Justified - di Graham Yost - Stagione 5 (13 episodi; FX) - 2014
Raylan fa una scappata a Miami, mentre Boyd e Wynn Duffy, questi ultimi due ormai pappa e ciccia, si recano a Detroit, ovviamente per traffici loschi. Come sempre accade, sembra che tutti i cattivi vogliono passare da Harlan. Nei pressi di Miami c'è infatti una parte della famiglia Crowe (il corvo della locandina), imparentati strettamente con quello che è probabilmente il più stupido tra tutti i criminali stupidi mostrati dal campionario di Justified: Dewey, al quale la legge è costretta a dare 300mila dollaroni come risarcimento per danneggiamenti, ed è proprio il mitico giudice Reardon, con Raylan come testimone, che glieli concede, in una sequenza dentro ad un tribunale, una sequenza spassosa che racchiude una buona parte del fascino della serie, posta in apertura. Dando uno sguardo all'antagonista principe, Boyd, dopo esserci ricordati che la sua bella, Ava, è adesso in carcere, lo troviamo intento a fare di tutto per farla uscire.
Senza aggiungere troppo, ricordate che Winona e la figlioletta di Raylan sono in Florida (e Raylan durante la sua prima "scappata" a Miami citata prima non ce la fa, o non vuole, andare a trovarle), e sappiate che dal viaggio a Detroit di Boyd e Duffy scaturirà una storia che vedrà Boyd finire perfino in Messico.
Prima di dire qualcosa, dovete sapere che Elmore Leonard, il creatore del personaggio di Raylan Givens (e di molti altri che conoscete, ma non sapete siano frutto della fantasia di quest'uomo), sui quali racconti si basa la serie creata da Yost, è morto nell'agosto del 2013. Detto ciò, non mi pare che Justified ed i suoi protagonisti principali abbiano perso una stilla di fascino passando dalla quarta alla quinta stagione. Se solo riflettete a bocce ferme sulla complessità delle trame, e sulla raffinatezza dei dialoghi, ma questi sono concetti che mi pare di aver già espresso, ne capirete la grandezza.
E' sempre un grande piacere, per me, mettermi a guardare un episodio di Justified, e questa ennesima stagione è passata come un lampo. La prossima sarà l'ultima, per decisione unanime del duo principe, Yost e Timothy Olyphant (per chi non lo sapesse, l'attore che incarna Raylan Givens, un uomo talmente figo che potrebbe eccitare perfino un eterosessuale), e mi aspetto ben più dei fuochi d'artificio.
No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.
20140430
20140429
Goodbye to Natesville
Raising Hope - di Greg Garcia - Stagione 4 (22 episodi; Fox) - 2013/2014
Mentre Hope continua a crescere, con Jimmy e Sabrina che si sono definitivamente trasferiti nella grande casa di lei, lasciando Burt e Virgina con Maw Maw, proprio Virgina scopre che il Déjà Vu Man, un uomo che sembra seguire lei e Burt da una vita, è niente popo' di meno che...
L'ultima creatura di Greg Garcia (My Name is Earl) arriva al capolinea con la quarta stagione, che contrariamente a quanto si era detto al termine della terza, è andata in onda negli USA addirittura un poco più tardi del solito, cominciando a Novembre inoltrato. Quella che è da poco terminata sarà quindi l'ultima stagione, così come era capitato con Earl, fermatosi a quattro pure lui, e forse va bene così. Raising Hope ha continuato a farci sorridere in maniera politicamente scorretta ma senza esagerare, crogiolandosi nelle parodie di altre serie, facendo progredire i suoi personaggi di poco, ma comunque andando avanti. Non ci sono state vette ineguagliabili, come nelle passate stagioni, ma ce ne ricorderemo con simpatia. Se volete continuare a seguire il lavoro di Garcia, potete cominciare a guardarvi The MIllers (con Beau Bridges, Margo Martindale e Will Arnett) sulla CBS.
Mentre Hope continua a crescere, con Jimmy e Sabrina che si sono definitivamente trasferiti nella grande casa di lei, lasciando Burt e Virgina con Maw Maw, proprio Virgina scopre che il Déjà Vu Man, un uomo che sembra seguire lei e Burt da una vita, è niente popo' di meno che...
L'ultima creatura di Greg Garcia (My Name is Earl) arriva al capolinea con la quarta stagione, che contrariamente a quanto si era detto al termine della terza, è andata in onda negli USA addirittura un poco più tardi del solito, cominciando a Novembre inoltrato. Quella che è da poco terminata sarà quindi l'ultima stagione, così come era capitato con Earl, fermatosi a quattro pure lui, e forse va bene così. Raising Hope ha continuato a farci sorridere in maniera politicamente scorretta ma senza esagerare, crogiolandosi nelle parodie di altre serie, facendo progredire i suoi personaggi di poco, ma comunque andando avanti. Non ci sono state vette ineguagliabili, come nelle passate stagioni, ma ce ne ricorderemo con simpatia. Se volete continuare a seguire il lavoro di Garcia, potete cominciare a guardarvi The MIllers (con Beau Bridges, Margo Martindale e Will Arnett) sulla CBS.
20140428
ancora ragazze
Girls - di Lena Dunham - Stagione 3 (12 episodi; HBO) - 2014
Qualche mese dopo gli eventi raccontatici dalla seconda stagione, Jessa è (ancora una volta) in rehab, e perfino in questa circostanza riesce a risultare completamente odiosa; non solo, riesce a legare con l'ospite probabilmente più nocivo di tutta la struttura. E le altre? Al solito: Hannah sta cercando di far diventare Adam un "animale sociale", facendolo entrare nella sua "cerchia" amicale, Shoshanna, che ha rotto con Ray, è convinta che questo farà bene ai suoi studi e si dedica ad avventure passeggere con ragazzi vari, mentre Marnie si lecca le ferite, naturalmente nelle maniere più sbagliate, dopo la sua seconda rottura con Charlie.
Non so se sia il mio insito buonismo, ma ad un certo punto ho pensato di aver trovato il senso di tutto questo; voglio dire, di una serie così stramba come Girls. E' vero che Lena Dunham non ne vuole sapere di lasciare spazio ai personaggi che non siano la sua Hannah, è vero che insiste a farsi vedere sempre svestita (mentre, lo dico a rischio di venir tacciato di misoginia e di non so cos'altro, io preferirei vedere più svestita Marnie), è vero che i personaggi di Marnie, Shoshanna e Jessa faticano a trovare qualche spazio extra, è vero che questi quattro personaggi femminili sono tra i più odiosi mai visti sullo schermo (grande e piccolo), ma insomma, in un certo qual modo il mondo è bello perché è vario e quindi va bene anche seguire queste piccole storie assurde ma probabilmente molto più vicine alla realtà di tante altre. Del resto, Hannah Marnie Jessa e Shoshanna sono altre quattro anime instabili e profondamente insicure, il frutto della società dell'opulenza, che cercano sicurezze, protezione, amore, stabilità sociale e realizzazione dei loro sogni. Anche se, quasi sicuramente, non hanno ancora ben capito quali siano esattamente questi sogni. E se per un momento pensate che sia una di loro, che sta messa peggio in questo campo, 10 secondi dopo Girls vi ricorderà che una qualsiasi delle altre è messa peggio ancora.
Riso amaro.
Serie rinnovata per una quarta stagione di 10 episodi, in onda nel 2015.
Qualche mese dopo gli eventi raccontatici dalla seconda stagione, Jessa è (ancora una volta) in rehab, e perfino in questa circostanza riesce a risultare completamente odiosa; non solo, riesce a legare con l'ospite probabilmente più nocivo di tutta la struttura. E le altre? Al solito: Hannah sta cercando di far diventare Adam un "animale sociale", facendolo entrare nella sua "cerchia" amicale, Shoshanna, che ha rotto con Ray, è convinta che questo farà bene ai suoi studi e si dedica ad avventure passeggere con ragazzi vari, mentre Marnie si lecca le ferite, naturalmente nelle maniere più sbagliate, dopo la sua seconda rottura con Charlie.
Non so se sia il mio insito buonismo, ma ad un certo punto ho pensato di aver trovato il senso di tutto questo; voglio dire, di una serie così stramba come Girls. E' vero che Lena Dunham non ne vuole sapere di lasciare spazio ai personaggi che non siano la sua Hannah, è vero che insiste a farsi vedere sempre svestita (mentre, lo dico a rischio di venir tacciato di misoginia e di non so cos'altro, io preferirei vedere più svestita Marnie), è vero che i personaggi di Marnie, Shoshanna e Jessa faticano a trovare qualche spazio extra, è vero che questi quattro personaggi femminili sono tra i più odiosi mai visti sullo schermo (grande e piccolo), ma insomma, in un certo qual modo il mondo è bello perché è vario e quindi va bene anche seguire queste piccole storie assurde ma probabilmente molto più vicine alla realtà di tante altre. Del resto, Hannah Marnie Jessa e Shoshanna sono altre quattro anime instabili e profondamente insicure, il frutto della società dell'opulenza, che cercano sicurezze, protezione, amore, stabilità sociale e realizzazione dei loro sogni. Anche se, quasi sicuramente, non hanno ancora ben capito quali siano esattamente questi sogni. E se per un momento pensate che sia una di loro, che sta messa peggio in questo campo, 10 secondi dopo Girls vi ricorderà che una qualsiasi delle altre è messa peggio ancora.
Riso amaro.
Serie rinnovata per una quarta stagione di 10 episodi, in onda nel 2015.
20140427
il futuro è vuoto
The Future's Void - EMA (2014)
Ebbene, spiace dirlo, ma l'amico Mazza aveva ragione. Sto giocando sul fatto che nonostante spesso ci piacciano le solite cose, ci prendiamo reciprocamente per il culo sui nostri rispettivi gusti di merda. Ma, questa gliela devo concedere, è stato lui che, quando mi sono avvicinato a Past Life Martyred Saints, mi ha sottolineato che era una delle cose migliori che avesse ascoltato in quegli ultimi tempi (e quanto passano veloci, ma questo è un altro discorso).
Eppure, per quanto mi fosse piaciuto, ero sul punto di catalogare Erika M. Anderson come un'altra delle tante goth-dark-oriented-emotional-female-singer, un po' drone un po' elettronica un po' rock un po' folk, come che ne so, una qualsiasi Chelsea Wolfe.
Invece, la ragazza originaria del South Dakota, sembra essersi messa d'impegno per dimostrare che non è una qualsiasi. Nonostante l'album sia stato registrato nel suo seminterrato, molto spesso senza aiuti esterni, in The Future's Void ci sono svariati momenti di grandezza; ispirata da fonti disparate, EMA sa come scrivere le canzoni, sia che vogliano essere tragicamente fredde ed elettroniche (Satellites, Neuromancer, Smoulder), sia che siano semplici e dirette (3Jane, 100 Years, Dead Celebrity), ma non per questo "facili", sia che risultino sorprendentemente rock (So Blonde) o folk-rock (la bellissima e, ripeto, sorprendente When She Comes), o complicate variazioni che abbracciano tutti i temi, come Cthulu e Solace. Su testi che riflettono le inquietudini di giovani e meno giovani davanti alla velocità e alla tecnologicizzazione dell'oggi, e alla conseguente spersonalizzazione, la sua voce riesce ad aderire perfettamente alle atmosfere che l'autrice stessa crea con le sue musiche, dimostrando capacità camaleontiche, e, al tempo stesso, la voglia, e forse la capacità innata, di guardare avanti senza dimenticare quel che c'è dietro, in cerca di qualcosa di nuovo.
