Stavo leggendo l'intervista a Philip Roth sul Venerdì di Repubblica. E ad un certo punto, ecco cosa salta fuori, dopo le domande su se era soddisfatto dei suoi romanzi al cinema. Paola Zanuttini, la giornalista, domanda allo scrittore:
Per caso, è insoddisfatto anche da Barack Obama? Da un'intervista a un quotidiano italiano, Libero, risulta che lo trova persino antipatico, oltre che inconcludente e assopito nei meccanismi del potere.
E a quel punto, Roth risponde:
Ma io non ho mai detto una cosa del genere. E' grottesco. Scandaloso. E' tutto il contrario di quello che penso. Considero Obama fantastico. E trovo che l'attacco che gli stanno sferrando i repubblicani è molto simile a quello subito da Roosvelt al suo primo mandato. E' la destra più stupida mobilitata da Sarah Palin. Agitano la bufala dell'atto di nascita che dimostrerebbe che è nato in Kenya. E trovano ascolto. Sotto c'è il problema della razza, della pelle. Sono molto seccato per queste dichiarazioni che mi vengono attribuite: non ho mai parlato con questo Libero. Smentisca tutto. Ora chiamo il mio agente.
Sempre a seguire, nell'intervista:
Chiama il suo agente, che gli filtra tutti i contatti: nell'agenda delle interviste passate e future non risulta né Libero né il nome dell'intervistatore. Roth attacca e poi chiede cosa vuol dire Libero in inglese. Traduco.
A quel punto Roth aggiunge:
Vuol dire che questi sono liberi di fare tutto quello che gli pare?
Non so, probabilmente era destino. Magari, quando uno "smette" di innamorarsi delle altre persone, comincia ad innamorarsi degli artisti. Oppure no. Il fatto è che io a questa ragazza qui la amo. Un po'. Come artista, dico. Quindi, prendetela un po' con le molle, questa recensione. Si, perchè dopo la folgorazione del disco d'esordio, Oh, My Darling, nel 2007, attendevo come si dice "in gloria" questo "difficile secondo album", e credo sia scontato che, d'impatto, non ti sembri un capolavoro, quando ancora ti senti toccare le corde dell'anima, mentre ascolti quello precedente. Poi, si sa, come capita a volte, arriva quell'attimo in cui hai la "rivelazione": c'è gente che vede la Madonna, noi low profile invece "vediamo" solo il motivo per cui ci piace un pezzo, un disco, un artista.
Heart Of My Own è un disco sfacciatamente onesto, di quelli che sembrano registrati concettualmente col cuore, suonati e cantati con la sola intenzione di arrivare fin dentro l'ascoltatore non casuale, quello che dice "bella questa canzone, ma alla radio non la sentirò mai". Gli strumenti sono aggiunti con estrema parsimonia, ma il disco non sembra mai vuoto: neppure quando, nella bonus track per iTunes, Basia canta Hush a cappella. Gli arrangiamenti, come giustamente li definisce allmusic.com, sono rootsy, e anche se non conoscete perfettamente l'inglese, con un piccolo sforzo d'immaginazione, potrete convenirne: potremmo essere perfino un secolo indietro nel tempo. Ma questi campanelli, questi tamburelli, queste chitarre arpeggiate, questo autoharp, questi archi delicati, questa batteria (del fratello) che crea crescendo marcettistici, chiedono solo di essere ascoltati senza preconcetto alcuno. E , splendida, profonda, toccante, intensa, delicata, deliziosa e mai invadente voce di Basia Bulat compresa, il tutto è al servizio di canzoni belle, alcune riuscite più di altre, questo è vero, ma mai brutte o senza senso.
Potrei parlarvene, di queste canzoni. Di come l'iniziale Go On incalza l'ascoltatore con quel suo andamento ondivago, con quelle sottolineature di pianoforte appena udibili ma importanti, della partenza solo voce della seguente Run, che ti fa capire subito che puoi chiudere gli occhi e lasciarti andare, della dolcezza della appena sussurrata Sugar And Spice, del singolo con reminescenze tzigane Gold Rush assolutamente perfetto e asimmetrico, della ballata con banjo che dà il titolo al disco, della delicatissima Sparrow, della travolgente If Only You, dell'assurda (in positivo) prova vocale di I'm Forgetting Everyone, del gospel-folk quasi medievale di The Shore, della rarefatta ma armoniosa Once More, For The Dollhouse, della canzone dell'anno, assolutamente perfetta, Walk You Down (ve ne parlai già qui entusiasticamente, accompagnandola con un video), dopo la quale pensi "non voglio più ascoltare niente", e poi arriva la conclusiva If It Rains, che sa quasi di Motown, ed è meravigliosa, semplicemente.
Potrei parlarvene, dicevo. Ma forse è meglio che ve le ascoltiate, magari in religioso silenzio. Basia è tornata, e vuole rimanere.
Per concludere, una chicca da youtube: Basia Bulat che coverizza dal vivo Someday dei TheStrokes. Manco a dirlo, fantastica. A voi.
Giudizio vernacolare: scespirre è sempre scespirre
Venezia, 1596; Bassanio, giovane e bello ma senza soldi, seppur abituato ai lussi, intimo di Antonio, ricco mercante (un antico armatore), ha bisogno di soldi per corteggiare e sposare la bella Porzia, desiderata dal mondo intero, ma legata ad un patto al padre morto, che ha voluto che la figlia andasse in sposa solo a chi risolverà un enigma. Antonio, pur odiando gli ebrei, come tutti i cristiani, e come sembra andasse di moda all’epoca (moda che, come tutte le altre, ogni tanto ha i suoi rigurgiti e si ripropone), intercede e fa da garante per Bassanio presso Shylock, ebreo vedovo, padre di Jessica, usuraio ansioso di prendersi una rivincita sul ricco cristiano, usandolo come capro espiatorio. Chiede e ottiene che sul contratto appaia che, nel caso di insolvibilità di Antonio alla scadenza, Shylock ottenga una libbra della sua carne. Antonio perderà tutti i suoi averi, e non sarà quindi in grado di saldare il debito; Porzia, nel frattempo sposatasi con Bassanio, travestita da avvocato, troverà un cavillo che salverà la vita di Antonio.
Tratto come quasi tutti sanno da Shakespeare, ambientato (e girato realmente) in una Venezia nebbiosa e peccaminosa, diretto come se fosse a teatro da Radford, senza sbavature ma anche senza intuizioni geniali, o sconvolgimenti temporali, anche apprezzabili, come in Titus della Taymor o Romeo+Juliet di Luhrmann, oppure viraggi personalizzati come in Molto rumore pernulla di Branagh, addirittura inventati come Shakespeare in Love di Madden, il film deve a parer mio far riflettere su: è ancora il caso di fare film da Shakespeare?
La mia personale risposta è: SI. A prescindere da come sia riuscito l’ennesimo film da una delle sue molteplici opere, il drammaturgo inglese è ancora attualissimo, e in questo caso, anche se la lettura è tutto sommato piuttosto didascalica, il soggetto risulta indovinato, in quanto attuale. Vi bastino omosessualità, razzismo e donne al potere come spunto, il resto viene da se assistendo alla "rappresentazione". Due parole sul cast; Irons ormai pare ingabbiato in un unico personaggio, e recita Antonio come l’Alex di Io ballo da sola, Fiennes è bravo ma non eccelso, Pacino è in forma, ma la riuscita della prova, una volta tanto, crediamo dipenda in buona parte dal doppiaggio scintillante e teatrale di Giancarlo Giannini. La folgorazione è la Porzia di Lynn Collins (era anche in 30 anni in un secondo con Jennifer Garner), molto brava. Ne vogliamo ancora.
Certo che vi interessi tantissimo, ho ritrovato la mia personale Top Ten musicale del 2004.
1)Nick Cave - Abattoir Blues/The Lyre Of Orpheus 2)Bjork - Medùlla 3)Mark Lanegan Band - Bubblegum 4)PJ Harvey - Uh Huh Her 5)Tom Waits - Real Gone 6)Neurosis - The Eye Of Every Storm 7)Converge - You Fail Me 8)Modest Mouse - Good News For People Who Love Bad News 9)Badly Drawn Boy - One Plus One Is One 10)Diana Krall - The Girl In The Other Room
Giudizio vernacolare: compagni dai campi e dalle officine...
Russia di oggi, Andrei Filipov fa il custode tuttofare del teatro Bolchoi, ma ai tempi dell'U.R.S.S. era uno tra i più famosi e capaci direttori d'orchestra. La sua passione per la musica non si è mai spenta, e sopravvive insieme all'amata moglie Irina, che fa l'organizzatrice di eventi, in una nazione alla deriva, tra mafiosi arricchiti, corruzione e decadenza. Sottoposto ad angherie psicologiche dal direttore del teatro, si ritrova casualmente nel suo ufficio, senza che lui sia presente, mentre arriva un fax dal teatro Chatelet di Parigi, che invita ad esibirsi presso di loro proprio l'orchestra del Bolchoi per una esibizione in pompa magna.
Il maestro Filipov ha la vendetta servita su un piatto d'argento. 30 anni prima, a causa del fatto che la "sua" orchestra (quella del Bolchoi), era composta per lo più da ebrei, il funzionario Ivan Gavrilov, su ordine di Breznev, lo licenziò platealmente, spezzandogli la bacchetta da direttore durante un'esibizione, e da lì in avanti Andrei diventò un reietto. Inoltre, l'orchestra attuale del Bolchoi non è all'altezza della situazione. Insieme al fido Sacha, violoncellista professionista, ma attualmente conduttore di ambulanze (scassate), e spronato dalla moglie, metterà su un'orchestra, formata da suoi vecchi orchestrali, ma pure da musicisti reclutati per disperazione, e in un modo o in un altro arriverà a Parigi. Non è finita qui. Suoneranno il concerto in re maggiore nr. 35 per violino e orchestra di Tchaikovsky, e sarà necessario un violino solista; la richiesta del maestro è tassativa: vuole la giovane, bella e dotatissima violinista francese Anne-Marie Jacquet. Alla fine, capiremo perchè.
