No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20091130

mattoni

Finalmente i Paramore hanno deciso di eleggere a singolo (il secondo, dal nuovo disco) la mia canzone preferita, da Brand New Eyes, e, sempre per me, il miglior pezzo "tirato" dell'anno.

Brick By Boring Brick. Il video sa di favola (ne parla pure, ma non a vanvera), e Hayley è stranamente bionda (di solito è rossa).


such a night


Paolo Nutini + Will and the People, venerdi 27 novembre, Firenze, Saschall


Liquidiamo subito i preliminari: apre il concerto un duo dal nome Will and the People. O meglio: comincia un tizio, del quale non ricordo il nome, con i capelli più brutti dell'anno, con la chitarra e un bicchiere di Red Bull e vodka, che canta canzoni che somigliano moltissimo a quelle che fa Jack Johnson. Dopo qualche pezzo, anche piuttosto carino, col pubblico che pare già coinvolto in maniera esagerata, entra on stage il suo partner, tastiere e campionamenti, e i pezzi si fanno sempre più noiosi. Alla fine, risulta dura sopportare 50 minuti di Will and the People.


Passiamo all'attrazione principale della serata. Breve "cappello": mi era piaciuto il primo disco di Nutini, These Streets, perfettamente in bilico tra pop sofisticato e r'n'b di gran classe, ispirato ad Al Green e soci. Ovviamente, il grande successo e, soprattutto, la potenzialità pop dello scozzese (ma con il bisnonno di Barga, Lucca), mi facevano pensare ad un proseguimento di carriera verso un qualcosa di sicuramente commerciale. E invece.

Come sostenuto da subito, il secondo disco Sunny Side Up è un'opera coraggiosa, proprio perchè sarebbe stato veramente facile, per Nutini, sfornare un disco con 3-4 singoli e fare definitivamente il botto. Invece, eccolo qui con 3 sold out su 4 date italiane, e con la quarta spostata da un locale da 2000 posti a uno da quasi 9000, causa la grandissima richiesta di biglietti, davanti ad un pubblico che, molto probabilmente, nella stragrande maggioranza dei casi, ignora i punti di riferimento che ispirano la musica di Paolo. Situazione strana, se ci pensate, ma vera, e tipica dello sbandamento del mercato musicale.


Dal punto di vista strettamente cronachistico, la serata è divertente, con alcuni punti negativi da segnalare. Nutini si presenta sul palco accompagnato da una band composta da sei elementi, chitarra acustica, chitarra elettrica, basso, batteria e due ai fiati. Buoni musicisti, nessuno che spicca sugli altri, ma con una discreta coesione. La sua voce, quella di Paolo Giovanni Nutini da Paisley, Glasgow, Scozia, è incredibilmente bella e "ricca", per essere la voce di un ventiduenne: mi ricorda tantissimo quella di Rod Stewart. E dal momento che attacca 10/10, canzone che apre Sunny Side Up così come il concerto di stasera, mi rendo conto che non è un bluff, è proprio sua ed è, se possibile, anche migliore che su disco.


Il concerto dura un'ora e mezzo, dalle 21,30 alle 23,00 più o meno, e Nutini "fa fuori" quasi tutti i pezzi dei due dischi più un pezzo che non sono riuscito capire se è una cover o un inedito (Sleepwalking), bella, se mi passate la definizione un southern folk, e tre cover: in ordine di esecuzione Such a Night (scritta nel 1954 da Lincoln Chase, portata al successo da Johnnie Ray, cantata anche da Elvis), Down In Mexico (The Coasters) e la più recente Time To Pretend, della band newyorkese MGMT, cantata con i fogli con su scritto il testo tra le mani.


I pezzi del primo disco sono un po' riarrangiati, mentre per quelli del secondo ci si affida solo alle variazioni della voce di Nutini; il problema è la resa, non regolare, un po' altalenante, alcuni brani molto ben eseguiti, altri un po' tirati via, velocizzati troppo e quindi poco controllati (New Shoes, per esempio), altri veramente toccanti (No Other Way, strepitosa). Occorre esperienza, probabilmente qualche cambio di musicisti, occorre che Nutini diventi il capitano della band e che la band lo segua e faccia quel che dice, occorre che per ogni pezzo ogni musicista ci metta un pezzo di cuore: ne vale la pena. Le potenzialità di questo artista sono ancora in parte inespresse, e io ci credo: può arrivare lontano. Porta dentro la sua musica, e dentro la sua voce, una serie di influenze così vasta e interessante che fa venire i brividi, ed è in grado di dar loro nuova linfa, basta ascoltare le sue canzoni. Probabilmente, dovrebbe correre il rischio di perdere una parte del suo pubblico, magari quello che non riesce a stare un'ora e mezzo senza fumare, ma pretende di aprire le uscite antipanico, cosa vietata, e praticamente fumare sulla soglia, lasciando entrare un freddo novembrino misto al fumo, che i non fumatori sono così felici di non dover più respirare. Oppure quelli così impegnati a voler sembrare ubriachi, che aspettano soprattutto pezzi come Pencil Full Of Lead per ballare come tarantolati col cellulare acceso in mano (magari con una luce che sembra un faro navale), per far registrazioni o per far sentire agli amichetti a casa, ma magari si mettono a parlare a voce altissima su Growing Up Beside You, rovinando la magia, per dire.

Non voglio apparire snob o supponente, è solo una speranza. La speranza è che il percorso sia verso chi riconosce che questo cantante paga dazio ad Al Green come a Johnny Cash, ed a altri nomi e voci importanti. Magari rinunciando a grandi incassi.

Chissà se ce la farà.

20091129

supergruppi


Qualche giorno fa, comincia a girare il nome dei Them Crooked Vultures. Ieri esce un articolo a tutta pagina nella sezione spettacoli di Repubblica. Questo.


Ecco, ora voglio fare un discorso su questi Them Crooked Vultures.

Ma, dico, se si decide di fare un supergruppo, si prende il meglio che c'è in giro, no? O almeno, il meglio a livello di nomi.

Ora, va bene mettere John Paul Jones al basso e Dave Grohl alla batteria, anche se direi che in un ipotetico confronto a livello storico/musicale, "vince" sempre JPJ. Per chi fosse stato in coma vegetativo negli ultimi 50 anni, JPJ è stato il bassista dei Led Zeppelin, e Dave Grohl il batterista che è durato di più nei Nirvana, e che ha fatto parte della band da Nevermind in poi.
Ma, dico ancora, si prende Josh Homme a suonare la chitarra. E passi, ma mi pare che non conti granchè sullo scacchiere internazional/storico/musicale Josh Homme, se non per una nicchia infinitesimale di pubblico (e, ricordiamoci, a livello di importanza conta molto di più perchè era parte dei Kyuss che per i divertissement che ha fatto in seguito [Queens of the Stone Age, Eagles of Death Metal], non mi stancherò mai di ripeterlo: John Garcia [ex cantante nei Kyuss] gli "caga sul petto" a Josh Homme, come validità delle cose che ha fatto dopo i Kyuss; ma questo non è poi così fondamentale).
Ma il vero problema è: lo si fa anche cantare? Cioè: alla voce? Cos'è, non ce n'erano cantanti più validi, più famosi, magari più bravi? E' difficile trovarne di più bravi?

No, ri-dico, perchè allora anche il mondo dei supergruppi va avanti a conoscenze....e allora ci si merita Berlusconi anche nel mondo, scusate!!

Les quatre-cents coups


I quattrocento colpi - di François Truffaut 1959


Giudizio sintetico: da vedere


Parigi, fine anni '50. Antoine Doinel è un adolescente problematico, che cresce nell'indifferenza dei suoi genitori. La madre è sempre troppo impegnata a lavorare, e quando arriva a casa è severissima. Il padre, a parte il lavoro, è preso dalle corse automobilistiche, e, anche se non è il suo vero padre, è fra i due genitori quelli più accondiscendente. Nessuno dei due capisce i suoi reali bisogni, nessuno dei due se ne preoccupa realmente, lo vivono come un peso.

Antoine ha solo un vero amico: René, il suo coetaneo, compagno di scuola, che condivide con lui una situazione familiare a dir poco strana.

A scuola, ormai conosciuto e maltrattato per la sua esuberanza, viene usato ormai come capro espiatorio per qualsiasi problema, da insegnanti incompetenti e insensibili. Inizia a fuggire di casa, a passare le notti altrove, sempre aiutato da René, finché, per recuperare qualche soldo, decidono di rubare la macchina da scrivere dell'ufficio del padre per darla in pegno. Non riuscendovi, Antoine decide di riportarla, e viene sorpreso dal sorvegliante. Portato al commissariato, i genitori non si lasciano scappare l'occasione per farlo mettere in riformatorio, luogo sempre più disumano, dove, dopo una visita con una psicologa (insensibile al pari dei genitori e degli "educatori"), Antoine decide di scrivere una lettera chiarificatrice al padre, con il risultato di ricevere la visita della madre (il caro amico René non sarà fatto entrare, per regolamento), che gli comunica lo sdegno del padre, e la decisione di disinteressarsi a lui per sempre.


Primo lungometraggio del maestro francese, stra-premiato, manifesto della Nouvelle Vague, I 400 colpi è ampiamente autobiografico, una storia tremenda girata senza risparmiare nulla allo spettatore, dove si inneggia alla libertà della giovinezza come pure alla mancanza di attenzione verso di essa, da parte degli adulti, e una certa critica verso l'inizio della società consumistica.

Grande uso della telecamera, sbalorditiva nei campi lunghi (la scena della classe che esce a far ginnastica, superlativa), buona la direzione degli attori e un incredibile Jean-Pierre Léaud, all'epoca delle riprese 14enne, attore-feticcio del primo Truffaut e autore poi di una carriera di certo non hollywoodiana, ma invidiabile (a parte i film con Truffaut, Godard, Kaurismaki, Tsai Ming-Liang, Bertolucci).

