Mi fermo a Perast, uno dei luoghi dove in un primo momento avevo progettato di fermarmi per almeno una notte. Non è altro che un villaggio (l'ultimo censimento, di oltre 10 anni fa, riferisce di 349 abitanti, ma a dire il vero credo siano meno adesso), che in italiano si chiamerebbe Perasto (così come Kotor sarebbe Cattaro, ed Herceg Novi sarebbe Castelnuovo, ma io, sinceramente, 'sta mania di tradurre tutto non la comprendo mica tanto), e che, come tutta l'area, è stata per molto tempo sotto l'influenza veneziana (ai tempi delle Repubbliche Marinare, per intenderci). Ora, c'è da sottolineare una cosa, che probabilmente i più lupi di mare tra di voi avrà già intuito dalle foto: il mare, nella baia, è sempre calmo, visto che le bocche sono piuttosto strette, e la baia si insinua per chilometri nell'interno. Ecco, immaginatevi come può essere un villaggio di 349 abitanti, tutto in riva a questo mare che sembra un lago, perennemente calmo. Dire che è tranquillo è veramente un eufemismo. Parcheggio l'auto all'inizio del villaggio, venendo da Herceg Novi, passeggio fino all'altro capo, faccio foto, torno indietro, riparto. Quello che abbellisce ulteriormente questo villaggio è che proprio davanti ci sono due minuscole isole, Sveti Dorde - o Dordje - (San Giorgio) e Gospa o Skrpjela (Our Lady on the Rocks in inglese, Isola dello Scarpello in italiano); quest'ultima ha una storia quantomeno curiosa, è praticamente un'isola artificiale, "costruita" a partire da uno scoglio, dove dei marinai croati ritrovarono, nel 1452, un'icona della Madonna con il Bambino, e quindi giurarono di ampliare l'isolotto ogni volta che ritornavano da un viaggio con successo. La prima isola contiene un monastero benedettino, la seconda una chiesa cattolica. Come noterete da alcune foto, le montagne che circondano la baia, e che quindi "incorniciano" anche Perast, sono di pietra calcarea.
Mi rimetto in moto, diretto a Kotor; osservo, mentre passo, la cinta delle mura perfettamente conservate (leggete la scheda Wikipedia in italiano: pare, e qui qualche veneziano potrebbe darci l'eventuale conferma, che ancora oggi a Venezia, si usi dire, di un'amante pretenziosa, Te me costi come i muri de Cattaro), e cerco un posto per parcheggiare l'auto. Non ci crederete, ma non lo trovo, e quindi tiro dritto. Ripasso il tunnel, il tratto di strada che si allontana dall'aeroporto di Tivat, quello pianeggiante, poco distante dal mare ma brutto brutto, e dopo poco sono di nuovo sul mare, diretto a Budva.
Ripercorro, dunque, la strada che ho fatto ieri, a Budva proseguo, e finalmente arrivo a Sveti Stefan. Qui, a differenza di ieri, il gps mi è ancora meno utile, perché quando imposti Sveti Stefan non ti dà la possibilità neppure di impostare una via. E quindi, si va un po' alla cieca, sperando che l'hotel sia quantomeno segnalato dalle indicazioni. E invece, scoprirò dopo perché, niente da fare. Chiedendo, alla fine arrivo. Scopro che l'hotel si è "fuso" con quello accanto, acquisendo la doppia denominazione. La receptionist gentilissima mi accompagna in camera, una camera devo dire splendida, con una vista superba. E siccome avrete già capito che sono diventato un viaggiatore barra turista, che soprattutto quando (quasi sempre) viaggia da solo si concede qualsiasi cosa gli vada di fare, pensate un po': nonostante sia un'altra splendida giornata, mangio al ristorante dell'hotel, salgo in camera, e mi faccio una bella pennichella o, come dicono gli amici romani, pennica. Dopo di che (sono ancora le 14 e qualcosa), esco, pantaloni corti, e me ne vado sul mare, camminando lungo le insenature di questa splendida costa, arrivando a Przno, il villaggio vicino, invaso (scopro) da italiani alla ricerca di una Portofino leggermente più a buon mercato, e sempre per farsi vedere da qualcuno. Me ne torno indietro, mi godo un po' il sole sulla spalletta che circonda le due spiaggette dinnanzi all'hotel Sveti Stefan, quello che rende l'isoletta (adesso attaccata alla terraferma da un sottilissimo istmo) che rende celebre questo posto, assolutamente privata e inaccessibile, poi rientro in camera per godermi il tramonto dal terrazzino, comodamente seduto e con le gambe sollevate.
Alle foto del tramonto, ci arriviamo.
No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.
20140331
20140330
Montenegro - Marzo 2014 (4)
Come nelle grandi storie d'amicizia, a volte non c'è bisogno di parole. Queste le foto scattate nel tragitto da Herceg Novi a Perast.
20140329
boom
Come a volte succede, quella merdaccia di Dantès mi ha messo nei casini. Difatti, mi ha insignito di un Boomstick Award, un premio istituito da Hell di Book & Negative, blog che non conoscevo ma che pare proprio interessante.
Le regole:
1 - i premiati sono 7. Non uno di più, non uno di meno. Non sono previste menzioni d’onore
2 – i post con cui viene presentato il premio non devono contenere giustificazioni di sorta da parte del premiante riservate agli esclusi a mo’ di consolazione
3 – i premi vanno motivati. Non occorre una tesi di laurea. È sufficiente addurre un pretesto
4 – è vietato riscrivere le regole. Dovete limitarvi a copiarle, così come io le ho concepite
Quindi, vado:
Montecristo
perché nelle regole non c'è scritto che non si può citare chi ti ha a sua volta premiato
Bottle of Smoke
perché ascolta della musica di merda (a parte quando ascolta quella che piace anche a me), ma ci crede terribilmente
Distanti Saluti
perché scrive poche volte, ma quando scrive fa dei trattati di sociologia e antropologia, e mi insegna la logistica del ragionamento
Malvino
perché secondo me ha uno staff che scrive per lui (lo so che non è vero), ma tutti quanti la pensano allo stesso modo, e poi è un rompicoglioni ma di classe
Bioetica
perché ogni tanto li leggo e mi sento in pace con la coscienza
La gazzetta di Guelfo
perché per essere criptici non importa essere intellettuali
Exit Strategy
perché come 5 su 7 da me citati non la conosco personalmente, ma vorrei che si rivelasse e continuasse a scrivere
Per le regole riservate ai vincitori, leggete qui che non c'ho più tempo.
Le regole:
1 - i premiati sono 7. Non uno di più, non uno di meno. Non sono previste menzioni d’onore
2 – i post con cui viene presentato il premio non devono contenere giustificazioni di sorta da parte del premiante riservate agli esclusi a mo’ di consolazione
3 – i premi vanno motivati. Non occorre una tesi di laurea. È sufficiente addurre un pretesto
4 – è vietato riscrivere le regole. Dovete limitarvi a copiarle, così come io le ho concepite
Quindi, vado:
Montecristo
perché nelle regole non c'è scritto che non si può citare chi ti ha a sua volta premiato
Bottle of Smoke
perché ascolta della musica di merda (a parte quando ascolta quella che piace anche a me), ma ci crede terribilmente
Distanti Saluti
perché scrive poche volte, ma quando scrive fa dei trattati di sociologia e antropologia, e mi insegna la logistica del ragionamento
Malvino
perché secondo me ha uno staff che scrive per lui (lo so che non è vero), ma tutti quanti la pensano allo stesso modo, e poi è un rompicoglioni ma di classe
Bioetica
perché ogni tanto li leggo e mi sento in pace con la coscienza
La gazzetta di Guelfo
perché per essere criptici non importa essere intellettuali
Exit Strategy
perché come 5 su 7 da me citati non la conosco personalmente, ma vorrei che si rivelasse e continuasse a scrivere
Per le regole riservate ai vincitori, leggete qui che non c'ho più tempo.
20140328
Montenegro - Marzo 2014 (3)
Spero non abbiate pensato a chissà che cosa. Niente: l'ora è tarda, quasi quella di cena, e sto morendo di fame. Faccio il veloce check in con la ragazza che mi è venuta praticamente a prendere, salgo in camera, bella ma con un bagno molto piccolo e con lo scaldabagno per l'acqua calda, mi doccio veloce e son pronto alla cena. La ragazza mi consiglia assolutamente un ristorante che a lei piace, mi chiama un taxi, facciamo due chiacchiere durante le quali mi rivela che da piccola guardava sempre la tv italiana perché c'erano dei disegni animati divertentissimi, e così ha imparato qualche parola. Mi dice che il ristorante è sul porto, quindi se voglio tornare a piedi non devo far altro che seguire il lungomare, quello che ormai conosco a menadito. Arriva il taxi, il tassista non parla una parola d'inglese, mi porta al limite della zona interdetta, 20 metri dal ristorante, tratta breve, spesa ridicola, lascio mancia. Entro nel ristorante: lo staff al completo, ristorante deserto. Salgo al piano superiore, arredamento rustico. Mi lascio consigliare: misto di pesce con contorno di verdure. Dopo un poco arriva una famiglia che sembra locale. Buon segno. Arriva il mio piatto: in poche parole, anche se come saprete non sono certo un intenditore, favoloso. Tutto, comprese le verdure. Mi complimento, il cameriere apprezza, prendo un dolce e lo accompagno con, chiedo, un liquore che bevono usualmente. Tenetevi forte: in Montenegro bevono lo Jagermeister. Tutta da ridere. Pago, sui 20, lascio mancia. Cammino fino all'hotel, una bella passeggiata alla luce dei lampioni lungo il lungomare in ristrutturazione, passo sotto la fortezza, qualcuno in giro c'è. Arrivo all'auto parcheggiata, e ci metto alcuni minuti a capire dov'è l'hotel. Lo trovo, salgo in camera e mi addormento come un sasso. Al mattino, già sapete. Colazione, altre chiacchiere, c'è pure un'altra dipendente, parto, non prima di aver discusso su booking.com, gentilissima mi invita a tornare: perché no, anche in stagione più "alta". Ci siamo: bella giornata, luce perfetta, velocità di crociera, fermate copiose per foto. Sono dove volevo essere.
20140327
Montenegro - Marzo 2014 (2)
Poi, mi riallaccio ad una strada più importante, e sbuco nei pressi della costa poco prima di Budva. La giornata è splendida, e la strada, con la costa sotto, ricorda un po' quella che da Castiglioncello va a Livorno (o viceversa). Tante case in costruzione, tanto cemento in arrivo su questa costa che probabilmente fino a poco fa era pressappoco incontaminata. Budva appare come un posto dove d'estate c'è un casino tremendo. Tiro dritto, che qua mi sa che il sole tramonta anche poco prima che in Italia. La strada scende, si impiana, si va leggermente verso l'interno, d'intorno si fa bruttino il panorama, seppure le montagne poco distanti siano di tutto rispetto. Ci si avvicina a Kotor. Arrivo ad una rotatoria dove il gps pare impazzire. Mi segnala, per la destinazione che gli ho impostato (Herceg Novi) di andare dritto, ma qualcosa non mi quadra. Alla fine, capisco. Mi sta indicando la direzione per andare a prendere il traghetto. Non voglio. Torno indietro, e alla rotatoria prendo verso l'interno. Ricalcolo (in serbo-montenegrino), e poco dopo ecco il tunnel del quale avevo letto. A metà, meno male ci sono i fari, altrimenti non si vedrebbe niente dal fumo, smog, nebbia, quel che è. Si esce e siamo praticamente a Kotor. Comincia la strada che costeggia la baia, che è quasi un fiordo mediterraneo. Procedo, senza forzare, mentre il sole cala. Immagino già la bellezza di fare questa strada al ritorno, nella luce del mattino, senza fretta, senza impegni, fermandosi ogni due per tre. Supero l'approdo dei traghetti "di qua", alla fine sono oltre le 18 quando arrivo ad Herceg Novi, il sole è già calato, anzi, son quasi le 19. Seguo le indicazioni del gps che ha preso solo la via, non il numero. Mi ritrovo su un lungomare in rifacimento, dove soprattutto quelle poche persone che ci sono passeggiano o fanno jogging. Immagino che mi mandino a cagare. In serbo-montenegrino. Chiedo indicazioni, devo tornare indietro. Ci provo ma mi viene in mente che la tipa dell'albergo mi aveva raccomandato di chiamare, se avessi fatto tardi. Chiamo l'albergo. Cade la linea. Mi richiama la tipa. Mi chiede di provare a spiegarle dove sono. Ci provo. In inglese. Non capisce. Non fa niente: mi dice, vai alla rotatoria all'inizio della cittadina, ci troviamo lì. Obbedisco. Rifaccio il lungomare a ritroso. Torno alla rotatoria. Aspetto. Arriva. E' anche quasi carina. Mi dice di seguirla. Saliamo su un marciapiede, e siamo sullo stesso lungomare di prima, dall'inizio. Dopo poche centinaia di metri, mi fa segno di parcheggiare in uno spiazzo esattamente qualche metro sopra la spiaggetta. Qualche metro prima, dalla parte opposta, l'albergo. Dal quale, la mattina dopo (il cronologico dice 6.56), dal terrazzo, scatterò questa foto.
