No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20080831

playlist-nel lettore mp3

Album

Beck - Modern Guilt
Bersuit Vergarabat - La argentinidad al palo
Carla Bruni - Comme si de rien n'était
Catupecu Machu - Laberintos entre artistas y dialectos
Gavin Rossdale - Wanderlust
Los Piojos - Civilización
Maná - Grandes exitos
Sigur Ros - Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust
Soda Stereo - MTV Unplugged
Tom Waits - Rain Dogs

Canzoni

A Fine Frenzy - Almost Lover
Almamegretta - Fatmah
Alter Bridge - In Loving Memory
Alter Bridge - Open Your Eyes
Bersuit Vergarabat - El tiempo no para (en vivo)
Cristina Donà - How Deep Is Your Love
Fernando Ruiz Diaz - Mañana en el Abasto
John Waite & Alison Krauss - Missing You 2007
Paul Weller - All I Wanna Do (Is Be With You)
Puddle Of Mudd - We Don't Have To Look Back Now
Ricardo Arjona - Quiero
Ricardo Arjona ft. Eros Ramazzotti - A ti
Rosana - Si tu no estás aquí
Sin Bandera - Si tu no estás aquí
Steve Earle - Way Down In The Hole

20080830

situescion


Leggevo un blog che mi segnalò l'amico Dria, di una giovine donzella; in uno degli ultimi post ammette di non essere più giovane. Io lo so da tempo.

Un segnale del mio non essere più giovane è che dopo gli ultimi voli trans-oceanici, ho sofferto sempre più del famosissimo jet-lag. Il mio jet-lag personale è aggravato dal fatto che solitamente prima di volare passo alcune notti semi-insonni sull'autobus. Per farla breve: mangio in orari inaccettabili, dormo poco, volente o nolente. Ieri sono andato a letto alle 20, mi sono svegliato a mezzanotte, ho mangiato, sono uscito, sono andato a letto di nuovo prima delle 6,00 e mi sono svegliato alle 9,00. Se mi domandate se ho sonno, vi rispondo di no. Se mi domandate se ho fame vi rispondo di no. Però è probabile che tra 5 minuti accuserò sia l'uno che l'altra.


Dopo i viaggi divento malinconico senza essere triste. Qualche anno fa mi aiutò un neologismo coniato (forse) da Manu Chao: la malegría. Mi sono fatto un cd di canzoni in castigliano, non allegrissime a parte una. Alcune ripetute più volte. Ascolto solo quello.


Nonostante tutto, mi sembra che questo viaggio mi abbia cambiato meno degli altri. Non è necessariamente un male. Una delle cose positive che ho capito, è che esistono italiani che viaggiano e che sono persone in gamba. Tengono un basso profilo e vogliono conoscere. Qualcosa mi fa pensare che non votano Silvio. Magari sbaglio. Magari mi piace solo pensarlo.


Nel mese di settembre andrò in Belgio, dall'amico Dria e dalla sua famiglia, alcuni giorni per assistere al concerto degli Hellacopters. Vorrei vedere in concerto i Catupecu Machu, ma al momento suonano solo in Argentina. In ottobre vorrei andare una settimana in un posto di mare, senza faticare, una di quelle cose che si chiamano "vacanze". E' possibile che cada un tabù (per me) e me ne vada in Egitto, in uno di quei posti sputtanatissimi dove vanno tutti, soprattutto perchè costano meno della Sardegna. Prevedo una settimana di letture intense e poche chiacchiere, interazione minima indispensabile. In novembre vorrei fare davvero quello che mi ripromisi circa un anno fa: andare a Madrid 2 o 3 giorni da dedicare esclusivamente alla visione del museo del Prado. A lungo termine, sto tastando il terreno per il mese di marzo 2009: tornare verso il Sud America, riuscire a vedere le cascate di Iguaçu, fare un giro in Uruguay, passare a salutare l'amica Juli. Il prossimo agosto potrebbe essere la volta buona per due settimane in Islanda.


L'unico problema potrebbero essere i soldi. Maledetti.

peace now - parte 2





La strategia legale
Una delle armi di Peace Now è stata la tecnologia. L’ong usa le foto satellitari per seguire la crescita delle colonie e mostrare dove si sta costruendo senza permessi o in violazione di sentenze di tribunale che impongono d’interrompere i lavori. B’ Tselem, un’organizzazione israeliana per i diritti umani, ha fornito delle piccole videocamere ai palestinesi che sono vittima di attacchi continui da parte dei coloni estremisti. I soldati e i poliziotti presenti in Cisgiordania, infatti, spesso prendono le parti dei coloni e le videocamere servono a raccogliere delle prove. All’inizio di luglio la polizia ha fermato due coloni ripresi mentre picchiavano un palestinese legato a un palo della luce. Altri due sono stati arrestati dopo essere stati filmati mentre prendevano a bastonate una famiglia di pastori. Gli attivisti hanno adottato una nuova strategia: trasformare gli insediamenti da una questione politica, che non sembra avere molta presa sull’opinione pubblica, in un problema legale. “Non diciamo che Israele non deve avere insediamenti”, spiega Dror Etkes, che ha guidato il progetto. “Possono colonizzare la luna, se vogliono. Ma devono dimostrare che lo fanno rispettando le loro stesse leggi”. Grazie al materiale raccolto, Etkes ora collabora con B’Tselem per presentare in tribunale decine di casi. Alcuni dei loro bersagli sono “avamposti non autorizzati”, mini insediamenti allestiti senza alcun permesso. In qualche caso il governo ha già promesso ai tribunali – e a Washington – che li smantellerà. Altri, invece, sono colonie consolidate e – dal punto di vista di Israele – “legali”. A giugno Etkes ha chiesto alla corte suprema di far rispettare gli ordini di cessazione dei lavori e demolizione di nove case in costruzione a Ofra, una cittadina di 2.500 abitanti nel cuore della Cisgiordania (secondo i suoi dati, il 93 per cento di Ofra è costruito su terre private palestinesi). I coloni hanno risposto accelerando i lavori. Il rabbino di Ofra ha addirittura emesso un editto religioso in base al quale il comandamento di colonizzare la terra prevale sul divieto di far lavorare di sabato gli operai non ebrei: in questo modo le ditte possono costruire senza interruzioni. Ora le due parti si stanno dando battaglia in tribunale. Etkes dice di avere poche speranze che le autorità facciano evacuare o distruggere le case. In passato hanno ignorato troppi ordini dei tribunali. Il suo obiettivo è più semplice: “Costringere lo stato ad ammettere di aver agito in maniera illegale”. Etkes è convinto che solo insistendo nelle denunce qualcosa cambierà.