Finale perfetto e indimenticabile.

20091128

marley

ero in macchina una mattina e alla radio danno jammin di bob marley. e ne percepisco tutto d'un tratto la grandezza.
l'avevo sempre ascoltato in modo divertito, ganja ganja uè uè. arrivo a casa e metto su i dischi ascolto i testi, leggo su internet un pò di cose e come una luce che si accende ne riconosco la statura. canzoni di peso mondiale, profonde come il mare e allo stesso tempo capibili dalla massa, ma soprattutto ballabili e cantabili. una riscoperta straordinaria.

annoiato a morte


Bored to Death - di Jonathan Ames - Prima stagione (3 Arts Entertainment per HBO) - 2009


Jonathan Ames, scrittore statunitense che dà il suo nome al personaggio protagonista, interpretato con timida follia da Jason Schwartzman, proprio insieme a quest'ultimo, ha ideato questa serie un po' fuori dagli schemi, che evidentemente deve ancora decollare.

Gli episodi sono da 30 minuti, e la prima stagione ne conta solo otto. L'idea è quantomeno curiosa: un giovane scrittore ha il classico blocco dopo il suo primo romanzo, che tra l'altro non è che sia stato questo gran successo; siccome le disgrazie non arrivano mai da sole, la serie inizia mentre la sua ragazza lo lascia. I motivi superficiali sono che fuma troppa marijuana e beve troppo vino bianco, quelli veri sono che è un po' immaturo. Ma sarà poi vero? Jonathan, più che immaturo vive in un mondo tutto suo. Infatti, per uscire dal gorgo di insoddisfazione che gli si sta creando intorno, si inventa un secondo lavoro, oltre a quello di scrittore (oltre a lavorare sul suo secondo romanzo, scrive per una rivista; il suo direttore è George Christopher, un ricco e annoiato Ted Danson, che, com'è come non è, ogni volta che appare illumina la scena): l'investigatore privato (senza licenza), ed inizia ad accettare casi che si, risolve, ma lo trascinano sempre in situazioni incredibilmente ridicole.

L'idea è promettente, lo svolgimento risulta invece un po' bloccato. Ci sono momenti alterni di situazioni grottescamente divertenti, ed altri dei quali sfugge il senso; New York è sempre un gran bello sfondo, i quartieri sono quelli medio-alti, le recitazioni nel complesso un po' troppo statiche e compiaciute. Almeno, questa è l'impressione che ne ho ricavato.

Però potete dargli una possibilità: può darsi benissimo che vada migliorando con le prossime stagioni, come già detto, potenzialmente è buonissimo.

20091127

Phrases and Philosophies for the Young


Phrazes for the Young - Julian Casablancas


Mi sono divertito a leggere qualche recensione in rete, su questo disco. Nella stragrande maggioranza dei casi, più della metà della recensione parla degli Strokes. Ovviamente, Casablancas è il loro cantante. C'è da notare che da questo disco solista si evince quali siano le influenze degli altri sulla loro musica. Sicuramente, Julian è la parte meno rock. Non che, per questo, il suo debutto in solitario sia un disco leggero o pop. O meglio, lo è, entrambe le cose, ma non nel senso negativo delle due definizioni, anche se non sono escluse influenze di ogni tipo, perfino blues (4 Chords of the Apocalypse) o folk (Ludlow St.).

E' interessante, seppur molto breve (40 minuti scarsi, 8 tracce nella versione "normale"); è scarno, ma con arrangiamenti a volte mediamente pomposi, quasi sinfonici (Tourist, Glass); è elettronico, ma non disdegna le chitarre armoniche e armoniose, le tastiere quasi giocattolo (11th Dimension, il singolo, che echeggia la disco anni '70 ma è cantato, as usual, da crooner moderno) ma accattivanti. Inoltre, la ricerca del ritornello catchy è quasi sempre vincente.

Ne esce un lavoro molto gradevole da ascoltare, seppur light. Vedremo cosa ci riserverà il futuro, a proposito di Casablancas e degli Strokes.

Dissociative Identity Disorder


United States of Tara - di Diablo Cody - Prima stagione (DreamWorks Television per Showtime) - 2009


Non so a chi è venuta, ma l'idea è geniale: come dice la scheda imdb, Tara Gregor è "a seemingly perfect American suburban mother". Bella casa nei sobborghi, pratino, belle macchine senza sfarzo, lei decoratrice d'interni per gente facoltosa, lui (Max) giardiniere, due figli. La più grande, Kate, alle prese con il sesso post-adolescenziale e le prime storie serie, il più piccolo, Marshall, gay dichiarato anche se sempre adolescente, appassionato di cinema ed aspirante casalingo.

Tara, però, soffre di un disturbo psichico, che le ha regalato almeno 3 (ma cresceranno) personalità diverse dalla propria: T., adolescente col tanga fuori dai pantaloni, bibita e chewingum sempre in bocca, turpiloquio e abbordaggio facile, Alice, casalinga perfetta e timorata di Dio, Buck, camionista reduce dal Vietnam. Di comune accordo con l'analista e la famiglia, Tara decide di smettere con gli psicofarmaci, e di lasciare che le personalità vengano fuori quando vogliono, quindi, quando meno te lo aspetti.


Spassoso, ma se volete pure angosciante, moderno e americano, con dialoghi brillanti e recitazioni all'altezza, è un giusto "premio", diciamo così, a Toni Collette (foto), un'attrice australiana attiva da anni, bravissima, presente in innumerevoli film ma poche volte da protagonista (i più appassionati se la ricorderanno nel lontanissimo - 1994 - Le nozze di Muriel, mentre i più l'hanno apprezzata in Little Miss Sunshine). Nata da un'idea di Spielberg (che volpe!), la serie è scoppiettante, e la prima stagione passa in un batter d'occhio (episodi da 25/30 minuti), con l'arrivo, se così si può dire, di una nuova, sconvolgente personalità, e il tentativo di colmare alcune lacune nella memoria di Tara, tentativo che, in teoria, dovrebbe migliorare il suo stato di salute.


Provatelo.

20091126

control


In and Out of Control - The Raveonettes


Al quarto disco, il duo danese mi ha finalmente convinto. Non dico che questo In and Out of Control sia un disco epocale, ma sicuramente è un lavoro che si fa ascoltare con un certo piacere. Per chi non li conoscesse per niente, la band formata basicamente da Sune Rose Wagner e Sharin Foo, fa un pop scarno, sofisticato e molto anni '60, rarefatto, intriso di elettronica non invasiva, con chitarre che sottolineano e tappeti di tastiere che creano atomsfera. La voce di Sharin è soave, quella di Sune si dedica principalmente ai cori e "ci sta dentro". Melodie ye ye, dietro a pezzi soffici e accattivanti si "nascondono" testi e titoli come Boys Who Rape (Should All Be Destroyed) (tra l'altro, melodia indimenticabile), dal testo semplice ma spietato, e, all'eccesso opposto, Bang! (testo senza grande significato); quello che le unisce è, appunto la "canticchiabilità". La prima parte del disco è davvero buona, verso il finale si perde un po'.
Di questi tempi, un disco senza cedimenti sarebbe stato chiedere davvero troppo.

Shut the Door. Have a Seat.


Mad Men - di Matthew Weiner - Terza stagione (Lions Gate per AMC) - 2009


A parte i titoli degli episodi, già di per sé spettacolari, trovo che Mad Men sia un po' come il vino buono: invecchiando, cresce. Di solito, le serie, a lungo andare, perdono smalto e slancio, per questo, gli americani che sanno come farle, e hanno fatto delle serie televisive il nuovo cinema, non vanno mai oltre la sesta stagione.

Ricordo che, durante la prima stagione, complice forse il doppiaggio italiano (non sono riuscito a recuperarla con i sottotitoli, magari per pigrizia), mi affascinava moltissimo la messa in scena e la fotografia, la cura per i particolari, gli abiti, la recitazione davvero anni '60, ma mi sfuggiva il senso. Durante quest'ultima stagione, ultima cronologicamente, ma difficilmente, avendo fatto incetta di premi, sarà l'ultima ad andare in onda, mi sono trovato ad apprezzare la "serietà" (anche se non mancano i momenti comici anche grotteschi e feroci, e le grandi battute) dell'opera, e la sua grande riflessione sulla famiglia e sul cambiamento dei costumi (ma anche "da dove veniamo", nel breve periodo, storicamente parlando), su quanto ci assomigliamo con gli Stati Uniti e su altre cose non insignificanti, sulle quali vi troverete a pensare se deciderete di dare una chance alla storia di Don Draper (un sempre più convincente Jon Hamm) e ai suoi "compari", gli uomini (e le donne) di Madison Avenue (per chi ancora non lo sapesse, ecco perchè Mad Men).

Se ci mettete nel piatto che, a livello visivo, è qualcosa di spettacolare (la fotografia pulitissima e le altre cose citate all'inizio), e che l'unico difetto che riesco a trovarvi, forse, è l'eccessiva complicatezza delle vicende societarie, questa serie potrebbe fare al caso vostro se vi piacciono le trame dense e filosofeggianti.
Nella foto, l'andatura sexy di Christina Hendricks, nella serie Joan Holloway.

20091125

dicembre

si avvicina dicembre, mese decisivo.
fervono i preparativi materiali e mentali. questa notte, per la prima volta ho sognato una creatura che bionda che piangeva. era femmina. chissà se vuol dire qualcosa di inconscio.
ci si immagina il futuro, si fanno ipotesi anche se la speranza è solo quella della felicità, della realizzazione qualunque sia il campo di applicazione.
ne vedo il fine della creazione.
ne percepisco la forza, l'energia, la poesia.

the exorcist


Questa si che è una notizia.



