prima, due pellicole come protagonista, nelle quali recitava il ruolo di un supereroe alato, Birdman. Uomo fallito, egocentrico, padre assente (la figlia Sam è una ex tossicodipendente, e sta cercando di riabilitarsi; in questo momento sta fungendo da assistente del padre), (ex) marito infedele e stronzo, sta disperatamente cercando di riabilitarsi (anche lui) agli occhi dei critici, e di rifarsi una "verginità artistica", mettendo in scena, appunto a teatro, una pièce tratta da What We Talk When We Talk About Love, di Raymond Carver. Quattro sere, tre anteprime e una prima, nelle quali ha investito tutto, perfino la casa che doveva essere ereditata dalla figlia. Incerto sugli attori che ha scelto come comprimari (tre, un uomo e due donne, una delle quali è la sua amante), incerto soprattutto sulle sue capacità di attore, è soprattutto mentalmente instabile, perché letteralmente perseguitato dal "fantasma" di Birdman, e cioè del suo ego "hollywoodiano", che lo tormenta e lo invita continuamente a mandare tutto e tutti affanculo, e a decidersi a girare il terzo episodio della saga del supereroe alato, fottendosene di essere considerato un artista. In un crescendo di tensione, arriva la sera della prima, dopo aver sostituito in corsa il co-protagonista, aver litigato furiosamente anche con il sostituto, aver distrutto il camerino e aver trattato a male parole la più famosa critica del New York Times (che gli annuncia la stroncatura netta del suo spettacolo). Sempre più confuso, si chiude per errore fuori dal teatro appena prima dell'ultima scena, ma...

Curioso parlare del film che ha vinto quattro Oscar (miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale e miglior fotografia) proprio nel giorno del mio compleanno, curioso che il film sia la quinta creatura di questo regista (ma anche produttore, sceneggiatore, montatore e compositore) messicano, che io e altri fissati di cinema abbiamo amato alla follia almeno per i suoi primi due lavori, straordinari, Amores Perros e 21 Grammi. Curioso parlarne non male, ma nemmeno benissimo. Non è curioso neppure un po' parlarne il giorno dopo di lui, e nemmeno che siamo d'accordo, seppure arrivandoci da percorsi leggermente differenti. Eppure, è così.
Birdman è un oggetto stranissimo, che fa pensare a Sokurov e alla sua Arca Russa (ma solo per i suoi infiniti piani-sequenza, una di quelle cose che sembrano fatte apposta per farsi dire quanto sei fico a girare così), e che mette in scena l'eterno dilemma, un po' come quello tra il bene e il male, tra l'artista da botteghino e quello "impegnato", provando a far finta di non prendersi troppo sul serio e invece no.
A parte i tecnicismi, il film, pure ben recitato da tutto il cast (Michael Keaton, Edward Norton, Naomi Watts, Emma Stone, Zach Galifianakis, Andrea Riseborough), risulta un po' pesante da vedere, seppure si proceda spediti, forse più per la curiosità che, questo è innegabile, la messa in scena "particolare" genera (va riconosciuto ad Iñárritu che non gli manca il coraggio, questo si, e il mezzo punto che lo porta da 3 a 3,5 sta qui) nello spettatore più curioso e meno gretto, e soprattutto, alla fine è pure piuttosto inconcludente, a meno che non si voglia abbracciare quella specie di metafora che è il finale.
Rimane il massimo rispetto per questo regista che osa sempre, e il fatto che ci abbia preso l'Oscar non ci scandalizza, tanto si sa che in genere, quelli bravi lo prendono sempre col film sbagliato. Però, i due film citati prima erano proprio un'altra cosa. Tipo, quasi da 4, 4,5 su 5.