fine


Sito di Peace Now: http://www.peacenow.org/

catupecu machu - a veces vuelvo

Per la serie "canzoni del viaggio", questa in verità l'ho scoperta la prima volta che sono stato in Argentina, ma rimane inarrivabile, per una band di categoria superiore, purtroppo ignorata in Europa.

20080829

cucina maria 5

Pasta e pesto all'erba

Questi due piatti si possono gustare anche separati, per accompagnare altre pietanze, ma uniti sono la coppia più mortale dai tempi in cui nitro incontrò glicerina! Si assicurano scintille!

Per il pesto per 2/4 persone

2 e 2/3 cucchiaini di cime di cannabis di prima qualità, tritate finemente e liberate da gambi e semiun bel mazzo di basilico
50 g di pinoli o noci
60 g di prezzemolo fresco tritato
2 spicchi d'aglio
il succo di un limone piccolo
90 ml di olio d'oliva
acqua filtrata (facoltativo)

Versare gli ingredienti nel tritatutto, fatta eccezione per l'olio, e dare una bella frullata. Aggiungere l'olio e se necessario un po' d'acqua, fino a ottenere la giusta consistenza.

Per la pasta per 2/4 persone

125 g di farina (più un extra per la lavorazione)
125 g di farina di semolino
2 uova grandi
2 cucchiaini di olio d'oliva
una manciata di foglie di cannabis fresca o essiccata, tritata finemente
1/2 cucchiaino di sale

Passare al setaccio le farine e versare su un piano di lavoro pulito o in un recipiente. Scavare una buca nel centro, dentro cui si aggiungeranno gli altri ingredienti. Aiutarsi con le punte delle dita per incorporare le uova nella buca, quindi gradualmente far scendere la farina dai lati, fino a ottenere un impasto friabile. Con l'aggiunta di qualche goccia d'acqua impastare fino a ottenere una consistenza solida. Continuare a lavorare l'impasto su una superficie cosparsa di farina; la consistenza finale dovrà essere liscia ed elastica. Coprire con la pellicola e lasciare riposare per un'ora. Spianare l'impasto su una superficie cosparsa di farina, girandolo di tanto in tanto, finché raggiunge lo spessore di un foglio. A questo punto il cuoco può dargli la forma che desidera. Comunque quest'ultimo passaggio risulta semplificato se si dispone di una macchina per fare la pasta! Cuocere in acqua bollente per 3-4 minuti, scolare e condire con il pesto.

playlist - nel mio lettore mp3

Arriva la risacca sudamericana...

Album

Beck - Modern Guilt
Bersuit Vergarabat - En vivo en Quilmes Rock 2008
Catupecu Machu - Laberintos entre artistas y dialectos
Gavin Rossdale - Wanderlust
Intoxicados - El exilio de las especies
Maná - Grandes exitos
Sigur Ros - Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust
Skay Beilinson - Talismán
Soda Stereo - 20 Grandes exitos
Tom Waits - Rain Dogs

Canzoni

Puddle Of Mudd - We Don't Have To Look Back Now
A Fine Frenzy - Almost Lover
Paul Weller - All I Wanna Do (Is Be With You)
Fernando Ruiz Diáz - Mañana en el abasto
Steve Earle - Way Down In The Hole
Almamegretta - Fatmah
Alter Bridge - Open Your Eyes
Alter Bridge - In Loving Memory
Bersuit Vergarabat - El tiempo no para
Cristina Donà - How Deep Is Your Love
John Waite & Alison Krauss - Missing You 2007
Ricardo Arjona - Te quiero
Ricardo Arjona ft. Eros Ramazzotti - A ti
Rosana - Si tu no estás aquí
Sin Bandera - Si tu no estás aquí

peace now - parte 1


Da Internazionale nr. 754


Insediamenti sotto accusa

Nonostante le richieste dei tribunali e della comunità internazionale, nei Territori occupati i coloni continuano a costruire. E anche le proteste pacifiche sono vietate