Diavolo d'un rumeno. Senz'altro meno "sconvolgente" dei precedenti Train de vie e Vai e vivrai, anche questo Il concerto è un film interessante, stratificato, divertente e al tempo stesso, soprattutto nel finale, toccante e commovente.
Certamente la prima parte è, oltre che movimentata, confusa e confusionaria. Non si capisce inoltre se il regista giochi con tutta una serie di stereotipi e luoghi comuni, oppure ci "cada". Sono decisamente propenso a credere alla prima ipotesi. Però ci si diverte abbastanza, anche se con un sorriso amaro sulle labbra: la descrizione dell'attuale situazione russa, seppur sommaria, è piuttosto precisa. Dopo di che, il film passa attraverso un momento (abbastanza esteso, a dire il vero) un po' troppo melodrammatico, che però serve per, è proprio il caso di dirlo, il gran finale.
La lunga scena conclusiva è un capolavoro, non ci sono dubbi. Una vorticosa esecuzione del concerto di cui sopra, da parte della sgangherata orchestra, ripresa in maniera virtuosistica, intervallata da flashback e fast forward, sguardi sul passato e sul futuro, siparietti grotteschi, divertenti e teneri, si tirano insomma le fila alla grande, il tutto in un crescendo magistrale, che arriva dritto al cuore.
Attori diretti col cuore in mano, divertentissimi François Berléand (L'innocenza del peccato) e Lionel Abelanski (Espiazione), molto bravo Aleksei Guskov (Filipov), deliziosa Mélanie Laurent (Anne-Marie Jacquet), vista pochi mesi orsono nel deludente Bastardi senza gloria di Tarantino.
Una ulteriore prova positiva di un regista che dimostra di poter maneggiare qualsiasi cosa e di potersi "muovere" in qualsiasi scenario.
Nota conclusiva: doppiaggio italiano scandaloso, che maschera il fatto che questo film è uno di quelli che andrebbe obbligatoriamente visto sottotitolato. Tutti i personaggi russi parlano come caricature (russe, ovviamente), mentre i francesi parlano un italiano perfetto. Ripeto: scandaloso.
Dopo un primo gruppo spalla chitarra/voce e batteria clone della Blues Explosion, e una seconda band apprezzabile, che sembra suonare come i Franz Ferdinand americani, davanti ad un Rainbow quasi pieno arriva Jon Spencer, rubando i commenti ad un paio di amici l'Elvis del nuovo millennio, e la sua Blues Explosion (ex Jon Spencer Blues Explosion, ridotto a BE dall'ultimo "Damage"), la perfetta macchina da rock and roll formata dai fidi Judah Bauer e Russell Simins; per chi non lo sapesse (vergogna!), la Blues Explosion è formata da due chitarre, delle quali una accordata molto ribassata (quella di Jon), e una batteria scarna ma prepotente; Jon canta anche, anzi, urla slogan rock and roll, più o meno.
La "zona vip" segnala Roberta e Alberto dei Verdena, Marco Cocci, cantante dei Malfunk nonché attore nonché nuovo conduttore di Brand:new su MTV, e una delle due Kris & Kris, tanto per il gossip che ci piace tanto, e per allungare di qualche riga la recensione.
Il concerto dura quasi due ore con una breve pausa centrale, e lascia senza fiato chi non li aveva ancora visti all'opera, mentre quelli che già avevano avuto il piacere rimangono con la sicurezza che, per alcune cose, il tempo non passa.
Feroci ed aggressivi, i tre sciorinano il nuovo album "Damage" (molto più ruvido live, come da copione) più una buona fetta del loro sterminato repertorio senza fare prigionieri. Jon è sempre un frontman con un immenso carisma, che fa l'amore con la musica e gestisce la platea a suo piacimento, Judah fa il suo sporco mestiere con la solita flemma e Russell, solo leggermente ingrigito sui riccioli rispetto a qualche anno fa, aggredisce quei 4/5 pezzi del suo drum-kit con l'irruenza di un bambino.
Ci dispiace davvero per chi se li è persi.
BLUES EXPLOSION!!
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Nella foto Jon Spencer e la sua dolce metà, la bellissima Cristina Martinez; la scusa per postare una sua/loro foto mi pareva buona
buia come il pozzo più profondo che va da un polo all'altro,
ringrazio quali che siano gli dei
per la mia inconquistabile anima.
Nella morsa della circostanze,
non mi sono tirato indietro, né ho pianto.
Sotto i colpi d'ascia della sorte,
il mio capo sanguina, ma non si china.
Più in là, questo luogo di rabbia e lacrime
appare minaccioso ma l'orrore delle ombre,
e anche la minaccia degli anni non mi trova,
e non mi troverà spaventato.
Non importa quanto sia stretta la porta,
quanto piena di castighi la vita.
Io sono il padrone del mio destino.
Io sono il capitano della mia anima".
Il poema Invictus, appunto, di William Earnest Henley, è quello che Nelson Mandela (Rolihlahla Dalibhunga) pare leggesse e rileggesse chiuso nella cella 46664 per 26 anni. Il film Invictus, invece, racconta di come Madiba (soprannome che ha origine nel titolo onorifico che adottavano gli anziani della sua famiglia, e che in Sudafrica ormai individua esclusivamente lui), divenuto presidente del paese, e soprattutto della gente per la cui libertà ha lottato aspramente tutta la vita, quattro anni dopo essere stato scarcerato, riesca, nonostante gli enormi problemi, a cominciare il processo di riunificazione in un paese profondamente diviso tra bianchi e neri.
Mandela, deciso ad “amare il nemico”, ha una folgorazione, assistendo ad una partita di rugby della nazionale sudafricana, gli Springboks, le antilopi, baluardo della “cultura” sportiva bianca (c’è un solo nero, Chester Williams, curiosamente, l’allenatore dell’equipe cinematografico-rugbistica per il film), squadra si nazionale, ma nella quale i neri non solo stentano a riconoscersi, ma addirittura gli tifano contro.
Visto che il Sudafrica proprio l’anno seguente ospiterà i Mondiali di rugby, sport dal quale era stato escluso per anni a causa dell’apartheid, Madiba decide quindi di “insinuarsi” dentro il loro cuore, attraverso il suo capitano, François Pienaar, bianco di famiglia bianca, famiglia ovviamente che non vede di buon occhio un Presidente nero, ma uomo d’onore, come ogni rugbista che si rispetti, e pieno d’amore e di riconoscenza per il suo Paese, oltre che di buon cuore. Quel che è accaduto, nonostante gli Springboks non fossero per niente quotati, è rimasto negli albi d’oro.
Ennesimo film dell’instancabile vecchietto prodigio Eastwood, tratto dal libro Ama il tuo nemico (Playing the Enemy: Nelson Mandela and the Game that Made a Nation) di John Carlin, scritto dal punto di vista di Pienaar, questo Invictus è, ancora una volta, grande cinema “educativo”, la messa in scena di una storia fortissimamente toccante, commovente, umana, ma anche politica. Quanti politici attuali dovrebbero imparare questa universale lezione di Mandela? Troppi.
Nelle mani di Eastwood, Morgan Freeman, che non ha bisogno di insegnamenti, mette in scena un Mandela credibile, e perfino Matt-bambolotto-Damon risulta digeribile nei panni di Pienaar; grande il lavoro di entrambe gli attori sulla pronuncia dell'inglese "africano", lavoro che si perderà col doppiaggio, nel nostro paese.
Fotografia inondata di luce, sole che penetra ogni cortina, qualche perplessità sulle prime riprese degli scorci degli incontri rugbistici (che sembrano un po’ “vuote”), anche se bisogna fare i conti col fatto che sono passati 15 anni, e il gioco di adesso è decisamente diverso, piccolissime sbavature (fateci caso, nella scena in cui i giocatori della nazionale sudafricana vanno ad insegnare il rugby nel “quartiere” – sarebbe più giusto dire baraccopoli o favela – nero, c’è un momento in cui uno dei bambini guarda in macchina), ma come sempre grande senso delle inquadrature, della costruzione delle scene, dialoghi asciutti, momenti di grande intensità, respiro epico, e tanta, tanta commozione che suscita massimo rispetto per i protagonisti. Due ore abbondanti col cuore in mano.
Bjork è avanti. Dopo giorni di riflessione, mi era venuta voglia di “liquidare” così la recensione. Non credo avrei fatto un torto a Medúlla. C’è poco da girarci intorno; l’islandesina fa ciò che le aggrada, e ciò che le aggrada riesce a stupirci ogni volta; è rimasta probabilmente l’unica artista musicale che cambia davvero ad ogni lavoro, e non solo fa grandi dischi, ma traccia anche la strada. In questo Medúlla lavora per sottrazione, come si usa dire, scarnificando la forma canzone fino al suo osso (o al suo midollo, appunto): la voce. Un minimo di programming, cori, human beats e la sua inconfondibile voce. Ecco fatto: la musica classica del ventunesimo secolo. Inquietante “Where Is The Line”, celestiale “Vokuró”, irresistibile “Triumph Of A Heart”; bellissimo il resto. Collaborazioni ad altissimo livello (Mike Patton, Rahzel, Matmos, Robert Wyatt, Tagaq, Dokka, Icelandic Choir, London Choir). Imprescindibile.
Francia, oggi. Malik El Djebena è un diciannovenne di origini arabe, analfabeta, senza famiglia e senza passato. E' arabo come si evince appena dai tratti somatici e dal fatto che mastichi l'arabo così come il francese (malino), ma guarda dai vetri della porta i musulmani mentre pregano. Ne facciamo la "conoscenza" mentre entra in carcere per sei anni, con un niente come effetti personali, e ne intuiamo solamente lo spaesamento e il terrore. Il carcere è grigio, claustrofobico, neppure così cattivo, agli inizi; almeno, questa è l'impressione. Non è perfetto, ma ci immaginavamo peggio.