Cosa succede tra l'ingresso in hotel e la foto, ve lo racconto domani. Adesso è davvero troppo tardi.
Cosa succede tra l'ingresso in hotel e la foto, ve lo racconto domani. Adesso è davvero troppo tardi.
20140326
Montenegro - Marzo 2014 (1)
Nonostante, come qualcuno avrà notato, abbia praticamente smesso di andare al cinema, e addirittura non trovi più neppure il tempo per guardarmeli a casa, i film, negli ultimi anni molti dei miei viaggi sono scaturiti da suggestioni cinematografiche. Questo in Montenegro (Crna Gora in lingua montenegrina, lingua che è più un dialetto serbo che altro) è stato "causato" nello specifico da questo film qui, misconosciuto ingiustamente. Da quando ho visto quel film ho desiderato ardentemente trovarmi in quella baia, ed ho cominciato ad interessarmi anche ad altri luoghi lì intorno, magari per un giro di 7, 10 giorni, che addirittura ad un certo punto, nella mia testa erano divenuti 2 settimane partendo in auto dall'Italia, passando attraverso Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, e magari sconfinando in Kosovo o in Albania. Ma il destino cinico e baro non ha voluto fosse così.
Dopo più di un anno da quella visione, ho deciso che doveva essere, anche se solo per pochissimi giorni. E allora la ricerca prima è partita (ancora) dal volo, e visto che Alitalia da un anno circa ha inaugurato il Roma-Podgorica (per chi non lo sapesse, e credetemi sono in molti più di quelli che pensate, Podgorica è la capitale del Montenegro, stato indipendente dal 2006 dopo il suo distacco dalla Serbia), mi baso su quello. Qualche tempo fa quindi, prenoto il Pisa-Roma-Podgorica con una cifra quasi ridicola (sotto i 200 euro; se non lo avessi ancora detto qui, ve lo dico adesso: Alitalia è diventata competitiva, su alcuni voli a corto raggio, anche con le low cost che non siano Ryanair), partenza il venerdì e ritorno il lunedì. Meglio così che niente. Dopo di che, inizio a prefigurarmi un percorso. Prenoto l'auto dall'aeroporto di Podgorica (ultimamente, rigorosamente AVIS), e poi, quando ho più o meno chiaro il percorso, tramite il fido (ormai) booking.com, 3 notti in 3 luoghi diversi. Venerdì scorso, parto. Auto fino all'aeroporto di Pisa, solito parcheggio che vi ho segnalato la volta scorsa, check in al banco (minchia, quanto era che non facevo il check in al banco...e invece no, son passati solo due mesi), tra l'altro, riconosco la tipa (era anche lei sul volo Ryan per e da Sevilla) e glielo faccio notare ("che fisionomista che è!"), e via. Pisa-Roma nuvoloso, per cui non si gode il panorama costiero. A Roma cambio terminal, una lunga passeggiata, attendo un poco, il volo è subappaltato (non so se si dice così in questi casi) ad Air Montenegro, e noto che la leggenda delle squadre di basket che vanno in Montenegro per reclutare nuovi giocatori non è proprio una leggenda: già i giovani che tornano a casa, magari per il weekend, sono davvero altissimi.
Il volo per Podgorica gode di un cielo già molto meno nuvoloso, e quando abbiamo quasi attraversato l'Adriatico, si cominciano ad intravedere le coste chiamiamole "balcaniche", intravedo una pista d'atterraggio vicinissima al mare e immagino sia quella di Tivat, un piccolo aeroporto vicino proprio alla baia di Kotor. Invece, dato che ormai ho visto anche così tante foto, studiato il paesaggio perfino su google maps che lo riconoscerei ad occhi chiusi, mi accorgo che la baia arriva adesso, ci siamo sopra. Poco dopo, un'altra pista. Ecco, ecco, allora questo è Tivat, l'altro era...ma si, l'aeroporto di Dubrovnik, in Croazia ma vicinissimo al confine. Intanto, annunciano l'atterraggio. Una spianata, un lago immenso. Lo Skadar. Ecco Podgorica. Atterriamo, l'aeroporto è, come potete immaginare, minuscolo. Timbro il passaporto nuovo nuovo (a proposito, adesso, almeno al commissariato del paesello, solo una settimana per rinnovarlo completamente), mi dirigo verso il banco AVIS, un altro ragazzone altissimo col quale ci scambiamo le poche parole della lingua dell'altro, e interloquiamo ovviamente in inglese, mi consegna l'auto. Una Dacia Sandero, pensate un po'. Ho richiesto anche il navigatore, che, scoprirò molto presto, anche se settato dal ragazzone, in italiano ha solo le scritte, ma la voce è solo in serbo (montenegrino?). Si parte. Al primo, anzi al secondo benzinaio faccio il pieno, non si sa mai. Dritto verso la costa, attraverso il lungo ponte sul lago Skadar. Suggestivo. Poi, non so come, ignoro carta e navigatore, e prendo una strada di montagna. Ne varrà la pena.
Dopo più di un anno da quella visione, ho deciso che doveva essere, anche se solo per pochissimi giorni. E allora la ricerca prima è partita (ancora) dal volo, e visto che Alitalia da un anno circa ha inaugurato il Roma-Podgorica (per chi non lo sapesse, e credetemi sono in molti più di quelli che pensate, Podgorica è la capitale del Montenegro, stato indipendente dal 2006 dopo il suo distacco dalla Serbia), mi baso su quello. Qualche tempo fa quindi, prenoto il Pisa-Roma-Podgorica con una cifra quasi ridicola (sotto i 200 euro; se non lo avessi ancora detto qui, ve lo dico adesso: Alitalia è diventata competitiva, su alcuni voli a corto raggio, anche con le low cost che non siano Ryanair), partenza il venerdì e ritorno il lunedì. Meglio così che niente. Dopo di che, inizio a prefigurarmi un percorso. Prenoto l'auto dall'aeroporto di Podgorica (ultimamente, rigorosamente AVIS), e poi, quando ho più o meno chiaro il percorso, tramite il fido (ormai) booking.com, 3 notti in 3 luoghi diversi. Venerdì scorso, parto. Auto fino all'aeroporto di Pisa, solito parcheggio che vi ho segnalato la volta scorsa, check in al banco (minchia, quanto era che non facevo il check in al banco...e invece no, son passati solo due mesi), tra l'altro, riconosco la tipa (era anche lei sul volo Ryan per e da Sevilla) e glielo faccio notare ("che fisionomista che è!"), e via. Pisa-Roma nuvoloso, per cui non si gode il panorama costiero. A Roma cambio terminal, una lunga passeggiata, attendo un poco, il volo è subappaltato (non so se si dice così in questi casi) ad Air Montenegro, e noto che la leggenda delle squadre di basket che vanno in Montenegro per reclutare nuovi giocatori non è proprio una leggenda: già i giovani che tornano a casa, magari per il weekend, sono davvero altissimi.
Il volo per Podgorica gode di un cielo già molto meno nuvoloso, e quando abbiamo quasi attraversato l'Adriatico, si cominciano ad intravedere le coste chiamiamole "balcaniche", intravedo una pista d'atterraggio vicinissima al mare e immagino sia quella di Tivat, un piccolo aeroporto vicino proprio alla baia di Kotor. Invece, dato che ormai ho visto anche così tante foto, studiato il paesaggio perfino su google maps che lo riconoscerei ad occhi chiusi, mi accorgo che la baia arriva adesso, ci siamo sopra. Poco dopo, un'altra pista. Ecco, ecco, allora questo è Tivat, l'altro era...ma si, l'aeroporto di Dubrovnik, in Croazia ma vicinissimo al confine. Intanto, annunciano l'atterraggio. Una spianata, un lago immenso. Lo Skadar. Ecco Podgorica. Atterriamo, l'aeroporto è, come potete immaginare, minuscolo. Timbro il passaporto nuovo nuovo (a proposito, adesso, almeno al commissariato del paesello, solo una settimana per rinnovarlo completamente), mi dirigo verso il banco AVIS, un altro ragazzone altissimo col quale ci scambiamo le poche parole della lingua dell'altro, e interloquiamo ovviamente in inglese, mi consegna l'auto. Una Dacia Sandero, pensate un po'. Ho richiesto anche il navigatore, che, scoprirò molto presto, anche se settato dal ragazzone, in italiano ha solo le scritte, ma la voce è solo in serbo (montenegrino?). Si parte. Al primo, anzi al secondo benzinaio faccio il pieno, non si sa mai. Dritto verso la costa, attraverso il lungo ponte sul lago Skadar. Suggestivo. Poi, non so come, ignoro carta e navigatore, e prendo una strada di montagna. Ne varrà la pena.
20140325
pretty happy
Giusto per aggiornamento, il piccolo intervento di impianto pacemaker è stato eseguito ieri mattina (come preventivato) con successo. Così tanto successo che ieri sera, al passo delle 18, mio padre ci ha allegramente mandati affanculo, a me e a mia sorella, perché lo prendevamo in giro per la cena "da ospedale". Seguiranno ancora accertamenti, e addirittura un ulteriore intervento ad un dente, perché i diligentissimi dottori dell'ospedale livornese vogliono dimetterlo senza sospetti di ulteriori infezioni. Per cui, dovrà stare ancora qualche giorno ricoverato. Naturalmente, ringrazio tutti quelli che si sono preoccupati, sia qui che per telefono, fa sempre piacere.
La ragione per cui avevo scritto il post precedente in anticipo, era perché da venerdì a ieri sono stato assente per un weekend lungo. Dove? Niente popo' di meno che in Montenegro. Seguiranno foto e racconto. Posso però anticiparvi che, come in occasione del viaggio in Macedonia del settembre scorso, i vicini Balcani, ex Jugoslavia, riservano sorprese per chi non se ne è mai interessato, ma pure a chi, come me, ha una voglia matta di conoscerli meglio: anche il Montenegro, per farla breve, offre degli scorci eccezionali, e pensate che ci sono stato solo 3 giorni, che sono pochi, seppure il Paese sia piccolo (ma, in effetti, piuttosto differente morfologicamente).
La cosa curiosa accaduta ancora ieri sera, nella stanza di ospedale dov'è ricoverato mio padre, è la seguente. Da ormai 10 giorni, mio padre divide la stanza con un signore di evidenti origini non italiane. Il mio orecchio curioso aveva supposto che lui e la famiglia fossero albanesi, seppure i figli siano probabilmente nati qui, o comunque vivano qui da molti anni, perché switchano le lingue con molta nonchalance. Ieri sera, l'arcano si è svelato, e si è rivelato interessante e perfino bello.