20150223

spettacolo di mostri

American Horror Story / Freak Show - di Ryan Murphy e Brad Falchuk - Stagione 4 (13 episodi; FX) - 2014/2015

1952, Jupiter, Florida. Miss Elsa Mars, emigrata dalla Germania, dirige uno degli ultimi Freak Show, e lotta insieme ai suoi "mostri" per sopravvivere.
Ci sono Jimmy Darling, l'uomo aragosta (le dita delle sue mani sono attaccate a coppia, formando una coppia di chele), figlia di Ethel, la donna barbuta, attrazione ma anche confidente e servente fedele di Miss Elsa, poi Eva l'amazzone, Paul l'uomo foca tatuato, Ma Petite (una nana indiana), Suzi senza gambe, Salty, Pepper e Meep, un trio di microcefali, Toulouse (un nano francese), e via discorrendo. In realtà, quella di Miss Elsa è una sorta di dittatura dolce. Per sopravvivere con il freak show, Elsa è costantemente in cerca di mostri: infatti, il nostro viaggio insieme ai freaks comincia con Elsa che si mette sulle tracce di Bette e Dot Tattler, due gemelle siamesi con un unico corpo e due teste identiche, ma due personalità distinte. Nel frattempo, nelle campagne vicino a Jupiter, comincia ad imperversare Twisty il clown, un killer seriale con un ghigno inguardabile a molti.

Spiace un po' dirlo, ma anche questa stagione di American Horror Story, con il sottotitolo di Freak Show, è risultata, almeno per quanto mi riguarda, un meraviglioso esercizio di stile morboso (in due modi: nel trucco - guardatevi le foto di alcuni protagonisti e confrontate la versione "normale" con quella di scena, tipo Naomi Grossman nei panni di Pepper - e nella scelta del cast - una su tutte, Rose Siggins nei panni di Legless Suzi), con interpretazioni anche meravigliose (che si può ancora dire di gigantesse quali Kathy Bates, Jessica Lange o Angela Bassett?), ma con uno sviluppo un po' troppo "faticoso", una trama che si sviluppa in maniera esageratamente lenta, con un ritmo che pare cercare forzatamente di coprire i tredici episodi. Paradossalmente, i temi conduttori principali sono tre, forse anche quattro (gli omicidi di Twisty il clown, quelli di Dandy Mott, il dualismo tra Miss Elsa e Bette/Dot, e volendo potremmo metterci pure le love story di Jimmy - parallelamente alla fine del Freak Show, più le trame di Stanley), le sottotrame infinite, eppure il meccanismo risulta poco fluido. Probabilmente a causa di troppa carne al fuoco, passatemi il luogo comune.
Non vorrei passare come quello che oramai è diventato un po' troppo esigente, ma anche se fosse, c'è tanta di quella bella roba in televisione attualmente, che forse è arrivato il momento, per tutti, di diventarlo.
Quindi, carissimi Ryan e Brad, mettetevi sotto, e tornate a stupirci positivamente con la quinta stagione, che partirà il prossimo ottobre.


20150222

stay tuned again

Un breve update
Sono tornato dal Perù. Tutto a posto. 
Non ci crederete, ma ho visto un po' di film. Quindi a breve parleremo anche di:

Boyhood di Richard Linklater
Calvary di John Michael McDonagh
Frank di Lenny Abrahamson
Gone Girl di David Fincher
Inside Llewyn Davis di Joel e Ethan Coen
Las brujas de Zugarramurdi di Alex de la Iglesia
Pride di Matthew Warchus
Serena di Susanne Bier
Somersault di Cate Shortland
The Imitation Game di Morten Tyldum
The Theory of Everything di James Marsh
This Is Where I Leave You di Shawn Levy
Wakolda di Lucía Puenzo (ho letto anche il libro, scritto dalla stessa regista)
Whiplash di Damien Chazelle
Wish I Was Here di Zach Braff

PS sono talmente snob che ho deciso di non usare più i titoli tradotti in italiano.

PPS Nella foto di Dria, il vostro blogger preferito che guarda il passato, sullo sfondo il lago Titicaca e le isole flottanti del popolo Uros.

PPPS tra 2 giorni sono 49...

PPPPS nel frattempo che ero via, avete oltrepassato il milione di visite. Grazie!