César Luciani è un anziano boss malavitoso corso, dentro lo stesso carcere, dove possiede, a differenza di Malik, appoggi e aderenze a non finire, insieme ad una cerchia che lo spalleggia. Si accorge di Malik, e lo fa avvicinare da uno dei suoi scagnozzi. Ecco che per Malik cominciano le prove di sopravvivenza, ecco che anche allo spettatore si "aprono" le porte del vero carcere: Malik dovrà uccidere un altro detenuto, oppure sarà ucciso. Prova di coraggio o esecuzione programmata, non ci è dato sapere: Malik, traballante, la esegue, e ne esce ovviamente diverso. Comincia così, per lui, una doppia, tripla, quadrupla vita. Diventa un "servo" di Luciani, ma si fa altre amicizie, si tiene aperte altre porte. Trova perfino un amico vero, al di là di questioni di sopravvivenza carceraria. Impara un lavoro, si iscrive alla scuola del carcere, impara a leggere, a scrivere, a pensare, a riflettere, a ponderare, nello stesso tempo in cui impara ad agire. Attento a tutto quello che gli accade intorno, oltre a perfezionare il suo francese, apprende pochi ma basilari rudimenti di lingua corsa, ascoltando i dialoghi della "banda" alla quale ormai, per gli altri, lui appartiene (lo scoprirà in momenti di difficoltà, e anche di questo saprà far tesoro). Obbediente a Luciani, diventerà un detenuto modello, per avere dei permessi di uscita di 12 ore alla volta, in modo da compiere missioni con un sempre più alto livello di difficoltà, per conto del corso. Missioni dalle quali saprà, ancora una volta, conservare esperienza e conoscenza, divenendo fine stratega, con una buona dose di fortuna: le dinamiche del carcere cambiano, man mano che i detenuti entrano ed escono, così come cambiano quelle sociali, nazionali e mondiali. Non è finita qui: con l'aiuto dell'amico "vero" Ryad, uscito prima di lui, pianifica un futuro per quando sarà definitivamente fuori, un futuro che va oltre all'immaginabile, e, al tempo stesso, impara a convivere quasi fisicamente con il suo senso di colpa, "passando" del tempo fianco a fianco con la visione onirica di Reyeb, la sua vittima "iniziale".
Lasciamo Malik appena dopo la sua uscita dal carcere, e il quadro che esce dal campo visivo è più che esplicativo. Il carcere è stata la sua formazione, il suo passaggio da ragazzo a uomo nuovo.
Quinto film per il francese Audiard, terzo di quelli distribuiti anche in Italia; dopo Sulle mie labbra e Tutti i battiti del mio cuore, finalmente anch'io ho messo a fuoco il tema portante dell'opera del regista: la comunicazione. E chissà se questo Il profeta sarebbe stato ugualmente distribuito in Italia, se non fosse arrivata la nomination all'Oscar nella categoria ForeignLanguage Film. Ora, c'è da fare una doverosa premessa, prima di parlarne ancora diffusamente: se ne avrò il tempo, tornerò a vedere questo film in una sala italiana, solo per capire lo scempio che ne sarà fatto dal doppiaggio "obbligatorio". Se avete letto il riassunto della trama, avrete capito che, proprio per il fatto che la comunicazione è il (o uno dei) tema portante, questo film è recitato in francese, ma pure in arabo e in corso (Niels Arestrup, in pratica l'attore professionista più famoso del cast, pare abbia imparato appositamente il corso per questo film), ed entrambe le lingue meno usate sono le chiavi dell'ascesa di Malik, per cui vediamo come queste chiavi saranno interpretate.
Detto questo, il film conferma le qualità di Audiard, un regista eclettico ma al quale piace strizzare l'occhio al gangster-movie, genere che però piega alle sue esigenze di comunicazione. Un regista che sa scegliere storie assolutamente fuori dal comune, usandole come metafore della società di oggi, non risparmiando critiche alle istituzioni, senza però prendere posizioni nette, lasciando allo spettatore la repsonsabilità di giudizio.
La messa in scena è quantomai realistica, il carcere è assolutamente credibile senza essere spettacolarizzato (e dire che è tutto ricostruito), le vicende plausibili, alcune scene da ricordare. Non è un film esente da difetti: la complessità delle vicende stesse lo rende abbastanza intricato, un po' troppo lungo, e l'attenzione alla ricostruzione rende il tutto troppo freddo. Niente e nessuno è perfetto.
La direzione degli attori è notevole, e oltre a Adel Bencherif (Ryad) e al già citato Niels Arestrup (César Luciani), ottimi supporting role actors, è impossibile non spendere qualche parola in più per il protagonista assoluto, Tahar Rahim, incredibilmente perfetto nell'incarnare un personaggio "vergine" e il suo mutamento.
Continuo a preferire, nella cinquina dei film "stranieri" per l'Oscar, El secreto de sus ojos e Il canto di Paloma, ma anche questo Il profeta merita una chance.
Avrete sicuramente notato un calo netto dei miei commenti alle notizie di politica interna. In effetti, la politica italiana, oltre ad essere offensiva per le (poche) intelligenze ancora rimaste in patria, è pure noiosa. Si sentono sempre le stesse cose, e non solo da Berlusconi.
Volete mettere con Chavez? E' sempre una sorta di dittatore (anche se qualcosa per il popolo sembra averlo fatto, ma si sa, è difficile giudicare dall'esterno), ma almeno ha fantasia: e chi ci pensava più alle Falkland?
Gli abitanti di Rosarno sono scesi in piazza per dire che non sono razzisti. Ma il loro è un messaggio sbagliato
Duemila immigrati che raccoglievano le arance in Calabria sono scappati o sono stati portati via da Rosarno per placare gli animi di persone che ora sembrano scomparse. L’11 gennaio, infatti, tutti gli abitanti sono scesi in piazza per protestare contro chi li ha accusati di essere razzisti. Alcuni immigrati sono finiti nei centri d’accoglienza sparsi tra Calabria e Puglia. In eredità hanno lasciato un ghetto caotico, com’era la loro vita: spazzatura, sporcizia, puzza, vestiti luridi, resti di cibo abbandonati per la fretta. Ancora pochi giorni e non ci sarà più traccia di loro. Eppure da anni venivano a svernare qui, raccogliendo agrumi. Lo sapevamo tutti ma dalle nostre tavole non vedevamo il colore nero della loro pelle e delle loro mani né i loro sacrifici. Vedevamo solo i colori delle nostre arance, tra le più buone del mondo. Non vedevamo neanche i loro sfruttatori: le ’ndrine, le organizzazioni criminali a cui nessun quotidiano ha dedicato un’apertura. Alcuni commentatori hanno sostenuto che la ’ndrangheta non perde tempo dietro a questioni di poco conto. Ma dimenticano che la ’ndrangheta non è solo quella dei colletti bianchi. È anche quella dei neoschiavisti, che si arricchiscono sulla pelle degli altri. Nella cosiddetta rivolta dei clandestini non ha vinto nessuno. Hanno perso i migranti e hanno perso i cittadini di Rosarno. Abbiamo perso tutti l’occasione di puntare il dito contro gli sfruttatori, che per giunta ricevono consistenti aiuti dall’Unione europea. Vivo in Calabria da più di trent’anni e in questa terra mi ci rispecchio. Rosarno, come la Calabria, non è tutta razzista. Per colpa di alcuni prepotenti non si può “marchiare” un’intera regione. Ma bisogna chiamare i mafiosi con il loro nome. Il comune di Rosarno è stato commissariato nel 2008 per infiltrazioni mafiose ed è difficile che duemila migranti possano invadere una cittadina di 15mila abitanti. Ancora una volta la questione dell’immigrazione è stata presentata dai politici come un problema di sicurezza. Da immigrata, ma soprattutto da calabrese, mi sono sentita insultata dalle osservazioni del ministro dell’interno Roberto Maroni, secondo il quale la rivolta di Rosarno è colpa dei calabresi che sono stati troppo tolleranti con i clandestini. Cosa avremmo dovuto fare? Noi non buttiamo in mare nessuno e non spariamo. E poi chi sono i “clandestini”? Alcuni sono in attesa del permesso di soggiorno, altri hanno chiesto l’asilo politico. Sono persone che puntualmente, una volta finita la stagione di raccolta degli agrumi, tornano per strada. Alcuni spacciano droga ma, accanto a loro, ci sono milioni di immigrati che danno il loro contributo al pil nazionale. Sono artefici della ricchezza materiale dell’Italia ma anche di quella immateriale, garantendo una diversità culturale di usi e costumi. A Rosarno abbiamo perso una buona occasione. Siamo scesi in piazza solo per dire che non siamo razzisti invece di urlare agli sfruttatori che devono lasciare la Calabria. Secondo lo scrittore Domenico Gangemi, “la ’ndrangheta cavalca certe situazioni per dimostrare che è padrona del territorio”. Don Giacomo Panizza, fondatore della Comunità progetto sud, più volte minacciato dalla ’ndrangheta, si è fatto invece portavoce di quattrocento migranti in fuga. “Raccontano di aver denunciato, ma senza risposta”, dice. Gli immigrati hanno denunciato le ’ndrine alle autorità. Ma in Calabria dobbiamo ancora sconfiggere l’omertà.
Geneviève Makaping è una giornalista e antropologa camerunese che vive in Calabria.
Antica Cina, anno 208, sotto la dinastia degli Han Orientali, lo spietato e arrivista Cancelliere (o Primo Ministro) Cao Cao riesce a convincere l'Imperatore Xian a dare battaglia ai signori della guerra che governano il sud dell'Impero, Sun Quan e Liu Bei. Con la battaglia di Changban, Cao Cao mette in ginocchio Liu Bei e il suo popolo, a dispetto della valorosa opposizione, grazie alla disparità delle forze in campo. Dopo la battaglia, lo stratega di Liu Bei, il riflessivo Zhuge Liang, si reca nel regno Wu, dove chiederà a Sun Quan di allearsi insieme a Liu Bei contro Cao Cao e le sue truppe. L'accordo riuscirà grazie all'intercessione del Vice Re Zhou Yu e sua sorella Sun Shangxiang. Dopo una prima, grande battaglia, nella quale Cao Cao riceve una sonora lezione esclusivamente grazie alla strategia messa a punto da Zhuge Liang e Zhou Yu, e all'eroismo dei grandi soldati delle forze alleate, lo stesso Cao Cao si riorganizza e si prepara per attaccare con forza la città di Chibi, capitale del regno Wu, nella famosa, omonima battaglia. Le forze in campo, ancora una volta, sono impari, e tutti i favori sono dalla parte dello spietato Primo Ministro.