Mia sorella, mentre eravamo tutti in quella camera (io, mio padre e lei, due amici nostri, il signore, sua moglie e una delle figlie), mi ha detto che tutti i luoghi "balcanici" da me visitati loro li conoscevano. E quindi abbiamo cominciato a parlarne. E lì si è scoperto che questo omino, in quel letto di ospedale apparentemente ancor più fragile di mio padre, viene dal Kosovo, e si, parla albanese. E che nel '99 è fuggito dall'allora Serbia per sfuggire alle persecuzioni di Milosevic, attraversando alcuni luoghi da me visitati in Macedonia (mi ha detto proprio così: "nel '99 sono scappato attraversando i confine e passando da quei posti dove sei stato in Macedonia, e poi arrivando in Albania da quel confine che tu non hai trovato, vicino a Struga", dato che gli avevo raccontato questa peripezia). Fate come cazzo vi pare, ma questa è sia storia, sia vita vera, e che vita; inoltre, se non vi tocca almeno un poco, beh, allora votate Lega o Le Pen.
Detto questo, abbiamo chiacchierato ancora un po', mi ha raccontato che il monastero di Sveti Naum (che in albanese si chiama in un altro modo) era albanese e che un loro re lo regalò allo Zar di Serbia, o qualcosa del genere. Mi ha segnalato dei luoghi sulla costa albanese dove andare al mare e non trovare confusione nemmeno in agosto (a sud, vicino al confine greco), e quando gli ho detto che volevo andare anche in Kosovo, prima o poi, mi ha detto che anche il Kosovo è bello, basta non avvicinarsi al confine serbo, che lì è ancora pericoloso. Insomma, ogni giorno, come mi piace dire, si impara qualcosa, basta essere disposti a farlo.
La ragione per cui avevo scritto il post precedente in anticipo, era perché da venerdì a ieri sono stato assente per un weekend lungo. Dove? Niente popo' di meno che in Montenegro. Seguiranno foto e racconto. Posso però anticiparvi che, come in occasione del viaggio in Macedonia del settembre scorso, i vicini Balcani, ex Jugoslavia, riservano sorprese per chi non se ne è mai interessato, ma pure a chi, come me, ha una voglia matta di conoscerli meglio: anche il Montenegro, per farla breve, offre degli scorci eccezionali, e pensate che ci sono stato solo 3 giorni, che sono pochi, seppure il Paese sia piccolo (ma, in effetti, piuttosto differente morfologicamente).
La cosa curiosa accaduta ancora ieri sera, nella stanza di ospedale dov'è ricoverato mio padre, è la seguente. Da ormai 10 giorni, mio padre divide la stanza con un signore di evidenti origini non italiane. Il mio orecchio curioso aveva supposto che lui e la famiglia fossero albanesi, seppure i figli siano probabilmente nati qui, o comunque vivano qui da molti anni, perché switchano le lingue con molta nonchalance. Ieri sera, l'arcano si è svelato, e si è rivelato interessante e perfino bello.
Mia sorella, mentre eravamo tutti in quella camera (io, mio padre e lei, due amici nostri, il signore, sua moglie e una delle figlie), mi ha detto che tutti i luoghi "balcanici" da me visitati loro li conoscevano. E quindi abbiamo cominciato a parlarne. E lì si è scoperto che questo omino, in quel letto di ospedale apparentemente ancor più fragile di mio padre, viene dal Kosovo, e si, parla albanese. E che nel '99 è fuggito dall'allora Serbia per sfuggire alle persecuzioni di Milosevic, attraversando alcuni luoghi da me visitati in Macedonia (mi ha detto proprio così: "nel '99 sono scappato attraversando i confine e passando da quei posti dove sei stato in Macedonia, e poi arrivando in Albania da quel confine che tu non hai trovato, vicino a Struga", dato che gli avevo raccontato questa peripezia). Fate come cazzo vi pare, ma questa è sia storia, sia vita vera, e che vita; inoltre, se non vi tocca almeno un poco, beh, allora votate Lega o Le Pen.
Detto questo, abbiamo chiacchierato ancora un po', mi ha raccontato che il monastero di Sveti Naum (che in albanese si chiama in un altro modo) era albanese e che un loro re lo regalò allo Zar di Serbia, o qualcosa del genere. Mi ha segnalato dei luoghi sulla costa albanese dove andare al mare e non trovare confusione nemmeno in agosto (a sud, vicino al confine greco), e quando gli ho detto che volevo andare anche in Kosovo, prima o poi, mi ha detto che anche il Kosovo è bello, basta non avvicinarsi al confine serbo, che lì è ancora pericoloso. Insomma, ogni giorno, come mi piace dire, si impara qualcosa, basta essere disposti a farlo.
20140324
happy maybe
Scrivo questo breve (ancora) post con qualche giorno di anticipo, il perché ve lo spiego poi, magari pure stasera. Lo scrivo perché oggi è il settantottesimo compleanno di mio padre, che come molti sanno si chiama Otello, scespirianamente.
Al momento in cui scrivo, è in ospedale. Ve lo avevo accennato, qualche settimana fa ha dovuto subire la "sostituzione" di una valvola cardiaca (se non ho capito male, una delle due cuspidi della mitrale, ma potrei aver sparato una enorme cazzata); l'ospedale pare piuttosto specializzato (Massa), e gli hanno impiantato, sempre se non ho capito male, una valvola bovina, una sperimentazione molto all'avanguardia. Fatto sta che babbino non è più stato bene dall'operazione, alternava gli stati di umore, e una sera ha dovuto essere ricoverato al pronto soccorso dell'ospedale più vicino al paesello, quello di Cecina, dove è stato tenuto tre giorni nel repartino detto di "breve osservazione", sempre all'interno del pronto soccorso, e poi trasportato al reparto cardiologia dell'ospedale di Livorno perché, avendo i battiti cardiaci troppo bassi, aveva bisogno di un pacemaker; l'intervento in questione, a quanto mi si dice, è piuttosto semplice, ma l'ospedale di Cecina stava chiudendo il reparto cardiologia per ristrutturazione e assenza temporanea di cardiochirurghi in grado di eseguirla. Vabbè.
Babbino avrebbe dovuto subire questo ulteriore piccolo intervento una settimana fa esatta, ma la notte precedente gli è venuta la febbre, la qual cosa ha scatenato sospetti e una catena di analisi per verifiche varie (tra cui il sospetto di infezione della valvola famosa, quella "iniziale"), da parte di uno staff che al momento si è dimostrato molto attento.
Speriamo bene, e auguri babbino. Che la forza sia con te.
Al momento in cui scrivo, è in ospedale. Ve lo avevo accennato, qualche settimana fa ha dovuto subire la "sostituzione" di una valvola cardiaca (se non ho capito male, una delle due cuspidi della mitrale, ma potrei aver sparato una enorme cazzata); l'ospedale pare piuttosto specializzato (Massa), e gli hanno impiantato, sempre se non ho capito male, una valvola bovina, una sperimentazione molto all'avanguardia. Fatto sta che babbino non è più stato bene dall'operazione, alternava gli stati di umore, e una sera ha dovuto essere ricoverato al pronto soccorso dell'ospedale più vicino al paesello, quello di Cecina, dove è stato tenuto tre giorni nel repartino detto di "breve osservazione", sempre all'interno del pronto soccorso, e poi trasportato al reparto cardiologia dell'ospedale di Livorno perché, avendo i battiti cardiaci troppo bassi, aveva bisogno di un pacemaker; l'intervento in questione, a quanto mi si dice, è piuttosto semplice, ma l'ospedale di Cecina stava chiudendo il reparto cardiologia per ristrutturazione e assenza temporanea di cardiochirurghi in grado di eseguirla. Vabbè.
Babbino avrebbe dovuto subire questo ulteriore piccolo intervento una settimana fa esatta, ma la notte precedente gli è venuta la febbre, la qual cosa ha scatenato sospetti e una catena di analisi per verifiche varie (tra cui il sospetto di infezione della valvola famosa, quella "iniziale"), da parte di uno staff che al momento si è dimostrato molto attento.
Speriamo bene, e auguri babbino. Che la forza sia con te.
20140323
intermoche?
Preso alla gola da peripezie varie e da un weekend impegnato, vi propongo un ulteriore, piccola parentesi "lavorativa". Sempre in questi ultimi tempi, mi è capitato per ben due volte di fare una scappata ad un Interporto situato davvero molto molto vicino al paesello e alla capitale provinciale nonché bella mi' Livorno. Anche lì abbiamo chiamiamoli degli interessi, ossia paghiamo degli affitti (non io, of course, la società per cui lavoro).
Ora, questo Interporto, come altri che acquisiscono tale definizione, e cioè un punto preciso che funge da snodo distributivo di merci, che integra le varie modalità di trasporto (gomma, acqua, ferrovia), nacque già qualche anno fa nel tentativo di rivitalizzare un porto che aveva difficoltà varie, in una piana immediatamente vicina appunto a Livorno, una piana che spesso acquistava i contorni di una palude, soprattutto dopo abbondanti piogge. Da non esperto, mi trovai a chiedermi che cosa sarebbe successo dopo l'urbanizzazione quando ci fossero state precipitazioni copiose. Per farvela molto breve, dei primi capannoni che furono costruiti, il pavimento ha ceduto di quasi mezzo metro, perché evidentemente non erano state ben calcolate le opere di rinforzo delle fondamenta, data la struttura paludosa e quindi cedevole del terreno. E una sorta di spettacolo tragicomico: tu entri da una grande porta, fai qualche passo verso il centro del capannone, poi ti volti verso la porta dalla quale sei entrato, e ti rendi conto che sei più in basso di una trentina di centimetri. Poi ti volti verso l'altra uscita, e vedi che anche rispetto a quella sei più in basso. Poi guardi verso i pilastri portanti laterali, e vedi che il pavimento è crepato.
Mi è stato spiegato che per costruire i seguenti capannoni, giusto dalla parte opposta della strada, sono stati piantati nel terreno a mo' di rinforzo, dei pali lunghi 13 dico tredici metri. Chiamatemi il geologo che ha concesso i permessi per i primi capannoni, o anche solo l'architetto o l'ingegnere che li ha progettati. Così, giusto per curiosità.
Ora, questo Interporto, come altri che acquisiscono tale definizione, e cioè un punto preciso che funge da snodo distributivo di merci, che integra le varie modalità di trasporto (gomma, acqua, ferrovia), nacque già qualche anno fa nel tentativo di rivitalizzare un porto che aveva difficoltà varie, in una piana immediatamente vicina appunto a Livorno, una piana che spesso acquistava i contorni di una palude, soprattutto dopo abbondanti piogge. Da non esperto, mi trovai a chiedermi che cosa sarebbe successo dopo l'urbanizzazione quando ci fossero state precipitazioni copiose. Per farvela molto breve, dei primi capannoni che furono costruiti, il pavimento ha ceduto di quasi mezzo metro, perché evidentemente non erano state ben calcolate le opere di rinforzo delle fondamenta, data la struttura paludosa e quindi cedevole del terreno. E una sorta di spettacolo tragicomico: tu entri da una grande porta, fai qualche passo verso il centro del capannone, poi ti volti verso la porta dalla quale sei entrato, e ti rendi conto che sei più in basso di una trentina di centimetri. Poi ti volti verso l'altra uscita, e vedi che anche rispetto a quella sei più in basso. Poi guardi verso i pilastri portanti laterali, e vedi che il pavimento è crepato.
Mi è stato spiegato che per costruire i seguenti capannoni, giusto dalla parte opposta della strada, sono stati piantati nel terreno a mo' di rinforzo, dei pali lunghi 13 dico tredici metri. Chiamatemi il geologo che ha concesso i permessi per i primi capannoni, o anche solo l'architetto o l'ingegnere che li ha progettati. Così, giusto per curiosità.