Ebbene, spiace dirlo, ma l'amico Mazza aveva ragione. Sto giocando sul fatto che nonostante spesso ci piacciano le solite cose, ci prendiamo reciprocamente per il culo sui nostri rispettivi gusti di merda. Ma, questa gliela devo concedere, è stato lui che, quando mi sono avvicinato a Past Life Martyred Saints, mi ha sottolineato che era una delle cose migliori che avesse ascoltato in quegli ultimi tempi (e quanto passano veloci, ma questo è un altro discorso).
Eppure, per quanto mi fosse piaciuto, ero sul punto di catalogare Erika M. Anderson come un'altra delle tante goth-dark-oriented-emotional-female-singer, un po' drone un po' elettronica un po' rock un po' folk, come che ne so, una qualsiasi Chelsea Wolfe.
Invece, la ragazza originaria del South Dakota, sembra essersi messa d'impegno per dimostrare che non è una qualsiasi. Nonostante l'album sia stato registrato nel suo seminterrato, molto spesso senza aiuti esterni, in The Future's Void ci sono svariati momenti di grandezza; ispirata da fonti disparate, EMA sa come scrivere le canzoni, sia che vogliano essere tragicamente fredde ed elettroniche (Satellites, Neuromancer, Smoulder), sia che siano semplici e dirette (3Jane, 100 Years, Dead Celebrity), ma non per questo "facili", sia che risultino sorprendentemente rock (So Blonde) o folk-rock (la bellissima e, ripeto, sorprendente When She Comes), o complicate variazioni che abbracciano tutti i temi, come Cthulu e Solace. Su testi che riflettono le inquietudini di giovani e meno giovani davanti alla velocità e alla tecnologicizzazione dell'oggi, e alla conseguente spersonalizzazione, la sua voce riesce ad aderire perfettamente alle atmosfere che l'autrice stessa crea con le sue musiche, dimostrando capacità camaleontiche, e, al tempo stesso, la voglia, e forse la capacità innata, di guardare avanti senza dimenticare quel che c'è dietro, in cerca di qualcosa di nuovo.
20140426
Emirati Arabi Uniti - Aprile 2014 (8)
Non lo nego, sono un po' preoccupato. Nonostante mi piaccia abbronzarmi, mi ci sono abituato col tempo pur avendo una pelle piuttosto bianca, quest'anno son proprio bianco, e prendere le prime ore di sole proprio a Dubai, più o meno al tropico, e con una sabbia naturalmente bianca, mi crea qualche preoccupazione. Nonostante questo, è uno dei motivi per cui sono qui, quindi verso le 11 ci avviamo verso la spiaggia libera di Jumeirah, che è il "quartiere" (lo metto tra virgolette perché effettivamente chiamarlo quartiere è limitante) dove vivono i miei amici. La spiaggia è circoscritta tra due ville di proprietà di membri della famiglia dello sceicco, sorvegliate e vietatissime, ma è ugualmente molto grande. Ci si arriva con l'auto, ed è frequentata da chiunque, locali e non. Il mare non mi è parso per niente male, seppur pieno di piccole meduse. Ci sono già anche gli amici di Volterra, famigliola al completo, e il pomeriggio è piacevole, se non fosse per il fatto che dopo due ore e mezzo sto andando a fuoco. La scoperta (poco sorprendente, a dire la verità) sarà fatta la sera davanti allo specchio: preoccupato della testa e delle spalle, mi sono spalmato crema protettiva sulle spalle, ottenendo così un abbronzatura esattamente contraria a quella del muratore in canottiera. Detto questo, alcune foto che provano a descrivervi quella sensazione sottolineata anche dalla giornalista del Financial Times a proposito della spiaggia di Abu Dhabi, che però a me non è parsa così disturbante, ma solamente particolare, una roba alla quale non siamo di certo abituati (quella di vedere tutto attorno alla spiaggia grattacieli e costruzioni moderniste).
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Quasi lo stesso scatto della prima foto, ma con lo zoom, giusto per rendere giustizia al Burj Al Arab |
20140425
la danza della sicurezza
Il video nun se po' guardà ma il pezzo, per quelli anziani come me, evoca spensieratezza ed è oggettivamente irresistibile, seppur "cotonato" (leggi: troppo anni '80).
20140424
Gulfhaven, Florida
Cougar Town - di Bill Lawrence e Kevin Biegel - Stagioni 4 e 5 (15 e 13 episodi; TBS) - 2013/2014
Dato che in questo periodo sono terminate alcune serie tv, iniziamo il resoconto da una di quelle che mi ha entusiasmato meno (se vi ricordate, il declino è iniziato già a partire dalla seconda stagione, ed è stato segnato pure da un cambio di canale e da una riduzione drastica degli episodi). Sorprende quindi che Cougar Town sia riuscito ad arrivare alla quinta stagione, mentre non mi ha sorpreso affatto accorgermi che non avevo recensito la quarta.
L'unica nota positiva, il perché continuo a guardare questa serie, che dovrebbe far ridere ma tutt'al più fa sorridere, è la durata degli episodi (20 minuti), comodi per addormentarsi, per dire. I protagonisti sembrano incredibilmente incollati al loro modo di essere, non si nota nessuna evoluzione di rilievo. Per chi fosse particolarmente portato al masochismo, non vi dirò quindi come va il matrimonio tra Jules e Grayson o quello tra Ellie e Andy, oppure se Travis (a proposito: Dan Byrd è nella 7x01 di Mad Men) e Laurie son finiti o no insieme.
Uno dei particolari più inquietanti della serie, però, sono stati, all'inizio di questa ultima stagione, gli zigomi di Courteney Cox, un tempo amata protagonista di Friends, adesso produttrice, protagonista e spesso addirittura regista degli episodi di questa serie. Visibilmente ritoccati con chirurgia plastica o botulino o whatever, hanno contribuito a sfigurare quella che una volta era una bella ragazza.
Anyway: Cougar Town non fa ridere, per cui non lo guardate. Lo vedo io per voi. Poi non dite che non mi sacrifico mai.
20140423
voragine d'inchiostro
Melana Chasmata - Triptykon (2014)
Vi confesserò un segreto (di Pulcinella in realtà), che fino a poco tempo fa stentavo ad ammettere perfino a me stesso: io sono in un certo qual modo debitore a Tom G. Warrior, all'anagrafe Thomas Gabriel Fischer, per quanto riguarda la mia passione per Bosch (il pittore fiammingo). Ma la stima per questo personaggio dovrebbe andare oltre. Come recita giustamente la versione inglese della sua personale scheda Wikipedia, "he is considered to be one of the pioneers of the death metal style of singing", e, aggiungerei io, non solo. Per questo, seppure il genere che porta avanti adesso con i Triptykon non sia esattamente quello che preferisco adesso, ogni volta che esce qualcosa mi incuriosisce e finisce per piacermi non poco. Titolo ancora una volta in greco, alla lettera significa quello che ho messo nel titolo del post ma, figurativamente, come sostiene Tom stesso, può significare "profonde, scure depressioni" (nel senso di vallate, ma probabilmente non solo), Melana Chasmata è un ennesimo disco monolitico (ma, attenzione, non monocorde e non monotono), che ricorda tutto quello fatto dalle "creature" di Tom in passato, ma con un suono decisamente attuale e, soprattutto, potentissimo.
Seppur pioniere, infatti, Tom e i suoi creano suggestioni, giocando con tutto quello che il death metal può inglobare (suoni, voci ed altro). Il risultato non può lasciare indifferenti, a meno che non sopportiate il metal. Ce ne fossero.
"Complice" ancora una volta l'immenso H.R. Giger (vi verrà subito in mente Alien, oppure anche l'asta del microfono personalizzata di Jonathan Davis dei Korn), abbiamo poi un'altra copertina straordinaria.
Vi confesserò un segreto (di Pulcinella in realtà), che fino a poco tempo fa stentavo ad ammettere perfino a me stesso: io sono in un certo qual modo debitore a Tom G. Warrior, all'anagrafe Thomas Gabriel Fischer, per quanto riguarda la mia passione per Bosch (il pittore fiammingo). Ma la stima per questo personaggio dovrebbe andare oltre. Come recita giustamente la versione inglese della sua personale scheda Wikipedia, "he is considered to be one of the pioneers of the death metal style of singing", e, aggiungerei io, non solo. Per questo, seppure il genere che porta avanti adesso con i Triptykon non sia esattamente quello che preferisco adesso, ogni volta che esce qualcosa mi incuriosisce e finisce per piacermi non poco. Titolo ancora una volta in greco, alla lettera significa quello che ho messo nel titolo del post ma, figurativamente, come sostiene Tom stesso, può significare "profonde, scure depressioni" (nel senso di vallate, ma probabilmente non solo), Melana Chasmata è un ennesimo disco monolitico (ma, attenzione, non monocorde e non monotono), che ricorda tutto quello fatto dalle "creature" di Tom in passato, ma con un suono decisamente attuale e, soprattutto, potentissimo.
Seppur pioniere, infatti, Tom e i suoi creano suggestioni, giocando con tutto quello che il death metal può inglobare (suoni, voci ed altro). Il risultato non può lasciare indifferenti, a meno che non sopportiate il metal. Ce ne fossero.
"Complice" ancora una volta l'immenso H.R. Giger (vi verrà subito in mente Alien, oppure anche l'asta del microfono personalizzata di Jonathan Davis dei Korn), abbiamo poi un'altra copertina straordinaria.
20140422
anniversari
So che non ve ne potrebbe fregare di meno, e so pure che andrò a ripetervi cose che vi ho già detto in passato. Pazienza: è stato un anniversario da celebrare comunque.
Qualcuno di voi sa già di cosa sto parlando: giovedì scorso 17 aprile ricorreva il venticinquesimo della mia assunzione nella società multinazionale dove lavoro, la stessa per la quale hanno lavorato prima di me mio nonno, mia nonna, mia zia e mio padre. Quella che dà il nome perfino alla cittadina in cui sono nato, in cui sono cresciuto, in cui vivo. E so che, messa così sulla pagina, può perfino apparire triste. Vi assicuro che è fuorviante: a parte il premio di anzianità e la letterina firmata dal Direttore, il mio venticinquesimo rappresenta un sacco di cose, molte delle quali positive. Partendo da quelle non del tutto positive, una di quelle importanti è il fatto che aver lavorato 25 anni per una società vuol dire che ormai si ha una certa età. Una volta avrebbe significato perfino che si era vicini alla pensione, oggi no, seppure abbia qualche altro anno di contributi, maturati prima di questi 25, la strada è ancora lunga.
La ricorrenza arriva in un momento totalmente positivo. Il cambiamento recente è ancora in corso, ma la fase che poteva esplodermi in mano ormai è passata, e tutto intorno c'è una grande eccitazione lavorativa. Le critiche ci sono, ma le prendo costruttivamente, e decisamente sono stati di più i complimenti per il buon lavoro svolto. Adesso c'è da gestire la fase di assestamento, la creazione dei cosiddetti back up, in modo da riuscire a fare quello che dovrebbe essere il mio vero lavoro da manager di un gruppo di persone che lavora per un obiettivo comune, e non il tappabuchi quando manca qualcuno. Ci vorrà ancora un bel po' di tempo, e sicuramente le carte in tavola saranno cambiate ancora e ancora, ma essendo un'ottimista naturale, non mi spaventa più alcunché. Anche globalmente, lo stabilimento dove lavoro sembra essere avviato su una buona strada, le previsioni di ridimensionamento e addirittura di chiusura, al momento sembrano non avere più fondamento. Certo, non si sa mai, ma anche su questo argomento siamo ottimisti.
Certo, l'impegno richiestomi è inferiore solo a quello che dedico realmente al lavoro, almeno così pare a me, ma non mi pesa, lo sento mio, e i risultati, sempre a mio parere, si vedono. E sono sicuro che arriveranno anche maggiori soddisfazioni, come dire, più venali.