Opera maestra di Woo, che "torna in patria" per girare il film asiatico più costoso di tutti i tempi, uscito in due parti (oltre 4 ore) in Asia, mentre in Europa e nelle Americhe è uscito una sorta di "sunto" di poco superiore alle due ore, esce ora anche in dvd in versione integrale. E lasciatemi dire che è uno spettacolo per gli occhi, un colossal di tipo classico, con un respiro un po' vecchio stile, di quelli che possono piacere perfino ai nostri genitori (nostri dico di noi quarantenni), ma con un passo tutto orientale, quindi con momenti perfino poetici e "confuciani", uniti mirabilmente alla tecnica sopraffina di Woo nel cinema d'azione. Metteteci dentro anche un superbo occhio per le panoramiche, e un uso attento ma grandioso della computer graphic, e avrete così un mega-film che non vi stancherete neppure di rivedere.
Scene memorabili (sarebbe necessario un elenco, ma il volo della colomba sulla formazione dell'esercito di Cao Cao entra dritto nella storia del cinema), macchina da presa vorticosa, funambolica, alternanza di scene di battaglia cruente e mozzafiato con momenti di dialogo quasi filosofico, perfino sensuali, illustrazione delle strategie di combattimento, e non ultima, una storia di amicizia commovente e intensa; personaggi fieri e indimenticabili, attori che rilasciano prove superlative.
Come detto tutti bravi, citazione d'obbligo per il super-divo Tony Leung (Hong Kong Express, Cyclo, Happy Together, In The Mood For Love e mi fermo qui, penso che basti) nei panni di Zhou Yu, per l'amico Zhuge Liang interpretato da un soave Takeshi Kaneshiro (anche lui in Hong Kong Express, e con Wong Kar Wai anche in Fallen Angels), e, infine, un fremito lungo la schiena mi corre ancora, solo a scrivere il suo nome, la splendida Chiling Lin, al debutto, nei panni di Xiao Qiao, la moglie di Zhou Yu: la scena del bendaggio al marito è una delle cose più sensuali viste negli ultimi tempi.
"Una colossale truffa allo Stato" ...Il filone principale dell'indagine riguarda alti funzionari ed amministratori delle società Telecom Italia Sparkle e Fastweb accusati, con riferimento a un arco temporale che va dal 2003 al 2006, di falsa fatturazione di servizi telefonici e telematici inesistenti, venduti nell'ambito di due successive operazioni commerciali dalle compagini italiane Cmc e Web Wizzard srl nonchè da I-Globe e Planetarium, che evadevano il pagamento dell'Iva per un ammontare complessivo di circa 400 milioni di euro, trasferendoli poi fraudolentemente all'estero, dove i soldi venivano reinvestiti in beni come appartamenti, gioielli e automobili... ==================================== Solo un paio di pensieri prima di andare a dormire. C'è gente che va in paranoia perchè ha paura di dimenticarsi di pagare il bollo dell'auto, o del motorino. C'è gente che paga le tasse. C'è perfino gente che affitta le case non al nero. C'è gente che con 1400 euro manda avanti una famiglia con due figli. C'è gente che per comprarsi una casa di proprietà ha fatto quattro lavori contemporaneamente.
E non ha mai, neppure per un momento, pensato di evadere il pagamento dell'Iva. Mai.
Ecco. Allora, siccome io sono contro la pena di morte, ma se dovessi scegliere la darei più volentieri a quelli che evadono l'Iva per 400 milioni di euro, che a un assassino, non voglio la pena di morte neppure per chi ha frodato il fisco derubando me e il Paese nello stesso momento. No.
Come ebbi a dire per i politici coinvolti in Mani Pulite, io non li voglio neppure in carcere. Io voglio che queste persone siano condannate a vivere. Finchè non moriranno di vecchiaia.
Si, però con 1000 euro al mese. Senza neppure lavorare. Devono solo vivere, mandare avanti la famiglia, andare al supermercato, al distributore a fare rifornimento, pagare le bollette (soprattutto quella del telefono, sia chiaro).
Una storia d'amore come tante- di Lucía Etxebarría
Chi ha seguito la Etxebarría, o ne ha letto diversi libri, converrà probabilmente con me che le forti e crude emozioni che riusciva a dare con i primi libri ("Amore, prozac e altre curiosità", "Beatriz e i corpi celesti"), descrivendoci storie di donne moderne, attuali, incazzate e spesso solidali tra di loro, ci sono ancora, si trovano nelle sue pagine dei libri seguenti, ma hanno lasciato il posto ad una specie di "letteratura di denuncia" a proposito della condizione della donna nella società di oggi, nelle sue molteplici sfaccettature. Anche in questo caso, la spagnola ci parla di donne con dei racconti scorrevoli e grintosi, che romanzano delle storie vere, diversissime tra loro, adeguando il linguaggio ai personaggi e agli ambienti, e facendoci immedesimare tranquillamente nelle protagoniste.
Ci si diverte e si riflette, e si raggiunge il climax con l'ultimo racconto, "Esule", dove scopriamo un pezzo di storia del popolo Saharawi, e ci commuoviamo di fronte al coraggio e alla dignità della protagonista, che ridicolizza tutte le altre, in fondo. Lucía Etxebarría si conferma una realtà letteraria.
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Nota necessaria: recensione dell'ottobre 2004. Purtroppo, la nostra Lucía sta peggiorando, leggere qui.
In tutta europa la coltivazione dei campi è affidata a lavoratori stagionali stranieri che vivono in condizioni di grave precarietà. Parla l’antropologo francese Alain Morice.
In Italia il razzismo è un’utile leva per lo sfruttamento dei migranti stagionali. Ne è convinto Alain Morice, antropologo e ricercatore del Centro nazionale della ricerca scientifica di Parigi. Secondo Morice, dietro le violenze contro gli immigrati nel sud d’Italia si nasconde la mafia.
L’impiego di manodopera stagionale straniera è un fenomeno radicato in Europa? Sì, soprattutto nei paesi che hanno una lunga storia d’immigrazione come la Francia. Nel nord i belgi erano reclutati per la raccolta delle barbabietole, mentre al sud gli italiani era impiegati nell’orticoltura e gli spagnoli nella vendemmia. Il fenomeno ha subìto un’accelerazione negli anni settanta con l’industrializzazione dell’agricoltura, che ha fatto aumentare la richiesta di manodopera. Negli anni ottanta lo stesso fenomeno ha interessato anche Spagna e Italia, ex paesi d’emigrazione, che a loro volta hanno puntato sulla coltivazione intensiva di frutta e verdura. Sono tutte varianti del “modello californiano”, che si è imposto circa un secolo fa negli Stati Uniti. Questo modello punta sullo sfruttamento degli immigrati, che sono una manodopera più economica e facilmente ricattabile. A questi lavoratori, provenienti soprattutto dai paesi poveri, si possono requisire i documenti o impedirne il rinnovo. Inoltre i braccianti si prestano a essere sfruttati perché il loro obiettivo è guadagnare più soldi nel minor tempo possibile. L’idea è impedirgli di stabilirsi in modo permanente sul territorio perché, come sostengono molti datori di lavoro, quando ottengono la residenza gli immigrati diventano degli “scansafatiche” e pensano solo a ottenere i sussidi sociali. In questo caso, il razzismo è utile allo sfruttamento dei migranti stagionali. Quali sono i modelli di reclutamento e le condizioni di lavoro nei diversi paesi? I modelli di reclutamento sono molto vari, ma accomunati da due caratteristiche: la flessibilità e la precarietà. In Francia, dopo che spagnoli e portoghesi sono entrati nell’Unione europea, gli stagionali sono soprattutto marocchini e, in misura minore, tunisini. nel 1963 i due paesi hanno firmato degli accordi bilaterali con la Francia, creando i cosiddetti contratti Omi (dal nome dell’ufficio delle migrazioni internazionali) della durata standard di sei mesi, ma estensibile fino a otto. Prima dell’ingresso nell’Ue, ne hanno beneficiato anche molti polacchi, impiegati soprattutto nelle vigne. Questi contratti, concessi in maniera limitata dalle autorità, sono utili sia ai datori di lavori sia agli stagionali. Nel sud della Spagna all’inizio i lavoratori stagionali erano soprattutto marocchini, spesso senza permesso di soggiorno. Quando hanno cominciato a chiedere che fossero rispettati i loro diritti, c’è stato un tentativo di diversificazione. Sono stati fatti arrivare lavoratori dall’America Latina, in particolare dall’Ecuador, considerati più vicini per religione e lingua. Oggi sono presenti anche dei lavoratori dell’est europeo. Nel sud d’Italia l’impiego degli stagionali è gestito in modo informale. Il settore è spesso controllato dalle mafie locali (per esempio, la ’ndrangheta in Calabria) che hanno praticamente carta bianca e garantiscono l’impunità ai datori di lavoro. Attirati da false promesse o privi di documenti regolari, gli africani e i cittadini dei paesi dell’est sono sfruttati e vivono reclusi sotto la sorveglianza dei “caporali”. L’ultima rivolta in Calabria testimonia la gravità della situazione, peraltro ben nota dopo un’inchiesta del 2006 del giornalista Fabrizio Gatti. Come in Grecia, si tratta soprattutto di lavoro nero e gli stagionali non sono ben visti dalla popolazione locale. Ci sono state in passato esplosioni di violenza simili a quella avvenuta in Calabria? Nel 2000 ad Almeria, in Andalusia, dopo l’uccisione di una donna spagnola da parte di un marocchino, gli abitanti hanno scatenato una caccia all’uomo contro gli immigrati, in gran parte clandestini. In città avevano stanze in affitto, negozi e phone center. La violenza razzista è esplosa anche perché gli abitanti hanno cominciato a temere che gli stranieri volessero stabilirsi deinitivamente in città. Quello che è successo in Italia è diverso. Gli immigrati dovevano fermarsi solo alcuni mesi e vivevano in condizioni terribili. Non è ancora ben chiaro, ma sembra che le violenze razziste siano scoppiate al momento opportuno: i braccianti sono stati allontanati quando non c’era più bisogno di loro e il prezzo degli agrumi era così basso che non valeva la pena fare la raccolta. Non si può neanche escludere che dietro le violenze ci sia la ’ndrangheta. =============================== Da Internazionale 829
Con questo post e questa foto voglio ringraziare i primi che mi hanno festeggiato, ieri, con ben tre giorni di anticipo. A Piazza XX e alla Tatu, che abitano nel quartiere della Venezia a Livorno, dedico anche questo breve scritto, che si trova pure alla voce della città su Wikipedia (lo dico chiaro, altrimenti qualcuno potrebbe pensare che io sia un acculturato):
"Se fossi un livornese, di quelli veri che dicono "deh" e parlano a mano aperta, muovendo le dita, come per far vedere che nelle loro parole non c'è imbroglio, vorrei star di casa in qualche Scalo della Venezia. Non già nei quartieri, nelle piazze, nelle strade disegnate con la matita dolce, con l'aiuto di squadra e di compasso, dagli ordinati e generosi architetti dei Granduchi, ma in questo quartiere che i livornesi chiamano La Venezia, qui nel cuore della città vecchia, a due passi dalle Carceri, dal Monte Pio, dai Bottini dell'Olio. Che bella vita sarebbe, che vita semplice e felice." (Curzio Malaparte, Maledetti Toscani)
Ha ancora senso suonare hardcore-punk nel 2010? Secondo il sestetto di Toronto, si. Non ne avevo colpevolmente mai sentito parlare, o forse me ne ero dimenticato. Succede. Couple Tracks è una sorta di raccolta di pezzi dal 2002 al 2009. Brutti, sporchi e cattivi, anarchici di sinistra, antifascisti fino al midollo, suoni che vanno dai Raw Power ai Black Flag, dai Cro-Mags ai Motorhead, questi sono i Fucked Up.