20140322
20140321
alta Liguria o basso Piemonte
So benissimo che il Piemonte non c'entra, seppure sia solo a una decina di chilometri in linea d'aria. Sempre per la serie viaggi di lavoro, proprio pochi giorni fa sono andato, con la solita allegra ciurma che mi aveva accompagnato nell'operoso Nord Est, in un molto ameno luogo vicinissimo a Cairo Montenotte, località fin'ora da me mai visitata ma da sempre avvicinata ad icona, in quanto proprio lì nacque Rockerilla, la prima rivista musicale acquistata coscientemente molti anni fa. Viaggio scorrevole, arrivo in mattinata, colazione proprio a Cairo, che scopro essere una cittadina piuttosto brutta, a parte uno scorcio di centro passabile. Della visita, non c'è granché da dire, a parte la solita cortesia dei componenti di una piccola società che in qualche modo è partner di una grande (quella per cui lavoro io), ma del luogo si. La vallata, poco lontana dal mare, è bruttina e spesso martoriata da tempo inclemente, ed ormai da anni svuotata da luoghi di lavoro che si, senza dubbio hanno contribuito a renderla ancor più brutta, ma che almeno davano il pane. Di pochi giorni fa, i sigilli ad una centrale elettrica, sicuramente colpevole di aver trasgredito anche ad un ultimatum piuttosto chiaro, ma che rischia di dare il colpo di grazia all'intero comprensorio: i dipendenti erano circa un migliaio, estendete alle famiglie, e fatevi un cortometraggio "de paura".
La situazione parrebbe grave. Ennesimo spaccato di un Paese che tentenna e che non riesce a dare lavoro di solo turismo e cultura.
La situazione parrebbe grave. Ennesimo spaccato di un Paese che tentenna e che non riesce a dare lavoro di solo turismo e cultura.
20140320
giusto in mezzo alla Pianura Padana
Altro episodio riguardante i "viaggi di lavoro". La settimana scorsa io e due colleghi siamo andati a visitare una piccola fabbrica di una società partner. In realtà, la specializzazione di questa società partner è nell'alimentare. Non voglio fare nomi (soprattutto perché poi il mio co-blogger è curioso), ma posso dirvi che si occupano da anni di sughi e salse, e che questa fabbrica è, come da titolo (ma non esattamente "giusto in mezzo"), nella mitica Pianura Padana. Personalmente, sono un fan dei loro prodotti, e apprezzo la loro filosofia (tradizione si, ma al tempo stesso ricerca dell'introduzione di sapori nuovi). Non è stato quindi per piaggeria quando gliel'ho detto.
Ora, proprio qualche giorno fa mi è capitato di leggere un articolo di Miya Tokumitsu che si scagliava contro la filosofia capitalistica che prova ad inculcare nel lavoratore l'amore per il lavoro. Il senso, sempre che lo abbia capito, era che il lavoro non bisognerebbe amarlo, ma semplicemente farlo per quelle tot ore, e poi vivere la vita. Tutto vero, ma io che voglio vedere sempre il lato positivo nelle cose, ho scelto un'altra filosofia, che sta un po' in mezzo (questo sempre per ammettere, anche inconsciamente, che non smetterò mai di essere democristiano, seppure mi consideri una persona tendenzialmente di sinistra): se proprio devo farlo, provo ad amarlo, almeno un poco, anzi, a prenderlo come un gioco, almeno mi pesa un po' meno. Ma sto divagando: quello che volevo dirvi è che quando siamo arrivati in questo luogo di lavoro (di altri), siamo rimasti affascinati. Vabbè che era una bella giornata, ma il posto, seppur in quella piana un po' triste, almeno d'inverno, in mezzo ai miasmi del letame sparso nei campi quando è il momento, era davvero incantevole. Spazi ampi, strutture moderne, un campo da calcetto, un laghetto che in realtà è il serbatoio dell'acqua anti-incendio, cigni, scoiattoli, animali in genere, una palestra ad uso dei dipendenti, uno shop aperto all'esterno con ogni genere di sfizio alimentare, un ristorante annesso, non aperto all'esterno perché (occhio, governanti - nel senso di "chi sta al governo") in quel caso necessiterebbe di "troppe menate", ma come che sia realmente fighissimo (così come la giovane cameriera, della quale ovviamente mi sono immediatamente invaghito). E soprattutto, persone sorridenti, un ambiente rilassato, un rispetto per il Presidente (così lo chiamano) che non pareva di facciata (e, in effetti, di questa persona, senza conoscerla, mi sono fatto l'idea che sia davvero uno con delle idee e del coraggio, ma per spiegarvelo dovrei farvi il nome della società).
Una sala riunioni davvero impressionante, non sfarzosa ma di classe, attività rivolte all'esterno come degustazioni, mostre d'arte, cose che si, si fanno per farsi benvolere, ma che comunque lasciano qualcosa anche a chi abita lì vicino e non dipende dalla società.
Siccome io e uno dei miei colleghi siamo particolarmente attenti a queste cose chiamiamole extra-lavorative, ma connesse e fisicamente vicine al luogo di lavoro, abbiamo chiesto, quando i convenevoli erano finiti, e l'atmosfera tra noi ed i nostri anfitrioni si era decisamente fatta amichevole, se non avevano pensato anche ad un asilo. E si, ci hanno risposto che ci avevano pensato, ma che anche lì, occorrono troppe "menate" per aprirlo, e quindi ci hanno rinunciato.
Insomma, la visita è stata piacevole e molto interessante; naturalmente, ci hanno fatto un regalo, e insomma, io ho pure riempito il frigo (i miei colleghi hanno fatto pure diversi acquisti allo shop, ma loro tengono famiglia, io invece il frigo lo tengo ben vuoto, che non si sa mai quando ci sono e quando no). Quello che mi ha fatto piacere, è vedere che anche in Italia possono esistere realtà del genere, che immagineremmo nel civilissimo Nord Europa, e che tra l'altro sono pure redditizie.
Quello che mi dispiace è che dove lavoriamo noi, invece, il percorso è stato praticamente inverso. Eppure, basterebbe così poco.
Ora, proprio qualche giorno fa mi è capitato di leggere un articolo di Miya Tokumitsu che si scagliava contro la filosofia capitalistica che prova ad inculcare nel lavoratore l'amore per il lavoro. Il senso, sempre che lo abbia capito, era che il lavoro non bisognerebbe amarlo, ma semplicemente farlo per quelle tot ore, e poi vivere la vita. Tutto vero, ma io che voglio vedere sempre il lato positivo nelle cose, ho scelto un'altra filosofia, che sta un po' in mezzo (questo sempre per ammettere, anche inconsciamente, che non smetterò mai di essere democristiano, seppure mi consideri una persona tendenzialmente di sinistra): se proprio devo farlo, provo ad amarlo, almeno un poco, anzi, a prenderlo come un gioco, almeno mi pesa un po' meno. Ma sto divagando: quello che volevo dirvi è che quando siamo arrivati in questo luogo di lavoro (di altri), siamo rimasti affascinati. Vabbè che era una bella giornata, ma il posto, seppur in quella piana un po' triste, almeno d'inverno, in mezzo ai miasmi del letame sparso nei campi quando è il momento, era davvero incantevole. Spazi ampi, strutture moderne, un campo da calcetto, un laghetto che in realtà è il serbatoio dell'acqua anti-incendio, cigni, scoiattoli, animali in genere, una palestra ad uso dei dipendenti, uno shop aperto all'esterno con ogni genere di sfizio alimentare, un ristorante annesso, non aperto all'esterno perché (occhio, governanti - nel senso di "chi sta al governo") in quel caso necessiterebbe di "troppe menate", ma come che sia realmente fighissimo (così come la giovane cameriera, della quale ovviamente mi sono immediatamente invaghito). E soprattutto, persone sorridenti, un ambiente rilassato, un rispetto per il Presidente (così lo chiamano) che non pareva di facciata (e, in effetti, di questa persona, senza conoscerla, mi sono fatto l'idea che sia davvero uno con delle idee e del coraggio, ma per spiegarvelo dovrei farvi il nome della società).
Una sala riunioni davvero impressionante, non sfarzosa ma di classe, attività rivolte all'esterno come degustazioni, mostre d'arte, cose che si, si fanno per farsi benvolere, ma che comunque lasciano qualcosa anche a chi abita lì vicino e non dipende dalla società.
Siccome io e uno dei miei colleghi siamo particolarmente attenti a queste cose chiamiamole extra-lavorative, ma connesse e fisicamente vicine al luogo di lavoro, abbiamo chiesto, quando i convenevoli erano finiti, e l'atmosfera tra noi ed i nostri anfitrioni si era decisamente fatta amichevole, se non avevano pensato anche ad un asilo. E si, ci hanno risposto che ci avevano pensato, ma che anche lì, occorrono troppe "menate" per aprirlo, e quindi ci hanno rinunciato.
Insomma, la visita è stata piacevole e molto interessante; naturalmente, ci hanno fatto un regalo, e insomma, io ho pure riempito il frigo (i miei colleghi hanno fatto pure diversi acquisti allo shop, ma loro tengono famiglia, io invece il frigo lo tengo ben vuoto, che non si sa mai quando ci sono e quando no). Quello che mi ha fatto piacere, è vedere che anche in Italia possono esistere realtà del genere, che immagineremmo nel civilissimo Nord Europa, e che tra l'altro sono pure redditizie.
Quello che mi dispiace è che dove lavoriamo noi, invece, il percorso è stato praticamente inverso. Eppure, basterebbe così poco.
20140319
Het diner
Olanda. Paul Lohman è un ex professore di storia a riposo, sposato con Claire. Questa sera sono a cena fuori, invitati dal fratello di Paul, Serge, e dalla di lui moglie Babette. Il ristorante è lussuosissimo, normalmente ha liste d'attesa di tre mesi, ma per Serge Lohman, in questo momento, niente è impossibile: è il candidato premier del partito di maggioranza alle prossime elezioni olandesi. Paul sopporta a malapena il fratello, il suo snobismo costruito, il suo improvviso amore per la cucina e l'enologia quando in realtà non solo non ci capisce niente, ma è uno di quelli che trangugia ogni cibo senza gustarselo, la sua passione per la Francia, insomma, la sua ipocrisia di fondo. Paul è il narratore, e sembra una persona caustica, ma tutto sommato equilibrata e simpatica, il suo sarcasmo corrosivo pare del tutto ragionevole.
Ma come spesso accade nella realtà di tutti i giorni, l'apparenza inganna...
Libro particolare e interessante questo dell'autore olandese (anche attore e sceneggiatore) Herman Koch, questo La cena è probabilmente, da quello che si estrae in rete, quello che ha venduto di più e che è stato tradotto in più lingue. Per i più curiosi, ne è stato già tratto un film (omonimo) olandese, e pare che Cate Blanchett sia interessata a farne una versione inglese, per un film che rappresenterebbe il suo debutto alla regia. A proposito di film, ha ragione chi ha accostato questa storia a Carnage di Polanski. Infatti, chi, fuorviato da giudizi, quarte di copertina e affini, si aspetta un thriller, rimarrà fortemente deluso: La cena è un libro che mette in questione il perbenismo e che soprattutto condanna l'ipocrisia più che strisciante, oggi all'ordine del giorno. Insieme all'enorme crisi di valori del cosiddetto vecchio continente, La cena risulta una provocazione ben fatta, un po' (perfino) alla Houellebecq, rispetto a quello che siamo diventati, non importa se l'azione si svolge nella civile Olanda anziché in Italia (o in Francia, o in Spagna, o In Germania, dove volete voi). I personaggi raccontati da Koch, eleganti ma non spocchiosi, educati fino all'affettazione, di "buona famiglia", aperti, tolleranti, di larghe vedute, si rivelano pian piano dei mostri, pronti a tutto pur di difendere la loro finta tranquillità familiare.