The Economist, GB


Quest'anno gli israeliani possono scegliere un modo nuovo di andare in vacanza. L’organizzazione Peace Now propone a chi non è mai stato in Cisgiordania delle visite di un giorno alla scoperta degli insediamenti, i posti di blocco, il muro di separazione, il sistema stradale (alcune strade per gli israeliani, altre per i palestinesi) e le altre infrastrutture che sostengono la presenza di Israele nei Territori occupati. L’obiettivo è scuotere quella maggioranza silenziosa di israeliani favorevole a rinunciare ad alcuni degli insediamenti e al ritiro dai Territori. Il “disimpegno” del 2005, quando il governo ha smantellato gli insediamenti nella Striscia di Gaza e in parte della Cisgiordania, ha dimostrato che i coloni di matrice religiosa, pur essendo una minoranza, sono organizzati molto meglio. I più fanatici hanno continuato a costruire illegalmente e ad attaccare i palestinesi, mentre le autorità sembravano incapaci di tenerli a freno. Ma negli ultimi anni il nucleo di attivisti contrari alle colonie è diventato più combattivo. Basandosi sui dati raccolti dal governo, nel 2006 Peace Now ha calcolato che il 40 per cento della terra destinata agli insediamenti è in realtà proprietà privata palestinese, non dello stato. I coloni contestano questi dati, anche se è innegabile che gran parte degli insediamenti è costruita su terre acquisite illegalmente o in circostanze dubbie.


continua

20080828

bersuit vergarabat. clip el tiempo no para

Una delle canzoni di questo viaggio.

cucina maria 4

Guacamole sulla collinetta erbosa

Pare che il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy non disdegnasse di fumare ogni tanto uno spinello per alleviare i suoi dolori di schiena. Ecco allora una ricetta per tutti quei pericolosi cospiratori della cannabis.
Da gustare con tortillas, accompagnata a un'enchilada o a un taco.

Per 4/5 persone

1 peperoncino rosso fresco
il succo di due lime
1 cucchiaio di olio extravergine d'oliva
2 e 2/3 cucchiaini da tè di cime di cannabis finemente sminuzzate
3 avocado grandi maturi
1 cipolla media, tritata finemente

Mescolare tutti gli ingredienti fuorché gli avocado e la cipolla, e lasciare riposare almeno un'ora. Aggiungere gli avocado e la cipolla ridotti in polpa. Con il minipimer si otterrà una crema omogenea. Il guacamole andrebbe gustato fresco, ma può essere conservato in frigo fino a tre giorni, in quanto il succo di lime impedisce all'avocado di annerirsi.

nucleare si o no? parte 4





Risparmio e razionalizzazione
Questo, però, non danneggerebbe il clima, anche se dire il contrario è uno degli intramontabili cavalli di battaglia dei sostenitori del nucleare. Gli esperti lo hanno spiegato perfino al ministro
dell’economia e sostenitore dell’energia nucleare, Michael Glos: se vuole raggiungere i suoi obiettivi nel campo della tutela dell’ambiente, la Germania deve concentrarsi sul problema dell’efficienza energetica, non sul rilancio del nucleare. Solo chi è in malafede può difendere, in nome della tutela del clima, la proroga dell’uso dei reattori e, al tempo stesso, rifiutare le misure per il risparmio energetico. E lo stesso vale per chi dice che solo i profitti ottenuti prolungando il funzionamento delle centrali permetteranno di finanziare la ricerca con cui costruire un futuro energetico sicuro. Se l’energia è diventata una questione di vita o di morte, allora in un bilancio federale di 280 miliardi di euro si dovrebbero pur trovare fondi sufficienti a sostenere la ricerca. Lo sfruttamento efficiente dell’energia è l’unico modo per ridurre la dipendenza dall’estero. I francesi e i belgi, che dal nucleare ricavano una quota molto più elevata della loro produzione energetica, consumano più gasolio pro capite dei tedeschi. Secondo la più recente e disperata argomentazione della lobby nuclearista, la Germania non potrebbe permettersi di rinunciare simultaneamente all’energia nucleare e a quella del carbone. E infatti non è quello che succederà. Nel 2020, quando – secondo il piano di abbandono del nucleare – verranno spenti gli ultimi reattori, si potrà ottenere ancora molta energia elettrica dalle centrali a carbone. Questi impianti emettono un po’ più anidride carbonica (CO2) di quanta ne produrrebbero le vecchie centrali nucleari se venissero sostituite dalle nuove. Del resto anche le nuove centrali elettriche a carbone producono molta anidride carbonica, solo che, come hanno deciso gli investitori, devono produrre profitti per almeno quarant’anni. È proprio questo il problema. Nei prossimi quarant’anni i paesi come la Germania dovrebbero ridurre le loro emissioni di CO2 dell’80 per cento per rallentare il riscaldamento del pianeta. Secondo gli attuali standard tecnologici, con le centrali a carbone questo non sarà possibile. È giusto, quindi, rinviare anche la costruzione di nuove centrali a carbone, almeno finché non ne esisteranno di “compatibili con il clima”. È invece assurdo voler sfruttare, fino a quel momento, l’energia atomica come “tecnologia ponte”. La prima crisi petrolifera, agli inizi degli anni settanta, insegna che politici, manager e consumatori si mobilitano soprattutto quando la pressione delle circostanze li costringe a farlo. Il ritorno al nucleare potrebbe produrre l’effetto opposto, alimentando l’illusione che le sfide poste dalla questione energetica e climatica siano ormai superate.