Dopo due sequel (L’Esorcista II - L’eretico e L’Esorcista III) e un prequel (L’Esorcista - La Genesi), L’Esorcista torna a spaventare il pubblico sotto forma di mini-serie televisiva.
A dichiararlo alla rivista statunitense Cemetery Dance è lo stesso William Peter Blatty - autore del romanzo e sceneggiatore del film del 1973 - il quale pare non abbia ancora digerito la scelta fatta a suo tempo dal regista William Friedkin, ossia di tagliare la sotto-trama dedicata al maggiordomo di casa MacNeil, Karl, e alla figlia Elvira. Blatty ha infatti dichiarato di voler realizzare una mini-serie tv includendo nella sceneggiatura sia queste due storie eliminate nella pellicola del 1973, ma anche nuovi elementi e un finale molto diverso rispetto a quello originale. L’idea di Blatty, infatti, è quella di dare una “rinfrescata” alla trama originale, connotandola di nuovi spaventosi particolari.
L’autore ha inoltre dichiarato di aver contattato Friedkin per dirigere il suo nuovo progetto, ma al momento non esistono conferme ufficiali in merito.
Fabrizia Malgieri

erba


Weeds - di Jenji Kohan - Quinta stagione (Lions Gate per Showtime) - 2009


Dispiace dirlo, ma la serie ispirata (non ho mai saputo se dichiaratamente o no) al film L'erba di Grace, ha perso un po' della sua carica trasgressiva e, soprattutto, la sua spietata critica sociale degli inizi, per diventare un serial sempre molto divertente, e piuttosto inverosimile.


Le peripezie della "casalinga" Nancy Botwin, interpretata da una sempre splendida Mary-Louise Parker (ve la ricordate in Pomodori verdi fritti [Alla fermata del treno]?), diventano sempre più incredibili, tra trafficanti di droga messicani e una famiglia (anzi, più famiglie) alla deriva psicologica, dove ormai il confine tra bene e male è sempre più sfuocato.


Sempre validissimo il cast, dove come sempre succede, ognuno è libero di "scegliersi" il carattere preferito (io, ad esempio, rido sempre ad ogni battuta di Kevin Nealon, il tutto-dipendente Doug Wilson), fotografia patinata, ambientazioni che cominciano a mostrare la corda. Dialoghi divertenti. Cameo simpaticissimo di Alanis Morissette nei panni di una ginecologa. Gancio finale, per la prossima stagione che, come di consueto, dovrebbe essere quella finale.

20091124

cosa diavolo sappiamo?


What the Bleep Do We Know!? - di William Arntz, Betsy Chasse, Mark Vicente 2004


Giudizio sintetico: si può evitare


Documentario con interviste che però segue una storia di finzione, si propone di approfondire il principio di indeterminazione di Heisenberg e la fisica quantistica, tentando di far capire allo spettatore che la realtà può essere modificata dalla coscienza. La parte di finzione segue la storia di una fotografa sordomuta che, tradita dal marito sposato da poco, non crede più nelle relazioni interpersonali.


Inserti animati per visualizzare i flussi di sostanze chimiche che si sviluppano quando l'essere umano sprigiona emozioni, la parte di finzione risulta piuttosto ridicola, nonostante la presenza di Marleen Matlin e di Barry Newman, mentre quella delle interviste "tecniche" risulta difficile da digerire per chi non è pratico del tema, per cui viene negato il principio di divulgazione "semplice".

Risulta valida, alla fine, solo la critica alle religioni, che hanno influito negativamente sullo sviluppo di un'umanità libera da sensi di colpa. Pare ne esista una versione con sottotitoli italiani.

20091123

nascita di un kamikaze


Making Of - di Nouri Bouzid 2006


Giudizio sintetico: da vedere


Periferie di Tunisi (più precisamente a Radés), nel mondo tutti gli occhi sono puntati sulle statue di Saddam Hussein che vengono abbattute in Iraq (aprile 2003). Shukri, detto Bahta, a casa ha problemi con il padre, dopo aver fallito per l'ennesima volta l'esame di maturità. Segue la cultura hip-hop, gli piace la streeet dance, che pratica insieme agli amici. Nello stesso tempo, sogna di espatriare in Italia, non gli piace l'atteggiamento troppo "libero" di Soad, una specie di fidanzata, e spesso viene "graziato" dalla polizia perchè ha dei parenti che lavorano lì. Si sente sempre più sotto pressione, fino al momento in cui diventa ufficialmente ricercato. Un paio di islamici strettamente osservanti, dopo averlo notato in un bar, quando dopo aver sottratto l'uniforme da poliziotto al cugino si esibisce in una specie di sermone anti-occidentale, in preda alla rabbia, lo segnalano ad Abdu, un anziano incisore di lapidi, che in verità "forma" kamikaze islamici. A quel punto, si entra nel meta-cinema, e l'attore che interpreta Bahta, Lofti Abdelli, si ribella al regista (vero) perchè non capisce la sua posizione sull'islam.


Film davvero, davvero interessante, concettualmente ai livelli di Paradise Now, dal quale si distacca però per alcune non trascurabili particolarità. Innanzitutto, viene da un paese arabo considerato tutto sommato "tranquillo" come la Tunisia; poi, il geniale espediente della "ribellione" dell'attore protagonista verso il regista, con la sua entrata in scena, è necessario per spiegare come è "vissuto" un film come questo in un paese arabo. Il film è un po' troppo lungo, e il finale leggermente discutibile, ma sono in fondo difetti sui quali si può passar sopra. Le prove del cast, tutto, sono ottime, e la mano del regista è esperta, si nota, i movimenti di macchina sono molto belli. La descrizione della vita "normale" di un sobborgo di Tunisi, anche se in fondo fa da scenario, è ben fatta, anche se non è la parte pregnante del film.

Conosciuto anche come Making Off, come Making of, le dernier film e, ovviamente, con il titolo in arabo آخر فيلم, non credo esista la versione italiana, e nel 2006 è stato rifiutato sia da Cannes che da Venezia. Qualcosa vorrà pur dire.

20091122

ust


Vi parlerò a breve delle ultime visioni complete: la quinta stagione di Weeds, la terza stagione di Mad Men, la prima stagione di United States of Tara.

Nel frattempo, sappiate che United States of Tara ha un soggetto geniale: una madre di famiglia statunitense della middle-class, marito giardiniere, figlia post-adolescente zoccoletta e figlio adolescente gay, che, afflitta da disordini da personalità multipla, decide, di comune accordo con la famiglia e con la psichiatra, di smettere con gli psicofarmaci, lasciando che le varie personalità siano libere di presentarsi senza preavviso. Toni Collette, assoluta protagonista, è super. Idea di Steven Spielberg, Diablo Cody alla produzione.

questa montagna fredda


Ritorno a Cold Mountain - di Anthony Minghella 2004


Giudizio sintetico: si può perdere


Sarò breve: non un film memorabile.

Minghella riesce a fare un po' meglio de "Il paziente Inglese" (non che ci volesse molto...), e in effetti, aiutato dai panorami mozzafiato della Romania (dov'è girato il film) e dalla fotografia, risulta migliorato nella tecnica (buonissimo l'uso della macchina nelle iniziali scene d'azione...forse sarebbe meglio girasse film di guerra).

Per il resto, un polpettone strappalacrime (ci riesce, ma non in quantità industriale), se lasciamo da parte le allegorie con l'Odissea e il paio di "visioni" iniziali (l'assedio di St.Petersburg e il fungo dell'esplosione di Seconda Guerra Mondial-memoria), sviluppato su una storia d'amore classica d'altri tempi (un solo bacio e amore eterno).

Si, potremmo leggerci della forza dell'amore, che ci salverà tutti....potremmo....ma la pomposità di Minghella fa si che la cosa ci tocchi fino ad un certo punto.

Dimenticata del tutto la ragione della guerra di Secessione, rimangono gli interpreti, bravo Law, standard la Kidman (abbiamo capito che è bella...ma perchè nella scena dell'incontro tra i due Law si vede che è provato e lei, che si è dovuta adeguare a fare la contadina e a soffrire la fame, pare uscita dall'istituto di bellezza?), troppo sopra le righe la Zellweger a mio parere.

Piccoli ruoli per Natalie Portman e Jack White dei White Stripes.

Si può evitare.

20091121

vino(s)


Francis Ford Coppola, un cineasta debuttante, intervistato (oddio...per FabioFazio è una parola un po' grossa) a chetempochefa su Rai Tre, ha detto, a proposito dei vini argentini e di quelli cileni, una cosa che dico da anni, e che ho imparato in Sud America: la gente è convinta che i vini buoni siano in Cile e non in Argentina, perchè i cileni sanno esportarli e li sanno pubblicizzare, mentre gli argentini, soprattutto, se li bevono.

Beh, non è proprio così, ma quasi.

tutto mini

per un piccolo bagagliaio?

come black


Black Gives Way To Blue - Alice In Chains


Quando eravamo giovani, e spesso pure spensierati, convinti di avere talento, in qualche modo, ed estasiati davanti al talento vero, c'era questa diceria, quella che recitava che "gli Alice In Chains erano adatti ai giorni di pioggia". Secondo me è vero. Anzi, era vero.

Questo 2009, che come tutti gli anni da un po' di tempo a questa parte, ci ha portato un mucchio di reunion, ci porta pure quella degli Alice In Chains.

Tralasciando il fatto che fare una reunion dopo che un membro importante della band è morto, per conto mio, è di cattivo gusto (e, tengo a precisare: sarebbe di cattivo gusto anche se il membro in questione non fosse importante), siamo qui per recensire il disco in questione, del quale gli organi di stampa, e molti siti internet, hanno già abbondantemente parlato.