La cena è un libro scritto con uno stile moderno e decisamente non ricercato, assolutamente scorrevole seppur, pagina dopo pagina, il disgusto dovrebbe essere il sentimento più probabile nel lettore, che ha una particolarità interessante: a differenza dei libri che avete amato maggiormente, quelli che vi dispiace terminare, vi dispiace chiudere perché vi dispiace abbandonare i protagonisti, personaggi che vi sono sembrati veri e che avete imparato ad amare, questo è un libro che vi farà odiare i protagonisti. Li odierete talmente che rischierete di trasformarvi in loro, se solo vi capitasse l'occasione...
20140318
Bullets and Tears
Si riprende esattamente da dove ci eravamo interrotti, e c'è da dire che lo sceriffo Lucas Hood si è conquistato il rispetto e la stima perfino di chi inizialmente lo osteggiava. Certo, le cose non si può dire che siano tranquille a Banshee: Carrie/Ana è fuori da casa ma non ha certo intenzione di rimettersi con Lucas (ricordiamoci che non è il suo nome, e che ancora quello vero non lo conosciamo), Rebecca deve decidere se "abbracciare il lato oscuro" dopo l'esplosione che ha ucciso il giovane sindaco, Job e Sugar devono "dare una mano" trafugando il corpo del vero Lucas Hood dall'obitorio, l'agente speciale FBI Racine arriva a Banshee in seguito alla sparatoria (season finale della precedente stagione), incaricato di condurre un'audizione federale a porte chiuse con i protagonisti, e, pur dimostrando di non credere per un istante che Hood sia il vero Hood, è palese che sia molto più interessato ad incastrare Rabbit che a Hood (?) o Carrie (la quale comunque è costretta a passare un mesetto in gabbia, visto che si rifiuta di fornire informazioni su Rabbit), e si rivela quindi esageratamente indulgente, mettendo semplicemente sotto supervisione federale il dipartimento dello sceriffo e non punendo Hood in quanto ha agito da civile.
Naturalmente, tutto questo viene "festeggiato" dalla banda dei quattro (Hood, Carrie, Job e Sugar) con un bel colpetto ad un furgone portavalori (i proventi del casinò Kinaho), che però viene "azzoppato" da un misterioso motociclista in nero.
Mentre veniamo a conoscenza che l'autorità di Alex Longshadow sta venendo messa in discussione da alcuni membri del consiglio, e Deva viene beccata per taccheggio ma riesce a sbrogliare la situazione da sola dimostrando spiccate doti da truffatrice (e chissà da chi può aver preso), scopriamo (tramite Racine) che Rabbit ha un fratello sacerdote, e che il vero figlio di Hood si aggira ancora nei paraggi di Banshee.
Chi si è appassionato della serie più politicamente scorretta della tv americana, non rimarrà sicuramente deluso dalla seconda, adrenalinica stagione. Banshee prosegue dritto e imperterrito sulla sua strada misogina, machista, violenta, irrorando di sangue e sperma tutto quello che si trova di fronte. Le storylines secondarie servono esclusivamente per alzare il livello di violenza: fate caso al delitto dell'indianina Lana Cleary (The Warrior Class, 2x03), o alla "casuale" introduzione del gruppo di skinheads nella storia (Evil for Evil, 2x08). Ed è una violenza totalmente "occhio per occhio", una sorta di giustizia fatta in casa, che pare una valvola di sfogo televisiva per gente come noi, gente di sinistra che deve tenere il punto sull'antigiustizialismo, sull'essere contrari alla pena di morte e sull'essere garantisti.
Il lato voyeristico viene arricchito dal maggior minutaggio che ottiene Trieste Kelly Dunn (Siobahn Kelly), andando così ad impreziosire il gotha di questa serie che già conta scene di nudo a pacchi da parte delle bellissime Ivana Milicevic (Ana/Carrie), Lili Simmons (Rebecca), Odette Annable (Nola).
Antony Starr (Lucas Hood?) si conferma una fantastica scoperta, e Hoon Lee (Job) pure.
Le regie rischiano di far impallidire i "soliti" registi di film d'azione, la colonna sonora è più che soddisfacente e sforna diverse sorprese, la serie è già stata rinnovata per una terza stagione (il primo episodio si intitolerà The Fire Trials), che andrà in onda nel 2015. Se non lo sapeste, sono stati diffusi pure 24 mini-episodi intitolati Banshee: Origins (2 serie da 12 episodi), che sono delle piccole "finestre sul passato" dei vari personaggi principali. Li trovate su questo sito.
20140317
Carcosa
True Detective - di Nic Pizzolatto - Stagione 1 (8 episodi; HBO) - 2014
1995, Vermilion Parish, Louisiana, USA. Martin Hart (Marty) e Rustin Cohle (Rusty) sono una coppia di detectives della polizia locale, e si trovano ad indagare sull'omicidio brutale, con tanto di ritrovamento del cadavere "spettacolare", della giovane Dora Kelly Lange, ex prostituta. I due, come coppia lavorativa, sono relativamente nuovi. Marty è uno dei più esperti del luogo, è un compagnone, benvoluto da tutti alla centrale; ha una moglie giovane e bella, due figlie apparentemente adorabili. Rusty, seppure anche lui uomo del sud, è "piovuto" lì da chissà dove, nasconde un passato oscuro, è scostante, supponente perfino, ha un metodo di lavoro mai visto e che fa sorridere (viaggia sempre con un quadernone dove si appunta qualsiasi cosa), e si fa odiare da tutti in poco tempo; solitario, ai limiti dell'asocialità. Sono entrambi ottimi investigatori, probabilmente Rusty ha una marcia in più, ma Marty, inizialmente perché deve farci coppia, dopo perché si affeziona a questo strano ma affascinante uomo, è l'unico che lo sopporta.
Rusty è convinto che Dora Kelly Lange sia vittima di un assassino seriale, che potrebbe aver mietuto prima di lei numerose vittime. Marty è scettico. Ma la testardaggine e l'intuito di Rusty riesce a legare la vittima almeno ad un'altra bambina, Marie Fontenot, scomparsa cinque anni prima.
Nel 2012, diciassette anni dopo, scopriamo che un'altra coppia di detectives, Papania e Gilbough, stanno "intervistando" Marty e Rusty separatamente, sui fatti del 1995 e sulle indagini susseguenti, ma l'impressione è che vogliano arrivare ad altro. Da queste interviste scopriamo, pian piano, che tra i due è accaduto qualcosa, e che Rusty ha lasciato la polizia, diventando barista in un luogo dimenticato da chiunque, ed esercitando quasi razionalmente il suo alcolismo.
Ecco, cominciamo col chiarire alcuni punti evidenti, cose che facevano già partire True Detective da un gradino più alto, ma di conseguenza anche con delle aspettative di gran lunga maggiori rispetto ad un'altra qualsiasi serie tv. Marty è interpretato da Woody Harrelson e Rusty da Matthew McConaughey: già con questo, capite di cosa stiamo parlando. Non solo: di True Detective sulla HBO si parlava già da almeno due anni.
Fin qui, le cose che già si sapevano. Procedo con quelle che sapevo meno: Pizzolatto, creatore e sceneggiatore di tutti e otto gli episodi, è uno scrittore piuttosto apprezzato, autore di un libro (Galveston) e diversi racconti, tutti sul genere noir, e sceneggiatore di un paio di episodi di The Killing. Cary Joji Fukunaga, che ha diretto tutti gli episodi, è un giovane regista che avevamo avuto modo di apprezzare molto col suo Jane Eyre del 2011, e con Sin Nombre del 2009 (ancora meglio), e che dopo questa prima stagione di True Detective si candida come uno dei miei registi preferiti, sicuramente da seguire, come già avevo fiutato dopo aver visto Sin Nombre. Adam Arkapaw, direttore della fotografia, ha fatto un grandissimo lavoro su questa serie, e (questo non c'entra naturalmente) la sua fidanzata è nientemeno che Elisabeth Moss (Peggy di Mad Men). La colonna sonora, a parte la sigla (by the way, molto molto bella pure visivamente) Far From Any Road dei The Handsome Family, è eccezionale, e non poteva essere altrimenti dato che è stata curata da T Bone Burnett.
Detto tutto questo, e chiarendo che anch'io, come molti fan (la serie non ha avuto problemi a fare proseliti in pochissimo tempo), sono rimasto un po' così davanti al season finale, ma che, per una mia personale convinzione (il finale difficilmente è una roba facile da scrivere, specialmente se hai creato una cosa devastante prima), non sono assolutamente insoddisfatto da True Detective, anzi, questa serie, come detto attesa da qualche anno, è stata decisamente all'altezza delle aspettative.
Probabilmente perché personalmente non sono uno particolarmente attirato dal noir (ma non disdegno affatto, come potete constatare leggendo questo blog, il genere), e non sono neppure di quelli che si mette a tentare di risolvere l'intreccio, o che sta meticolosamente attento ai dettagli e agli indizi, mi sono goduto totalmente questo bellissimo serial dalle atmosfere southern interpretato da due attori che probabilmente sono tra i, la butto lì, cinque migliori sulla piazza attualmente, che gigioneggiano costantemente sullo schermo, entrambi totalmente calati nelle loro rispettive e diversissime parti, gareggiando a chi ce l'ha più lungo o a chi piscia più lontano, circondati da caratteristi fenomenali (Michelle Monaghan, Kevin Dunn, Jay O. Sanders, Shea Whigham, Michael Harney, ci metterei anche Lili Simmons ma lei è destinata a non "rimanere" una caratterista: occhio, ha appena 21 anni), ma sulle cui portentose spalle poggia il 99% della serie. La cosa curiosa, divertente, interessante, è che lo script ci regala un personaggio favoloso, quello di Rusty, interpretato da un McConaughey in stato di grazia (già lo sapevamo, e l'Oscar per Dallas Buyers Club, film che mi sto "mettendo da parte" per una serata scintillante, ha semplicemente indicato che eravamo nel giusto), e un attore meraviglioso quale Harrelson si "limita" a fargli da spalla (e che spalla).
Sinceramente, non ho altro da aggiungere. Tra le novità, decisamente una delle migliori.
La serie non è ancora stata rinnovata per una seconda stagione, ma Pizzolatto è già al lavoro. E' già di dominio pubblico che sarà una serie antologica, quindi ogni stagione parlerà di un nuovo "caso", con un cast completamente diverso. Buona fortuna, dopo Harrelson/McConaughey.
1995, Vermilion Parish, Louisiana, USA. Martin Hart (Marty) e Rustin Cohle (Rusty) sono una coppia di detectives della polizia locale, e si trovano ad indagare sull'omicidio brutale, con tanto di ritrovamento del cadavere "spettacolare", della giovane Dora Kelly Lange, ex prostituta. I due, come coppia lavorativa, sono relativamente nuovi. Marty è uno dei più esperti del luogo, è un compagnone, benvoluto da tutti alla centrale; ha una moglie giovane e bella, due figlie apparentemente adorabili. Rusty, seppure anche lui uomo del sud, è "piovuto" lì da chissà dove, nasconde un passato oscuro, è scostante, supponente perfino, ha un metodo di lavoro mai visto e che fa sorridere (viaggia sempre con un quadernone dove si appunta qualsiasi cosa), e si fa odiare da tutti in poco tempo; solitario, ai limiti dell'asocialità. Sono entrambi ottimi investigatori, probabilmente Rusty ha una marcia in più, ma Marty, inizialmente perché deve farci coppia, dopo perché si affeziona a questo strano ma affascinante uomo, è l'unico che lo sopporta.
Rusty è convinto che Dora Kelly Lange sia vittima di un assassino seriale, che potrebbe aver mietuto prima di lei numerose vittime. Marty è scettico. Ma la testardaggine e l'intuito di Rusty riesce a legare la vittima almeno ad un'altra bambina, Marie Fontenot, scomparsa cinque anni prima.
Nel 2012, diciassette anni dopo, scopriamo che un'altra coppia di detectives, Papania e Gilbough, stanno "intervistando" Marty e Rusty separatamente, sui fatti del 1995 e sulle indagini susseguenti, ma l'impressione è che vogliano arrivare ad altro. Da queste interviste scopriamo, pian piano, che tra i due è accaduto qualcosa, e che Rusty ha lasciato la polizia, diventando barista in un luogo dimenticato da chiunque, ed esercitando quasi razionalmente il suo alcolismo.