pelotudeces

Scrivo questo post circa un mese prima della pubblicazione. Oggi, se tutto va come deve andare, sarò di ritorno al paesello dopo una ventina di giorni in Sud America, precisamente in Perù. Naturalmente ve ne parlerò a tempo debito (da domani, spero), vi mostrerò delle foto che spero incontreranno il vostro gradimento.
Adesso, però, voglio parlarvi di un altro paese sudamericano che è diventato un po' la mia seconda patria, anche se come sapete, lascio un pezzo di cuore in ogni luogo che mi capita di visitare. Mi riferisco all'Argentina, la mia amata Argentina. Qualche giorno fa ho letto un bellissimo articolo di Graciela Mochkofsky, giornalista argentina che vive negli USA e scrive per Piauí, un giornale brasiliano, e il mio cuore si è aperto. Descrive le sensazioni frustranti che assalgono gli argentini di fronte allo strazio di un Paese meraviglioso e pieno di risorse, non nascondendo il fatto che gli argentini, essendo quasi tutti discendenti di europei, si sentono europei in Sud America, cosa che li fa considerare da tutti gli altri sudamericani, boriosi. Poi, qualche ora fa, ho letto questo altro articolo di Martín Caparrós, sul recente ritrovamento del corpo del magistrato Alberto Nisman senza vita, "Un altro mistero argentino". Per chiudere il cerchio, qualche giorno fa mi sono visto i 13 episodi di una serie tv ispano-argentina (Vientos de Agua) firmata da Juan José Campanella, regista premio Oscar qualche anno fa per Il segreto dei suoi occhi, serie della quale vi parlerò appena possibile, segnalatami da una mia carissima amica argentina (come una sorella per me), una serie che parla dell'immigrazione europea verso l'Argentina agli inizi del 1900, narrata a colpi di flashback, insieme ad un'altra storia di immigrazione "inversa" attorno al 2001, il tempo della grande crisi.

Ecco, due cose scaturiscono da questi pezzi di informazione e di intrattenimento.
La prima, ho voglia di tornare in Argentina, quanto prima e appena posso. Anche solo per rivedere la mia "famiglia adottiva" del sud del mondo.
La seconda: credetemi, l'Argentina assomiglia all'Italia molto, molto, molto più di quello che qualsiasi italiano possa pensare.

20150203

la mia terra, la mia vita, nei dintorni

Una veloce comunicazione di servizio per dirvi che, da domani, per qualche giorno, andrà "in onda" su fassbinder, una specie di "mostra fotografica", dal titolo in calce (solo in inglese, che fa più figo e internazionalizza il tutto). L'autore di queste foto acerbe e amatoriali è il sottoscritto. Intendetela come un tentativo di diversificare l'offerta di questo blog, una maniera per dire senza scrivere.
Quindi, da domani, per un po' (interruzione come sempre il sabato per i consigli video-musicali), My Land, My Life, In The Neighborhood. Enjoy.

Transparente

Transparent - di Jill Soloway - Stagione 1 (10 episodi; Amazon Instant Video) - 2014

Los Angeles. Morton "Mort" L. Pfefferman è un professore di scienze politiche in pensione. E' divorziato da anni dalla ex moglie Shelly, che si è risposata con Ed. I due hanno tre figli grandi. 

Sarah, bella donna non più giovanissima, la più grande, sposata con Len, ha due figli, Zack e Ella. Ha avuto esperienze lesbiche al college, e quando si imbatte in una sua vecchia fiamma, Tammy Cashman, il fuoco pare ravvivarsi.
Joshua detto Josh è il figlio di mezzo, produttore musicale di discreto successo, costantemente alla moda, ha continue e schizofreniche relazioni con donne di tutte le età, e si convince di essere innamorato di ognuna.
Alexandra detta Ali è la figlia minore. Disoccupata, instabile, insicura, invidiosa, incerta perfino sessualmente, è una mina vagante e non ha idea di cosa vuole nella vita.
Mort, lo scopriremo pian piano, ha da sempre alimentato la sua passione per il crossdressing, travestirsi da donna, senza per questo essere attratto dagli uomini. L'ex moglie Shelly ne era perfettamente al corrente. Ma adesso, Mort, arrivato ad una certa età, perse le speranze di vedere i proprio figli "stabilizzati", decide di fare il grande passo, e vestirsi sempre da donna, e magari divenire definitivamente un transgender. Il suo nome da transgender sarà Maura, e il supporto del locale gruppo LGBT lo aiuta molto nella sua transizione. Ma è venuto il momento di dirlo ai figli. E questo, indubbiamente, è il passaggio più difficile.