Conservo la mia curiosità, ogni mattina quando arrivo, spesso prima che sorga il sole, ho avuto modo ed avrò modo di conoscere persone nuove, spesso interessanti, di esercitare lingue straniere e di impararne di nuove, di sentirmi parte di un grande progetto. Ho espresso la mia volontà, curiosità, disponibilità, di una o più esperienze fuori dai confini italiani, magari tra qualche altro anno, e chissà che la cosa non vada in porto e che non sia la naturale prosecuzione di un percorso che tutto sommato mi soddisfa, e che ancora oggi mi sorprende.
Voglio concludere ringraziando tutti quelli che mi hanno accompagnato fino ad oggi in questo percorso, perché so che qualcuno legge questo blog, tutti, quelli con i quali sono stato più a stretto contatto e anche quelli che conosco bene ma dentro lo stabilimento li vedo appena.
Un pensiero particolare va ad Ale, complice musicale fin da quello scambio di vedute (musicali) sull'ascensore dell'impianto che stava cercando di farmi capire, e per me ancora oggi che non lavoriamo più insieme, grande maestro di tecnica, chimica ed anche di livornesità. Sto parlando, appunto, di circa 25 anni fa, e io ero un pivello, ma parlavo sempre di musica. Lui, da grande appassionato era più riservato; sicuramente sbaglierò qualcosa nel ricordare, ma mi piace considerare quel momento come l'inizio di una bella amicizia che dura ancora oggi. Mi chiese che cosa ascoltavo davvero, e quindi l'ultimo disco che avevo comprato; io feci lo stesso con lui. Io avevo comprato il singolo di Flower dei Soundgarden (ancora doveva uscire Louder Than Love, e lui aveva già amato Ultramega Ok, che a me ancora mancava), e lui Nothing's Shocking dei Jane's Addiciton, che io avevo già ascoltato, e dei quali possedevo anche il debutto live omonimo. Era, appunto, il 1989, e si parlava di vinili. Avevamo tutti 25 anni meno: anche loro!
Qualcuno di voi sa già di cosa sto parlando: giovedì scorso 17 aprile ricorreva il venticinquesimo della mia assunzione nella società multinazionale dove lavoro, la stessa per la quale hanno lavorato prima di me mio nonno, mia nonna, mia zia e mio padre. Quella che dà il nome perfino alla cittadina in cui sono nato, in cui sono cresciuto, in cui vivo. E so che, messa così sulla pagina, può perfino apparire triste. Vi assicuro che è fuorviante: a parte il premio di anzianità e la letterina firmata dal Direttore, il mio venticinquesimo rappresenta un sacco di cose, molte delle quali positive. Partendo da quelle non del tutto positive, una di quelle importanti è il fatto che aver lavorato 25 anni per una società vuol dire che ormai si ha una certa età. Una volta avrebbe significato perfino che si era vicini alla pensione, oggi no, seppure abbia qualche altro anno di contributi, maturati prima di questi 25, la strada è ancora lunga.
La ricorrenza arriva in un momento totalmente positivo. Il cambiamento recente è ancora in corso, ma la fase che poteva esplodermi in mano ormai è passata, e tutto intorno c'è una grande eccitazione lavorativa. Le critiche ci sono, ma le prendo costruttivamente, e decisamente sono stati di più i complimenti per il buon lavoro svolto. Adesso c'è da gestire la fase di assestamento, la creazione dei cosiddetti back up, in modo da riuscire a fare quello che dovrebbe essere il mio vero lavoro da manager di un gruppo di persone che lavora per un obiettivo comune, e non il tappabuchi quando manca qualcuno. Ci vorrà ancora un bel po' di tempo, e sicuramente le carte in tavola saranno cambiate ancora e ancora, ma essendo un'ottimista naturale, non mi spaventa più alcunché. Anche globalmente, lo stabilimento dove lavoro sembra essere avviato su una buona strada, le previsioni di ridimensionamento e addirittura di chiusura, al momento sembrano non avere più fondamento. Certo, non si sa mai, ma anche su questo argomento siamo ottimisti.
Certo, l'impegno richiestomi è inferiore solo a quello che dedico realmente al lavoro, almeno così pare a me, ma non mi pesa, lo sento mio, e i risultati, sempre a mio parere, si vedono. E sono sicuro che arriveranno anche maggiori soddisfazioni, come dire, più venali.
Conservo la mia curiosità, ogni mattina quando arrivo, spesso prima che sorga il sole, ho avuto modo ed avrò modo di conoscere persone nuove, spesso interessanti, di esercitare lingue straniere e di impararne di nuove, di sentirmi parte di un grande progetto. Ho espresso la mia volontà, curiosità, disponibilità, di una o più esperienze fuori dai confini italiani, magari tra qualche altro anno, e chissà che la cosa non vada in porto e che non sia la naturale prosecuzione di un percorso che tutto sommato mi soddisfa, e che ancora oggi mi sorprende.
Voglio concludere ringraziando tutti quelli che mi hanno accompagnato fino ad oggi in questo percorso, perché so che qualcuno legge questo blog, tutti, quelli con i quali sono stato più a stretto contatto e anche quelli che conosco bene ma dentro lo stabilimento li vedo appena.
Un pensiero particolare va ad Ale, complice musicale fin da quello scambio di vedute (musicali) sull'ascensore dell'impianto che stava cercando di farmi capire, e per me ancora oggi che non lavoriamo più insieme, grande maestro di tecnica, chimica ed anche di livornesità. Sto parlando, appunto, di circa 25 anni fa, e io ero un pivello, ma parlavo sempre di musica. Lui, da grande appassionato era più riservato; sicuramente sbaglierò qualcosa nel ricordare, ma mi piace considerare quel momento come l'inizio di una bella amicizia che dura ancora oggi. Mi chiese che cosa ascoltavo davvero, e quindi l'ultimo disco che avevo comprato; io feci lo stesso con lui. Io avevo comprato il singolo di Flower dei Soundgarden (ancora doveva uscire Louder Than Love, e lui aveva già amato Ultramega Ok, che a me ancora mancava), e lui Nothing's Shocking dei Jane's Addiciton, che io avevo già ascoltato, e dei quali possedevo anche il debutto live omonimo. Era, appunto, il 1989, e si parlava di vinili. Avevamo tutti 25 anni meno: anche loro!
20140421
Emirati Arabi Uniti - Aprile 2014 (7)
Quindi: tutti belli puliti e profumati, si parte e si passa dalle due coppie di amici di cui vi ho parlato qualche episodio fa, la ghenga toscana; i bambini si lasciano a casa di una delle coppia, e quindi io e le tre coppie, tutti nell'auto "da libera uscita" (non quella da lavoro) di Chiko, andiamo a casa di Nasser. Siamo tra i primi, e il padrone di casa si ricorda di me. E' un tipo simpatico, un dritto, giordano-palestinese di buona famiglia, studi negli USA, ha sposato una altrettanto simpatica signora statunitense che fa gli onori di casa e che si preoccupa che tutto vada per il verso giusto. In cucina, madre e figlia probabilmente indiane. Al banchetto-bar nel giardino (dove Nasser ci dice che vuol far installare una piccola piscina), il fratello maggiore di Nasser, che immediatamente mi fa una buona impressione, seppur un poco mr. knowitall, e al quale comunico immediatamente che somiglia a Ben Gazzarra. Lui ride e comincia a parlare dell'Italia. Arriva gente, i miei amici li conoscono tutti, mi presentano. Giordani, brasiliane, palestinesi, altri italiani, figli di. Si bevono degli aperitivi in giardino, si parla di tutto, mi appassiona il fratello del padrone di casa con le sue teorie sugli sbagli politici dei palestinesi nella cosiddetta questione: lo sbaglio, per lui, è stato quello di non fare lobby negli USA, così come gli israeliani. Colgo pragmatismo, un impercettibile fondo di amarezza ma forse no, molta ironia ma non a smentire la sua teoria, bensì proprio a rafforzarla: se lo avessero/avessimo fatto, sarebbe andata diversamente. Intrigante, senza dubbio. Il fratello è più giocoso e apparentemente meno impegnato, ma sono entrambi gran personaggi. La casa è in un quartiere nuovo, molto grande ma non sfarzosa. Tra i toscani c'è chi sottolinea che non c'è la security come nei quartieri dove abitano loro, fatti, come dicono loro, a compound. E' proprio vero che ci si abitua a tutto: suggerisco a qualcuno di vedersi il film messicano La zona, ma senza malizia, capisco che la loro realtà adesso è questa, chi sono io per giudicare o criticare. La serata scorre come acqua fresca, all'esterno fa quasi fresco, è una bellissima notte. Arriva da mangiare serio, non gli aperitivi. Un lavoro sontuoso, fortemente influenzato dalla cucina mediorientale, ovviamente.
Mangio il giusto, l'agnello (o era capretto?) non è il mio piatto preferito, pero gradisco molte altre cose, e poi la mia curiosità si estende anche alla cucina. Cerco se non di partecipare, di ascoltare la maggior parte delle conversazioni. Incrocio Chiko, e conveniamo insieme che questo, momenti come questi, sono un'altra delle ragioni per cui si convince ogni giorno di aver fatto la scelta giusta, oltre che per l'istruzione delle figlie: la conoscenza, il confronto con persone di provenienze differenti, la mescolanza di culture, le amicizie a tutte le latitudini (Nasser li ha invitati tutti negli USA, tra l'altro), la possibilità di ascoltare discussioni interessanti sugli argomenti più disparati. L'ho già detto, perché è così: quando sono con lui e la sua famiglia, o quando li penso, mi ripassano sempre in testa le serate di quasi 30 anni fa, nell'auto di suo padre, a fumare sigarette e a parlare delle nostre sventure sentimentali, io lui e Bimbo. Proprio quest'ultimo, inconsapevole del fatto che sono a Dubai, mi telefona mentre siamo in giardino, faccio rispondere Chiko e l'amarcord è fatto.
Si conclude la serata, il cui (mio) tormentone nei siparietti con il padrone di casa è stato il refrain: "I'm the one with the lower payroll here tonight, so have a little respect of me! I'm the only real communist!", rifacciamo il giro inverso e recuperiamo le bimbe. Domani andiamo al mare, è deciso, con una delle due coppie di toscani. Sono sicuro che non sono riuscito a rendere l'idea, ma quella di stasera è un'altra delle serate che dimenticherò con una certa difficoltà.
Mangio il giusto, l'agnello (o era capretto?) non è il mio piatto preferito, pero gradisco molte altre cose, e poi la mia curiosità si estende anche alla cucina. Cerco se non di partecipare, di ascoltare la maggior parte delle conversazioni. Incrocio Chiko, e conveniamo insieme che questo, momenti come questi, sono un'altra delle ragioni per cui si convince ogni giorno di aver fatto la scelta giusta, oltre che per l'istruzione delle figlie: la conoscenza, il confronto con persone di provenienze differenti, la mescolanza di culture, le amicizie a tutte le latitudini (Nasser li ha invitati tutti negli USA, tra l'altro), la possibilità di ascoltare discussioni interessanti sugli argomenti più disparati. L'ho già detto, perché è così: quando sono con lui e la sua famiglia, o quando li penso, mi ripassano sempre in testa le serate di quasi 30 anni fa, nell'auto di suo padre, a fumare sigarette e a parlare delle nostre sventure sentimentali, io lui e Bimbo. Proprio quest'ultimo, inconsapevole del fatto che sono a Dubai, mi telefona mentre siamo in giardino, faccio rispondere Chiko e l'amarcord è fatto.
Si conclude la serata, il cui (mio) tormentone nei siparietti con il padrone di casa è stato il refrain: "I'm the one with the lower payroll here tonight, so have a little respect of me! I'm the only real communist!", rifacciamo il giro inverso e recuperiamo le bimbe. Domani andiamo al mare, è deciso, con una delle due coppie di toscani. Sono sicuro che non sono riuscito a rendere l'idea, ma quella di stasera è un'altra delle serate che dimenticherò con una certa difficoltà.