Si apre con No Pasaran, e fino alla conclusiva David Comes To Life (cd doppio, 25 pezzi) non c'è un attimo di tregua.
Secondo il ministro dell’interno italiano Roberto Maroni, la situazione è chiara: a preparare il terreno della rivolta di Rosarno sono stati gli anni di “lassismo” nella gestione dell’immigrazione illegale. Affermazioni del genere servono solo a nascondere il fatto che nei campi della Calabria ci sono migliaia di africani – molti con un regolare permesso di soggiorno – costretti a vivere in condizioni di semischiavitù, a lavorare in cambio di salari da fame e a subire le aggressioni razziste dei giovani del luogo. L’italia potrà anche peccare di lassismo, ma lo fa soprattutto con chi desidera avere a disposizione una manodopera a costo zero, formata da immigrati disposti a lasciarsi sfruttare. A un certo punto gli africani di Rosarno non sono più stati al gioco. Come ha fatto notare lo scrittore Roberto Saviano, negli ultimi anni solo gli africani hanno avuto il coraggio di ribellarsi apertamente nelle roccaforti mafiose in Campania e in Calabria. Nel 2008 a Castel Volturno la loro comunità ha reagito con forza all’uccisione di sei africani da parte della camorra. Ora fa lo stesso a Rosarno, un baluardo della ’ndrangheta. La protesta, per quanto giustificata, ha innescato violenze incontrollate e, in fin dei conti, inutili. Gli abitanti di Rosarno invece hanno scatenato un vero e proprio pogrom, mirato ed efficace, contro gli africani. E la polizia? Gli agenti hanno fatto da scudo agli immigrati, evitando che gli scontri finissero nel sangue. Poi, però, hanno organizzato il loro trasferimento. È vero: a Rosarno è stata tutta colpa del lassismo. Non nei confronti degli immigrati, ma delle ronde improvvisate. ======================= Da Internazionale 829
Rwanda 1995, Paul Rusesabagina è direttore del lussuoso albergo (di proprietè della ormai defunta compagnia aerea Sabena) des Milles Collines a Kigali. Fa bene il suo lavoro, è mellifluo quanto basta, sa ungere gli ingranaggi giusti anche in un paese che sta andando allo sfascio. Fondamentalmente ottimista, forse perchè si sente un po’ "occidentale". Lo scontro etnico Hutu/Tutsi sfocia in una sanguinosa guerra civile a colpi di machete, e lui sempre più incredulo prima pensa solo alla sua famiglia, poi improvvisamente si rende conto che deve fare qualcosa. Salverà oltre 1200 persone, mentendo, rischiando in prima persona, usando i sotterfugi che prima usava per far scorrere il suo lavoro liscio come l’olio.
Ci sono storie che vanno raccontate; spesso diventano film che vanno solo guardati, senza criticarli. O meglio, delle critiche se ne può parlare, ma la valenza immane di questa storia, sia per lo "sfondo" che offre, sia per il messaggio che se ne ricava, non perde di importanza se la pellicola ha qualche (lievissimo) difetto. Per chi non lo sapesse, questa è una storia realmente accaduta, Rusesabagina esiste ed è chiamato "lo Schindler africano" (anche se lui rifiuta la definizione, le similitudini ci sono, evidenti); ha dichiarato inoltre che il 90% della storia è vera, quindi la sceneggiatura è davvero poco romanzata. In effetti, non c’è romanticismo (se si eccettuano le birre sul tetto dell’hotel tra Paul e la moglie Tatiana, mentre il panorama offre le traiettorie dei traccianti), anche se, per contro, le violenze del genocidio ci sono ampiamente risparmiate; ma è una scelta da condividere in pieno col regista, che riesce a renderci testimoni quando, a bocce ferme, ognuno di noi ha la sua colpa in quel caso. Un milione di morti. Pensateci. Provate ad immaginarli. Un cadavere accanto all’altro, come nella scena della strada lungo il fiume, oppure uno sopra all’altro. Quanti sono? Troppi. Insopportabilmente troppi. E’ la domanda che vi farete sulla poltroncina mentre scorrono i titoli di coda. Sophie Okonedo (Tatiana) intensa, ma soprattutto Don Cheadle davvero convincente. Ricco anche il cast di "corredo" (Nick Nolte, il colonnello ONU che pronuncia sentenze pesanti, così come Joaquin Phoenix, cameraman con – solo accennati – sensi di colpa; Jean Reno capo della Sabena). Necessario.
Gli immigrati vengono definiti angeli finché sono pronti a sacrificarsi ma diventano demoni quando chiedono più diritti. L’opinione di un quotidiano burkinabé
Il 7 gennaio 2010 l’Italia è stata scossa dalle violenze contro gli immigrati a Rosarno. Due giorni di scontri sono terminati con il trasferimento di centinaia di persone nei centri d’accoglienza del sud d’Italia. La decisione è stata presa per metterli al riparo dalla rabbia degli abitanti. Gli africani non sono più i benvenuti negli agrumeti di Rosarno, che ogni anno danno lavoro a circa quattromila immigrati. I giornali occidentali riferiscono che qualcuno ha sparato agli immigrati come fossero dei conigli. La reazione non è stata, perciò, un atto di rivolta, ma di legittima difesa. La popolazione di Rosarno ha organizzato una specie di caccia all’uomo per allontanare i lavoratori stagionali, che vivevano in baracche ed erano pagati pochissimo. La maggior parte degli immigrati africani in Italia lavora in nero nell’agricoltura e nell’edilizia. Cos’hanno fatto le autorità italiane per prevenire questi disordini così facilmente prevedibili? Nulla, a giudicare dalle reazioni del ministro dell’interno italiano, che vorrebbe sfruttare questi incidenti per inasprire le leggi sull’immigrazione. Finora c’è stata “troppa tolleranza”, ha commentato, parole che non fanno presagire nulla di buono. Non è escluso che la caccia agli immigrati si diffonda anche nel resto d’Italia, dove la manodopera utile e a buon mercato è altrettanto indispensabile. Un dibattito per intellettuali Viste dall’Africa, le immagini di Rosarno dovrebbero spingere chi vuole emigrare a riflettere bene sul prezzo da pagare per un soggiorno clandestino in Europa. Il dibattito sulla regolamentazione dei lussi migratori è di grande attualità sia in Europa sia in Africa, ma coinvolge solo le classi più istruite. Il problema è che gli analfabeti, quando arrivano in Europa, sono destinati a subire abusi e sfruttamento. Angeli all’inizio, perché disposti a sacrificarsi, possono diventare da un giorno all’altro dei demoni, senza documenti e quindi vulnerabili. Di chi è la colpa? Innanzitutto dei governi africani e delle loro politiche fallimentari. Ma anche dei paesi europei che dovrebbero avere più rispetto per la dignità umana. ============================== Da Internazionale 829
Inghilterra, seconda metà del 1800. Lawrence Talbot è un attore di teatro piuttosto affermato, che lavora soprattutto negli Stati Uniti. Ha un passato poco felice: la madre è morta quando lui e il fratello erano ancora piccoli (tra l'altro, lui l'ha vista sgozzata, apparentemente suicida), ed ha trascorso alcuni anni in manicomio. Gwen, la fidanzata del fratello, gli scrive per comunicargli che il suo familiare è scomparso da tempo, e non se ne riescono a trovare tracce. Lawrence decide di tornare al paese di origine, Blackmore, e di incontrare di nuovo il padre, Sir John, con il quale non sembra aver mai avuto un buon rapporto. Proprio quando arriva a Blackmore, il corpo del fratello viene ritrovato in un fosso, orrendamente mutilato. Sembra opera di una belva feroce, e non è la prima vittima. Gwen gli chiede di scoprire che cosa è accaduto, e Lawrence le dà la sua parola.