Il succo è questo: il disco in questione non è affatto male. La questione è: sembrano proprio gli Alice In Chains senza Layne Staley (per chi fosse caduto sulla terra solo qualche giorno fa: il membro in questione, morto per overdose il 5 aprile 2002).

Chi ha seguito gli Alice In Chains, e in generale la musica di quel genere, saprà che una cosa del genere (gli Alice In Chains senza Layne Staley), era già in pratica quello che faceva Jerry Cantrell (il chitarrista della band da sempre) nei suoi dischi da solista.

Un po' contorto? Può darsi, ma non riesco a spiegarmi meglio. La struttura "metallica" (hard rock, tendente all'heavy metal) dei pezzi è, evidentemente, dovuta a Jerry, mentre l'asimmetricità che contraddistingueva gli AIC, e li rendeva unici (anche se, dopo essere diventati famosi, hanno subito innumerevoli tentativi di imitazione), era dovuta a Layne. Niente di più semplice. Potete provare, da soli, a casa, ma anche in compagnia, come un gioco di società, a mettere a confronto un qualsiasi disco degli AIC con Staley e questo (poi, se volete complicare il gioco, potete ascoltare anche i due dischi solisti di Cantrell, così, tanto per essere più esaurienti con voi stessi).

Tutto qua.

Come dite? Non ho parlato di nessuna canzone in particolare? Non importa.

La cosa importante da sapere è che questo Black Gives Way To Blue non è particolarmente adatto ai giorni di pioggia: va bene anche per l'estate. Il che non è propriamente un bene.

Lo


Lolita - di Stanley Kubrick 1962


Giudizio sintetico: da vedere


Il film si apre con Humbert Humbert che irrompe in casa di Clare Quilty, quest'ultimo palesemente ubriaco, reduce da una notte brava, e lo uccide sparandogli più volte. Poi, si torno indietro con un lungo flashback che spiega come si sia arrivati a quel punto.

L'europeo (non meglio precisato, ma supponiamo ovviamente inglese) professore e intellettuale Humbert Humbert, arriva a Ramsdale, nel New Hampshire, cercando un alloggio visto che è stato chiamato ad insegnare lì nei pressi. Bussa alla porta di casa Haze, dove la vedova Charlotte, affitta alcune camere. Charlotte, una donna estremamente lamentosa, curiosa, chiacchierona ed invadente, più che altro cerca un uomo. Humbert, cinico e con un senso dell'umorismo perfino cattivo, è dapprima molto infastidito dalla donna, cercando di non darlo a vedere, e deciso ad allontanarsi quanto prima da quella casa. Ma la donna lo conduce nel giardino: e lì, in costume da bagno, ampio cappello ed occhiali da sole, c'è Dolores, la figlia adolescente di Charlotte, detta Lolita, ed è splendida e ammiccante oltremodo, per essere una minorenne. Humbert cambia immediatamente idea, travolto dal desiderio verso Lolita, e prende la camera all'istante.

Pur di starle vicino, Humbert si trasforma dapprima nell'accompagnatore ufficiale di Charlotte, calandosi nella realtà della provincia americana, poi, andando nel panico al pensiero di non rivederla mai più (Charlotte manda Lolita al campeggio estivo, ad Humbert affidano un incarico lontano), subito dopo essersi spanciato dalle risate leggendo una lettera d'amore che Charlotte gli lascia, invitandolo ad andarsene se non ricambiasse il suo sentimento, decide di sposare Charlotte. Dopo aver progettato, scoperto nella sua passione da Charlotte che legge il suo diario, di ucciderla, rinuncia non sapendo cosa fare, ma la sorte pare aiutarlo: Charlotte esce di casa disperata e viene travolta da un auto. Humbert rimane tutore legale di Lolita.


So benissimo che non c'era bisogno di raccontare buona parte della trama, tanto la storia è famosa. Pensate, questa storia, scritta da Vladimir Nabokov nel 1955, e messa sullo schermo in bianco e nero da Stanley Kubrick, con sceneggiatura di Nabokov stesso, è entrata talmente nell'immaginario collettivo al punto che, se andate su un qualunque dizionario, alla voce Lolita troverete spiegato qualcosa del tipo "adolescente provocante, sessualmente appetibile anche da uomini adulti". Se non è leggenda questa...

Veniamo al film. Ovviamente morigerato, anche se ammiccante, vista la tremenda censura dell'epoca, il film è ben strutturato, direi in maniera moderna, a partire dall'apertura, il flashback subito dopo l'incipit, la coda dopo quattro anni, e la chiusura del cerchio con spiegazione della fine di Humbert. Il tono è continuamente in bilico tra noir e commedia, molto sarcastica, così come i commenti fuori campo di Humbert.

Non ci sono momenti di stanca, anche se il ritmo non è certamente da film d'azione: anche se conosciamo già la fine, lo spettatore è voglioso di sapere come ci si arriva, e l'ossessione di Humbert diventa disturbante, angosciosa; al tempo stesso, i comportamenti di Lolita risultano seducenti nella sua massima incoerenza.

Kubrick muove la macchina con grande eleganza, mostrando tutta la sua maestria, e gli attori rispondono alla sua direzione in maniera egregia: Shelley Winters (Charlotte) è fastidiosissima, James Mason (Humbert) è dapprima un ghigno sarcastico, dopo un vecchio disperato, Sue Lyon (Lolita) è...Lolita, perfettamente Lolita. Nota a parte per Peter Sellers, nei panni di Quilty: a parte il fatto che, in pratica, è l'alter ego del regista, è semplicemente straordinario nel suo trasformismo che anticipa il film seguente dei due (Sellers e Kubrick), Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba; aggiungerei una nota di merito al grande Giuseppe Rinaldi, doppiatore italiano di Sellers in questo film, che fa un lavoro straordinario.

Probabilmente non sarà la trasposizione perfetta, ma senz'altro un film completo sull'ossessione, questo si.

20091120

all'aeroporto


The Terminal - di Steven Spielberg 2004


Giudizio sintetico: da vedere


Viktor Navorski arriva all'aeroporto JFK di New York per portare a compimento un sogno del padre ormai defunto. Mentre è in volo, un colpo di stato, di fatto, "blocca" l'esistenza della piccola repubblica (ex sovietica, inventata) dalla quale proviene, rendendolo apolide e costringendolo ad aspettare (mesi) nel terminal dove è arrivato. Farà di tutto, nel terminal, dimostrando di essere un uomo integro e ammirevole.


Riflessioni. Spielberg non è Ken Loach, ma ha idee degne di rispetto, almeno, a giudizio di chi scrive. Il suo sguardo sugli immigrati in questo film sarà anche sdolcinato, ma ammirevole. Li ama, e questo è un bene.

The Terminal è una commedia; si ride e non ci si annoia; ma Spielberg è un maestro. Non è Lynch o Von Trier, è più "classico". Guardatevi (godetevi) i movimenti della macchina da presa nei primi 15-20 minuti del film. Le riprese d'insieme da qualsiasi angolazione danno il senso dell'imponenza dell'aeroporto e della quantità di persone che circolano. Dopo il primo impatto del protagonista con l'immigrazione nell'ufficio del responsabile Dixon (Stanley Tucci, ottimo nel risultare insignificante), con un ping pong di inquadrature, la scena madre: il carrello che gira attorno a Viktor, che non capisce una sola parola di quello che gli dice Dixon, e si sente perso.

Dopo, una raffica di cliché, ben messi in scena, qualche caduta di tono, qualche eccesso, un po' di retorica, ma Frank Capra ne sarebbe lusingato. Navorski è quello che vorremmo essere, Dixon è quello che siamo diventati. La sottile polemica sulla burocrazia arriva, ed è piacevole, il film difficilmente annoia.

Catherine Zeta-Jones sembra Meg Ryan mora, Hanks è a suo agio. E la prossima volta che una donna tentenna davanti alle mie avances le dirò "forse tu ha bisogno di occhiali".

20091119

delusioni


Lo so, non sono questi i problemi. E infatti, mi sono reso conto questa mattina che ieri sera si erano svolti gli spareggi per le nazionali di calcio che ancora si dovevano qualificare ai Mondiali 2010.

Ognuno, anche se l'Italia era già qualificata (e chi segue già saprà che chi scrive NON tifa Italia), ha vissuto la cosa dal proprio punto di vista. Ecco, stamattina mi documento, e scopro che un altro dei pochissimi calciatori che rispettavo dal punto di vista umano, mi ha deluso. E' così, la vita è fatta anche di questo. Non che mi metta a digiunare eh, intendiamoci.


Thierry Henry, nato a Les Ulis da padre proveniente da Guadalupe e madre proveniente dalla Martinica, grande giocatore, simpatico, simpatie di sinistra e portabandiera dell'antirazzismo, sempre pronto a festeggiare le vittorie con sobrietà e sempre il primo a consolare i perdenti o a stringere la mano ai vincenti senza astio, ieri sera si è reso protagonista di un gesto squallido. Ovviamente, rientra nella normalità, parlando di calcio: ogni tifoso sogna di vincere così una partita importante contro la squadra che odia. E quindi, tutto ciò dovrebbe farci riflettere.