20140420
6/10 - Parte 2
continua da venerdì 18 aprile
Ad Abu Dhabi le due attrazioni principali sono la spiaggia (insostenibile per il caldo infernale e i grattacieli intorno) e la gigantesca moschea Sheikh Zayed, appena costruita. Camminiamo a piedi scalzi sul marmo intarsiato e attraversiamo il tappeto più grande del mondo, sovrastati dai candelieri più pacchiani del pianeta. Lo spazio è stato pensato per accogliere 40mila fedeli, anche se stamattina ce n’è solo una: una donna in burqa su mezzo ettaro di tappeto. Immagino che sia raccolta in preghiera, ma avvicinandomi scopro che sta guardando l’iPhone. La sera mi metto in cerca del ristorante dell’albergo ma dopo venti minuti persi a girare per interminabili corridoi mi imbatto in una galleria chiamata World Luxury Expo, dove un uomo in vestaglia bianca gira le manopole di un biliardino d’oro con diamanti incastonati e una donna costringe un adolescente sovrappeso a provare una giacca di tweed rosa. “Ah, casa dolce casa”, dice una delle mie nuove amiche quando risaliamo sull’aereo il giorno seguente. Lo steward ci saluta come se ci conoscessimo da una vita, e in questo mondo alieno mi scopro confortata dal fatto che si ricorda che mi piace bere la Diet Coke senza bicchiere direttamente dalla lattina gelata. In basso, la sabbia gialla si trasforma lentamente in un collage di terreni agricoli che da novemila metri di altezza sembrano identici a quelli del Kent. All’atterraggio siamo colpiti da un inconfondibile odore di uomini e animali. Superati i controlli immigrazione delle autorità indiane saliamo su un autobus che avanza lentamente girando intorno alle vacche sdraiate lungo la strada. C’è spazzatura dappertutto. Il mio umore migliora. Al crepuscolo arriviamo a Udaipur. Il City Palace, vecchio di 450 anni, cadente e vagamente ammuffito nell’aria umida, rende ancora più romantici i vetri di cristallo, le piastrelle a mosaico, le incisioni, i dipinti e le immagini dei raja che hanno vissuto qui negli ultimi quattro secoli. Dall’altra parte del lago c’è un altro bellissimo palazzo. È stato costruito tre anni fa dalla Oberoi hotels per ospitare chiunque sia abbastanza ricco da potersi permettere un soggiorno tra le sue mura. Per fortuna è il nostro caso. Dopo una lunga dormita in una stanza talmente incantevole che vorrei non lasciarla più, faccio un’altra scoperta. Ci sono quattro ore e mezza di fuso orario rispetto a Londra ma non sento l’effetto del jet lag perché abbiamo fatto tappe graduali. Ci spostiamo in un albergo ancora più sfarzoso, l’Oberoi Armavilas di Agra. Dalla mia stanza si vede un’elegante piscina che cede il passo agli alberi e poi, ancora più in là, il Taj Mahal. Non tradisce mai, dicono tutti, preparando adeguatamente il terreno. Il giorno dopo arriviamo all’alba – dopo aver fatto i 200 metri che ci separano dall’albergo in una macchina di quelle usate nei campi da golf – e il sole splende rosa sulla cupola bianca, mentre il palazzo galleggia tra l’acqua e il cielo, a ricordare che la simmetria è la cosa più bella del mondo.
Il lusso non stanca
Mentre lascio l’aeroporto di Agra e mi preparo per il sesto paese in dieci giorni, mi sento un po’ truffata. Non ho visto molto dell’India. Guardo con un vago senso di risentimento il meraviglioso paesaggio delle montagne verdi e scure del Laos che si stende ai miei piedi. Luang Prabang è una deliziosa cittadina piena di incantevoli palazzi coloniali francesi, ci sono templi a volontà e apprezzo il buon gusto dell’hotel La Residence, con le sue piante tropicali e la infinity pool che si perde nel vuoto. Ma con la vista del Taj Mahal ancora negli occhi non riesco a godermela fino in fondo. La mattina dopo ci rivediamo alle 5.30 per un rituale di Luang Prabang. Ogni giorno metà della popolazione femminile si alza alle quattro per cucinare il riso e servirlo alle centinaia di monaci in tunica arancione che camminano per la città all’alba. Fortunatamente l’albergo ha cucinato per noi. Mi piazzo davanti a un tappetino con una vaporiera di bambù e ogni volta che passa un monaco, guardando dritto davanti a sé con aria impassibile, gli verso una manciata di riso nel secchiello di alluminio. Mi sento inspiegabilmente commossa. Molti sono più giovani del mio figlio più piccolo, che fra una decina di ore verserà del latte sui cereali in una cucina di Islington. Alla fine della giornata si presentano in albergo una decina di anziani laotiani per una cerimonia e dei canti. Ci regalano una composizione stranamente rigida di calendule arancioni. Ci legano al polso dei grossi cordoncini bianchi che dovremo tenere per tre giorni altrimenti succederà qualcosa di brutto, anche se non ci spiegano che cosa. La mattina seguente, per la prima volta ci sono le nuvole a rovinare il panorama, perciò non ho idea di cosa ci sia sotto di me nel breve spostamento dal Laos al Vietnam. Neanche all’atterraggio ho le idee più chiare. Non riesco più a godermi niente: né le otto portate preparate per il pranzo nel porto commerciale quattrocentesco di Hoi An né il vecchio ponte giapponese che ci descrivono come un gioiello. Solo quando arriviamo all’hotel Sun Peninsula, un vistosissimo palazzone bianco, nero e rosso che da solo occupa un’intera baia, mi riprendo un po’. Alla fine non è vero che gli alberghi di lusso diventano stucchevoli, specialmente quando ti portano su una teleferica a forma di barca ricoperta di frangipani e ti scaricano su una spiaggia privata sul mar Cinese meridionale. La triste verità è che le attrazioni mi stancano molto più delle lenzuola e dei camerieri che mi preparano uova strapazzate a colazione. La sera mi siedo sulla spiaggia con i miei nuovi amici e mi gusto una bella razza con la sabbia tra le dita, rinfrancata e pronta a nuove avventure. Ho ancora il cordoncino avvolto al polso perciò uno del gruppo, un ex chirurgo, me lo taglia. È a questo punto che la mia fortuna (e la mia vacanza) finisce. La mattina seguente gli altri proseguono per Lombok, Ayers Rock e Sydney, mentre io devo tornare a casa. Saluto i miei nuovi amici con grande rimpianto, che aumenta quando mi ritrovo sola con le valigie e il passaporto all’aeroporto di Da Nang. Anche la Malaysia Airlines, che pure mi ha promosso in business class, mi sembra impersonale e stancante. Attraversare di notte mezzo mondo con la prospettiva di arrivare a casa con il jet-lag e la nausea non è il massimo quando si viaggia. Com’è andata?, mi chiede al telefono la mia amica. Stupendo, rispondo. Hmm, dice lei. Davvero?
Ad Abu Dhabi le due attrazioni principali sono la spiaggia (insostenibile per il caldo infernale e i grattacieli intorno) e la gigantesca moschea Sheikh Zayed, appena costruita. Camminiamo a piedi scalzi sul marmo intarsiato e attraversiamo il tappeto più grande del mondo, sovrastati dai candelieri più pacchiani del pianeta. Lo spazio è stato pensato per accogliere 40mila fedeli, anche se stamattina ce n’è solo una: una donna in burqa su mezzo ettaro di tappeto. Immagino che sia raccolta in preghiera, ma avvicinandomi scopro che sta guardando l’iPhone. La sera mi metto in cerca del ristorante dell’albergo ma dopo venti minuti persi a girare per interminabili corridoi mi imbatto in una galleria chiamata World Luxury Expo, dove un uomo in vestaglia bianca gira le manopole di un biliardino d’oro con diamanti incastonati e una donna costringe un adolescente sovrappeso a provare una giacca di tweed rosa. “Ah, casa dolce casa”, dice una delle mie nuove amiche quando risaliamo sull’aereo il giorno seguente. Lo steward ci saluta come se ci conoscessimo da una vita, e in questo mondo alieno mi scopro confortata dal fatto che si ricorda che mi piace bere la Diet Coke senza bicchiere direttamente dalla lattina gelata. In basso, la sabbia gialla si trasforma lentamente in un collage di terreni agricoli che da novemila metri di altezza sembrano identici a quelli del Kent. All’atterraggio siamo colpiti da un inconfondibile odore di uomini e animali. Superati i controlli immigrazione delle autorità indiane saliamo su un autobus che avanza lentamente girando intorno alle vacche sdraiate lungo la strada. C’è spazzatura dappertutto. Il mio umore migliora. Al crepuscolo arriviamo a Udaipur. Il City Palace, vecchio di 450 anni, cadente e vagamente ammuffito nell’aria umida, rende ancora più romantici i vetri di cristallo, le piastrelle a mosaico, le incisioni, i dipinti e le immagini dei raja che hanno vissuto qui negli ultimi quattro secoli. Dall’altra parte del lago c’è un altro bellissimo palazzo. È stato costruito tre anni fa dalla Oberoi hotels per ospitare chiunque sia abbastanza ricco da potersi permettere un soggiorno tra le sue mura. Per fortuna è il nostro caso. Dopo una lunga dormita in una stanza talmente incantevole che vorrei non lasciarla più, faccio un’altra scoperta. Ci sono quattro ore e mezza di fuso orario rispetto a Londra ma non sento l’effetto del jet lag perché abbiamo fatto tappe graduali. Ci spostiamo in un albergo ancora più sfarzoso, l’Oberoi Armavilas di Agra. Dalla mia stanza si vede un’elegante piscina che cede il passo agli alberi e poi, ancora più in là, il Taj Mahal. Non tradisce mai, dicono tutti, preparando adeguatamente il terreno. Il giorno dopo arriviamo all’alba – dopo aver fatto i 200 metri che ci separano dall’albergo in una macchina di quelle usate nei campi da golf – e il sole splende rosa sulla cupola bianca, mentre il palazzo galleggia tra l’acqua e il cielo, a ricordare che la simmetria è la cosa più bella del mondo.