Andreas Sentker è il responsabile delle pagine di scienza del settimanale tedesco Die Zeit

Fritz Vorholz è un giornalista della redazione di Berlino di Die Zeit


fine reportage

20080827

oggi

mi piacciono tantissimo queste due canzoni:
dicono di me-cesare cremonini (abbenesi!%$%£%!$£"!"!$£!£)
musa di nessuno-afterhours

Argentina ago 08 - 7

Argentina - Passaggio a Nord Ovest
Ezeiza

Continuazione del viaggio in bus tranquilla. Siamo arrivati addirittura in anticipo, sia Juli a Rosario che io a Retiro, il barrio di Buenos Aires dove si trova il terminal dei bus. Alle 4,30 della mattina assomiglia piu' ad un dormitorio che ad un terminal o ad una stazione. Ho ceduto alla pigrizia e al buio della notte e per attraversare la piazza ho preso un taxi: dalla parte opposta (e' una piazza immensa, a mia parziale discolpa) c'e' il terminal privato del trasportatore che ha l'esclusiva (anche se oggi all'aeroporto ho visto un altro bus di un trasportatore chiamato Plaza) per il collegamento con l'aeroporto. Alle 6,00 e qualche minuto ero gia' a Ezeiza, conosciuto anche come Aeropuerto Ministro Pistarini. Colazione, taglio barba/capelli (!!) e lavaggio ascelle nei bagni, cambio maglietta e calzini, riposizionamento delle poche cose nello zaino che ormai non ne puo' piu', un po' d'aria fresca, un occhio ai banchi dove sara' il check in di Iberia (il volo per adesso e' in orario), e poi un po' di internet.

E' difficile spiegare le sensazioni che si provano mentre viaggi in autobus e sai che dovrai separarti da un'amica cara con la quale hai condiviso 20 giorni praticamente sempre. Diciamo che, visto che un oceano ci separa, anche se sappiamo benissimo che ci sentiremo, ci scriveremo e ci rivedremo, si cerca di ridere e di non commuoversi, scherzandoci sopra. Anche questa volta e' stato un viaggio bello e pieni di bei ricordi, abbiamo visto dei posti davvero meravigliosi, ci siamo divertiti, abbiamo conosciuto persone interessanti.

Per il momento, non so che altro potrei aggiungere. Torneremo sul tema.
A presto.

cucina maria 3

Insalata Green Day
con mostarda alla marijuana

Il nome del famoso gruppo musicale Green Day deriva da un'espressione gergale che indica una giornata passata prevalentemente a fumare canne. Se tutto procede a dovere, quest'insalatina dovrebbe far onore al suo nome, anche se le foglie della cannabis sono in realtà la parte della pianta con il minor quantitativo di THC. È ottima come leggero antipasto prima di passare a una portata principale più forte.

Per 2/3 persone

2 manciate abbondanti di rucola
1 manciata di crescione d'acqua
1 manciata di basilico fresco
2 manciate abbondanti di spinaci
1 manciata abbondante di foglie di cannabis fresca
1 cucchiaio di mostarda di Digione
5 cucchiai di olio extravergine d'oliva
2 cucchiai di aceto balsamico
1 cucchiaino di cime di cannabis tritate
sale e pepe

Lavare bene l'insalata, fare a pezzetti il basilico e mettere tutto in una grossa insalatiera. Mescolare tutti gli ingredienti della salsa in una bottiglietta di vetro (o anche in un vasetto). Assicurarsi che il tappo sia ben chiuso e agitare forsennatamente. Condire l'insalata e servire come antipasto o insieme alla "Pasta e pesto all'erba" o alla "Follia di falafel con germogli di canapa".

nucleare si o no? parte 3




Un'illusione dannosa

di Fritz Vorholz, DIE ZEIT, Germania


Petrolio alle stelle, paura del cambiamento climatico e della crescente dipendenza dai paesi fornitori di energia: sono tutti fattori che aumentano l’insicurezza dei tedeschi. I consumatori spaventati ascoltano più facilmente gli argomenti che sembrano convincenti, anche se non lo sono. Come quelli della Cdu, secondo cui l’energia atomica è assolutamente ecologica. Economica, pulita, di fabbricazione tedesca e quindi sicura. Ora la Cdu propone di tornare sulla decisione di abbandonare il nucleare e di lasciare in funzione, dopo il 2020, le 17 centrali presenti sul territorio tedesco. Ma i fautori del nucleare inseguono un sogno che potrebbe rivelarsi un
incubo per le persone e per l’ambiente. Forse i reattori del futuro saranno migliori di quelli attuali. Ma nel mondo, ora, ci sono 439 impianti. E in ogni momento è possibile che uno vada in
avaria. Un incidente del genere porterebbe irrevocabilmente allo spegnimento anche dei reattori nazionali. E la lobby nuclearista lo sa bene. L’energia atomica non fa bene al clima, e sicuramente
non ci affranca dal costosissimo petrolio. Quanto al prezzo dell’energia elettrica che produce, è più conveniente solo in misura trascurabile. La promessa di un’energia più economica, evocata dalla Cdu e usata anche in campagna elettorale, rivela un profondo disprezzo degli elettori. È vero che nelle centrali nucleari l’energia viene prodotta a un costo molto basso, una volta superato il periodo di ammortamento. L’utente però non beneficia in alcun modo di questo risparmio, perché paga l’energia non in base ai costi di produzione ma secondo il prezzo di mercato. La differenza va ai proprietari delle centrali. Se tutti accettassero di rinunciare a metà dei loro profitti extra, come contropartita in cambio di una proroga sulla durata di funzionamento delle centrali, forse allora le bollette potrebbero davvero calare.