Gli studios di Hollywood devono essere davvero a corto di idee, se è passato questo progetto, tra l'altro voluto fortemente dallo stesso protagonista Benicio Del Toro, che ultimamente sta evidentemente soffrendo di una incalzante megalomania. Wolfman è il remake, pare piuttosto fedele (così dicono gli esperti, quelli che sembrano aver visto l'originale, ma a leggerne la trama pare proprio di no: facciamo che appena lo trovo me lo guardo, così poi vi aggiorno), de L'uomo lupo, di George Waggner del 1941, film che si posizionava in un filone che allora andava molto, il cosiddetto monster movie. Ora, detto delle allucinanti recensioni positive che si leggono in giro, la maggioranza, che fanno venire fortissimi sospetti di concussione con la distribuzione e la casa cinematografica, la prima domanda che mi martellava uscendo dal cinema era: perchè? Perchè ora? E poi: che senso ha? Non è dato sapere.
Andiamo "al grano": il film fa cagare, più o meno. Un "cast stellare", come lo definiscono molte delle recensioni citate prima, quelle entusiastiche, non basta. La storia è esile (infatti, l'originale durava 70 minuti, questo ne dura oltre 100) e il regista è reduce di film essenziali quali Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi, Jumanji e Jurassic Park III. Non solo: il regista originariamente doveva essere Mark Romanek, che abbandonò prima di cominciare a girare; sono poi stati fatti diversi nomi, fino a quello, poi confermato, di Johnston. La sceneggiatura è stata rimaneggiata più volte.
Per cui, hai voglia a sperticarti su (come detto prima) cast stellare, effetti speciali bellissimi, il trucco del famosissimo Rick Baker (Un lupo mannaro americano a Londra, Videodrome, Ed Wood, Hellboy), coadiuvato però da un bel po' di computer graphic, la fotografia fumosa, cupa e spettrale, le scenografie decadenti: il film non regge, e denota buchi, ma soprattutto, non "acchiappa" per niente.
Qualche scossone per la scene più truculente e improvvise, un dignitoso Hugo Weaving (il detective Aberline), per il resto fa tristezza vedere Del Toro (Lawrence Talbot) e Hopkins (Sir John) in un film così debole. Per quanto riguarda Emily Blunt (Gwen), sarò clemente e non la giudicherò per questo film e per la sua parte: viste le sue cose del recente passato, non male ma niente di trascendentale, aspetto di vedermi almeno The Young Victoria, magari è migliore, ed essendone la protagonista potrebbe aver dimostrato di che pasta è fatta.
Come è potuto accadere, non lo so. In questa epoca di condivisone della conoscenza, un artista che nel 2009 ha all'attivo quattro album (più due con la sua prima band), non lo avevo mai sentito nominare. Finché un bel giorno, l'amico Maurino si presenta con il videoclip di Rocket Man, si, proprio l'inflazionatissima cover di Elton John. E la curiosità si insinua.
Adesso, a conti fatti e a dischi ascoltati, oltre al precedente Dreams In Colour nella versione estesa denominata Tour Edition, questo suo ultimo è uno dei lavori che ascolto più volentieri senza stancarmi. Con gli amichetti ci siamo sbizzarriti nelle somiglianze della voce di questo 37enne di Leiria, in Portogallo, voce profonda e calda: Roy Orbison, David Byrne, Bruce Springsteen in Nebraska, ed altre chicche più o meno tutte vere. Però, il risultato è che Fonseca, ex fotografo di moda, diplomato in cinema, anche speaker radiofonico, è proprio un bell'ascolto.
Canzoni pop senza essere scontate, bel songwriting, suoni che pescano dappertutto, dai carillon alla musica caraibica, dall'elettronica alla new wave, dallo stesso Elton John allo stesso Springsteen, con una discreta personalità e un bel piglio allegro senza essere superficiale.
U Know Who I Am da fischiettare sotto la doccia, A Cry 4 Love da strimpellare all'innamorata, It's Just A Dream II ariosa e marziale, e tutta una serie di pezzi che, come ho detto, non stancano mai.
Steven Johnson, un liberiano di 26 anni, è arrivato in europa nel luglio del 2008. Oggi racconta che stava meglio in Africa: “Qui soffro troppo. È insopportabile. Me ne sono andato dal mio paese nel 1994, quando ero ancora un bambino. C’era la guerra e avevo deciso di andare in Nigeria. Ci sono rimasto due anni e poi me ne sono andato in Libia, dove ho vissuto altri dieci anni. Sono cristiano e avevo sentito dire che gli italiani accoglievano i rifugiati politici. Ecco perché sono venuto qui, per salvarmi. Sono arrivato su un barcone a Lampedusa e mi hanno tenuto per sei mesi in un centro di accoglienza a Crotone, in Calabria. Ora so che nessuno mi protegge. Vivo come una pecora: dormo dove posso e mangio quello che posso. Sono arrivato a Rosarno in cerca di lavoro cinque giorni fa, ma i ragazzi del paese mi hanno aggredito e picchiato. Ora dobbiamo andarcene, ma io non ho nessuno, non ho soldi. Ora so che l’Italia è un paese razzista e non voglio più restare qui. Ma non so dov’è la mia famiglia”. Johnson è uno dei duemila braccianti che vivevano in condizioni di degrado assoluto in un oleificio abbandonato. Ha lavorato solo un giorno. Ha guadagnato 25 euro dopo aver lavorato dall’alba al tramonto. “Mi fa male dappertutto. Ho paura. Se non mi uccidono prima, credo che tornerò in Africa. È da molto che ho lasciato il mio paese, ma non credo che le cose vadano male come qui”. El País/Internazionale nr.829
Tickets – di Ermanno Olmi, Abbas Kiarostami e Ken Loach 2005
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: ganzetto
Un anziano professore, causa sospensione dei voli aerei, torna verso il Nord Italia in treno da una consulenza in Europa centrale, ripensando alla giovane segretaria e tentando di scriverle una lettera; intorno a lui, militari impegnati in severi controlli e famiglie di immigrati in viaggio verso la speranza di una vita migliore.
Un’anziana e prepotente vedova di un Generale dell’Esercito Italiano, angustia l’obiettore di coscienza che le fa da accompagnatore, un giovane educato che durante il loro viaggio in treno in Centro Italia familiarizza con due ragazzine che lo conoscono ma delle quali lui non si ricorda.
Tre tifosi scozzesi del Celtic Glasgow viaggiano verso Roma in treno (causa paura di volare di uno di loro) per la partita di Champion’s League; fanno amicizia con un giovane albanese, che però gli ruba uno dei biglietti ferroviari per disperazione (se ne accorgeranno poi). Il controllore, che trova uno di loro sprovvisto di biglietto, minaccia di consegnare i tre scozzesi alla polizia al loro arrivo a Roma Termini.
Viene in mente subito, per vicinanza temporale, Eros di Antonioni, Soderbergh e Wong Kar Wai (purtroppo anche nella piacevolezza delle storie; la parte di Olmi è senz’altro la peggiore, così come, in Eros quella di Antonioni), ma qui il progetto è ancora più interessante; il film è concepito come una storia unica, che si dipana lungo un tratto ferroviario, e anche se i soggetti cambiano, il filo conduttore, alla fine, risulta essere la famigliola albanese (il piccolo con la maglia di Beckham ha un sorriso che spacca), che da ‘’sfondo’’ diventa man mano protagonista. E’ inoltre interessante questo progetto, a prescindere dal piacere della visione che, come detto, aumenta man mano che si va avanti col film (l’episodio di Loach, conclusivo, è scoppiettante), per vedere quanto cambia l’approccio, lo stile, la filosofia, di tre registi comunque importanti, davanti allo stesso soggetto. L’inizio di Olmi è cupo, malinconico, con poco ritmo, e, sinceramente, ti lascia poco; la parte centrale di Kiarostami è interessante, si cala molto bene nella realtà italiana, e inserisce nel racconto un sacco di storie marginali. Il finale di Loach è, come già affermato, scoppiettante; si ride di gusto, ma ci si commuove perfino. Sintomatico il fatto che, in un tempo limitato, 35 minuti ciascuno circa, solo Loach riesce a dipanare una vera storia, a dargli un senso compiuto, in maniera molto più completa degli altri due. Per amanti del cinema.
cambio il pannolino a mio figlio mettendo in sottofondo la musica di paolo nutini. piace tantissimo a me e anche a lui, che si guarda in giro beato mentre io ballo massaggiandogli le gambe.
Da anni i braccianti stagionali arrivano a Rosarno per guadagnarsi da vivere con i lavori più duri. Ma hanno dovuto subire l’ostilità della popolazione locale e la prepotenza della criminalità.