Ecco, cominciamo col chiarire alcuni punti evidenti, cose che facevano già partire True Detective da un gradino più alto, ma di conseguenza anche con delle aspettative di gran lunga maggiori rispetto ad un'altra qualsiasi serie tv. Marty è interpretato da Woody Harrelson e Rusty da Matthew McConaughey: già con questo, capite di cosa stiamo parlando. Non solo: di True Detective sulla HBO si parlava già da almeno due anni.
Fin qui, le cose che già si sapevano. Procedo con quelle che sapevo meno: Pizzolatto, creatore e sceneggiatore di tutti e otto gli episodi, è uno scrittore piuttosto apprezzato, autore di un libro (Galveston) e diversi racconti, tutti sul genere noir, e sceneggiatore di un paio di episodi di The Killing. Cary Joji Fukunaga, che ha diretto tutti gli episodi, è un giovane regista che avevamo avuto modo di apprezzare molto col suo Jane Eyre del 2011, e con Sin Nombre del 2009 (ancora meglio), e che dopo questa prima stagione di True Detective si candida come uno dei miei registi preferiti, sicuramente da seguire, come già avevo fiutato dopo aver visto Sin Nombre. Adam Arkapaw, direttore della fotografia, ha fatto un grandissimo lavoro su questa serie, e (questo non c'entra naturalmente) la sua fidanzata è nientemeno che Elisabeth Moss (Peggy di Mad Men). La colonna sonora, a parte la sigla (by the way, molto molto bella pure visivamente) Far From Any Road dei The Handsome Family, è eccezionale, e non poteva essere altrimenti dato che è stata curata da T Bone Burnett.
Detto tutto questo, e chiarendo che anch'io, come molti fan (la serie non ha avuto problemi a fare proseliti in pochissimo tempo), sono rimasto un po' così davanti al season finale, ma che, per una mia personale convinzione (il finale difficilmente è una roba facile da scrivere, specialmente se hai creato una cosa devastante prima), non sono assolutamente insoddisfatto da True Detective, anzi, questa serie, come detto attesa da qualche anno, è stata decisamente all'altezza delle aspettative.
Probabilmente perché personalmente non sono uno particolarmente attirato dal noir (ma non disdegno affatto, come potete constatare leggendo questo blog, il genere), e non sono neppure di quelli che si mette a tentare di risolvere l'intreccio, o che sta meticolosamente attento ai dettagli e agli indizi, mi sono goduto totalmente questo bellissimo serial dalle atmosfere southern interpretato da due attori che probabilmente sono tra i, la butto lì, cinque migliori sulla piazza attualmente, che gigioneggiano costantemente sullo schermo, entrambi totalmente calati nelle loro rispettive e diversissime parti, gareggiando a chi ce l'ha più lungo o a chi piscia più lontano, circondati da caratteristi fenomenali (Michelle Monaghan, Kevin Dunn, Jay O. Sanders, Shea Whigham, Michael Harney, ci metterei anche Lili Simmons ma lei è destinata a non "rimanere" una caratterista: occhio, ha appena 21 anni), ma sulle cui portentose spalle poggia il 99% della serie. La cosa curiosa, divertente, interessante, è che lo script ci regala un personaggio favoloso, quello di Rusty, interpretato da un McConaughey in stato di grazia (già lo sapevamo, e l'Oscar per Dallas Buyers Club, film che mi sto "mettendo da parte" per una serata scintillante, ha semplicemente indicato che eravamo nel giusto), e un attore meraviglioso quale Harrelson si "limita" a fargli da spalla (e che spalla).
Sinceramente, non ho altro da aggiungere. Tra le novità, decisamente una delle migliori.
La serie non è ancora stata rinnovata per una seconda stagione, ma Pizzolatto è già al lavoro. E' già di dominio pubblico che sarà una serie antologica, quindi ogni stagione parlerà di un nuovo "caso", con un cast completamente diverso. Buona fortuna, dopo Harrelson/McConaughey.
20140316
cuore animale
Animal Heart - Nina Persson (2014)
Ve l'avevo già detto che amo questa donna? Credo di si. Detto questo, nonostante quello che leggete sulle cosiddette riviste specializzate, i Cardigans non sono ufficialmente sciolti, anzi, si sono riuniti nel 2012 e sono stati in tour fino al dicembre 2013. Quindi, non disperiamo.
Storia a parte, Nina sa il fatto suo, e ce lo ha dimostrato con i due dischi con il monicker A Camp; questo Animal Heart, però, è il suo vero e proprio debutto a suo nome.
E com'è? Carino. Solo carino? Non proprio. Anzi, devo ammetterlo: non caverete mai un'opinione imparziale ed equilibrata da me su di lei, su una cosa che fa o su una cosa che canta. Avete presente quando si esagera e si dice di qualcuno che potrebbe pure leggere l'elenco del telefono, e sarebbe sexy o interessante ugualmente? Ecco, per me vale quando Nina Persson canta: potrebbe, nei suoi testi, anche cantare l'elenco del telefono di Stoccolma, o di Orebro (dov'è nata), per me farebbe lo stesso. Sfortunatamente, per il mio cuoricino infranto, ha pure il vizio dannato di cantare cose d'amore, ed usare frasi fatte scontatissime come "Oh baby, why did you leave me? Didn't you need me?" come in Dreaming of Houses, oppure cose anche estremamente divertenti come "He was my Sandinista/And my royal bum/And then I fell for him/And that was the end" in The Grand Destruction Game, ottimo titolo tra l'altro. La musica è pop raffinato, adulto, intelligente, spruzzato di elettronica, ma non dimentica da dove proviene: sempre, e comunque, dal rock.
Insomma, che vi devo dire: quando ho ascoltato per la prima volta il singolo, guardando l'annesso video che vi allego, l'ho trovata, oltre che sciupata (lei), una canzoncina poco incisiva (la canzone che dà il titolo all'album); adesso, solo dopo qualche ascolto (diciamo una cinquantina), non vorrei più smettere di ascoltarlo (ma mi tocca, ché voi people volete sempre di più). Probabilmente, se non avete tutto questo amore viscerale, questo enorme e probabilmente immeritato rispetto per Nina (che, tanto per dirvi, l'unica volta che l'ho vista dal vivo, se ne andò dopo 5 dico cinque canzoni perché aveva un abbassamento di voce, e ci lasciò lì tutti col coso in mano), ci sta che troverete questo disco niente di che.
Magari no. Siete curiosi? Sapete come fare...
Del resto, come dice sempre lei nella japanese bonus track Sometimes (deliziosa, by the way), "Don't let girls get you down/They're just beautiful".
Ve l'avevo già detto che amo questa donna? Credo di si. Detto questo, nonostante quello che leggete sulle cosiddette riviste specializzate, i Cardigans non sono ufficialmente sciolti, anzi, si sono riuniti nel 2012 e sono stati in tour fino al dicembre 2013. Quindi, non disperiamo.
Storia a parte, Nina sa il fatto suo, e ce lo ha dimostrato con i due dischi con il monicker A Camp; questo Animal Heart, però, è il suo vero e proprio debutto a suo nome.
E com'è? Carino. Solo carino? Non proprio. Anzi, devo ammetterlo: non caverete mai un'opinione imparziale ed equilibrata da me su di lei, su una cosa che fa o su una cosa che canta. Avete presente quando si esagera e si dice di qualcuno che potrebbe pure leggere l'elenco del telefono, e sarebbe sexy o interessante ugualmente? Ecco, per me vale quando Nina Persson canta: potrebbe, nei suoi testi, anche cantare l'elenco del telefono di Stoccolma, o di Orebro (dov'è nata), per me farebbe lo stesso. Sfortunatamente, per il mio cuoricino infranto, ha pure il vizio dannato di cantare cose d'amore, ed usare frasi fatte scontatissime come "Oh baby, why did you leave me? Didn't you need me?" come in Dreaming of Houses, oppure cose anche estremamente divertenti come "He was my Sandinista/And my royal bum/And then I fell for him/And that was the end" in The Grand Destruction Game, ottimo titolo tra l'altro. La musica è pop raffinato, adulto, intelligente, spruzzato di elettronica, ma non dimentica da dove proviene: sempre, e comunque, dal rock.
Insomma, che vi devo dire: quando ho ascoltato per la prima volta il singolo, guardando l'annesso video che vi allego, l'ho trovata, oltre che sciupata (lei), una canzoncina poco incisiva (la canzone che dà il titolo all'album); adesso, solo dopo qualche ascolto (diciamo una cinquantina), non vorrei più smettere di ascoltarlo (ma mi tocca, ché voi people volete sempre di più). Probabilmente, se non avete tutto questo amore viscerale, questo enorme e probabilmente immeritato rispetto per Nina (che, tanto per dirvi, l'unica volta che l'ho vista dal vivo, se ne andò dopo 5 dico cinque canzoni perché aveva un abbassamento di voce, e ci lasciò lì tutti col coso in mano), ci sta che troverete questo disco niente di che.
Magari no. Siete curiosi? Sapete come fare...
Del resto, come dice sempre lei nella japanese bonus track Sometimes (deliziosa, by the way), "Don't let girls get you down/They're just beautiful".
20140315
20140314
toccata e fuga nell'operoso Nord Est
Stavo pensando di inaugurare una rubrica sui viaggi di lavoro, visto che adesso ho cominciato a farlo, ma magari questo periodo durerà poco e avrei poco da scrivere, e magari a voi non ve ne potrebbe fregare di meno. Intanto, beccatevi queste righe.
Dobbiamo andare nell'operoso Nord Est, per la precisione nella Zona Industriale Aussa-Corno, nei pressi di San Giorgio di Nogaro, provincia di Udine. Una mattinata dovrebbe bastare, siamo d'accordo con chi ci dovrà "ricevere", quindi, visto che siamo in quattro, partiamo appena terminata la giornata di lavoro o anche prima, che per arrivare in loco ci vogliono 4 ore e mezzo minimo, dormiremo lì vicinissimo, e la mattina dopo alle 9,00 ci presenteremo dove dobbiamo andare. Siccome è una roba che mi piace, prenoto l'albergo per tutti e quattro, e andiamo con la mia macchina. Il problema è che sono quello che farà aspettare gli altri, per via di una (lo so, mi prenderete per non so chi) riunione telefonica, di quelle che si chiamano conference call, che mi impegna dalle 16 alle 16,45. Si spengono i pc, si caricano i bagagli in auto, si passa a prenderne altri, e si parte. Il problema è che il tempo non è proprio clemente: acqua a sassate fino a Bologna, e tenendo conto che siamo alla fine di febbraio e che alle 17 è già buio, fate un po' voi. Uno stress importante, tanto che quando arriviamo sulla tangenziale di Bologna e smette definitivamente di piovere, mi pare di essere arrivato. Invece, sono appena le 19 passate da un po', e la fame inizia a farsi sentire. La compagnia, fortunatamente, così come era stata per il viaggio in Belgio/Germania, è ottima: uno è uno dei tre colleghi presenti anche in quel viaggio, gli altri due sono amici anche fuori dal lavoro. L'atmosfera, soprattutto dopo la tensione della pioggia intensa, è rilassata, e dopo un po' di Bologna-Padova ci fermiamo ad un grande autogrill per cena. Si scherza e si mangia discretamente, seppure sia risaputo che gli autogrill italiani siano tutto fuorché economici, caffè, sigaretta per qualcuno, telefonate a casa per chi ha famiglia (tutti, tranne me, che mi limiterò ad un sms a padre e sorella quando arriverò), e si riparte che sono quasi le 21. Ormai il traffico è scemato, dopo Padova, il Passante di Mestre è praticamente deserto, si può schiacciare un po' l'acceleratore, peccato per i lavori sul tratto seguente e per la pioggerellina che si affaccia ogni tanto. Si esce al casello di San Giorgio Nogaro/Porpetto, e grazie ai navigatori gps siamo all'albergo qualche minuto dopo le 23.