continua

20080826

Argentina ago 08 - 6

Argentina - Passaggio a Nord Ovest
Ultimi giorni

Sono al terminal bus di San Miguel de Tucumán, in attesa del bus per Buenos Aires. Sono le 10.36 locali, il prossimo bus e' alle 12,45, siamo partiti da Salta alle 1,50 della notte e siamo arrivati qui piu' o meno alle 6,00, ma ero troppo sconvolto per capire e verificare l'ora. Ultimi giorni serrati ma prolifici dal punto di vista umano e paesaggistico. Per riprendere da dove ci eravamo lasciati, siamo partiti da La Quiaca alle 7,58 con 5 gradi sotto zero, Juliana che aveva fatto la doccia fredda, una nebbia padana, e sull'altipiano che si percorre per tornare a sud abbiamo assistito ad un vero e proprio spettacolo della natura: il disgregamento della nebbia stessa a cura di un sole incessante, finche' ci siamo ritrovati 200 km dopo con 20 gradi sopra lo zero. Ci siamo fermati a Humauaca, la cui quebrada e' stata dichiarata patrimonio dell'umanita' dall'Unesco e abbiamo comprato verdura al mercato, mangiato empanadas a 70 centesimi di pesos e scaricato una signora alla stazione di servizio: ci eravamo fermati perche' la sua auto, dove viaggiava con la famiglia (almeno 5 persone e due bambini) si era fermata in panne. Poi altre cose che vi raccontero', e la consegna dell'auto alle 21,00 a Salta. Compriamo un'escursione di due giorni per Cachi e Cafayate, rientriamo all'hostal e attendiamo un po' perche' avevano fatto confusione con le prenotazioni (i ragazzi che lavorano alla reception sono uno piu' rincoglionito dell'altro), ceniamo, beviamo vino e parliamo con una coppia di Mallorca (Spagna), poi Juli esce e io vado a letto. Siamo in dormitorio con 4 ragazze francesi silenziosissime che alle 23,00 dormono gia' alla grande, dopo aver letto un paio d'ore almeno. Che popolo meraviglioso.
La mattina ci passano a prendere alle 7,30 abbondanti, e l'escursione si rivela interessante forse piu' dal punto di vista umano. Conosciamo due anziane argentine simpatiche, uno spagnolo verbosissimo ma simpatico che non lascia respirare la ragazza salteña che lo accompagna (dai baci e dalle smancerie), un italiano di Verona suo amico davvero in gamba (Francesco, grande), tre argentine della provincia di Buenos Aires (Mariana, Fernanda e Victoria) carine e simpaticissime, due veneziane spassose (Anna e Elisabetta, un bacio). Ci sono anche, carramba che sorpresa, il papa' e le sorelle di Jean, il francese che abbiamo lasciato con Annabelle, qualche giorno fa. C'e' anche una coppietta francese silenziosa, ma sorridente. Dormiamo e mangiamo all'hostal-ristorante El Criollo, dove il dueño e' Romolo, vi giuro, Johnny Depp sputato, piu' robusto e con un accento del nord fortissimo e divertente. Ci sconsiglia le cose che non sono fresche e scherza con noi, ma ha una faccia che non si dimentica.
E alla fine, la prestazione superlativa di Juliana, definitivamente la mia aspirazione per quando saro' grande. Arriviamo al terminal bus di Salta alle 19,00. Ci lasciamo dal gruppo a malincuore: le ragazze decidono di uscire tutte insieme. Juli vuole uscire, ma non vuole farmi fare il viaggio di ritorno da solo. Dopo 20 minuti di pregunte alla decina di sportelli della decina di ditte di trasporti passeggeri, trova una combinazione che ci permette di:
-partire alla 1,50 della notte, in modo da andare a cena con le ragazze;
-risparmiare almeno 100 pesos di viaggio;
-risparmiare due notti in hostal/albergo
anche se la mia salute non ce la fara', questa ragazza merita una statua. Dopo l'exploit del bus, non contenta, trova un hostal che senza farci pagare niente, ci da' due bagni per farci la doccia e ci lascia depositare gli zaini fino all'1.30. Sono senza parole e vorrei trovarle un buon compagno.
Le ragazze sono felicissime di vederci per le ultime ore, andiamo a La Panaderia, un ristorante che fa spettacoli dal vivo, ci divertiamo, Fernanda riesce perfino a trascinarmi a ballare, poi all'improvviso un black out totale della citta', noi che usciamo trafelati dal locale, un tassista abusivo dipendente del locale che mi sa di mezzo mafioso ci accompagna a prendere gli zaini e poi al terminal per la modica cifra di 10 pesos (quasi il doppio di una corsa normale), poi il bus, il cambio a Guelmes praticamente mentre dormiamo, l'arrivo a Tucumán.
Ci sono cose che davvero non si possono descrivere.

Vi abbraccio ancora tutti, sto tornando. A presto.

cucina maria 2

Sgranocchini

Nel XIII secolo i Sufi ricavarono un tipo di gomma da masticare dalle foglie di cannabis e dai semi di canapa mescolati a zucchero e pasta di sesamo. Nel 2006 un gruppo di studenti del Maryland riempì delle gomme da masticare con piccole quantità di cannabis e le chiamò "Greenades" (granate verdi). Per tutti coloro con un po' più di talento in cucina, si può iniziare con questa ricetta classica del 1969, tratta da Super Candy, di Mary Jane Superweed.