Centinaia di immigrati hanno abbandonato Rosarno a bordo di pullman messi a disposizione dalla protezione civile dopo quarantott’ore di rivolte e scontri. Terrorizzati, senza sapere dove andare, i braccianti che lavorano nei campi di mandarini raccontano di non poter sopportare più il razzismo e la sofferenza. “Non ci lasciano lavorare. Ma c’è di più: ci aggrediscono e ci vogliono uccidere”, dice Steven Johnson, un liberiano di 26 anni, mentre aspetta di salire su uno degli autobus. Gli immigrati che lavorano in questa zona della Calabria dominata dalla ’ndrangheta abitavano in un vecchio oleiicio abbandonato, dove avevano sistemato delle tende una accanto all’altra. Senza acqua, senza luce né bagni. Alcuni di loro dormivano in cisterne aperte, buie e strette, praticamente senz’aria. I braccianti stagionali sopportavano queste condizioni di vita in cambio di 25 euro al giorno o di un euro per ogni cassa di mandarini. L’8 gennaio, nonostante la presenza di polizia e carabinieri, gli abitanti di Rosarno hanno continuato ad attaccare gli immigrati, che si erano nascosti nei campi. Dieci di loro sono riusciti a fuggire da una casa a cui un gruppo di persone aveva appiccato il fuoco, ha affermato Laura Boldrini, portavoce dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) in Italia. Don Carmelo Ascone, parroco di Rosarno da venticinque anni, sostiene che la gente del paese non è razzista, “a parte qualche ragazzo cretino e ignorante. È una guerra tra poveri, perché qui non c’è lo stato. Qui comanda la ’ndrangheta”. A cento metri dall’oleificio una sessantina di abitanti vigila con attenzione. “Li abbiamo sfamati e loro ci ripagano distruggendo il paese. Che se ne tornino a casa loro questi neri”, dice Gino Barreca, un dipendente comunale. I suoi compagni sono armati di bastoni. Lì vicino, in mezzo alla strada che porta al frantoio, due furgoni dei carabinieri impediscono l’accesso agli abitanti. Più in là c’è l’inferno. L’altro inferno, quello al centro del paese, è stato fatto sgomberare la notte dell’8 gennaio dopo una giornata di violenze che si è chiusa con un bilancio di quaranta feriti, di cui tre gravi. In appena quarantott’ore la bellezza dei campi della Calabria si è trasformata nello scenario di una battuta di caccia. “Ora la convivenza è impossibile”, dice il sacerdote don Memè, “ma questi poveri disperati torneranno. Hanno fame e non sanno dove andare”. “Abbiamo più paura che fame”, racconta Petit Dennice, a capo di un gruppo di braccianti che raccoglieva mandarini. “Rosarno è la mafia”, aggiunge. “Io me ne vado a Napoli”. Ma a Napoli c’è la camorra. “Sì, ma quella è una mafia buona”, risponde. “Non siamo venuti qui in cerca di guai. Siamo venuti per mangiare”. La portavoce dell’Acnur ha visitato i feriti in ospedale. Racconta che ci sono tre immigrati ricoverati, e uno di loro è la vittima che ha fatto esplodere la rabbia degli altri braccianti. “Stava uscendo dal supermercato quando alcuni ragazzi del paese gli hanno sparato al basso ventre con una pistola ad aria compressa. Ha l’inguine pieno di lividi. Agli altri due hanno sparato sulle gambe. Ci sono ancora molti braccianti nascosti nei campi. Non vogliono andarsene, perché non sono riusciti ancora a riscuotere la loro paga. Hanno tutti paura, ma hanno anche bisogno di quei soldi”. Alcuni immigrati, che per tutto l’anno si spostano dal nord al sud dell’Italia in cerca di lavoro nei campi, hanno abbandonato il paese con i loro mezzi, in macchina o in treno. L’esodo dei disperati ha il sapore della sconfitta. Con la paura negli occhi, quattro ragazzi di appena vent’anni sono seduti alla stazione ferroviaria di Rosarno. Aspettano il treno scortati da alcuni poliziotti, ma nessuno può garantirgli che da oggi avranno una vita sicura in un altro posto. Al bar della stazione il cameriere dice a una rom: “L’Italia agli italiani, e a chi non gli sta bene, se ne torni a casa sua”. ============================ Da Internazionale nr.829
Giudizio vernacolare: ti stiaffa davanti alla reartà
Christine è una giovane donna che ha la sclerosi a placche, ed è costretta sulla sedia a rotelle. Pur non essendo una persona con una grande fede, decide di recarsi a Lourdes, ovviamente con un viaggio organizzato, senza grandi speranze, ma piena di curiosità come sempre.
Sembra una presa in giro, ma Christine è una ragazza piena di vita, intelligente, non bella ma interessante.
Durante il "soggiorno", meglio, il pellegrinaggio, è l'infermiera Maria che si occupa di lei, supervisionata da Cécile. Le due sono l'opposto: la prima giovane e "svolazzante", impegnata a flirtare con i cavalieri dell'ordine di Malta, la seconda concentrata sul lavoro, severa, fredda e fin troppo seria.
Christine si guarda attentamente intorno, osserva le altre persone, soprattutto quelle piene di fede e di speranza: la speranza di un miracolo, per se stessi o per i propri cari. E tutto con occhi curiosi, ma quasi distaccati. Ed ecco che, quasi come per gioco, comincia ad imitarli, a fare tutto quello che "si deve fare" per ricevere una grazia.
E, infatti...
Vincitore di alcuni premi collaterali a Venezia lo scorso anno, e di un altro paio di Festival europei, il terzo film dell'austriaca Jessica Hausner si occupa non tanto di fede, tanto di quello che c'è intorno, a conti fatti senza dare giudizi netti e senza prendere posizione, seppure si dichiari atea. Lourdes è un film talmente freddo, controllato e attento a "come si muove", al punto che ha messo in confusione perfino i cattolici "ortodossi" (questo è solo un piccolo esempio) e particolarmente ottusi. Ovvio che dovesse essere attento, principalmente per poter avere i permessi per girare nei luoghi considerati sacri dalla Chiesa; ma è evidente che la scelta dell'asetticità è voluta dalla regista al di là di questo.
Con le sue riprese a camera fissa, fin dalla scena d'apertura, mette immediatamente in chiaro da quali parti ci troviamo, e a quale tipo di film assisteremo; la quasi completa assenza di musica, la direzione degli attori rigorosa, i movimenti attenti e, ancora una volta, controllati, la sceneggiatura snella, essenziale, ma calibrata quanto basta, fanno si che si aprano una sterminata serie di interrogativi, e non solo quelli suggeriti dai personaggi dello stesso film.
Gli estremi che la regista presenta sono assolutamente rispondenti a uno spaccato umano reale. La frivolezza superficiale di Maria in contrapposizione alla voglia di vivere repressa di Christine; le reazioni di tutti quanti di fronte alla guarigione; le barzellette sulla Madonna. Ultimo ma non meno importante, la mercificazione della fede, il supermercato della religione, la sovversione letterale del primo comandamento (...non ti farai idolo né immagine...non ti prostrerai davanti a quelle cose...).
Regia quindi scrupolosa, rigida perchè funzionale a ciò che vuole descrivere, recitazioni altrettanto diligenti (risalta, ovviamente, la protagonista impersonata da Sylvie Testud, che avevamo visto nella bella parte di Momone ne La vie en rose, ma anche la algida interpretazione di Cécile da parte di Elina Lowensohn, la caratterista rumena dalla filmografia sterminata, musa di Hal Hartley - con lui in Amateur, Uomini semplici, Flirt, Fay Grim - ), fotografia misurata, per un film di certo non facile da vedere ma che, con rigore, ci invita a riflettere e soprattutto a prendere le cose con equilibrio e razionalità.
Tutte, a costo di sembrare paradossale, anche la fede.
E' morta il primo gennaio 2010, a 37 anni, nella sua casa di Montreal, dopo quasi due anni di combattimenti contro il cancro al seno. Lhasa de Sela, padre messicano e madre statunitense, infanzia passata in un autobus dove la madre faceva scuola a lei e alle tre sorelle, lascia tre dischi molto, molto interessanti, di musica che potremmo definire genericamente etnica.
Un ricordo a lei dedicato da The Guardian nella traduzione di Internazionale (a tale proposito, in effetti, anch'io l'ho conosciuta grazie al passaparola, su suggerimento di un'amica argentina).
Lhasa de Sela, 1972-2010
La cantautrice è morta per un tumore a 37 anni. La sua è stata una carriera nel segno dell’originalità
Lhasa de Sela è stata una grande artista. Tra il 1998 e il 2009 ha pubblicato tre album straordinari. Il 1 gennaio è morta per un tumore al seno dopo 21 mesi di malattia. Più che grazie alle apparizioni sui mezzi di comunicazione, la cantautrice messicostatunitense si era conquistata il suo enorme successo grazie al passaparola. Ma aveva anche vinto molti premi illustri, come il Félix award nel 1997, il Juno award nel 1998 e il Bbc world music award nel 2005. Il seme della sua scrittura così originale è nel background culturale e nello stile di vita avventuroso della sua famiglia: nata nello stato di New York da padre messicano e madre statunitense, Lhasa è cresciuta, insieme alle sue sorelle, in uno scuolabus continuamente in viaggio tra il Messico e gli Stati Uniti. Lhasa è stata educata in casa. I suoi genitori le hanno insegnato a seguire il suo cuore e a essere sempre originale. Uno stile di vita che si ritrova nei testi e nelle musiche dello spagnoleggiante La llorona (1997), nel francospagnolo The living road (2003) e nell’inglese Lhasa. Anche se attingeva da stili conosciuti (dalla musica ranchera messicana alla canzone francese, dai ritmi arabi e a quelli tipici degli Stati Uniti), Lhasa de Sela ha creato senza dubbio qualcosa di unico. Jan Fairley, The Guardian
Mentre i politici italiani innalzano dei muri a sud, cercando di conservare a tutti i costi la struttura demografica del presente, il futuro scappa da nord, oltre le macerie dei vecchi muri. Giovanni Cellie, 22 anni, è nato a Milano e suona il pianoforte da quando aveva tre anni. A quindici anni ha cominciato anche a studiare chitarra moderna, armonia e solfeggio all’accademia Nam di Milano. Oggi è un compositore e un produttore musicale. All’inizio del 2009 anche lui si è trasferito a Berlino. “La musica è sempre stata una passione e una materia di studio per me. Ma a Milano, se ti chiedono cosa fai nella vita e rispondi ‘faccio musica’, ribattono: ‘No, intendo che lavoro fai’. La domanda successiva è: ‘Ma ci paghi l’affitto?’. Se entri in un ristorante qualsiasi a mangiare, la cameriera può essere una violinista diplomata. In Italia vivere dignitosamente da musicista non è considerata un’aspirazione seria”. Giovanni ha capito quasi subito che le case discografiche impongono ai musicisti degli standard da seguire se vogliono vendere. Chi non si adatta è fuori. Un giorno un suo collega, che si era trasferito poco prima, gli ha parlato di Berlino. Giovanni ha deciso in pochi giorni di partire. “Non sapevo praticamente nulla di Berlino, di com’era la vita, l’ambiente, la musica, ma restare in Italia non aveva senso”. Aveva in tasca 300 euro e un contatto per un posto dove dormire. “L’arrivo è stato tragico”, racconta. “Quando sono arrivato in aeroporto ho perso la borsa con il computer, i miei lavori e tutti i dati, così non ho potuto contattare nessuno e la prima notte ho dormito sotto un ponte. Faceva un freddo cane”. Nel giro di due mesi, però, Giovanni si è procurato una stanza-studio, con l’attrezzatura di cui aveva bisogno per fare il suo lavoro e non ha mai dovuto cercare un’altra occupazione. “Una delle cose che ti colpisce subito a Berlino sono tutti quegli artisti che sembrano felici di aver finalmente trovato altre persone che li capiscono”. Giovanni pensa all’Italia con dispiacere. “Quando vivi all’estero si accentua lo spirito d’identità con il tuo paese d’origine. Ma poi quando lo osservi da lontano stenti a riconoscerlo”.