Il lusso non stanca
Mentre lascio l’aeroporto di Agra e mi preparo per il sesto paese in dieci giorni, mi sento un po’ truffata. Non ho visto molto dell’India. Guardo con un vago senso di risentimento il meraviglioso paesaggio delle montagne verdi e scure del Laos che si stende ai miei piedi. Luang Prabang è una deliziosa cittadina piena di incantevoli palazzi coloniali francesi, ci sono templi a volontà e apprezzo il buon gusto dell’hotel La Residence, con le sue piante tropicali e la infinity pool che si perde nel vuoto. Ma con la vista del Taj Mahal ancora negli occhi non riesco a godermela fino in fondo. La mattina dopo ci rivediamo alle 5.30 per un rituale di Luang Prabang. Ogni giorno metà della popolazione femminile si alza alle quattro per cucinare il riso e servirlo alle centinaia di monaci in tunica arancione che camminano per la città all’alba. Fortunatamente l’albergo ha cucinato per noi. Mi piazzo davanti a un tappetino con una vaporiera di bambù e ogni volta che passa un monaco, guardando dritto davanti a sé con aria impassibile, gli verso una manciata di riso nel secchiello di alluminio. Mi sento inspiegabilmente commossa. Molti sono più giovani del mio figlio più piccolo, che fra una decina di ore verserà del latte sui cereali in una cucina di Islington. Alla fine della giornata si presentano in albergo una decina di anziani laotiani per una cerimonia e dei canti. Ci regalano una composizione stranamente rigida di calendule arancioni. Ci legano al polso dei grossi cordoncini bianchi che dovremo tenere per tre giorni altrimenti succederà qualcosa di brutto, anche se non ci spiegano che cosa. La mattina seguente, per la prima volta ci sono le nuvole a rovinare il panorama, perciò non ho idea di cosa ci sia sotto di me nel breve spostamento dal Laos al Vietnam. Neanche all’atterraggio ho le idee più chiare. Non riesco più a godermi niente: né le otto portate preparate per il pranzo nel porto commerciale quattrocentesco di Hoi An né il vecchio ponte giapponese che ci descrivono come un gioiello. Solo quando arriviamo all’hotel Sun Peninsula, un vistosissimo palazzone bianco, nero e rosso che da solo occupa un’intera baia, mi riprendo un po’. Alla fine non è vero che gli alberghi di lusso diventano stucchevoli, specialmente quando ti portano su una teleferica a forma di barca ricoperta di frangipani e ti scaricano su una spiaggia privata sul mar Cinese meridionale. La triste verità è che le attrazioni mi stancano molto più delle lenzuola e dei camerieri che mi preparano uova strapazzate a colazione. La sera mi siedo sulla spiaggia con i miei nuovi amici e mi gusto una bella razza con la sabbia tra le dita, rinfrancata e pronta a nuove avventure. Ho ancora il cordoncino avvolto al polso perciò uno del gruppo, un ex chirurgo, me lo taglia. È a questo punto che la mia fortuna (e la mia vacanza) finisce. La mattina seguente gli altri proseguono per Lombok, Ayers Rock e Sydney, mentre io devo tornare a casa. Saluto i miei nuovi amici con grande rimpianto, che aumenta quando mi ritrovo sola con le valigie e il passaporto all’aeroporto di Da Nang. Anche la Malaysia Airlines, che pure mi ha promosso in business class, mi sembra impersonale e stancante. Attraversare di notte mezzo mondo con la prospettiva di arrivare a casa con il jet-lag e la nausea non è il massimo quando si viaggia. Com’è andata?, mi chiede al telefono la mia amica. Stupendo, rispondo. Hmm, dice lei. Davvero?
20140419
20140418
6/10 - Parte 1
Qualche settimana fa ho letto questo articolo su Internazionale nr. 1045, e mi è piaciuto. Tra l'altro, racconta pure di un luogo di cui vi ho parlato proprio in questi giorni.
Sei paesi in dieci giorni
di Lucy Kellaway, Financial Times (UK)
Racconto a un’amica che mi hanno appena proposto un viaggio di 18 giorni da Londra a Sydney su un aereo privato. Faremo varie tappe intermedie, tra cui Dubrovnik, i templi egizi e il Taj Mahal. Di giorno vedremo alcune tra le principali attrazioni del mondo e di notte dormiremo avvolti tra le migliori lenzuola in circolazione. Non ti piacerà, mi avverte lei. Mescolare tante cose insieme senza approfondirne nessuna è inutile e di cattivo gusto. Gli hotel di lusso dopo un po’ diventano stucchevoli. E se vedrai qualcosa che ti piace vorrai condividerlo con qualcuno. Rispondo che non sono mai stata in nessuno dei posti che mi propongono di visitare e che non sarò da sola. La crociera aerea è organizzata da Bill Peach Journeys, una piccola azienda molto apprezzata dagli australiani di una certa età (segmento demografico a cui mi sento molto vicina, essendo figlia di due di loro). In effetti, il questionario sulla forma fisica che mi hanno mandato prima del viaggio è un po’ sconcertante: il massimo livello di mobilità richiesta prevede di “riuscire a camminare in autonomia per più di 500 metri su una superficie irregolare”. Ma in fondo, mi dico, essere la più in forma del gruppo potrebbe rivelarsi un’esperienza piacevole e allo stesso tempo inconsueta. Davanti al Mandarin Oriental a Knightsbridge, dove ha pernottato il gruppo, ci sono 18 persone vestite in abiti di tessuti antipiega, quasi tutte in età da pensione ma dall’aria non particolarmente decrepita. Mi viene assegnato un tesserino con scritto “Lucy”, che mi appunto sulla giacca sentendomi come una bambina al primo giorno di scuola, e salgo sull’autobus per Luton. Luton non è un posto promettente da cui cominciare il viaggio, ma il “lounge esclusivo” per gli aerei privati è un’altra cosa. Somiglia un po’ a un Portakabin con meno poltrone di pelle ma non ci sono né code né folle al duty-free né tutte quelle cose che rendono faticosissimo volare. Si sale direttamente sull’aereo. Atterrati a Dubrovnik passiamo rapidamente i controlli immigrazione e veniamo traghettati in albergo, un relitto cadente presumibilmente di epoca comunista. Se avessi fatto io la prenotazione la cosa mi avrebbe un po’ disturbato, ma alla fine la vista sulla baia non è male. Scendo a piedi tra gli scogli per tuffarmi nell’acqua cristallina. Il giorno seguente ci prepariamo per un giro della piccola città vecchia. Tra le visite alle chiese e una camminata sulle mura medievali resta solo il tempo per quella che diventerà l’attività principale di tutto il viaggio: mangiare. In una piazza di fronte alla chiesa gesuita ci viene servito ogni ben di dio della cucina croata; qualche ora dopo facciamo il bis con altre sei portate in albergo. Sarà sempre così. La seconda sera, mentre mi rigiro nel letto, scrivo il mio verdetto provvisorio. Albergo: adeguato. Compagnia: così così. Mangiare: troppo. Il bilancio complessivo, però, è sorprendente: mi sto divertendo più di quanto dovrei. Sto già cambiando idea sul concetto di “bella vacanza”. Per prima cosa, avere qualcuno che ti tiene il passaporto e ti porta le valigie è molto più comodo che fare da soli. In secondo luogo, può essere un bene lasciare a casa amici e parenti. Stare con i nostri cari ci impedisce di vedere le cose nella giusta prospettiva, perché siamo troppo preoccupati del loro comportamento. Arrivati all’aeroporto di Assuan, dopo tre ore passate a osservare il serpente verde del Nilo che striscia nel deserto, è evidente che c’è qualcosa di strano. Non ci sono altri aerei. La seconda rivoluzione egiziana, a quanto pare, ha finito il lavoro della prima: allontanare i turisti. All’interno del terminal il nastro portabagagli è sinistramente fermo e il personale addetto al bagaglio è talmente felice di vederci che ci fa una foto di gruppo. Poi passa due volte le nostre valigie ai raggi x; così, solo per il gusto di farlo. All’Old Cataract hotel, una ex villa coloniale color rosso scuro in passato molto apprezzata da Winston Churchill e Agatha Christie, gli inservienti portano asciugamani freschi e drink appiccicosi per accogliere il nostro gruppo che sta rischiando la vita solo per il fatto di essere qui. Nel giro di qualche secondo, però, scopriamo che i rischi non vengono tanto dai fondamentalisti islamici ma dal pavimento di marmo: si sente un tonfo e il rumore di un femore che si spezza. Il nostro sfortunato compagno viene portato in ospedale ad Assuan e poi spedito in aereo a Francoforte, dove sarà operato. Corro (con cautela) nella mia stanza, notando a malapena il grande balcone privato con una magnifica vista sull’isola di Elefantina e la tomba dell’Aga Khan. Mi collego a internet per fare un’assicurazione di viaggio.
In barca sul Nilo
Il giorno dopo, in un’afa soffocante, atterriamo ad Abu Simbel per vedere il tempio monumentale che Ramses il grande fece costruire per sé e quello, molto più piccolo, che fece fare per la moglie. Entrambi sono stati portati qui negli anni sessanta per essere preservati dalle acque alluvionali create dalla nuova diga di Assuan. Secondo Wikipedia, ogni giorno migliaia di turisti si mettono in marcia per ore per visitare il sito: oggi però ci siamo solo noi. Tocco la pietra bollente del polpaccio monolitico di Ramses e ascolto il silenzio. La sera ci servono drink in barca sul Nilo mentre un gruppo di nubiani scatenati suona i tamburi e balla. Quando ci invitano a unirci alle danze mi faccio trasportare dal ritmo frenetico, dimenticando che di solito non ballo. Ecco la mia seconda scoperta. Spesso in vacanza la presenza più ingombrante e fastidiosa non è quella della nostra famiglia, ma la nostra. Stavolta, in parte grazie al bombardamento di nuove esperienze e soprattutto alla totale mancanza di curiosità per la vita dei miei nuovi amici, sono riuscita a lasciare a casa me stessa. All’aeroporto di Assuan la guida egiziana ci saluta pregandoci di dire a chi è rimasto a casa di venire. Dopo tre ore e mezza e un bel po’ di deserto, ci aspetta tutt’altra scena. Due uomini con un carrello per i bagagli dorato attraversano di corsa la pista seguiti da altri due con un tappeto rosso e giallo oro. “Ad Abu Dhabi ci sono due classi di persone”, ci dice la nostra nuova guida. “I ricchi e i molto, molto ricchi”. L’Emirates Palace hotel (che si è dato sette stelle) è stato costruito qualche anno fa e ha dimensioni che forse perfino Ramses il grande avrebbe trovato esagerate.
continua domenica 20 aprile
Sei paesi in dieci giorni
di Lucy Kellaway, Financial Times (UK)
Racconto a un’amica che mi hanno appena proposto un viaggio di 18 giorni da Londra a Sydney su un aereo privato. Faremo varie tappe intermedie, tra cui Dubrovnik, i templi egizi e il Taj Mahal. Di giorno vedremo alcune tra le principali attrazioni del mondo e di notte dormiremo avvolti tra le migliori lenzuola in circolazione. Non ti piacerà, mi avverte lei. Mescolare tante cose insieme senza approfondirne nessuna è inutile e di cattivo gusto. Gli hotel di lusso dopo un po’ diventano stucchevoli. E se vedrai qualcosa che ti piace vorrai condividerlo con qualcuno. Rispondo che non sono mai stata in nessuno dei posti che mi propongono di visitare e che non sarò da sola. La crociera aerea è organizzata da Bill Peach Journeys, una piccola azienda molto apprezzata dagli australiani di una certa età (segmento demografico a cui mi sento molto vicina, essendo figlia di due di loro). In effetti, il questionario sulla forma fisica che mi hanno mandato prima del viaggio è un po’ sconcertante: il massimo livello di mobilità richiesta prevede di “riuscire a camminare in autonomia per più di 500 metri su una superficie irregolare”. Ma in fondo, mi dico, essere la più in forma del gruppo potrebbe rivelarsi un’esperienza piacevole e allo stesso tempo inconsueta. Davanti al Mandarin Oriental a Knightsbridge, dove ha pernottato il gruppo, ci sono 18 persone vestite in abiti di tessuti antipiega, quasi tutte in età da pensione ma dall’aria non particolarmente decrepita. Mi viene assegnato un tesserino con scritto “Lucy”, che mi appunto sulla giacca sentendomi come una bambina al primo giorno di scuola, e salgo sull’autobus per Luton. Luton non è un posto promettente da cui cominciare il viaggio, ma il “lounge esclusivo” per gli aerei privati è un’altra cosa. Somiglia un po’ a un Portakabin con meno poltrone di pelle ma non ci sono né code né folle al duty-free né tutte quelle cose che rendono faticosissimo volare. Si sale direttamente sull’aereo. Atterrati a Dubrovnik passiamo rapidamente i controlli immigrazione e veniamo traghettati in albergo, un relitto cadente presumibilmente di epoca comunista. Se avessi fatto io la prenotazione la cosa mi avrebbe un po’ disturbato, ma alla fine la vista sulla baia non è male. Scendo a piedi tra gli scogli per tuffarmi nell’acqua cristallina. Il giorno seguente ci prepariamo per un giro della piccola città vecchia. Tra le visite alle chiese e una camminata sulle mura medievali resta solo il tempo per quella che diventerà l’attività principale di tutto il viaggio: mangiare. In una piazza di fronte alla chiesa gesuita ci viene servito ogni ben di dio della cucina croata; qualche ora dopo facciamo il bis con altre sei portate in albergo. Sarà sempre così. La seconda sera, mentre mi rigiro nel letto, scrivo il mio verdetto provvisorio. Albergo: adeguato. Compagnia: così così. Mangiare: troppo. Il bilancio complessivo, però, è sorprendente: mi sto divertendo più di quanto dovrei. Sto già cambiando idea sul concetto di “bella vacanza”. Per prima cosa, avere qualcuno che ti tiene il passaporto e ti porta le valigie è molto più comodo che fare da soli. In secondo luogo, può essere un bene lasciare a casa amici e parenti. Stare con i nostri cari ci impedisce di vedere le cose nella giusta prospettiva, perché siamo troppo preoccupati del loro comportamento. Arrivati all’aeroporto di Assuan, dopo tre ore passate a osservare il serpente verde del Nilo che striscia nel deserto, è evidente che c’è qualcosa di strano. Non ci sono altri aerei. La seconda rivoluzione egiziana, a quanto pare, ha finito il lavoro della prima: allontanare i turisti. All’interno del terminal il nastro portabagagli è sinistramente fermo e il personale addetto al bagaglio è talmente felice di vederci che ci fa una foto di gruppo. Poi passa due volte le nostre valigie ai raggi x; così, solo per il gusto di farlo. All’Old Cataract hotel, una ex villa coloniale color rosso scuro in passato molto apprezzata da Winston Churchill e Agatha Christie, gli inservienti portano asciugamani freschi e drink appiccicosi per accogliere il nostro gruppo che sta rischiando la vita solo per il fatto di essere qui. Nel giro di qualche secondo, però, scopriamo che i rischi non vengono tanto dai fondamentalisti islamici ma dal pavimento di marmo: si sente un tonfo e il rumore di un femore che si spezza. Il nostro sfortunato compagno viene portato in ospedale ad Assuan e poi spedito in aereo a Francoforte, dove sarà operato. Corro (con cautela) nella mia stanza, notando a malapena il grande balcone privato con una magnifica vista sull’isola di Elefantina e la tomba dell’Aga Khan. Mi collego a internet per fare un’assicurazione di viaggio.