Per 20 dolcetti

1 cucchiaio di cannabutter
500 g di burro di anacardi
3-4 cucchiaini di miele liquido
180 g di cocco essiccato
60 g di mandorle tritate
125 g di uva sultanina essiccata

Il cannabutter si prepara così: sciogliere 500 g di burro in un tegame e aggiungere 50 g di cannabis macinato finemente e bollire mescolando finché il preparato diventa verdastro. Filtrare al setaccio e lasciare raffreddare.
Per gli sgranocchini: in una ciotola amalgamare i due tipi di burro e il miele. Mescolare su un vassoio il cocco e le mandorle. Rotolare la palla di burro mieloso sul vassoio, incorporando il misto di cocco e mandorle. Quando saranno ben amalgamati, spargere sul vassoio l'uva sultanina. Incorporare l'uva sultanina nell'impasto, lavorandolo bene con le mani. Chiunque voglia sbocconcellare è libero di staccarne un pezzetto.

nucleare si o no? parte 2




I reattori del futuro
Questi problemi hanno una soluzione tecnica e una risposta politica. Mentre la Germania, che un tempo era un paese leader nel settore, ha quasi abbandonato la ricerca sul nucleare, nel resto del mondo gli scienziati stanno seguendo due progetti. Vogliono innanzitutto riprocessare i prodotti di fissione per ricavarne altri con un decadimento più rapido. Questo permetterebbe di ridurre
la durata delle misure di sicurezza necessarie per le discariche di scorie da centinaia di migliaia di anni ad alcuni secoli. In Finlandia si sta costruendo un reattore di terza generazione, dove i danni sarebbero limitati anche se si dovesse verificare l’incidente più catastroico: la fusione del nocciolo. Nei reattori di quarta generazione questo tipo di incidente sarà escluso in linea di principio. Le riserve di uranio non solo basteranno per molti decenni ma, a differenza dei giacimenti di petrolio e di gas, si trovano in regioni politicamente sicure, come il Canada e l’Australia. Infine, se si
considera la tecnologia delle centrali e la sorveglianza a cui sono sottoposte, la Germania non ha motivo di temere la proliferazione di plutonio adatto per usi militari. Recentemente Erhard Eppler, teorico dell’Spd e avversario del nucleare, ha fatto una proposta: si potrebbe discutere
una proroga dell’uso delle centrali nucleari esistenti, a patto di includere nella costituzione il divieto di costruirne di nuove. Una proposta simile – limitare attraverso la costituzione una tecnologia le cui potenzialità cominciano solo ora a profilarsi – dimostra una spaventosa cecità.
La controproposta è semplice: non c’è alternativa alla proroga dell’uso delle centrali. Dovremo comunque continuare a usare l’energia atomica. La gestione di centrali il cui costo è stato già ammortizzato assicura alle imprese profitti enormi. Bisogna reinvestirli per stabilizzare i prezzi e per incoraggiare il risparmio energetico. È anche necessario finanziare la ricerca sul carbone pulito e sulle energie alternative, oltre a quella sul nucleare. Abbiamo bisogno non solo di discariche sicure, ma anche di trovare la via che ci porterà alle centrali nucleari di quarta generazione, in grado di produrre in modo sicuro molta energia con poche scorie. Queste centrali prima o poi esisteranno. Anche in Germania.


fine articolo - continua reportage

20080825

tibet vs vatican

pensavo a come sarebbe se anzichè il tibet, il dalai lama e la cina i protagonisti di questa vicenda fossero la città del vaticano, il papa e silvio. 
silvio che caccia il papa da roma e il papa in esilio per il mondo che dice che silvio è cattivo, silvio che risponde che l'italia è sovrana dai tempi dei romani su quel territorio, i preti incarcerati e massacrati perchè pregano per la città santa. la gente per il mondo che si veste di bianco e giallo per ricordare il colore del vaticano.
gli italiani che vincono 100 medaglie alle olimpiadi.

cucina maria 1

Follia di falafel
con germogli di canapa

Questo tradizionale "fast food" mediorientale è molto più sano di un hamburger e molto più gustoso del pollo fritto. Sicuramente non vi manderà in orbita, ma è talmente buono che neanche ci farete caso!

Per 15/20 falafel

250 g di semi di canapa germogliati
1 cipolla tritata
2 spicchi d'aglio
1 cucchiaino di cumino in polvere
400 g di lenticchie rosse
600 ml di brodo vegetale
720 g di ceci in scatola
250 g di semi di sesamo
una manciata di coriandolo fresco tritato
olio d'oliva, per il soffritto
sale e pepe
pane tipo pita, per accompagnare

Lasciare i semi di canapa in ammollo per una notte, quindi disporli su un germogliatore (anche un semplice vassoio va bene): sciacquarli e scolarli più volte al giorno, finché non cominciano a germogliare. Soffriggere l'aglio e la cipolla nell'olio (o in un po' di cannabutter) e aggiungere il cumino non appena la cipolla comincia a dorarsi. Si raccomanda di mescolare bene con un cucchiaio di legno. Mettere in una padella le lenticchie e il brodo vegetale e cuocere a fuoco lento per circa 15 minuti fino a che il brodo non si sarà asciugato e le lenticchie non risultino tenere. Frullare i ceci e aggiungere la purea ottenuta alle lenticchie, assieme ai semi di canapa germogliati e al coriandolo. Condire a piacimento. Lasciare riposare per 20 minuti in un luogo fresco perché assorba il liquido, poi ricavarne delle palline. Rotolare le palline sopra i semi di sesamo e friggerle fino a doratura.

nucleare si o no? parte 1


Da Internazionale nr. 754, un confronto tutto tedesco sul nucleare.