Assegnazione delle camere, appuntamento per la mattina seguente, e via, doccia, cambio, mando sms, leggo qualche minuto, e spengo la luce. Materasso bello duro, si dorme che è un piacere; un po' di rumore di fondo, forse i generatori del supermercato sopra al quale è situato l'albergo, ma sono stanco e non li sento che per qualche secondo.
La mattina dopo è una bella giornata, fresca ma soleggiata. Scendo, facciamo colazione con tutta tranquillità, si risale per i bagagli e ci facciamo fare il conto; una bella signora rossa ci dice una cifra che a me non corrisponde, e glielo faccio notare. Si scusa, e riformula il conto; mi rimarrà la sensazione che "ce stava a provà" anche se si scusa un tot di volte. Il navigatore non ci aiuta per trovare il luogo dove siamo diretti, scopriremo poi perché; percorriamo quindi tutta la zona industriale, poi torniamo sui nostri passi perché, semplicemente, finisce la strada. Qualche tentativo, e troviamo la nostra metà. Sullo stradone che abbiamo percorso, fabbriche, magazzini, acciaierie, cantieri navali, un porticciolo turistico e un vero e proprio porto su questo fiume/estuario/canale navigabile. Arriviamo, ci incontriamo con i nostri referenti che fino ad oggi abbiamo conosciuto per telefono ed email, ci viene offerto un caffè, scopriamo che sono tifosi dell'Hellas Verona, mi chiedo perché, e cerco di fare caso all'accento. Visitiamo il loro sito, verifichiamo quello che ci siamo preposti, ci consultiamo, tra di noi e con loro, alla fine pensiamo di aver capito il problema. Indicativamente, gli comunico come procedere di lì in avanti per ovviare, siamo soddisfatti, sono circa le 11,30. Torniamo nei loro uffici, ci viene offerto un aperitivo, facciamo due chiacchiere informali. Ci fanno fare un giro per la zona industriale: diverse fabbriche, per via della crisi, hanno ormai padroni stranieri, ma fortunatamente, ci sono ancora. Passiamo dal piccolo porto: attraccata, ancora in attesa di ricaricare, c'è la nave che abbiamo "ordinato" dai nostri colleghi di un altra nazione e che ha scaricato il prodotto proprio lì dove siamo stati in visita. Vederla dal vero, dopo averne seguito la rotta su www.marinetraffic.com mi dà una certa emozione. Andiamo a pranzo in un ristorante all'inizio dello stradone che "forma" la zona industriale. Ristorantone con una grande sala e un paio di cameriere carine, tanta gente che lavora per pranzo, servizio rapido ma il cibo è buono. Non dovrei bere niente che devo guidare, ma un poco, per essere di compagnia. Si chiarisce la cosa dell'Hellas: la famiglia che gestisce il sito è di Verona, abitano qui dal lunedì al venerdì. Avevo vagamente riconosciuto la differenze del loro accento rispetto ai locali. Malgrado alcuni "segni" nell'ufficio che mi avevano fatto pensare ad opinioni politiche particolarmente distanti dalle mie, a tavola discorro anche di politica con l'anziano della banda, trovandomi molto d'accordo su diversi argomenti. E' stata un'esperienza piacevole e magari ce ne saranno altre. Ci salutiamo ringraziando del pranzo e dell'accoglienza, annunciando le email che seguiranno. La giornata è ancora bella, sono appena le 14, si prospetta un rientro per l'ora di cena. Saltiamo in auto non prima di una sigaretta, e ci dirigiamo verso l'autostrada. Atmosfera ilare, battute e scherzi, ogni tanto affiorano argomenti di lavoro. C'è chi si rilassa, addirittura c'è chi studia, io mi stanco della radio e infilo un cd che non ascoltavo da tempo ma che mi son portato dietro convinto che fosse quello giusto. The Southern Armony and Musical Companion dei Black Crowes. Ottimo. A distanza di più di vent'anni. Non troviamo molto traffico, fortunatamente. Poco prima di Bologna, quasi alla metà del percorso, ci fermiamo per una sosta al bagno, un caffè, una bottiglia d'acqua. Si riparte per la Firenze-Bologna, che a farla di giorno e senza pioggia è tutta un'altra cosa. A Firenze prendiamo la FI-PI-LI, a differenza dell'andata (ho scelto di fare la Firenze-Mare dopo il tratto costiero, troppo ristagno d'acqua), e qui il traffico della sera si vede subito: imbottigliamento immediatamente dopo il casello di Scandicci per la rampa della S.G.C. toscana. Ma va bene lo stesso, l'orario è buono. Quando arrivo a Collesalvetti riprendo l'autostrada per Rosignano e schiaccio il piede sull'acceleratore, che se ce la faccio ho un impegno per le 19,30 (la ginnastica "da vecchi", come la chiamo io, la posturale, che mi fa bene un paio di volte a settimana). Pochi minuti prima delle 19 siamo di ritorno, scarico tutti, saluti all'indomani, e via così.
Non so se dipenda dal fatto che sono un cazzone, dentro, ma convivono in me due sensazioni opposte: quella di essermi tutto sommato divertito, come in gita con la scuola, ma anche quella di aver fatto un buon lavoro, sia a livello tecnico (le conclusioni le tirerò domani, per scritto, ma ho già tutto piuttosto chiaro), sia a livello "diplomatico", nei rapporti con questi collaboratori "esterni". Chissà qual è quella giusta. Magari entrambe.
Alla prossima, comunque.
Dobbiamo andare nell'operoso Nord Est, per la precisione nella Zona Industriale Aussa-Corno, nei pressi di San Giorgio di Nogaro, provincia di Udine. Una mattinata dovrebbe bastare, siamo d'accordo con chi ci dovrà "ricevere", quindi, visto che siamo in quattro, partiamo appena terminata la giornata di lavoro o anche prima, che per arrivare in loco ci vogliono 4 ore e mezzo minimo, dormiremo lì vicinissimo, e la mattina dopo alle 9,00 ci presenteremo dove dobbiamo andare. Siccome è una roba che mi piace, prenoto l'albergo per tutti e quattro, e andiamo con la mia macchina. Il problema è che sono quello che farà aspettare gli altri, per via di una (lo so, mi prenderete per non so chi) riunione telefonica, di quelle che si chiamano conference call, che mi impegna dalle 16 alle 16,45. Si spengono i pc, si caricano i bagagli in auto, si passa a prenderne altri, e si parte. Il problema è che il tempo non è proprio clemente: acqua a sassate fino a Bologna, e tenendo conto che siamo alla fine di febbraio e che alle 17 è già buio, fate un po' voi. Uno stress importante, tanto che quando arriviamo sulla tangenziale di Bologna e smette definitivamente di piovere, mi pare di essere arrivato. Invece, sono appena le 19 passate da un po', e la fame inizia a farsi sentire. La compagnia, fortunatamente, così come era stata per il viaggio in Belgio/Germania, è ottima: uno è uno dei tre colleghi presenti anche in quel viaggio, gli altri due sono amici anche fuori dal lavoro. L'atmosfera, soprattutto dopo la tensione della pioggia intensa, è rilassata, e dopo un po' di Bologna-Padova ci fermiamo ad un grande autogrill per cena. Si scherza e si mangia discretamente, seppure sia risaputo che gli autogrill italiani siano tutto fuorché economici, caffè, sigaretta per qualcuno, telefonate a casa per chi ha famiglia (tutti, tranne me, che mi limiterò ad un sms a padre e sorella quando arriverò), e si riparte che sono quasi le 21. Ormai il traffico è scemato, dopo Padova, il Passante di Mestre è praticamente deserto, si può schiacciare un po' l'acceleratore, peccato per i lavori sul tratto seguente e per la pioggerellina che si affaccia ogni tanto. Si esce al casello di San Giorgio Nogaro/Porpetto, e grazie ai navigatori gps siamo all'albergo qualche minuto dopo le 23.
Assegnazione delle camere, appuntamento per la mattina seguente, e via, doccia, cambio, mando sms, leggo qualche minuto, e spengo la luce. Materasso bello duro, si dorme che è un piacere; un po' di rumore di fondo, forse i generatori del supermercato sopra al quale è situato l'albergo, ma sono stanco e non li sento che per qualche secondo.
La mattina dopo è una bella giornata, fresca ma soleggiata. Scendo, facciamo colazione con tutta tranquillità, si risale per i bagagli e ci facciamo fare il conto; una bella signora rossa ci dice una cifra che a me non corrisponde, e glielo faccio notare. Si scusa, e riformula il conto; mi rimarrà la sensazione che "ce stava a provà" anche se si scusa un tot di volte. Il navigatore non ci aiuta per trovare il luogo dove siamo diretti, scopriremo poi perché; percorriamo quindi tutta la zona industriale, poi torniamo sui nostri passi perché, semplicemente, finisce la strada. Qualche tentativo, e troviamo la nostra metà. Sullo stradone che abbiamo percorso, fabbriche, magazzini, acciaierie, cantieri navali, un porticciolo turistico e un vero e proprio porto su questo fiume/estuario/canale navigabile. Arriviamo, ci incontriamo con i nostri referenti che fino ad oggi abbiamo conosciuto per telefono ed email, ci viene offerto un caffè, scopriamo che sono tifosi dell'Hellas Verona, mi chiedo perché, e cerco di fare caso all'accento. Visitiamo il loro sito, verifichiamo quello che ci siamo preposti, ci consultiamo, tra di noi e con loro, alla fine pensiamo di aver capito il problema. Indicativamente, gli comunico come procedere di lì in avanti per ovviare, siamo soddisfatti, sono circa le 11,30. Torniamo nei loro uffici, ci viene offerto un aperitivo, facciamo due chiacchiere informali. Ci fanno fare un giro per la zona industriale: diverse fabbriche, per via della crisi, hanno ormai padroni stranieri, ma fortunatamente, ci sono ancora. Passiamo dal piccolo porto: attraccata, ancora in attesa di ricaricare, c'è la nave che abbiamo "ordinato" dai nostri colleghi di un altra nazione e che ha scaricato il prodotto proprio lì dove siamo stati in visita. Vederla dal vero, dopo averne seguito la rotta su www.marinetraffic.com mi dà una certa emozione. Andiamo a pranzo in un ristorante all'inizio dello stradone che "forma" la zona industriale. Ristorantone con una grande sala e un paio di cameriere carine, tanta gente che lavora per pranzo, servizio rapido ma il cibo è buono. Non dovrei bere niente che devo guidare, ma un poco, per essere di compagnia. Si chiarisce la cosa dell'Hellas: la famiglia che gestisce il sito è di Verona, abitano qui dal lunedì al venerdì. Avevo vagamente riconosciuto la differenze del loro accento rispetto ai locali. Malgrado alcuni "segni" nell'ufficio che mi avevano fatto pensare ad opinioni politiche particolarmente distanti dalle mie, a tavola discorro anche di politica con l'anziano della banda, trovandomi molto d'accordo su diversi argomenti. E' stata un'esperienza piacevole e magari ce ne saranno altre. Ci salutiamo ringraziando del pranzo e dell'accoglienza, annunciando le email che seguiranno. La giornata è ancora bella, sono appena le 14, si prospetta un rientro per l'ora di cena. Saltiamo in auto non prima di una sigaretta, e ci dirigiamo verso l'autostrada. Atmosfera ilare, battute e scherzi, ogni tanto affiorano argomenti di lavoro. C'è chi si rilassa, addirittura c'è chi studia, io mi stanco della radio e infilo un cd che non ascoltavo da tempo ma che mi son portato dietro convinto che fosse quello giusto. The Southern Armony and Musical Companion dei Black Crowes. Ottimo. A distanza di più di vent'anni. Non troviamo molto traffico, fortunatamente. Poco prima di Bologna, quasi alla metà del percorso, ci fermiamo per una sosta al bagno, un caffè, una bottiglia d'acqua. Si riparte per la Firenze-Bologna, che a farla di giorno e senza pioggia è tutta un'altra cosa. A Firenze prendiamo la FI-PI-LI, a differenza dell'andata (ho scelto di fare la Firenze-Mare dopo il tratto costiero, troppo ristagno d'acqua), e qui il traffico della sera si vede subito: imbottigliamento immediatamente dopo il casello di Scandicci per la rampa della S.G.C. toscana. Ma va bene lo stesso, l'orario è buono. Quando arrivo a Collesalvetti riprendo l'autostrada per Rosignano e schiaccio il piede sull'acceleratore, che se ce la faccio ho un impegno per le 19,30 (la ginnastica "da vecchi", come la chiamo io, la posturale, che mi fa bene un paio di volte a settimana). Pochi minuti prima delle 19 siamo di ritorno, scarico tutti, saluti all'indomani, e via così.