Senza dubbio, Transparent segna diversi primati. E dico, a parte i Golden Globe del 2015 per la categoria Best Television Series - Musical or Comedy, e quello a Jeffrey Tambor come Best Actor in a Television Series - Musical or Comedy. E' sicuramente la prima produzione degli Amazon Studios che arrivi ad una certa notorietà, quantomeno fuori dagli USA, ed è senza dubbio una delle prime serie televisive ad affrontare con leggerezza ma senza girarci intorno, il tema della transessualità (e affini).
Detto questo, dobbiamo farci la domanda delle domande: merita la visione? La mia risposta è si, seppure la serie "soffra" di quell'attitudine forzatamente alternativa statunitense, quella che accomuna tanti film che escono dal Sundance Festival, per capirci. Che non è per forza una roba negativa, ma che, a volte, ti fa sospettare che sia artefatta.
Ricordo infatti una recensione, particolarmente sarcastica, che accusava Transparent di essere così, fintamente alternativo, e di avere quei classici dialoghi si intelligenti, ma che sembravano fermarsi ad un certo punto, spingersi avanti si, ma con moderazione.
Beh, come che sia, di certo come per tutti i cambiamenti, c'è bisogno di tempo, di abituare le persone, la massa, a certi argomenti. Transparent, con quel tocco alternative, una colonna sonora ben studiata, situazioni grottesche che vengono risolte con litigate furiose e rappacificazioni sdolcinate, con quei figli che soffrono fin troppo di incertezze sessuali in maniera telefonata, rimane pur sempre un'opera fatta molto bene, con recitazioni pressoché fantastiche, e che, come detto, affronta un tema che va affrontato, anche se con difetti.
Voluto, scritto e diretto da Jill Soloway, comica, drammaturga, sceneggiatrice e regista statunitense, premiata al Sundance per il suo film Afternoon Delight (2013), e che ha lavorato per diversi episodi di Six Feet Under, per Tell Me You Love Me, e che ha fatto da showrunner per United States of Tara, e che con Transparent ha voluto raccontare la sua esperienza personale (suo padre, dopo il divorzio, ha fatto coming out come transgender), Transparent ha decisamente un tocco delicato per un tema altrettanto delicato.
Due parole sul cast.
Jeffrey Tambor (uno di quei caratteristi statunitensi favolosi, che avrete visto decine e decine di volte sia al cinema che in tv) è Mort/Maura.
Amy Landecker (A Serious Man) è Sarah.
Jay Duplass (non troppo conosciuto da noi) è Josh.
Gaby Hoffmann (Louie, Girls) è Ali.
Judith Light (Ugly Betty) è Shelly.
Carrie Brownstein delle Sleater-Kinney è Syd (l'amica di Ali).
Kathryn Hahn (Crossing Jordan) è il rabbino Raquel.
Bradley Whitford (West Wing) è Marcy, l'amico/a di Mort/Maura da giovane.

20150202

stay tuned

Vi dico solo rimanete sintonizzati, il vostro blogger preferito, dopo varie lavate di capo, riprenderà, seppur con un ritmo più blando, a parlarvi di cinema. 
Prossimamente, quindi, parleremo di:

Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) di Alejandro González Iñárritu
Ida di Pawel Pawlikowski
Mandariinid di Zaza Urushadze

A livello di serie tv, delle quali continueremo a parlare in quanto "nuova frontiera", parleremo prossimamente di:

Happy Valley stagione 1
Resurrection stagione 2
The Mill stagione 1
Vientos de Agua stagione 1
American Horror Story / Freak Show stagione 4

Continueremo a parlare di musica, di tv, mi impegnerò a vedere tutti i film candidati agli Oscar, prima o dopo la cerimonia, ma anche quelli del 2014, che ho lasciato indietro. E continuerò a viaggiare (e a raccontarvi di luoghi), da solo, in compagnia, per svago o per lavoro, e perfino con mio nipote.

Insomma, stay tuned.