In barca sul Nilo
Il giorno dopo, in un’afa soffocante, atterriamo ad Abu Simbel per vedere il tempio monumentale che Ramses il grande fece costruire per sé e quello, molto più piccolo, che fece fare per la moglie. Entrambi sono stati portati qui negli anni sessanta per essere preservati dalle acque alluvionali create dalla nuova diga di Assuan. Secondo Wikipedia, ogni giorno migliaia di turisti si mettono in marcia per ore per visitare il sito: oggi però ci siamo solo noi. Tocco la pietra bollente del polpaccio monolitico di Ramses e ascolto il silenzio. La sera ci servono drink in barca sul Nilo mentre un gruppo di nubiani scatenati suona i tamburi e balla. Quando ci invitano a unirci alle danze mi faccio trasportare dal ritmo frenetico, dimenticando che di solito non ballo. Ecco la mia seconda scoperta. Spesso in vacanza la presenza più ingombrante e fastidiosa non è quella della nostra famiglia, ma la nostra. Stavolta, in parte grazie al bombardamento di nuove esperienze e soprattutto alla totale mancanza di curiosità per la vita dei miei nuovi amici, sono riuscita a lasciare a casa me stessa. All’aeroporto di Assuan la guida egiziana ci saluta pregandoci di dire a chi è rimasto a casa di venire. Dopo tre ore e mezza e un bel po’ di deserto, ci aspetta tutt’altra scena. Due uomini con un carrello per i bagagli dorato attraversano di corsa la pista seguiti da altri due con un tappeto rosso e giallo oro. “Ad Abu Dhabi ci sono due classi di persone”, ci dice la nostra nuova guida. “I ricchi e i molto, molto ricchi”. L’Emirates Palace hotel (che si è dato sette stelle) è stato costruito qualche anno fa e ha dimensioni che forse perfino Ramses il grande avrebbe trovato esagerate.
continua domenica 20 aprile
20140417
Emirati Arabi Uniti - Aprile 2014 (6)
Per l'ingresso, ci sono alcune regole da rispettare. Per dire: le bimbe devono tornare in auto e mettersi il golfino, per coprire le braccia. Dopo una certa ora non si richiede più la copertura della testa, ma prima dell'ingresso ci sono degli addetti che inviano le signore più "scoperte" ad indossare un abaya gratis. A noi maschietti ci va di culo: i nostri pantaloni corti arrivano sotto il ginocchio, per cui non dobbiamo indossare il kandura. E quindi, inizia il nostro pellegrinaggio vagamente blasfemo attraverso questa spettacolare, e pure un po' pacchiana, ma comunque intrigante moschea. Marmi, lampadari con cristalli Swarovski incastonati, e naturalmente il più grande tappeto del mondo. Come che sia, da vedere.
Finita la visita, ci dirigiamo verso Dubai. Ci attende la cena a casa di Nasser, un banchiere di origini giordano-palestinesi che ho conosciuto brevemente due anni fa durante la mia visita precedente. La cena era programmata per il venerdì, gli amici avevano titubato visto che sarei stato in visita, e Nasser gli aveva detto di portare anche me, senza sapere che ero il tizio che aveva conosciuto due anni prima. Metto a fuoco la cosa lentamente, senza esserne certo. Chiko si è raccomandato di portarmi dietro almeno una camicia (e un paio di pantaloni che non fossero mimetici), e Ale cortesemente mi ha re-stirato il tutto. Arriviamo a casa e ci prepariamo per l'evento.
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Un particolare dell'enorme tappeto di cui sopra |
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Una delle porte che danno sull'enorme corte |
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Non sono sicurissimo, ma come immaginerete certo anche voi questo display dovrebbe stare ad indicare gli orari e i nomi delle cinque preghiere islamiche giornaliere |
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Particolare del soffitto |
Finita la visita, ci dirigiamo verso Dubai. Ci attende la cena a casa di Nasser, un banchiere di origini giordano-palestinesi che ho conosciuto brevemente due anni fa durante la mia visita precedente. La cena era programmata per il venerdì, gli amici avevano titubato visto che sarei stato in visita, e Nasser gli aveva detto di portare anche me, senza sapere che ero il tizio che aveva conosciuto due anni prima. Metto a fuoco la cosa lentamente, senza esserne certo. Chiko si è raccomandato di portarmi dietro almeno una camicia (e un paio di pantaloni che non fossero mimetici), e Ale cortesemente mi ha re-stirato il tutto. Arriviamo a casa e ci prepariamo per l'evento.
20140415
Emirati Arabi Uniti - Aprile 2014 (4)
Quindi, il giovedì diventa una sorta di giornata quasi "casalinga". Credeteci o no, la notte ha piovuto, pure discretamente. Dormo fino a tardi, nel frattempo Chiko è andato al lavoro, le bambine giocano (la scuola è in vacanza, anzi, si aspettano i risultati) e Ale (la moglie di Chiko) rassetta casa. Per l'ora di pranzo Chiko torna a casa, si pranza, e dopo io e lui andiamo all'aeroporto, ufficio Lufthansa, per vedere cosa si può fare. Nell'ufficio, una bionda chiaramente tedesca che nemmeno ci saluta, e ci attende una gentile signora probabilmente indiana, che si attacca al telefono ma ci dice, in pratica, che non può fare niente e che sono io che devo telefonare a Milano. A casa, riesco a contattare la biglietteria Lufthansa di Milano Malpensa, e l'operatore, che inizialmente sembra non capire, mi risolve brillantemente la situazione: partenza confermata da Dubai il 7 per Monaco, Monaco-Pisa per la mattina seguente poco dopo le 11. La notte è a mio carico, vista la tariffa con cui ho comprato il volo. Bene. Mi manda una email di conferma. Ringrazio.
Si esce e si va al centro commerciale della zona. Prelevo della moneta locale, le bimbe mi convincono a mangiare un frozen yogurt. Visto che la vecchiaia incombe, non riesco già più a ricordare dove abbiamo mangiato a cena. Ci penseranno Ale e Chiko nei commenti a ricordarmelo.
E' il venerdì che diventa una giornatona. Il weekend musulmano, almeno qua, è venerdì-sabato. Molti però il sabato lavorano, ma il venerdì quasi tutti fanno festa. Si decide di andare ad Abu Dhabi, dove io non sono mai stato. Ci sono quasi 150 chilometri, da Dubai. Ora, come ormai sapete, l'autostrada è a 6 corsie, e il limite è di 120 ma fino a 140 non sei passibile di multa. Di curve ce ne sono poche, ma gli incidenti non sono inusuali, anzi, circolano molte pattuglie pronte a rilevare gli incidenti: se ti accade, finché non interviene la pula non puoi spostare l'auto. Mentre la bimbe non smettono mai di cantare, Chiko mi spiega un po' di cose: dal confine tra l'emirato di Dubai e quello di Abu Dhabi, in realtà quello dove ci sono i soldi veri e il petrolio (tanto ma tanto), cominciano le piante. Lo sceicco ha il pallino della piantumazione contro la desertificazione, tra gli altri pallini (e, nonostante il petrolio e le auto 5mila a benzina e il circuito di F1, si stanno muovendo verso le rinnovabili con tecnologie avanzate, a quanto pare). Quando arriviamo ci dirigiamo verso una parte periferica della città, quella dove si trova il Ferrari World e, appunto, il circuito di F1. Entriamo nel "recinto" del circuito, girando tra le zone circostanti. Il Ferrari è a fianco, e contiene mostre permanenti, una zona usata per i grandi concerti all'aperto (gli amici hanno visto tra gli altri i Rolling Stones, recentemente, e prossimamente ci saranno i Black Sabbath, se rimangono vivi aggiungo io), e delle montagne russe, ovviamente le più grandi del mondo, se non erro. In realtà, questa "parte periferica" non è altro che una delle isole che formano Abu Dhabi, l'isola di Yas. Proseguiamo verso il centro, che, rispetto a Dubai, somiglia più ad una metropoli statunitense. Abu Dhabi (ricordiamolo, la capitale) ha cominciato la sua corsa verso il futuro più tardi di Dubai, ma visti i capitali che circolano, sta recuperando velocemente. Sono in progettazione e ormai in esecuzione, diversi musei enormi, tra i quali uno in collaborazione con il Louvre francese. Si sono messi in testa di diventare anche una capitale culturale. Scommetto che ce la faranno senza problemi.
Andiamo in un centro commerciale in centro, e scusate la ripetizione; giretto per i bagni e poi dritti al ristorante libanese: il pranzo è direi luculliano. Un altro giretto e poi torniamo verso Dubai, ma lo stop alla moschea è d'obbligo. Stiamo parlando della Sheikh Zayed Grand Mosque, voluta dal padre della patria. Per oggi, lascio parlare le immagini.
Si esce e si va al centro commerciale della zona. Prelevo della moneta locale, le bimbe mi convincono a mangiare un frozen yogurt. Visto che la vecchiaia incombe, non riesco già più a ricordare dove abbiamo mangiato a cena. Ci penseranno Ale e Chiko nei commenti a ricordarmelo.