Nucleare: no grazie?

La Germania aveva deciso di chiudere le centrali entro il 2020. Ma con la crisi petrolifera si riapre un dibattito che non riguarda solo i tedeschi


Energia irrinunciabile

di Andreas Sentker, DIE ZEIT, Germania


In nessun settore della ricerca la Germania è riuscita a raggiungere un tale livello di eccellenza in
pochi anni. Poi, quando era già all’avanguardia sul mercato mondiale e nella tecnologia del nucleare, il paese ha bloccato ogni ulteriore progresso. Nei prossimi anni verranno gradualmente
smantellate una serie di centrali che sono considerate tra le più sicure e affidabili del mondo. Come faremo a soddisfare la nostra fame di energia e a fare i conti con i cambiamenti climatici?
Affrontare queste sfide è possibile e, proprio per questo, molti paesi si preparano a tornare all’energia nucleare. Al vertice del G8 in Giappone tutti i paesi, tranne la Germania, hanno puntato sul rilancio della fissione nucleare come fonte di energia ecologica. Il motivo è che i progressi ambientali, economici e tecnici raggiunti negli ultimi anni non solo permettono di continuare a usare le centrali nucleari esistenti, ma rendono questa opzione inevitabile sul lungo
periodo. Le alternative, infatti, non sono abbastanza evolute o sono poco affidabili. Dopo Cernobyl, sviluppare e sperimentare alternative al nucleare era la scelta più ragionevole. Ma nel frattempo la ricerca sui reattori ha compiuto molti progressi. In gran parte del mondo si sta rivedendo il giudizio sull’energia atomica, sia a causa dell’emergenza energetica sia perché questa tecnologia ispira sempre più fiducia. In Europa, in America e in Asia si annunciano progetti di nuove centrali. In Finlandia i tecnici tedeschi e francesi stanno costruendo un moderno reattore ad acqua pressurizzata. Il primo ministro britannico Gordon Brown vuole garantire l’autonomia
energetica del paese con la costruzione di almeno venti nuove centrali. Il ministro statunitense dell’energia Samuel Bodman prevede un fabbisogno di oltre cento reattori. La Cina vuole
quadruplicare il numero delle sue centrali, portandole a 40, e l’India prevede importanti investimenti nel settore. Oggi è difficile capire perché la Germania si ostina a voler smantellare
le centrali entro il 2020. Per molti politici dei Verdi e dell’Spd, la decisione di rinunciare al nucleare è stata il coronamento del lavoro di una vita. La rinuncia alla rinuncia sarebbe la loro Waterloo. Al di là delle ideologie, ci sono quattro argomenti che gli avversari del nucleare
continuano a utilizzare. Prima di tutto la questione della sicurezza, che da Cernobyl in poi è stata tirata fuori ogni volta che c’è stato un problema, anche minimo, a un reattore: è un’ottima fonte
di paure. Poi c’è la questione dello stoccaggio delle scorie radioattive: in Germania è stata discussa così a lungo che molti, ormai, pensano che sia impossibile smaltirle in modo sicuro. Inoltre, chi può garantire che il materiale radioattivo sarà usato solo per scopi pacifici? E, quarta obiezione, le riserve di uranio non sono sufficienti per realizzare questi programmi.


continua

20080824

cucina maria


Da D la repubblica delle donne nr. 608


Pagine stupefacenti

Suggerisce Tom Pilcher nell'introduzione di La cannabis in cucina. Più di 35 ricette per spuntini, pranzi e occasioni. Godetevela! (L'Airone, 16 euro): se le madeleine di Proust non vi hanno mai convinto, potreste provare i "Dolcetti di Alice B. Toklas", quelli che lei cucinava per ispirare Gertrude Stein. Ma allora perché non partire dagli Antipasti Anticonvenzionali e chiudere con un Bloody Mary Jane (da ganja). "Da quando fumare tabacco è una pratica in declino e soprattutto vietata nei ristoranti, perché non sostituirla con l'erba più famosa del pianeta mangiandola, come si è fatto per millenni?", scrive l'autore. Tra l'altro, mangiarla non è come fumarla: gli effetti sono lenti e nelle preparazioni gastronomiche se ne usa una quantità molto minore. Vi avrà poi spiegato il panettiere - che da qualche tempo se ben assortito venderà legalissimo "pane alla canapa" - che dipende tutto dalla quantità del componente attivo: il THC (per le ricette di queste pagine si va da mezzo cucchiaino a persona in su). I fini terapeutici sono dimostrati dalla schiera di nonne-cuoche della cannabis diventate celebri con i loro ricettari da sballo. Per timorati, le ultime pagine insegnano a farsi in casa olio per massaggi e bombe di sapone. Ma allora non saprete mai che sapore ha la Pizza Persa (pag. 50).