Il gesto è questo:



E le dichiarazioni che seguono, sono a dir poco patetiche:

"Sono onesto, era fallo di mano. Il pallone ha toccato la mia mano nettamente"

"Non sono l'arbitro - si giustifica l'attaccante del Barcellona - Non sta a me giudicare" (ma vai a cagare! n.d.Jumbolo)

"L'Irlanda è un'ottima squadra - dice ancora Henry - si meritano tanto di cappello per come hanno giocato e per il valore dimostrato ma quello che contava per noi era la qualificazione" (ma ri-vai a cagare! n.d.Jumbolo)


Ripeto, son cose, in fondo, di poco conto. Sappiamo che il livello medio di intelligenza, coraggio, dignità della specie umana "calciatore", è quello. Però, visto che a volte ce ne sono alcuni che si distinguono, dispiace quando ci si rende poi conto che sono uguali agli altri, nella media.

Più che altro, dovremmo rifletterci sopra noi comuni mortali che, spesso, perdiamo l'obiettività dietro a questo (che dovrebbe essere) un gioco.

fuma fuma


Nicotina – di Hugo Rodrìguez 2005


Giudizio sintetico: si può perdere


Citta’ del Messico; un hacker (anche un po’ slacker, Diego Luna, ve lo ricorderete in ‘’Y tu mama’ tambien’’ e in ‘’The Terminal’’, anche se era in ‘’Frida’’, ‘’Open Range’’ e ‘’Prima che sia notte’’) innamorato della vicina di casa (Marta Belaustegui, spagnola attivissima nel suo paese, qualcuno la ricordera’ in Italia al fianco di Enrico Lo Verso nel, scusate il giochino, controverso ‘’L’Amore Imperfetto’’ di Giovanni Davide Maderna), la spia con telecamere e microfoni; nel frattempo, gli viene commissionato un lavoro, scaricare su un cd i codici di accesso al server di una banca svizzera, in cambio di 20 diamanti da dividere con i suoi complici.
Eseguito il lavoro con tranquillita’, il suo morboso sentimento verso la vicina provochera’ uno scambio di dischetti (nonche’ la ‘’rottura’’ con la vicina), e inneschera’ tutta una serie di omicidi, che maturano in situazioni grottesche e paradossali. Sullo sfondo, ma anche protagonisti, personaggi che si dividono in accaniti fumatori, contrari e pentiti schiavi della nicotina, che discettano sul fumo e sulla vita, pur rasentando la morte.

Umorismo macabro e qualche personaggio-caricatura interessante (la coppia di parrucchieri e quella di farmacisti), per un film che, nonostante l’intreccio e il fatto che si svolge praticamente in tempo reale (dalle 21,17 alle 22,50 della stessa sera), si rivela piuttosto noioso e senza ritmo.

20091118

Black Diamond - Kiss (Madison Square Garden 1977)

Per una serie di associazioni indebite, mi è tornato alla mente un ricordo lontano, ma indelebile. 2 settembre 1980, pomeriggio. Tra le 14,00 e le 18,00. Sono fuori dal Velodromo Vigorelli in Milano, insieme ad un vecchio compagno di classe delle elementari, col quale siamo rimasti legati da una grande amicizia. Ci lega anche la passione per i Kiss. E' il nostro primo concerto lontano da casa, e si sentono chiare le note del soundcheck: i Kiss stanno eseguendo Black Diamond, la parte di Peter Criss, presumo, la sta cantando Eric Carr (RIP), il nuovo batterista. La folla, già numerosa, è in delirio. Noi con loro. Ho i brividi.
Qui, ne apprezzate una bella versione.

povera patria


Leggendo i giornali di oggi.


L'amministratore delegato dell'Eni Paolo Scaroni (che il Corriere definisce "l'ambientalista al Senato", annamo bbene), chiamato a una audizione a Palazzo Madama per "spiegare" il vertice di Copenaghen sul clima (i senatori da soli non l'avevano capito?), punta il dito sul risparmio energetico. «Prendete questa stanza, fa un caldo tremendo, perché dobbiamo stare qui con 24 gradi - si è chiesto - quando potremmo vivere benissimo con una temperatura di 19-20 gradi, consumando la metà?».

Pensate che abbiano regolato la temperatura? Io dico di no. Ricordiamoci che nei rettilari c'è sempre molto caldo.


I miti dei bambini italiani di oggi: Belen Rodriguez e Valentino Rossi. Una escort di lusso e un grande evasore fiscale.

Per quanto pensate governerà ancora Berlusconi? Sbagliato. Di più.


Berlusconi deluso dalle continue esternazioni che danno l'impressione di una crisi nella maggioranza: "verrebbe voglia di dimettersi". Infastidito anche dalla protesta comandata da Di Pietro davanti a Palazzo Chigi, mentre pranzava col premier turco Erdogan, oltre a quella frase, si sarebbe lasciato scappare anche un giudizio sul fatto che viene «messa quotidianamente alla berlina l’immagine del presidente del Consiglio».

Ah. Ma fino ad ora dov'era, dormiva?


Nicola Cosentino, sottosegretario all'Economia per cui è stata chiesta l'autorizzazione all'arresto per concorso esterno in associazione mafiosa, non si dimette: "l'unico che può decidere è Berlusconi". Ma il centralismo democratico non era una priorità dei comunisti?


Coraggio, compatrioti.

l'interprete


The Interpreter – di Sydney Pollack 2005


Giudizio sintetico: si può vedere


Silvia Broome è bella, algida, cool (va in giro a NY con la vespa). Lavora all’O.N.U., fa l’interprete. E’ nata negli USA, ma è cresciuta in un paese africano, vivendo l’instabilità della guerra continua, subendo gravi lutti. Un giorno, rientrando nel palazzo di vetro a prendere una borsa che si era dimenticata, ascolta una conversazione, nella lingua del suo paese, nella quale si progetta l’assassinio del Presidente Zuwanie, proprio quello del paese che ha lasciato, il Presidente che lei odia, presidente che di lì a poco parlerà alle Nazioni Unite, contro chi lo accusa di genocidio. Tobin Keller è l’agente che guiderà le operazioni di sicurezza; viene incaricato di indagare su Silvia, e poi, quando la sua testimonianza verrà confermata, di proteggerla. Keller però, sente che Silvia gli nasconde qualcosa, nonostante creda alla sua buona fede. Entrambi hanno subito “torti” dalla vita, ma ci metteranno del tempo ad entrare in sintonia. Nel frattempo, l’intreccio dietro al Presidente Zuwanie si complica, mietendo vittime innocenti anche negli USA.

Una sorta di spy story, venata di riferimenti al presente, segna l’ennesimo film di Pollack, che come sempre dirige alla perfezione un prodotto gradevole, dal buon ritmo, segnato da due ottime interpretazioni (quasi impossibile il contrario) dei protagonisti Nicole Kidman, sensuale anche vestita casual, e Sean Penn, abbonato ai ruoli da persona segnata dalla vita. Flashback funzionali, anche se un po’ eccessivi, ci spiegano alla perfezione il passato di Silvia, oppure ci svelano il loro significato durante lo svolgimento del film (come quello dell’incipit).

Fotografia nitida ed elegante, paure attuali e il politically correct che trionfa, alla fine. Sarebbe lecito pretendere qualcosa di più, da un fuoriclasse.

Un film perfetto, ma che non esalta.

20091117

playlist - sui supporti porta-mp3

Alanis Morissette - Jagged Little Pill Acoustic
Alice In Chains - Black Gives Way To Blue
Carmen Consoli - Elettra
Converge - Axe To Fall
Co' Sang - Vita Bona
Creed - Full Circle
Crucified Barbara - In Distortion We Trust
Crucified Barbara - Til Death To Us Party
Florence And The Machine - A Lot Of Love, A Lot Of Blood
Florence And The Machine - Lungs
Gallows - Grey Britain
Glasvegas - Omonimo 2008
Gorgoroth - Quantos Possunt Ad Satanitatem Trahunt
Green Day - 21th Century Breakdown
Hardcore Superstar - Bad Sneakers And A Piña Colada
Hardcore Superstar - It's Only Rock'n'Roll
Hardcore Superstar - Beg For It
Hermano - Dare I Say
Holly Williams - Here With Me
Il Teatro Degli Orrori - A Sangue Freddo
Isis - Wavering Radiant
Juliette Lewis - Terra Incognita
Kings Of Leon - Only By The Night
Kiss - Sonic Boom
Loli Molina - Los Senderos Amarillos
Macaco - Puerto Presente
Madeleine Peyroux - Bare Bones
Mala Rodriguez - Alevosia
Mastodon - Crack The Skye
Melody Gardot - My One And Only Thrill
Michael Bolton - Greatest Hits 1985-1995
Ministri - Tempi Bui
Muse - The Resistance
Neffa - Sognando Contromano
Paolo Nutini - Sunny Side Up
Paradise Lost - Faith Divides Us Death Unites Us
Paramore - Brand New Eyes
Pearl Jam - Backspacer
Piotta - S(u)ono Diverso
Rise Against - The Unraveling
Slayer - World Painted Blood
Soulsavers - Broken
Taylor Swift - Beautiful Eyes
Taylor Swift - Fearless
The Dead Weather - Horehound
The Donnas - Greatest Hits Volume 16
The Hellacopters - Cream Of The Crap! Vol.1
The Hives - Live At The Wireless
The Raveonettes - In And Out Of Control
Thursday - Common Existence
Tinariwen - Imidiwan Companion
Tom Waits - Glitter And Doom Live
Underoath - Lost In The Sound Of Separation
Unida - The Great Divide
White Lies - To Lose My Life

Capitalismo: una storia d'amore




Capitalism: A Love Story - di Michael Moore 2009


Giudizio sintetico: da vedere


Il ragionamento, contenuto nel sito ufficiale, non fa una grinza, ed è piuttosto semplice. A 20 anni di distanza dal suo primo docu-film Roger & Me, Moore, che ha se non inventato, messo a punto un nuovo modo di fare cinema e informazione militante insieme, allarga l'obiettivo. Non c'è più solo un'azienda e il suo modo di mettere in ginocchio un territorio, con la sua assoluta mancanza di scrupoli. Adesso, in gioco c'è l'intero sistema capitalistico, e la crisi ancora in corso offre il fianco per una spietata critica. Gli USA, e con loro tutti quei paesi che ne seguono le orme (ma, curiosamente, Moore ci immagina al fianco di Germania e Giappone in uno sviluppo molto lontano da quello statunitense, soprattutto perchè possediamo una Costituzione moderna, e qui vi lascio il tempo di ridere, o piangere, come volete; punto curioso da ricordare a molti che fingono di dimenticarselo: NOI LA GUERRA L'ABBIAMO PERSA!!), hanno in pratica avuto una storia d'amore con il sistema capitalistico, e adesso si stanno lentamente rendendo conto che il capitalismo li ha traditi, e spesso li ha lasciati senza niente.