E' il venerdì che diventa una giornatona. Il weekend musulmano, almeno qua, è venerdì-sabato. Molti però il sabato lavorano, ma il venerdì quasi tutti fanno festa. Si decide di andare ad Abu Dhabi, dove io non sono mai stato. Ci sono quasi 150 chilometri, da Dubai. Ora, come ormai sapete, l'autostrada è a 6 corsie, e il limite è di 120 ma fino a 140 non sei passibile di multa. Di curve ce ne sono poche, ma gli incidenti non sono inusuali, anzi, circolano molte pattuglie pronte a rilevare gli incidenti: se ti accade, finché non interviene la pula non puoi spostare l'auto. Mentre la bimbe non smettono mai di cantare, Chiko mi spiega un po' di cose: dal confine tra l'emirato di Dubai e quello di Abu Dhabi, in realtà quello dove ci sono i soldi veri e il petrolio (tanto ma tanto), cominciano le piante. Lo sceicco ha il pallino della piantumazione contro la desertificazione, tra gli altri pallini (e, nonostante il petrolio e le auto 5mila a benzina e il circuito di F1, si stanno muovendo verso le rinnovabili con tecnologie avanzate, a quanto pare). Quando arriviamo ci dirigiamo verso una parte periferica della città, quella dove si trova il Ferrari World e, appunto, il circuito di F1. Entriamo nel "recinto" del circuito, girando tra le zone circostanti. Il Ferrari è a fianco, e contiene mostre permanenti, una zona usata per i grandi concerti all'aperto (gli amici hanno visto tra gli altri i Rolling Stones, recentemente, e prossimamente ci saranno i Black Sabbath, se rimangono vivi aggiungo io), e delle montagne russe, ovviamente le più grandi del mondo, se non erro. In realtà, questa "parte periferica" non è altro che una delle isole che formano Abu Dhabi, l'isola di Yas. Proseguiamo verso il centro, che, rispetto a Dubai, somiglia più ad una metropoli statunitense. Abu Dhabi (ricordiamolo, la capitale) ha cominciato la sua corsa verso il futuro più tardi di Dubai, ma visti i capitali che circolano, sta recuperando velocemente. Sono in progettazione e ormai in esecuzione, diversi musei enormi, tra i quali uno in collaborazione con il Louvre francese. Si sono messi in testa di diventare anche una capitale culturale. Scommetto che ce la faranno senza problemi.
Andiamo in un centro commerciale in centro, e scusate la ripetizione; giretto per i bagni e poi dritti al ristorante libanese: il pranzo è direi luculliano. Un altro giretto e poi torniamo verso Dubai, ma lo stop alla moschea è d'obbligo. Stiamo parlando della Sheikh Zayed Grand Mosque, voluta dal padre della patria. Per oggi, lascio parlare le immagini.
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Questa l'ho voluta fare per inquadrare pure uno degli avveniristici ponti tra le isole, lo vedete "incastonato" tra le colonne, proprio quello che sembra una montagna russa. |
20140414
sbenedetti
Bless Off - The Shrine (2014)
Band totalmente fuori dai giri mainstream, talmente alternative che non troverete una loro scheda Wikipedia, i The Shrine sono un power trio che viene da Venice Beach, California, e questo Bless Off, da quanto mi pare di capire dal loro sito e da alcune recensioni in rete, è il loro secondo disco, che segue Primitive Blast del 2011.
Che cosa dicono di nuovo i The Shrine? Niente. Ma, allora, perché vale la pena disturbarsi ad ascoltare questo loro nuovo disco? Prima di tutto, sono una di quelle band che mixa tutta una serie di influenze che hanno attraversato il rock pesante dal 1970 ad oggi, quindi hard rock soprattutto sabbathiano, punk californiano (of course), la NWOBHM principalmente inglese, il thrash metal della Bay Area (che, come sapete certamente tutti, mutuava il crust punk e lo trasformava in una sorta di heavy metal 2.0), riuscendo nello stesso momento a farvi ricordare tutte queste cose e tutte quelle band che primeggiavano quei filoni, e a suonare incredibilmente freschi seppur con suoni evidentemente un po' datati.
Non è da trascurare il sapiente songwriting, che fa si che i pezzi del disco si susseguano senza mai annoiare, senza mai far venire voglia all'ascoltatore che anche si ponga di fronte al primo ascolto, di saltare qualche passaggio. C'è, ovviamente, una certa disomogeneità, appunto nei pezzi, naturale quando si mettono nello stesso calderone Black Sabbath, Black Flag, Metallica e Iron Maiden, passando attraverso tutto l'arco "costituzionale" della musica pesante, ma vi posso assicurare che Destroyers, Worship, Tripping Corpse, The Duke, e così via fino alla conclusiva Hellride, vi faranno trascorrere una buona mezz'ora (abbondante), e specialmente se siete, come me, addicted ai suoni distorti, vi metterà voglia di tornarci sopra.
Band totalmente fuori dai giri mainstream, talmente alternative che non troverete una loro scheda Wikipedia, i The Shrine sono un power trio che viene da Venice Beach, California, e questo Bless Off, da quanto mi pare di capire dal loro sito e da alcune recensioni in rete, è il loro secondo disco, che segue Primitive Blast del 2011.
Che cosa dicono di nuovo i The Shrine? Niente. Ma, allora, perché vale la pena disturbarsi ad ascoltare questo loro nuovo disco? Prima di tutto, sono una di quelle band che mixa tutta una serie di influenze che hanno attraversato il rock pesante dal 1970 ad oggi, quindi hard rock soprattutto sabbathiano, punk californiano (of course), la NWOBHM principalmente inglese, il thrash metal della Bay Area (che, come sapete certamente tutti, mutuava il crust punk e lo trasformava in una sorta di heavy metal 2.0), riuscendo nello stesso momento a farvi ricordare tutte queste cose e tutte quelle band che primeggiavano quei filoni, e a suonare incredibilmente freschi seppur con suoni evidentemente un po' datati.
Non è da trascurare il sapiente songwriting, che fa si che i pezzi del disco si susseguano senza mai annoiare, senza mai far venire voglia all'ascoltatore che anche si ponga di fronte al primo ascolto, di saltare qualche passaggio. C'è, ovviamente, una certa disomogeneità, appunto nei pezzi, naturale quando si mettono nello stesso calderone Black Sabbath, Black Flag, Metallica e Iron Maiden, passando attraverso tutto l'arco "costituzionale" della musica pesante, ma vi posso assicurare che Destroyers, Worship, Tripping Corpse, The Duke, e così via fino alla conclusiva Hellride, vi faranno trascorrere una buona mezz'ora (abbondante), e specialmente se siete, come me, addicted ai suoni distorti, vi metterà voglia di tornarci sopra.
20140413
Emirati Arabi Uniti - Aprile 2014 (3)
Se avete voglia e guardate la strada, vederete che sono oltre 100 chilometri di deserto e montagne; non è difficile costruire autostrade qui, ma sappiate che due corsie a carreggiata sono solo per gli svincoli. Chiko mi spiega un po' di cose, io sono stanco ma cerco di fare del mio meglio per essere quantomeno di compagnia. La giornata è, manco a dirlo, bella, ma il tempo, mi dice, non è proprio per la quale: ultimamente sta piovendo. Cammelli, anzi, dromedari, costeggiano l'autostrada, e ogni tanto se ne trovano in strada così come da noi i gatti. L'autostrada vira verso l'Oceano Indiano e taglia le montagne maestose in maniera altrettanto maestosa. Sabbia e rocce. Anche questo è uno di quei luoghi dove mi piace essere. Il niente, a volte, è il tutto. Un'oretta e siamo vicini. Accetto l'offerta di Chiko: mi lascia al suo appartamento per dormire qualche ora mentre lui va sul cantiere, poi ci ritroviamo per pranzo. Si, avete capito: qui si lavora, ma ti trattano alla grande. L'amico, lavorando a oltre 100 km da "casa" (e forse scritto tra virgolette non è corretto nei suoi confronti), ha un appartamento vicino al cantiere, per quando non ce la fa o non ha voglia di tornare a casa la sera. Originariamente era diviso con un collega, che però non ci mette piede da anni. In alto, in un palazzo con molti piani, dal terrazzo si vede l'aeroporto di Fujairah e l'Oman, esattamente sulla collina sovrastante. Mi faccio una doccia, stendo le lenzuola pulite, dormo della grossa per tre ore. Verso le 12 abbondanti andiamo a pranzo, vista mare (Golfo dell'Oman/Oceano Indiano), e poi Chiko mi porta nella zona industriale, sul cantiere. Conosco qualcuno dei suoi collaboratori, ci beviamo due caffè, mi spiega un po' di cose, risponde a domande di lavoro, e poi ce ne andiamo. Gli EAU hanno deciso che, siccome l'Iran non è poi così affidabile, hanno bisogno di organizzarsi per portare il petrolio e altre cosette interessanti direttamente "oltre" lo stretto di Hormuz rispetto a Dubai e Abu Dhabi, quindi stanno costellando di raffinerie e depositi vari la parte industriale di Fujairah: è qui che sta lavorando molto la ditta per cui lavora il mio amico. Si riparte, direzione Dibba (Dibba Al-Fujairah), quindi costeggiamo il mare (ma anche un'enclave omanita: guardate la cartina. Chiko mi mostra una stazione di servizio su una strada secondaria, che si vede bene dalla strada sulla quale stiamo viaggiando, e mi dice che lì la benzina costa meno perché è in Oman): Murbah, Khor Fakkan, Al Badiyah, Sharm, Dadna, Dibba. Ci fermiamo, c'è da comprare la legna per il barbecue di stasera. Torniamo indietro per la stessa strada, e ci fermiamo ad Al Badiyah, perché lì, oltre ad un fortino, c'è la più vecchia moschea degli EAU (15esimo secolo).
Si torna verso Dubai, e mentre (adesso son riposato) ci aggiorniamo reciprocamente (su quello che succede lì e su quello che succede al paesello), il sole cala, la foschia si fa vedere (ebbene si), e l'autostrada diventa più che suggestiva.
Prima di giungere a casa (in questi due anni gli amici hanno cambiato, sono in un altro compound, ma praticamente molto molto simile a quello di prima) mi arriva un sms da Lufthansa: il volo di ritorno Monaco-Pisa è stato annullato. Minchia non si può stare in pace neppure a Dubai. Si arriva a casa e saluto Ale e le bimbe (la moglie e le due figlie di Chiko), e mi metto al pc per vedere come si può rimediare. Sembra che mi abbiano spostato tutti e due i voli al 10 aprile, e questo non va bene, anche se vorrebbe dire rimanere lì, più comodo che in hotel, per ben 9 giorni. L'indomani proviamo ad andare all'aeroporto, ufficio Lufthansa. Cominciano ad arrivare gli ospiti: sono il "gruppo" di amici dei miei amici, italiani, anzi, toscani, anche loro di stanza a Dubai. Una coppia di Volterra, con due figlie, e un'altra di Grosseto, un figlio e una figlia. Tutti simpatici. Si mangia, si beve, si familiarizza. E la cosa straordinaria è sentire i bambini che parlano con noi in italiano, e tra di loro in inglese. Ma in inglese non come noi eh.
Si torna verso Dubai, e mentre (adesso son riposato) ci aggiorniamo reciprocamente (su quello che succede lì e su quello che succede al paesello), il sole cala, la foschia si fa vedere (ebbene si), e l'autostrada diventa più che suggestiva.
Prima di giungere a casa (in questi due anni gli amici hanno cambiato, sono in un altro compound, ma praticamente molto molto simile a quello di prima) mi arriva un sms da Lufthansa: il volo di ritorno Monaco-Pisa è stato annullato. Minchia non si può stare in pace neppure a Dubai. Si arriva a casa e saluto Ale e le bimbe (la moglie e le due figlie di Chiko), e mi metto al pc per vedere come si può rimediare. Sembra che mi abbiano spostato tutti e due i voli al 10 aprile, e questo non va bene, anche se vorrebbe dire rimanere lì, più comodo che in hotel, per ben 9 giorni. L'indomani proviamo ad andare all'aeroporto, ufficio Lufthansa. Cominciano ad arrivare gli ospiti: sono il "gruppo" di amici dei miei amici, italiani, anzi, toscani, anche loro di stanza a Dubai. Una coppia di Volterra, con due figlie, e un'altra di Grosseto, un figlio e una figlia. Tutti simpatici. Si mangia, si beve, si familiarizza. E la cosa straordinaria è sentire i bambini che parlano con noi in italiano, e tra di loro in inglese. Ma in inglese non come noi eh.