Mario Bettini è di Cremona, geometra, studente fuori corso di architettura, lavoricchia al nero per uno studio di progettazione, non ha molto successo con le donne, e con gli amici progetta di aprire un locale. Vive con la madre, il padre è morto alcuni anni prima, conduce un esistenza tutto sommato tranquilla, si gode la vita come può, ed è ottimista senza un perchè. All’improvviso viene assunto come geometra in Comune, a distanza di quattro anni dal concorso. Il lavoro gli piace, finchè non diventa antipatico a una persona importante, che gli metterà i bastoni tra le ruote. Nel frattempo Mario si innamora di una ragazza bellissima, laureanda in letteratura, che per mantenersi fa la cubista; per la laurea però, dovrà andare per circa un anno negli Stati Uniti. Quindi, dopo un periodo nel quale le cose vanno tutte bene, cominciano ad andare tutte male.
D’Alatri, autore anche di buoni film, è piuttosto ambizioso, ma stavolta, un po’ come per il precedente Casomai, gli manca la zampata vincente, e speriamo non dipenda dall'ex simpatico Fabio Volo, protagonista assoluto anche questa volta. Anzi, oserei dire che stavolta va peggio. Il film sembra una classica commedia all’italiana alla Sordi, senza Sordi ovviamente, e sinceramente nel 2005 ci saremmo aspettati qualcosa di diverso, per non dire di più. Il film, anche se cerca strade diverse con molti inserti onirici, risulta zeppo di stereotipi, seppur abbastanza divertenti, e non convince quando tenta di farci la morale o di indicarci la strada da percorrere per rimanere orgogliosi di essere italiani. Anche perchè perde troppo tempo per farci vedere la grande storia d’amore. Occasione persa.
Un articolo che riflette su Avatar, nella traduzione apparsa su Internazionale nr.830
Il genocidio di Avatar
George Monbiot, The Guardian, Gran Bretagna
Il film di James Cameron non piace ai conservatori perché è la metafora di un massacro che ci ostiniamo a negare
Avatar, il film campione d’incassi di James Cameron, è profondo e al tempo stesso sciocco. È profondo perché, come molti film sugli alieni, è una metafora del contatto tra culture differenti. E in questo caso la metafora è consapevole e precisa: la storia del rapporto tra gli europei e i popoli indigeni delle Americhe. È estremamente sciocco perché, per garantire un lieto fine, la trama è stupida e prevedibile. Il destino dei nativi americani è molto più vicino alla storia raccontata in un altro film, The Road, dove quel che resta di una popolazione fugge in preda al terrore di fronte a una probabile estinzione. Ma questa è una storia che nessuno vuole sentire, perché mette in discussione il modo in cui vogliamo vederci. L’Europa si arricchì enormemente con i genocidi nelle Americhe e su quei genocidi furono fondate le nazioni di quel continente. È una storia che non possiamo accettare. Pelle blu, pelle rossa Nel libro Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo (Bollati Boringhieri), lo studioso statunitense David Stannard documenta i più gravi genocidi che il mondo abbia mai conosciuto. Nel 1492 in America vivevano circa cento milioni di nativi. Alla fine dell’ottocento erano stati quasi tutti sterminati. Molti morirono per le malattie portate dagli europei, ma l’estinzione di massa fu anche pianificata. Quando gli spagnoli arrivarono in America descrissero un mondo che dificilmente sarebbe potuto essere più diverso dal loro. L’Europa era devastata dalle guerre, dall’oppressione, dalla schiavitù, dal fanatismo, dalle malattie e dalla fame. Le popolazioni che incontrarono erano in salute, ben nutrite e – con eccezioni come aztechi e inca – pacifiche e democratiche. Oltre che per l’ospitalità dei nativi, i conquistadores si meravigliarono per le strade, i canali, gli edifici e le creazioni artistiche che trovarono. Ma questo non gli impedì di distruggere qualunque cosa e persona incontrassero. La carneficina cominciò con Colombo, che massacrò brutalmente gli indigeni di Hispaniola (l’isola divisa oggi tra Haiti e Repubblica Dominicana). I soldati strappavano i bambini alle mamme e gli fracassavano la testa contro le rocce. Facevano mangiare ai loro cani i bambini vivi. In un’occasione impiccarono tredici indiani in onore di Cristo e i dodici apostoli, su una forca così bassa che le dita dei piedi potevano toccare terra, poi li sventrarono e li bruciarono. Colombo ordinò a tutti i nativi di consegnare una certa quantità d’oro ogni tre mesi. A chi mancava una consegna, faceva tagliare le mani. Nel 1535 la popolazione nativa di Hispaniola era crollata da otto milioni a zero: in parte come risultato delle malattie, in parte per le carneficine, l’eccessivo lavoro e la fame. I conquistadores diffusero questa missione civilizzatrice a tutta l’America Latina. Se non indicavano dove erano nascosti i loro mitici tesori, gli indigeni venivano frustati, impiccati, annegati, smembrati, dati in pasto ai cani, sepolti vivi o bruciati. I soldati tagliavano i seni delle donne, gli uomini venivano rimandati ai loro villaggi con le mani mozze e il naso appeso al collo. Ma i danni maggiori li fecero la schiavitù e le malattie. Agli spagnoli conveniva ammazzare di lavoro gli indigeni e sostituirli, più che mantenerli vivi: l’aspettativa di vita nelle miniere e nelle piantagioni era dai tre ai quattro mesi. Nel giro di un secolo fu annientato circa il 95 per cento delle popolazioni dell’America centrale e meridionale. In California, nel settecento, lo sterminio era sistematico. Il francescano Junipero Serra allestì una serie di missioni: in realtà erano campi di concentramento che usavano la manodopera degli schiavi. I nativi erano costretti a lavorare nei campi mangiando solo un quinto di quello che in seguito ebbero gli schiavi afroamericani nell’ottocento. Morivano di fatica, fame e malattie a ritmi incredibili, ed erano continuamente sostituiti, annientando così le popolazioni indigene. Junipero Serra, l’Eichmann della California, fu beatificato dal Vaticano nel 1988. Adesso basterà un altro miracolo perché sia nominato santo. Gli spagnoli erano guidati dalla brama per l’oro. Mentre i britannici che colonizzarono il Nordamerica volevano la terra. Nel New England circondavano i villaggi dei nativi e li uccidevano nel sonno. Poi il genocidio si difuse a ovest con il consenso delle più alte autorità. George Washington ordinò la distruzione totale delle case e delle terre degli irochesi. Thomas Jefferson dichiarò che le guerre contro gli indigeni dovevano continuare finché ogni tribù non fosse stata “sterminata o cacciata oltre il Mississippi”. Durante il massacro di Sand Creek, nel 1864, in Colorado, i soldati uccisero delle persone disarmate riunite sotto una bandiera di pace, compresi i bambini, mutilando tutti i cadaveri e conservando i genitali delle vittime come borse per il tabacco. Theodore Roosevelt definì l’episodio “un atto giusto e utile come ogni cosa avvenuta alla frontiera”.
Un western revisionista Ma i peggiori genocidi della storia difficilmente turbano la nostra coscienza collettiva. Se i nazisti avessero vinto la seconda guerra mondiale, l’Olocausto sarebbe stato negato, giustificato o minimizzato allo stesso modo. I cittadini delle nazioni coinvolte – Spagna, Gran Bretagna, Stati Uniti e altri – non accetteranno mai il paragone, ma le soluzioni finali imposte in America hanno avuto più successo di quelle adottate dal terzo Reich. Quelli che le commissionarono o approvarono, restano eroi nazionali o religiosi. Chi cerca di chiarire i fatti è ignorato o condannato. Ecco perché la destra odia Avatar. Sul neocon Weekly Standard, John Podhoretz si lamenta che il film sembra un “western revisionista” in cui “gli indiani sono diventati i buoni e gli americani i cattivi”. Secondo Podhoretz, Avatar chiede al pubblico di “tifare per un’insurrezione contro dei soldati americani”. Insurrezione è una parola interessante per descrivere il tentativo di opporsi a un’invasione: insorto, o selvaggio, viene definito chi ha qualcosa di cui tu vuoi impadronirti. Per L’Osservatore Romano, invece, “tutto si riduce a una parabola antimperialista e antimilitarista facile facile”. Ma la destra, almeno, sa cosa sta attaccando. Sul New York Times il critico progressista Adam Cohen elogia Avatar perché sostiene il bisogno di guardare le cose con chiarezza. Il film, secondo Cohen, rivela “un principio ben noto del totalitarismo e del genocidio: che è più facile opprimere quelli che non vediamo”. Ma con una meravigliosa ironia inconsapevole, Cohen ignora la metafora più ovvia e parla invece della luce che il film getta sulle atrocità naziste e sovietiche. Siamo diventati tutti esperti nell’arte di non vedere. Sono d’accordo con chi dice che Avatar è grossolano, melenso e stereotipato. Ma racconta una verità più importante – e più pericolosa – di quelle contenute in migliaia di film impegnati.