Moore, forte ormai di una fama mondiale, si spinge ai limiti, le gag ai piedi dei palazzi del potere rasentano il rischio dell'arresto (spettacolare quando recinta Wall Street con la fettuccia gialla che la polizia statunitense usa per recintare la scena del crimine), e come contraltare, le scene di disperazione sono sempre più spietate (famiglie sfrattate da operatori che sono in evidente difficoltà, perchè la loro sorte non è così diversa). Moore non esita ad usare perfino la sua famiglia: porta il padre, ormai molto anziano, ad osservare i cumuli di macerie della fabbrica dove ha lavorato per oltre 30 anni, e gli fa domande su come ci si trovasse.

Come ho già detto in occasione di altri suoi film, sono di parte, dalla sua parte, per cui prendete questa recensione con le molle: non sono obiettivo, soprattutto perchè quando Moore documenta la lotta degli operai (molti dei quali immigrati) di una fabbrica di Chicago, durante l'elezione di Obama, che per non venir licenziati senza indennizzo occupano la fabbrica stessa, mi sono messo a piangere e a singhiozzare come un innamorato appena mollato dalla fidanzata che pensava di sposare, e con la quale aveva già comprato la cucina per la casa nuova.


Non c'è niente da fare: Michael Moore è un idolo assoluto, per chi ancora pensa che l'uguaglianza e il rispetto per la dignità umana, sia fondamentale. Non voglio aggiungere altro: sarebbe tutto superfluo. Andate a vedere Capitalism: A Love Story. Passo e chiudo.

20091116

das weisse band


Il nastro bianco - di Michael Haneke 2009


Giudizio sintetico: si può vedere


Germania del nord, anni immediatamente precedenti alla Prima Guerra Mondiale. In villaggio di fede protestante, "comandato" dal Barone, il proprietario terriero locale, il Dottore subisce un curioso infortunio: di ritorno dalla sua cavalcata quotidiana, il suo cavallo cade su una fune invisibile, tesa tra due alberi. Il Dottore si frattura una spalla, e deve rimanere in ospedale per un po'. A partire da questo fatto, ne accadono altri, ben più atroci; raccontandoci il succedersi delle stagioni, e i fattacci del villaggio, Haneke ci illustra quello che accade dentro le case, anzi, ce lo accenna. Per fare ciò, si avvale della voce fuori campo del Maestro di scuola, ormai invecchiato, che racconta quegli anni della sua formazione, fino ad arrivare alla Guerra, che irrimediabilmente, cambiò tutto.


Pare fatto per dividere, questo nuovo film dell'austriaco Haneke, regista di culto, specializzato in storie di violenza senza essere un regista splatter, e in rapporti morbosi. Anche se la forma porta, in parte, elementi a lui già riconosciuti (freddezza e scene tagliate repentinamente, dialoghi secchi, espliciti, intellettuali e spesso agghiaccianti per la loro durezza), altri, come l'elegante bianco e nero (che, come notano i più bravi, è un colore desaturato) e il rigore, richiamano registi storici e importanti, come fanno notare eminenti critici, e pure critici meno famosi (Bergman, Dreyer, Bresson). A me, molto più modestamente, ha ricordato, nell'insieme, il Dogville di Von Trier. Haneke ha personalmente sottolineato che la sua intenzione era quella di indagare sul seme che portò la Germania al Nazismo: forse era il caso che lasciasse fare uno sforzo al pubblico.


Detto questo, il film si presenta pressoché impeccabile dal punto di vista formale, diretto con mano ferma e recitato diligentemente, col giusto mix tra pathos e teatralità richieste dalla storia e dal contesto, da tutto il cast; ci sono momenti importanti, forti, qualcuno indimenticabile (per chi scrive, il dialogo tra il Dottore e la Levatrice, puro Haneke, puro sadismo). L'intenzione è rispettabile, nonostante sia stata "suggerita", come detto prima.

La freddezza, tipica del regista, in questo caso crea qualche problema in più del solito, e l'eccessiva lunghezza, unita al ritmo soporifero, rappresentano invece le parti deboli del film; il finale che non conclude lascia perplessi, ma conferma che l'intenzione di Haneke non era quella di fare un film giallo, bensì un indagine antropologico-comportamentale, che, oso, può andare anche al di là del concetto espresso e sottolineato dal regista stesso, anche se l'operazione appare esasperatamente didascalica.

Qualche dubbio sulla Palma d'Oro a Cannes, ma ricordando che la Presidente di Giuria era Isabelle Huppert, si può capire. Del resto, siamo umani, per cui, fallaci.

20091115

mostri del folk

monsters of folk. album omonimo.
la mia predisposizione per la voce di jim james qui assieme a conor oberst dei brigth eyes.
piccole perle folk, alcune di coheniana memoria, profonde a tratti, pulite, cantate anche a due voci, intense, riverberate.
cosa dirà il mio amico monty?

col sangue


Esce questo mese il nuovo, secondo, disco dei napoletani Co'Sang; chi segue questo blog sa che chi vi scrive apprezza molto il duo, da tempi non sospetti. Il disco, dal titolo Vita Bona, è all'altezza del primo, e vale la pena, come per il primo, di fare lo sforzo di tentare di capire cosa ci dicono con il loro dialetto napoletano, neppure troppo stretto.

E' piuttosto rappresentativo il testo della traccia intitolata Mumento d'onestà, che ho recuperato su questo sito. Ve lo allego, insieme a quello del pezzo che apre il disco, 80 90. Provate a leggerli, il testo è stato in parte "tradotto". Troverete storie e teorie interessanti. Mancano purtroppo i due momenti parlati del secondo pezzo, che chiariscono meglio, ma pazienza, così magari ascolterete il disco. Vi dico solo questo: uno dei due, che ancora non riconosco solo all'ascolto, domanda due cose. Perchè nella colonna sonora di Gomorra ci sono solo melodici napoletani, che tutti conoscono come collaborazionisti (con la Camorra), e come è possibile che il regista abbia potuto girare alle Vele. Domande alle quali Garrone dovrebbe rispondere...


80 90

L’inizio degli anni 80 , il boom della roba nelle fiale

Una Delta nel viale riflette con gli sportelli undici piani

tra le mani dei principianti coltelli, bravi ragazzi coi bazooka

non ci ha a che fare nessuno, non pagano e consumano

Nei pantaloni i volti di Alessandro Volta accartocciati

Chi si è risolto respira, io mi ricordo ufficiali

contusi da pentole buttate dalle finestre, simbolo di protesta per impedire l’arresto…

Impari questo: “Stai zitto!”, pulisciti la Stan Smith

I vandali bevono pasta di mandorle, vendono lastre di marmo

Comprano un attico in un attimo smontano le macchine nei box, fottono le tattiche dei Nocs

Di notte lo Scarab fa 50 nodi, lo scafo dei Carramba se la fa a nuoto

Affoghi se ti giri indietro, il fuoco del bidone scalda

Scatoli di bionde, dopo il terremoto voto di scambio

E scippi sotto le cabine della SIP

RIT

Se potessi retrocedere, pulirei a chi è innocente

la fedina dall’ingiustizie e le indecenze di due decenni


Mentre crescevamo , i boss si sedevano a San Remo di fianco agli onorevoli

e poi raccontavano e noi sentivamo….

i killer nei Moncler , i chilometri nelle Nike Silver,

i primi baci e poi la paura dell'Euro

Una nazione intera davanti alle notizie

2 bombe fanno fuori la giustizia

cortei e blitz , era solo l'inizio dello sfizio di fare reati, l'edilizia popolare,

Berlino si univa, per noi è storia lontana

I cani con i collari borchiati , il rione è un teatro

e gli attori sono animali impazziticon le tute dell'Umbro addosso

I fari lunghi, cerchi d'oro appesi alle orecchie,

io mi perdevo nei cerchioni argento delle serie 3

Cresciuto dove la galera è un obiettivo

e gli obiettori sono piu' pochi dei pentiti,

le vergogne dei partiti,

l'Iraq, Città Mercato, finisce l'Apartheid

ma qui, Mary è per sempre una puttana….


Mumento d'onestà

Mai fatto corso di dizione? Funziona se fai le fiction

Vai a lezione di poliziotto, approfitti per i soldi dell’Area Nord

Ma che te ne importa? A partire da chi per i movimenti illegali si è sfregiato,

si è impicciato, legge il giornale,

L’ultimo anno inizia a contare i giorni, con gli altri passeggia col pigiama

E già, piccola, che intenzioni hai?

Lap dance o pap test?