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Questa fa cagare, ma immaginatevi i dromedari. |
20140412
20140411
Emirati Arabi Uniti - Aprile 2014 (2)
Orbene, tanto per perdere un poco di tempo ma darvi informazioni che, chi lo sa, potrebbero un giorno tornarvi utili, facciamo una sorta di "cappello" a questo ennesimo viaggio di questo 2014, al momento il più lungo.
Se vi ricordate, ero (eravamo, io e voi) già stato a Dubai, un paio di anni fa, di ritorno dal Kenya: ve ne parlai qui e qui. Sono in un periodo bello, interessante, impegnativo, ma che al tempo stesso mi permette di concedermi dei "lussi"; come starete notando, sto viaggiando un bel po' quest'anno, e quindi spesso le decisioni le prendo così, all'improvviso e sull'onda di sensazioni anche solo passeggere. Uno scambio di email con l'amico Chiko, e via, si organizza per qualche giorno a Dubai. Mi faccio un giro sulle varie opzioni che trovo, ed il volo più interessante (conveniente) lo trovo da Lufthansa, compagnia con la quale non ho mai volato, ragione di più per comprarlo. Meno di 500 euro, Pisa-Monaco-Dubai, con tempi d'attesa a Monaco piuttosto lunghi (6/7 ore), ma sempre meglio di mezz'ora di tempo col rischio di perdere il volo seguente. Ma stavolta c'è la sorpresa: pochi giorni prima mi arriva un sms dalla compagnia, che mi dice che il volo Monaco-Dubai è stato cancellato. Vado sul sito, e scopro che i piloti Lufthansa sono in agitazione. Incredibile: anche i tedeschi scioperano. Le alternative sono: o spostare il volo "in avanti", e in quel modo sarei rimasto a Dubai solo un giorno, oppure anticiparlo di un giorno. Da 4 giorni pieni la vacanzina diventerebbe di 5, ma a lavoro devo fare le corse. La seconda che hai detto. Il giorno 1 aprile, verso le 10 di mattina, mentre mi ricordo di cosa mi sono dimenticato a lavoro, sto correndo verso l'aeroporto pisano. Auto al solito parcheggio, controlli, non riesco ad arrivare vicino al gate perché la strada è intasata dalla coda per un imbarco Ryanair (lo dico a costo di sembrare davvero uno snob: la situazione dell'aeroporto di Pisa, agli imbarchi, sta diventando imbarazzante. Non capisco cosa aspettino a "mangiare" 20 metri del piazzale antistante e ad allargare in modo decente la zona imbarchi). Quando ci arrivo, scopro che il volo è in ritardo di circa un'ora, lo scopro leggendo con la lente d'ingrandimento il monitor, nessun avvertimento agli altoparlanti. Molti non se ne accorgono, inizia il passaparola, chi ha coincidenze strette a Monaco va ad informarsi. Finalmente si parte, la tratta è a cura di Air Dolomiti, una, come possiamo definirla, consociata? controllata? che ha degli aerei carini; il pilota si lancia in una spiegazione che sembra inventata lì per lì. Il ritardo, dice, è stato causato da "lavori di ricalibrazione della pista". Non la bevo, ma mentre stavamo aspettando Ryanair ha cancellato ben due voli, e questa è un'altra cosa che non avevo mai sentito dire. Si arriva a Monaco, e come avrete capito dal primo post di questo viaggio, l'impressione è forte. Non ero mai passato per questo flughafen, me ne avevano parlato, ma è veramente una roba grossa. Corridoi per chilometri, negozi, luoghi di relax, ristoranti, caffè, come vi ho detto, napcabs (una roba che non ho resistito, ho dovuto provare), punti massaggio, piccole beauty farm. Il pomeriggio passa come vi ho detto, poi si vola. L'imbarco è automatico, passi la carta d'imbarco (stampata tramite check in on line) su un lettore, si apre il tornello; a me dà un messaggio e mi rilascia un ticket, l'addetto lì vicino mi spiega (prima in tedesco, poi in inglese quando gli dico che non capisco) che siccome l'aereo è piccolo (rispetto a quello sulla cui mappa avevo scelto il posto a sedere durante il check in on line), il posto mi è stato cambiato. Fortunatamente sono al finestrino con il sedile accanto vuoto. Familiarizzo con l'intrattenimento a bordo e mi vedo I sogni segreti di Walter Mitty, un film del quale forse un giorno vi parlerò, ma che non è granché, solo che è girato in parte in Groenlandia, e soprattutto in Islanda, e come sapete quando, al contrario di come accade di solito, riconosco in un film luoghi dove sono già stato, mi fa star bene. Poi scopro che ci sono anche le serie tv, e mi viene in mente che quella lì è quella di cui mi aveva parlato la mia insegnante di francese: Broadchurch, un giallo inglese, che è andato forte anche in Francia. Nessun sottotitolo, e quindi mi butto in originale, mi vedo i primi due episodi e mi piacciono. Si arriva con un'ora di anticipo. Sono le 6,00 ora locale. Sms a Chiko. Esco dall'aeroporto, e verifico quel che mi aveva detto: arrivare con Emirates (come due anni fa) è un'altra cosa. I terminal sono diversi, e questo è decisamente meno sciccoso. Esco e rientro, vado in bagno e scopro che qui si sputa e si scatarra un sacco, e poi faccio colazione ad un Costa Caffè, una sorta di Starbucks tarocco, dove ci siamo dati appuntamento. Arriva Chiko, ci si abbraccia ed evitiamo gli amarcord che ormai siamo grandi ma, come dire, ho come la sensazione che siamo entrambi pure un po' orgogliosi l'uno dell'altro: ne abbiamo fatta di strada da quando ci piangevamo addosso per le delusioni amorose da ventenni nell'auto dei padri, fumando a più non posso nella notte dei disoccupati. Andiamo al parcheggio, e partiamo verso Fujairah, la città dove Chiko sta lavorando su alcuni cantieri ormai da qualche anno.
Se vi ricordate, ero (eravamo, io e voi) già stato a Dubai, un paio di anni fa, di ritorno dal Kenya: ve ne parlai qui e qui. Sono in un periodo bello, interessante, impegnativo, ma che al tempo stesso mi permette di concedermi dei "lussi"; come starete notando, sto viaggiando un bel po' quest'anno, e quindi spesso le decisioni le prendo così, all'improvviso e sull'onda di sensazioni anche solo passeggere. Uno scambio di email con l'amico Chiko, e via, si organizza per qualche giorno a Dubai. Mi faccio un giro sulle varie opzioni che trovo, ed il volo più interessante (conveniente) lo trovo da Lufthansa, compagnia con la quale non ho mai volato, ragione di più per comprarlo. Meno di 500 euro, Pisa-Monaco-Dubai, con tempi d'attesa a Monaco piuttosto lunghi (6/7 ore), ma sempre meglio di mezz'ora di tempo col rischio di perdere il volo seguente. Ma stavolta c'è la sorpresa: pochi giorni prima mi arriva un sms dalla compagnia, che mi dice che il volo Monaco-Dubai è stato cancellato. Vado sul sito, e scopro che i piloti Lufthansa sono in agitazione. Incredibile: anche i tedeschi scioperano. Le alternative sono: o spostare il volo "in avanti", e in quel modo sarei rimasto a Dubai solo un giorno, oppure anticiparlo di un giorno. Da 4 giorni pieni la vacanzina diventerebbe di 5, ma a lavoro devo fare le corse. La seconda che hai detto. Il giorno 1 aprile, verso le 10 di mattina, mentre mi ricordo di cosa mi sono dimenticato a lavoro, sto correndo verso l'aeroporto pisano. Auto al solito parcheggio, controlli, non riesco ad arrivare vicino al gate perché la strada è intasata dalla coda per un imbarco Ryanair (lo dico a costo di sembrare davvero uno snob: la situazione dell'aeroporto di Pisa, agli imbarchi, sta diventando imbarazzante. Non capisco cosa aspettino a "mangiare" 20 metri del piazzale antistante e ad allargare in modo decente la zona imbarchi). Quando ci arrivo, scopro che il volo è in ritardo di circa un'ora, lo scopro leggendo con la lente d'ingrandimento il monitor, nessun avvertimento agli altoparlanti. Molti non se ne accorgono, inizia il passaparola, chi ha coincidenze strette a Monaco va ad informarsi. Finalmente si parte, la tratta è a cura di Air Dolomiti, una, come possiamo definirla, consociata? controllata? che ha degli aerei carini; il pilota si lancia in una spiegazione che sembra inventata lì per lì. Il ritardo, dice, è stato causato da "lavori di ricalibrazione della pista". Non la bevo, ma mentre stavamo aspettando Ryanair ha cancellato ben due voli, e questa è un'altra cosa che non avevo mai sentito dire. Si arriva a Monaco, e come avrete capito dal primo post di questo viaggio, l'impressione è forte. Non ero mai passato per questo flughafen, me ne avevano parlato, ma è veramente una roba grossa. Corridoi per chilometri, negozi, luoghi di relax, ristoranti, caffè, come vi ho detto, napcabs (una roba che non ho resistito, ho dovuto provare), punti massaggio, piccole beauty farm. Il pomeriggio passa come vi ho detto, poi si vola. L'imbarco è automatico, passi la carta d'imbarco (stampata tramite check in on line) su un lettore, si apre il tornello; a me dà un messaggio e mi rilascia un ticket, l'addetto lì vicino mi spiega (prima in tedesco, poi in inglese quando gli dico che non capisco) che siccome l'aereo è piccolo (rispetto a quello sulla cui mappa avevo scelto il posto a sedere durante il check in on line), il posto mi è stato cambiato. Fortunatamente sono al finestrino con il sedile accanto vuoto. Familiarizzo con l'intrattenimento a bordo e mi vedo I sogni segreti di Walter Mitty, un film del quale forse un giorno vi parlerò, ma che non è granché, solo che è girato in parte in Groenlandia, e soprattutto in Islanda, e come sapete quando, al contrario di come accade di solito, riconosco in un film luoghi dove sono già stato, mi fa star bene. Poi scopro che ci sono anche le serie tv, e mi viene in mente che quella lì è quella di cui mi aveva parlato la mia insegnante di francese: Broadchurch, un giallo inglese, che è andato forte anche in Francia. Nessun sottotitolo, e quindi mi butto in originale, mi vedo i primi due episodi e mi piacciono. Si arriva con un'ora di anticipo. Sono le 6,00 ora locale. Sms a Chiko. Esco dall'aeroporto, e verifico quel che mi aveva detto: arrivare con Emirates (come due anni fa) è un'altra cosa. I terminal sono diversi, e questo è decisamente meno sciccoso. Esco e rientro, vado in bagno e scopro che qui si sputa e si scatarra un sacco, e poi faccio colazione ad un Costa Caffè, una sorta di Starbucks tarocco, dove ci siamo dati appuntamento. Arriva Chiko, ci si abbraccia ed evitiamo gli amarcord che ormai siamo grandi ma, come dire, ho come la sensazione che siamo entrambi pure un po' orgogliosi l'uno dell'altro: ne abbiamo fatta di strada da quando ci piangevamo addosso per le delusioni amorose da ventenni nell'auto dei padri, fumando a più non posso nella notte dei disoccupati. Andiamo al parcheggio, e partiamo verso Fujairah, la città dove Chiko sta lavorando su alcuni cantieri ormai da qualche anno.
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La zona imbarchi del terminal 2 dell'aeroporto di Monaco, voli verso l'Italia (fotografata al ritorno): tanto per dire, è quella messa peggio... |
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