Non so se dipenda dal fatto che sono un cazzone, dentro, ma convivono in me due sensazioni opposte: quella di essermi tutto sommato divertito, come in gita con la scuola, ma anche quella di aver fatto un buon lavoro, sia a livello tecnico (le conclusioni le tirerò domani, per scritto, ma ho già tutto piuttosto chiaro), sia a livello "diplomatico", nei rapporti con questi collaboratori "esterni". Chissà qual è quella giusta. Magari entrambe.
Alla prossima, comunque.
20140313
progetto bianco
Blank Project - Neneh Cherry (2014)
Insomma, nonostante fossi tra quelli che hanno sempre creduto in lei, provando un rispetto che sfiorava l'idolatria, sono rimasto stupito perfino io da questa monumentale rentrée di Neneh Cherry. Guardando il quadro complessivo, the big picture (un'espressione, credo statunitense, che mi piace moltissimo), considerando che l'ultimo disco era del 1996 (Man), e quindi non considerando i due dischi con i CirKus (Laylow e Medicine, 2006 e 2009), un rientro dopo 16 anni con una roba quale The Cherry Thing nel 2012, e adesso, dopo 18, questo Blank Project, finalmente il quarto disco con il monicker Neneh Cherry, è davvero più di quanto mi aspettassi, e badate che avevo aspettative piuttosto alte.
Dopo aver sbaragliato la concorrenza, se ce ne fosse una per la ormai cinquantenne (il 10 marzo li ha compiuti) di Stoccolma, con un disco che ebbi a definire "asimmetrico", eccola che torna in proprio e mescola tutte le esperienze passate, comprese quelle iniziali pre-Raw Like Sushi (Rip Rig + Panic soprattutto) fino appunto alla precedente con i The Thing, le proietta nel futuro con un occhio al trip hop, uno alla drum'n'bass, un orecchio al punk e uno al jazz, e tira fuori dal cilindro un disco di un livello tale che, ve lo dico a marzo, sarà davvero difficile da battere in questo anno solare, mettetevi il cuore in pace tutti voi che pensate "bah, che sarà mai", e poi vi ritroverete a chiedere umilmente perdono dopo averlo ascoltato ed esserne rimasti sbigottiti-barra-folgorati.
Registrato a Londra in soli 5 giorni, segno evidente che era già tutto chiaro ma pure che aveva trovato i collaboratori giusti, i RocketNumberNine (synth e drumming), Four Tet come produttore, la connazionale Robyn a duettare con lei per Out of the Black; Blank Project è un disco veramente incasellabile, indefinibile, coraggioso, ribelle, elettronico ma rock, jazz ma dance, duro, durissimo, poco orecchiabile inizialmente, oserei dire più che asimmetrico. Avvolgente e affascinante, un pezzo è migliore dell'altro, fateci caso: non ci sono riempitivi, non c'è niente da scartare, da skippare, da togliere dalla tracklist quando vi fate la copia per ascoltarlo in macchina anche se ascoltarlo in macchina non avrebbe senso alcuno. Blank Project è, dopo tanto tempo e finalmente, un disco che richiede pazienza, devozione, attenzione, concentrazione assoluta, ma che vi ripagherà con gli interessi.
Neneh Cherry è tornata, signore e signori, e come si dice dalle mie parti, non ce n'è pane secco, agli altri nemmeno le briciole. Giù il cappello.
Insomma, nonostante fossi tra quelli che hanno sempre creduto in lei, provando un rispetto che sfiorava l'idolatria, sono rimasto stupito perfino io da questa monumentale rentrée di Neneh Cherry. Guardando il quadro complessivo, the big picture (un'espressione, credo statunitense, che mi piace moltissimo), considerando che l'ultimo disco era del 1996 (Man), e quindi non considerando i due dischi con i CirKus (Laylow e Medicine, 2006 e 2009), un rientro dopo 16 anni con una roba quale The Cherry Thing nel 2012, e adesso, dopo 18, questo Blank Project, finalmente il quarto disco con il monicker Neneh Cherry, è davvero più di quanto mi aspettassi, e badate che avevo aspettative piuttosto alte.
Dopo aver sbaragliato la concorrenza, se ce ne fosse una per la ormai cinquantenne (il 10 marzo li ha compiuti) di Stoccolma, con un disco che ebbi a definire "asimmetrico", eccola che torna in proprio e mescola tutte le esperienze passate, comprese quelle iniziali pre-Raw Like Sushi (Rip Rig + Panic soprattutto) fino appunto alla precedente con i The Thing, le proietta nel futuro con un occhio al trip hop, uno alla drum'n'bass, un orecchio al punk e uno al jazz, e tira fuori dal cilindro un disco di un livello tale che, ve lo dico a marzo, sarà davvero difficile da battere in questo anno solare, mettetevi il cuore in pace tutti voi che pensate "bah, che sarà mai", e poi vi ritroverete a chiedere umilmente perdono dopo averlo ascoltato ed esserne rimasti sbigottiti-barra-folgorati.
Registrato a Londra in soli 5 giorni, segno evidente che era già tutto chiaro ma pure che aveva trovato i collaboratori giusti, i RocketNumberNine (synth e drumming), Four Tet come produttore, la connazionale Robyn a duettare con lei per Out of the Black; Blank Project è un disco veramente incasellabile, indefinibile, coraggioso, ribelle, elettronico ma rock, jazz ma dance, duro, durissimo, poco orecchiabile inizialmente, oserei dire più che asimmetrico. Avvolgente e affascinante, un pezzo è migliore dell'altro, fateci caso: non ci sono riempitivi, non c'è niente da scartare, da skippare, da togliere dalla tracklist quando vi fate la copia per ascoltarlo in macchina anche se ascoltarlo in macchina non avrebbe senso alcuno. Blank Project è, dopo tanto tempo e finalmente, un disco che richiede pazienza, devozione, attenzione, concentrazione assoluta, ma che vi ripagherà con gli interessi.
Neneh Cherry è tornata, signore e signori, e come si dice dalle mie parti, non ce n'è pane secco, agli altri nemmeno le briciole. Giù il cappello.
20140312
before there were the sex
The Carrie Diaries - di Amy B. Harris - Stagione 2 (13 episodi; The CW) - 2013/2014
Carrie ha passato l'estate a Manhattan, in casa di Larissa, convivendo con Walt. Nessun contatto né con Sebastian né con Maggie. Ma, alla fine, Carrie e Sebastian si incontrano di nuovo, riaprendo vecchie ferite. In quell'occasione però Carrie, per una serie di sfortunate e fortunate coincidenze, perde la sua amata borsa (meglio, le viene rubata) e conosce Samantha (Jones, si, proprio lei). Il lavoro ad Interview continua, la vita va avanti, Carrie vive momenti di crescita non solo lavorativi. A casa, Dorrit fa capire al padre che non si deve intromettere nella sua vita amorosa, Mouse è fidanzata felicemente con West ma rimane competitiva allo spasimo, riallaccia la sua amicizia con Maggie, ed il padre di Carrie e Dorrit, Tom, si accorge di aver rinunciato alla cosa che amava di più del suo lavoro per dedicarsi alle figlie, che però, ormai, stanno crescendo e divenendo indipendenti.
C'è stata un po' di incertezza sul rinnovo di questa serie, che, come già ebbi a dire nella recensione della prima stagione, è una delle cose migliori uscite da The CW; alla fine l'ha spuntata, e c'è da dire che pure questa stagione non è stata malaccio. Tutto prevedibile, tutto bello, un "mondo" dove si ingigantiscono problemi minimi e dove la vita reale viene filtrata parecchio, ma sempre tenendo conto che il target della rete sono gli adolescenti, introdurre, seppur vagamente, il tema dell'AIDS e della difficoltà del dichiararsi gay, tanto per citare il tema che mi è parso dare personalità alla serie, è già abbastanza, a mio giudizio.
Probabilmente la serie è fin troppo "impegnata" per The CW, anche se sarebbe ridicola su altre reti, e forse, sempre per questa ragione, i suoi dati di audience sono in picchiata, fino alla debacle del season finale. C'è, quindi, la ragionevole possibilità che la parentesi di The Carrie Diaries si concluda qua.
A questo giro vorrei sottolineare la prova interessante di Chloe Bridges nei panni di Donna LaDonna, un personaggio tra l'altro che era partito come secondario ed antipatico, e che si rivela, ancor di più in questa stagione, sorprendente e decisamente importante; la giovanissima (22 anni) e prosperosa attrice, che sicuramente ha nel suo DNA un intreccio di etnie, se la cava egregiamente e spesso ruba la scena alle protagoniste.
Carrie ha passato l'estate a Manhattan, in casa di Larissa, convivendo con Walt. Nessun contatto né con Sebastian né con Maggie. Ma, alla fine, Carrie e Sebastian si incontrano di nuovo, riaprendo vecchie ferite. In quell'occasione però Carrie, per una serie di sfortunate e fortunate coincidenze, perde la sua amata borsa (meglio, le viene rubata) e conosce Samantha (Jones, si, proprio lei). Il lavoro ad Interview continua, la vita va avanti, Carrie vive momenti di crescita non solo lavorativi. A casa, Dorrit fa capire al padre che non si deve intromettere nella sua vita amorosa, Mouse è fidanzata felicemente con West ma rimane competitiva allo spasimo, riallaccia la sua amicizia con Maggie, ed il padre di Carrie e Dorrit, Tom, si accorge di aver rinunciato alla cosa che amava di più del suo lavoro per dedicarsi alle figlie, che però, ormai, stanno crescendo e divenendo indipendenti.
C'è stata un po' di incertezza sul rinnovo di questa serie, che, come già ebbi a dire nella recensione della prima stagione, è una delle cose migliori uscite da The CW; alla fine l'ha spuntata, e c'è da dire che pure questa stagione non è stata malaccio. Tutto prevedibile, tutto bello, un "mondo" dove si ingigantiscono problemi minimi e dove la vita reale viene filtrata parecchio, ma sempre tenendo conto che il target della rete sono gli adolescenti, introdurre, seppur vagamente, il tema dell'AIDS e della difficoltà del dichiararsi gay, tanto per citare il tema che mi è parso dare personalità alla serie, è già abbastanza, a mio giudizio.
Probabilmente la serie è fin troppo "impegnata" per The CW, anche se sarebbe ridicola su altre reti, e forse, sempre per questa ragione, i suoi dati di audience sono in picchiata, fino alla debacle del season finale. C'è, quindi, la ragionevole possibilità che la parentesi di The Carrie Diaries si concluda qua.
A questo giro vorrei sottolineare la prova interessante di Chloe Bridges nei panni di Donna LaDonna, un personaggio tra l'altro che era partito come secondario ed antipatico, e che si rivela, ancor di più in questa stagione, sorprendente e decisamente importante; la giovanissima (22 anni) e prosperosa attrice, che sicuramente ha nel suo DNA un intreccio di etnie, se la cava egregiamente e spesso ruba la scena alle protagoniste.
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