Non sono per te se non appartengo o non mangio

col manganello per non farmi mancare niente

Ti giri e per magia vedi cantanti magistrati

Marciano e vogliono sfruttare la scia di un marchio registrato

Sono pallidi in viso, squallidi si camuffano

Neanche le palle di fare gli informatori dei puffi

Necronomi a tempo coi metronomi

Performance erotiche da un’eroinomane

Prestanomi nei popoli nomadi, non sai l’enorme emergenza dei Rom

E’ l’ottava municipalità, e noi lottiamo per emanciparla

Non rilascio interviste per la DDA

Non puoi intimidirci, non ci fai tentennare

Dannati scopriamo gli inganni, magari indovinando

Senza bonifici giganti, politicanti e bodyguard

RIT

E’ necessario un momento d’onestà

Voi fate i nomi del sistema e non quelli dello Stato

Per questi quartieri siamo stelle sotto il soffitto

E questa è la roba più vera che abbiamo mai scritto


Non vendiamo sogni al nostro popolo, lo facciamo sognare senza ipocrisia

Ma la senti la poesia?, strunz!

Tu che ti appropri di una cosa che non è tua

Ora è una moda accusare la criminalità organizzata

senza rispetto per chi soffre, io penso che dovreste solo ringraziarla

per la notorietà che vi ha dato

E con questo non mi sto schierando, ma dimmi, che faresti se non ci fosse?

Cosa diresti nei testi? Saresti capace di sentirti artista ugualmente?

La fama è una lunga strada e questa è la scorciatoia piu' banale

Le categorie sono buone per chi non ha identità,

te lo dico io che sono quello che non sarai mai

E se il dissing è rivolto a me ma non fai il nome, non lo rispetto

Leggi i testi come la Bibbia attentamente

e prova a fare un po’ di soldi

mettendo qualcosa di nuovo nelle canzoni

Una metafora, o un singolone per tutta la nazione

Agendo in un vulcano scoppiato molto prima di Saviano

Viaggiamo con l'autostrada pagata

"Il Professore" ha insegnato qualcosa a "Gomorra " quest'anno

Devo colpire chi lucra sul mio dialetto

Annientando carriere, svegliando quartieri

E ogni fan è un figlio. E il messaggio è una fede.

btls

dei beatles mi piacciono tutte le canzoni tranne una:
michelle.
evvvelodovevodì!

eboli e dintorni


Cristo si è fermato a Eboli - di Francesco Rosi 1979


Giudizio sintetico: da vedere


Nel 1935, il pittore, scrittore nonché medico Carlo Levi, dopo due arresti per attività antifasciste, verrà mandato al confino (in vacanza, come direbbe il nostro attuale Primo Ministro) dapprima a Grassano (Matera), poi ad Aliano (sempre in provincia di Matera), chiamata Gagliano rispettando la pronuncia locale. Il film di Rosi è ispirato dal libro omonimo, una specie di memoriale di quel periodo scritto dallo stesso Levi, libro che possiamo tranquillamente definire come uno dei più famosi libri italiani, al punto che ne esistono infinite ristampe ed edizioni scolastiche.


Ennesima (e fruttuosa) collaborazione di Rosi con l'immenso Gian Maria Volonté, l'imponente film (quasi due ore e mezzo) descrive in maniera asciutta la vicenda, rispettando l'idea del testo, e riesce a comunicare perfettamente l'intento dello scrittore. Dal punto di vista tecnico si possono fare alcuni piccoli appunti, ad esempio, le "concessioni" poetiche, formate soprattutto dalle carrellate sulle campagne e sui colli, contengo spesso sbalzi della camera, così come il suono è spesso "ondivago", ma in definitiva il lavoro nel suo insieme non viene intaccato. La presa di coscienza dell'intellettuale Levi verso la civiltà contadina, inserita nel contesto storico-politico al quale lui si oppone con la forza della ragione, unita al sempre più forte attaccamento agli stessi abitanti di Aliano da parte sua (lo dimostrerà in maniera postuma, facendosi seppellire lì, mantenendo una promessa, quella di tornare, che non aveva potuto rispettare in vita, in quel cimitero dove lui andava a cercare fresco e tranquillità), va di pari passo con gli accadimenti italiani, che lì arrivano filtrati e appaiono distanti anni luce.

Montaggio un po' forzato, al punto che il film non è molto fluido (vedasi per esempio l'episodio del sanaporcelle, che dà l'impressione di essere avulso dal resto), grande prova di Volonté, signorile e ironico nei momenti di confronto con altre "convizioni", religiose e politiche, fortemente interessato alle tradizioni dei contadini, scettico con rispetto davanti alle credenze popolari, e, a dispetto del minutaggio ridotto (rispetto a quello di altre figure maschili), due figure femminili straordinarie punteggiano il film con grande forza: Lea Massari nei panni della sorella di Levi, Luisa, e una intensa Irene Papas nei panni di Giulia, la governante con alle spalle 17 (diciassette) gravidanze.

20091114

update


Per la rubrica "non frega a nessuno", aggiornamenti su mio nipote.

Venerdi della settimana scorsa, per la prima volta, ha dormito senza i suoi genitori. Ha scelto di dormire con me, a casa mia. Tutta la famiglia era in apprensione (telefonate e sms da mia sorella e mio padre). Io, invece, avevo solamente sonno.

Dopo aver cenato da mia sorella, l'ho portato a casa, poco dopo le 21,30; lui era già stanco e alle 22,00 siamo andati a letto. Abbiamo dormito insieme nel 2 piazze. Alle 0,26 mi sveglia toccandomi la faccia e mi fa: "si fa colazione?". Guardo il cellulare e gli dico: "è sempre buio, dormi".

Durante la notte prende tutto il letto, dorme in diagonale, e il massimo lo raggiunge quando, verso forse le 4,00, mi sveglio perchè sento qualcosa di duro sotto la testa. Stava dormendo per largo sopra i due cuscini, e aveva le gambette sotto la mia testa (non so come avesse fatto a mettercele).

Alle 6,20, sfinito, ho dovuto capitolare e fare colazione insieme a lui.


Stamattina, invece, dopo una mattinata tutto sommato tranquilla (mia sorella me lo lascia verso le 8,45 quando va a lavorare), siamo usciti verso le 11,30 (alle 12,00 lo lascio dalla suocera di mia sorella per il pranzo) in macchina perchè volevo passare in farmacia per qualcosa per il mal di gola. A parte che ha voluto usare la bilancia, una bilancia che misura anche l'altezza, e che la bilancia non ha "trovato" la sua testa e quindi ha segnato altezza 0 cm., ma peso 18,8 kg, come al solito ha voluto ascoltare solo Blow Your Mind dei Monster Magnet, suo pezzo preferito, che ormai canta a memoria. Ad un certo punto, come faccio spesso ma senza riuscire mai ad avere successo, gli chiedo se vuole ascoltare qualcosa d'altro. Stamattina, stranamente, acconsente. Decido che tento il tutto per tutto, o la va o la spacca: metto il nuovo dei Converge, Axe To Fall, un disco dove il quartetto di Salem, sembra una battuta, si riavvicina al metal classico, e nei primi pezzi del disco fa una specie di compendio di tutti i generi estremi, richiamando ora gli Iron Maiden, ora gli Slayer, ora l'hardcore-punk classico anni '90, mantenendo comunque un'atmosfera decadente e post-atomica.

La risposta di mio nipote è straordinaria. Mima l'attacco di batteria dell'iniziale Dark Horse e sentenzia che da qui in avanti vuole ascoltare solo questo disco.

Gli spiego alcune cose sui Converge e gli dico che la loro musica è "arrabbiata". Lui prende atto. Gli spiego che non sono arrabbiati con lui, ma con il sistema. Più o meno.

Memorizza la parte di basso di Axe To Fall perchè, dice, la vuole far sentire alla nonna. E quando lo porto dalla nonna, lo fa davvero.

sogno o son desto?


B.B. & il cormorano - di Edoardo Gabbriellini 2003


Giudizio sintetico: si può vedere


Ricordate "Ovosodo" di Virzì? E il protagonista, Edoardo Gabbriellini?

Il livornesissimo Gabbriellini pare si sia montato la testa, e chissà, forse qualche motivo valido ce l'ha.


B.B.& il cormorano (BB sta per Bugs Bunny, che appare sulla federa del cuscino usato dal personaggio di Mario l'idraulico, interpretato da Gabbriellini stesso) è il suo primo film da regista, ed è un film lieve e onirico, vagamente felliniano e, strano a dirsi e a sentirlo, delicatissimo anche se i personaggi sono quasi tutti livornesi schietti, e quindi pesanti nel linguaggio come una carriola di cemento.


Tutto girato tra Livorno e Pisa (il porto di Livorno, l'aeroporto di Pisa, il litorale tra i due capoluoghi toscani così vicini da toccarsi e da odiarsi di conseguenza), in scenari così poco belli ma così veri, e con dialoghi così normali ma cosi buffi, il film è forse uno dei pochi prodotti italiani che si avvicina a quel cinema "etnico" tipico della ex Unione Sovietica.


Si ride davanti alle storie strampalate di questi personaggi ai confini della realtà nei film, ma tanto simili alla gente comune, e ci si ritrova a sperare che la storia d'amore tra Gaia e Mario decolli, perché poi, tutto il resto, i debiti, il lavoro, la pazzia, non conta.

Sullo stesso piano c'è solo un'altra cosa.

Il sogno.

20091113

I was there

Green Day + Prima Donna, Casalecchio di Reno - Bologna, Futurshow Station, mercoledi 11 novembre 2009

Come dice l'amica che mi accompagna a questo concerto, mentre torniamo verso casa, chissà se quando hanno cominciato a suonare, i tre Green Day si immaginavano di arrivare fino a qua. Mercoledi 11 novembre, al palasport di Casalecchio, gremito fino alla capienza di legge (si parla di 13mila persone), abbiamo assistito ad un classico concerto rock: volumi alti, belle canzoni, divertimento, cazzeggio, omaggi a grandi band del passato, coinvolgimento totale, cori, pubblico in delirio, e immancabilmente giovani ragazzine urlanti sugli spalti e sotto il palco. Ma gli occhi attenti di persone che hanno sulle spalle decenni di concerti e chilometri di strada, notavano una fortissima trasversalità degli spettatori: questa volta i genitori non lasciavano i e le più giovani all'ingresso, per riprenderseli a concerto finito. C'erano famiglie intere, magari non nel parterre, ma sulle gradinate. Esempio classico, il padre rocchettaro, la madre divertita e il figlio/la figlia/i figli anche lui/loro fan(s) dei Green Day. Un po' quello che vorremmo sempre vedere allo stadio per il calcio, ma questa è un'altra storia: qui si tifa tutti per la stessa squadra.