What Kind of Day Has It Been

The Newsroom - di Aaron Sorkin - Stagione 3 (6 episodi; HBO) - 2014

Dopo l'affaire Genoa, la redazione è sulle spine. Quindi, la notizia dell'attentato alla maratona di Boston (aprile 2013) viene trattato con le molle, e la notizia non viene data finché non c'è una doppia conferma. Maggie ed Elliot vengono mandati a Boston, Elliot ha una reazione allergica che non gli permette di andare in video (nun se po' guardà), viene sostituito da Maggie che cattura l'obiettivo in maniera impressionante. Nel frattempo, Sloan, finalmente con il programma Bloomberg per il computer, investiga su un consiglio datole da parte di un amico, a proposito di una società che potrebbe essere in vendita. Reese le passa dei dati sulla compagnia che possiede la rete, dati che mostrano pesanti perdite, ma le chiede di essere "gentile", e pensare al quadro complessivo, quando darà la notizia durante il suo notiziario. Neal viene contattato da una fonte anonima, che comincia a passargli informazioni riservate su disordini in uno stato africano, provocati dall'intelligence statunitense. Neal chiede alla sua fonte altri due documenti, e gli spiega come farglieli avere. Quando Reese, Charlie e Mac ascoltando il resoconto di Neal, realizzano che lo stesso Neal può essere accusato di aver incoraggiato allo spionaggio in maniera anticostituzionale. Will, alla notizia che ACN è scesa al quarto posto negli ascolti complessivi, si propone per il licenziamento. Sloan capisce che la società che potrebbe essere rilevata è proprio la AWM, quella per la quale tutti loro lavorano, e che sta per essere oggetto di una offerta ostile da parte dei due fratellastri di Reese. Jim trova informazioni sul sospettato dell'attentato di Boston, Will consiglia cautela e vuole un'ulteriore conferma, poi fa marcia indietro sulle sue possibili dimissioni, dicendo che spalleggerà Reese, poi suggerisce a Neal di trovarsi un avvocato.

Ecco, questa è giusto l'accenno della trama del primo episodio di questa stagione finale di The Newsroom. Per chi non vi si fosse mai avvicinato, basterebbe solo questo per provare ad immaginare la densità di questa serie, l'ultima, per il momento, scaturita dal genio di Aaron Sorkin. Criticata molto, piena di difetti, ma bella bella bella, intensa, piena di dialoghi divertenti e riflessioni altissime sull'etica professionale e pure su quella civile, sui diritti, sulla legalità. La terza stagione esagera con le emozioni, carcere, morti, matrimoni, fidanzamenti, amori, in un crescendo sorkiniano alla chi più ne ha più ne metta, e chi mi ama mi segua.
Ci mancherà, Sorkin ed il suo mondo ideale, fino alla sua prossima trovata, così come ci mancherà un Jeff Daniels così ispirato. Il cast continua fino alla fine a dimostrarsi degnissimo, e ci consegna alcuni attori giovani da seguire con interesse. Alla prossima. Serie, voglio dire.

20150201

amore nipotale

Per rimanere in tema di pianti e commozione, mia sorella ho scovato una brutta copia di un tema che mio nipote ha scritto per la scuola, e me l'ha mandata via email. Il tema era: parla di una persona praticamente importante per te. Mio nipote ha scelto di parlare di me, e con poche righe, e con una pletora di errori di ortografia, mi ha descritto come io non avrei avuto il coraggio di fare. Ma, se è vero che i bambini sono la bocca della verità, questo riconoscimento a livello umano e parentale e forse più importante dei molti riconoscimenti che mi stanno continuamente arrivando lavorativamente parlando.
Diciamo che il mese che segnerà il mio quarantanovesimo compleanno, non poteva cominciare in maniera migliore.

zero limestone

Oggi (due domeniche fa), dopo pranzo, mi sono seduto sul cesso ed ho sfogliato i due ultimi numeri di Internazionale (sono abbonato al cartaceo; il giovedì ti mandano anche la copia digitale, che diligentemente scarico ma non apro quasi mai, quelle di carta spesso non arrivano mai in tempo, e stavolta me ne sono arrivate due insieme). Avevo sentito parlare di Zerocalcare, un giovane autore di comics, ma confesso che non l'avevo mai letto. Ho notato che sul numero più vecchio (16/22 gennaio) era in copertina Con il cuore a Kobane, un reportage a fumetti sul viaggio dell'autore al confine turco/siriano, e sul numero seguente (23/29 gennaio), se ne segnalava la ristampa perché era andato a ruba (un po' come il numero di Charlie Hebdo dopo la strage alla redazione, fortunatamente Michele (il vero nome dell'autore) è ancora vivo.
E insomma, mi son messo a leggerlo. Voi che mi conoscete bene, forse ve lo potete immaginare: ho pianto per quasi tutta la lettura. 
Cercatelo e fatelo vostro. Numeri 1085 o 1086 di Internazionale, e altre possibilità.