Figuraccia dell'organizzazione, che dopo ripetuti annunci per l'orario anticipato dell'inizio del concerto, e conseguente apertura anticipata dei cancelli (ore 18,30), apre i cancelli in ritardo, e cioè oltre le 19,00, facendo creare lunghissime file di spettatori che subiscono il freddo bolognese, e penalizzando leggermente la band che apre il concerto (alle 19,30), i Losangelini Prima Donna, 5 elementi dal look post-glam, ma che musicalmente assomigliano ad una cover band di Paul Anka col distorsore.

L'attesa si taglia col coltello, per usare un luogo comune, e alle 20,50 circa ecco che le note di Song Of The Century annunciano l'arrivo dei tre di Berkeley, che attaccano a suonare ovviamente con 21st Century Breakdown. La risposta del pubblico è fragorosa fin da subito. C'è da sottolineare, anche se i più accorti se lo immaginano, che i tre non sono esattamente tre. Sul palco sono in sei: oltre a Billie Joe, Mike e Tré Cool, ci sono Jason White alla chitarra, Jason Freese (tastiere, sassofono, fisarmonica) e Mike Pelino, chitarra soprattutto acustica e cori. Qui il primo (dei pochissimi) appunti che mi sento di muovere: da una band di sei elementi ci si aspetterebbe molto di più, sia a livello di armonia, sia a livello di impatto, di ricercatezza e di arrangiamento. E invece, i pezzi che riescono meglio sono quelli dove suonano in quattro, i tre componenti base più Jason White. Qualcosa da migliorare in futuro.
Com'è, come non è, il vostro inviato preferito, nonché critico per eccellenza su tutto e tutti, nonostante l'inizio lo lasci un po' dubbioso (sto parlando di me in terza persona, e so che non è bello, ma rimedio subito), si ritrova gli occhi umidi al pezzo numero 7 (senza contare l'intro), dal titolo Are We The Waiting, già nella prima parte dedicata soprattutto agli ultimi due album, per alcuni quelli della maturità, per altri quelli del tradimento e della "via commerciale".
Are We The Waiting, pezzo ruffiano e anthemico, perfetto per un concerto, è un po' lo spaccato di un concerto dei Green Day. Il punk, se mai c'è stato, è nei ricordi, nell'attitudine un po' cazzara, ma a livello musicale, nonostante almeno i tre componenti ufficiali dimostrino, ancora una volta, la loro pochezza tecnica (altro elemento punk, se vogliamo), ci sono superbe e semplicissime canzoni rock che citano continuamente, e forse talvolta inconsapevolmente, tutta la storia del rock. Altra dimostrazione la si ha un po' più avanti in scaletta, nel "momento juke-box", dove Billie Joe accenna diversi pezzi storici come, tra gli altri, War Pigs dei Sabbath, o eseguendo una strofa più ritornello di Highway To Hell degli AC/DC (e qui, devo dirvelo, mi sono venuti brividi di piacere sentendo il pubblico cantarla in coro perfettamente, tenendo conto dell'età media), e soprattutto nella tag infinita posta in mezzo ad una versione straripante e spassosa di King For A Day, contenente di tutto, da I'll Be There dei Jackson 5 a Hey Jude (ovviamente dei Beatles), da Shout degli Isley Brothers a (I Can't Get No) Satisfaction (ovviamente degli Stones). Qui, è importante dirlo, perchè a me piace da sempre ascoltare attentamente pure quelli che amo chiamare ancora i "nastri", la musica prima del concerto, assumono un significato particolare Don't Stop 'Til You Get Enough (Michael Jackson) e Surrender (Cheap Trick).
La scaletta dura più o meno due ore e venticinque minuti (20,50-23,15), anche se, calcisticamente parlando, di "gioco effettivo" ce n'è meno (ne parliamo tra pochissimo), ma, davvero, si stenta a trovare un momento di noia, di calo d'attenzione, e non è solo merito degli strilli delle ragazzine (e io che pensavo che non mi ci sarei mai ritrovato, a vedere band che hanno fra il pubblico ragazzine urlanti): il ritmo dei Green Day è incessante, e i pezzi tutti di grande impatto.

Altro punto forte del concerto, l'attitudine di Billie Joe Armstrong, che tiene in mano il pubblico con il suo carisma e la sua simpatia, più con i gesti e le espressioni che con le chiacchiere, a differenza di molte altre rockstar, e con una dose di ruffianeria che gli si può concedere. Ma non solo: le trovate sceniche, che sono vere e proprie gag, mi hanno strappato più di un sorriso, a me che spesso mi guardo intorno e quasi mi vergogno di non smuovermi più per nessun motivo.
Bambini sul palco, fan che prendono il microfono e cantano una strofa di un pezzo, addirittura tre che suonano chitarra, basso e batteria (in maniera più che dignitosa!), con annesso stagediving al momento di lasciare il palco per tornare in platea, tutto questo su esplicita richiesta di BJ; e poi, oltre alle classiche trovate sceniche spettacolari come le esplosioni, i fuochi d'artificio, le fiamme, i coriandoli, un palco enorme e funzionale, un impianto luci super usato con dovizia, uno sfondo con scenari suggestivi e dove si susseguono immagini proiettate e create sul momento da un buon regista, quelli che voglio definire gadget. Passi per i fucili ad acqua giganti, sfoderati sempre da BJ, alternati con i tubi di gomma con relativo rubinetto, sempre per sparare acqua sulle prime file, sia per rinfrescarle sia per disturbarle, ma il ventilatore spara-carta igienica (vedi foto di Angela in merito), che disegna figure astratte srotolando, appunto, i due rotoli posti ad una delle estremità, e soprattutto il fucile spara-magliette, col quale BJ distribuisce, appunto, t-shirt lontanissimo dal palco, fanno tutti parte di uno spettacolo grandioso, anche pacchiano se volete, ma divertente e, come già detto, mai noioso.

Primo gruppo di bis con una superba versione di Jesus Of Suburbia, il loro indiscusso masterpiece, secondo con BJ solo con la chitarra acustica, ad eseguire Last Night On Earth, Wake Me Up When September Ends e Good Riddance (Time Of Your Life), e saluti senza troppi convenevoli (anche se BJ aveva espresso più volte un grande apprezzamento per il pubblico italiano), chiudono una serata memorabile. Ci avviamo verso casa, lungo il Boulevard Of Broken Dreams...

baenken


La panchina - di Per Fly 2000


Giudizio sintetico: si può vedere


Danimarca: Kaj vive ai margini della società. Disoccupato, o comunque "poco" occupato, con tendenza a perdere anche quei brevi incarichi che gli vengono assegnati, molto alcolizzato, passa più tempo sulle panchine che a casa, dove ovviamente regna il disordine.

Ha un amico, Stig, e qualche "conoscente", sempre e soprattutto di bevute.

Improvvisamente, in un appartamento vicino al suo, in fuga dal marito che la riempie di botte, ecco che arriva Liv, che chiede ospitalità a Kim, appunto un vicino di Kaj. Liv si porta dietro il figlio Jonas, costretto a vedere le violenze del padre e ad essere sballottato in giro dalla madre.

Kaj ha l'impressione che Liv sia la figlia che lui ha abbandonato quasi vent'anni prima; quando, per cortesia di buon vicinato, lui e Stig si occupano per una giornata intera di Jonas, che Liv non sa dove lasciare per andare a lavorare, si risveglia in lui la speranza: quella di riuscire a fare qualcosa se non per cambiare vita, quantomeno per espiare in parte le sue colpe.


Primo lungometraggio del danese Per Fly, e prima parte della trilogia "sulla società danese", come recita la locandina, ma potremmo semplicemente dire "sulla società", visto che la valenza di queste storie è abbastanza universale, che analizza le tre fasce sociali: bassa, media e alta. Gli altri due film sono stati L'eredità e Gli innocenti.

Girato con abbondanza di camera a mano e in vago stile dogma, la mano di Fly è molto intima, nel senso che scava e "marca" da vicino gli attori, soprattutto il protagonista, sceneggiato (come gli altri due) con Kim Leona, il film nonostante abbia una trama tutto sommato semplice e prevedibile, risulta scorrevole e, se non appassionante, piuttosto interessante, soprattutto perchè non tende mai ad impietosire seppure la storia di Kaj si presti molto.

Sicuramente non il film più riuscito, dimostra comunque che il "ragazzo" ha stoffa e cose da dire.

Ben amalgamato e diretto il cast, che risulta molto realistico fin nei personaggi più marginali, dove troviamo Jens Albinus (Kim), che abbiamo visto con Von Trier in Idioti e Dancer In The Dark, vanta soprattutto una prova a dir poco straordinaria di Jesper Christensen nei panni del protagonista Kaj, un attore che solo ultimamente è stato utilizzato anche in produzioni internazionali (Quantum Of Solace, Casino Royale, The Interpreter), e che è l'unico attore ad aver partecipato a tutti e tre i film della trilogia di Fly.

Film interessante, che è arrivato in Italia solo diversi anni dopo la sua realizzazione, e direttamente in dvd.