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Nei prossimi giorni, 5 invitanti ricette.

conservazionisti o neo-colonialisti? parte 7





La felicità non ha prezzo
Non deve stupire dunque che il Pew Research Centre denunci che la felicità è distribuita in maniera diseguale: il 50 per cento delle persone con un reddito superiore ai 150mila dollari all’anno si dichiara “molto felice”, mentre tra quelle che ne guadagnano meno di 20mila solo il 23 per cento se la sente di dire altrettanto. Se si confrontano le nazioni, è la stessa diseguaglianza a ridurre il benessere: alcuni dei paesi in cui c’è maggiore giustizia sociale (l’Islanda e la Norvegia) sono anche quelli ai primi posti dell’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite. Siamo abituati a pensare alla povertà come a un problema sociale e alla ricchezza come a qualcosa da esaltare; ma anche l’estrema ricchezza è un problema sociale e i super ricchi sono diventati un peso per tutti gli altri. Se Edward O. Wilson ha ragione a parlare di “biofilia” come di un innato bisogno umano di interagire con la natura, lasciare che i ricchi si impadroniscano di tutti i posti più belli della terra potrebbe avere gravi conseguenze sulla salute mentale. Non aver modo di spaziare con lo sguardo per almeno una o due settimane all’anno su ampie distese d’acqua, orizzonti liberi e montagne che svettano nel cielo, provoca l’insorgere di una claustrofobia cronica e crescente. Secondo la psicologa evoluzionista Nancy Etcoff, il bisogno di bellezza naturale è codificato nel nostro patrimonio genetico. Ci piace anche poter contemplare l’acqua (da bere), gli alberi con le fronde basse (per l’ombra) e gli animali (la cui presenza indica che il luogo è abitabile). In fondo, però, l’accaparramento da parte dei ricchi dell’America rurale ha una contropartita anche per i benestanti. Più una località turistica diventa cara, tanto più lontano devono abitare i pendolari che ci lavorano e che la fanno funzionare. E se l’idea del lavapiatti o del lavavetri che passano quattro ore al giorno sui mezzi pubblici vi lascia indifferenti, versate una lacrima almeno per il ricco vacanziero che rimane imbottigliato nel traffico che ne risulta. Oppure può succedere semplicemente che una località resti senza operai. Dal 2000 la contea di Monroe, di cui fa parte Key West, ha assistito all’esodo di oltre duemila lavoratori, una perdita che il Los Angeles Times chiama “un duro colpo per l’economia dei servizi di una contea che ha 75mila residenti e due milioni di turisti all’anno”. Tra quelli che sono stati costretti a sloggiare da affitti superiori ai 1.600 dollari per un appartamento con una stanza da letto, ci sono camerieri, portieri d’albergo, giardinieri e idraulici. Non importa quanto denaro abbiate: ogni cosa richiederà più tempo, che si tratti di farvi aggiustare il bagno o di farvi servire un panino. Sono nata tra le Montagne Rocciose e poi sono cresciuta, con vari spostamenti, sull’una e sull’altra costa. Il cielo, le onde dell’oceano, le montagne coperte di neve: sono sempre stata convinta che tutto questo mi appartenesse per diritto di nascita. Adesso, però, ogni volta che ascolto le parole di Woodie Guthrie (“Questo paese è stato fatto per te e per me”) non posso fare a meno di trasalire: non credo che quella canzone sia stata scritta per un coro di speculatori finanziari.


Barbara Ehrenreich è una giornalista statunitense. Ha scritto Una paga da fame: come (non) si arriva a fine mese nel paese più ricco del mondo (Feltrinelli 2002).


fine reportage

20080823

conservazionisti o neo-colonialisti? parte 6




Questa terra è di tutti

Comprano una casa, poi un terreno, e così via finchè tutto il panorama cambia. I ricchi possono togliere ai poveri anche il diritto alla bellezza della natura

Barbara Ehrenreich, The Nation, USA


Poco tempo fa ho fatto una breve vacanza: nove ore a Sun Valley, nell’Idaho, prima di partecipare a un dibattito pubblico. Il cielo era di un azzurro profondo, l’aria cristallina, le colline erano verdi. Uscendo dall’albergo per fare una passeggiata ho scoperto un minuscolo villaggio per turisti, completo di panetteria in stile svizzero, un ristorante a molte stelle e un piccolo “teatro lirico”. E, per una fortunata coincidenza, i negozi avevano tutti i capi estivi in saldo! Natura e commercio cospiravano per trasformare quella breve pausa in una perfetta microvacanza. Ma quando mi sono avvicinata alle vetrine le cose hanno cominciato ad assumere un aspetto un po’ sinistro. Dov’ero inita: su un set cinematografico o nel guardaroba di Paris Hilton? Anche con il 60 per cento di sconto, non c’era niente a meno di cento dollari. Quei vestiti non avrebbero dovuto stare lì all’aperto, ma essere esposti in teche chiuse a chiave. Poi mi è tornata in mente la regola generale che si è imposta dagli anni novanta in poi: se un posto è veramente splendido, chiediti se te lo puoi permettere. Certo, ci saranno delle eccezioni: alcuni punti panoramici che non sono stati ancora inghiottiti dalle grandi proprietà. Ma stanno sparendo molto rapidamente.
Dieci anni fa avevo affittato con un amico una casa piccola ed economica a Driggs, nell’Idaho, non lontano dall’esclusivo Jackson Hole. A quel tempo Driggs era una località dove vivevano i lavoratori che ogni giorno andavano a fare i camerieri e a rifare le stanze negli alberghi sul versante più alla moda della catena montuosa. Ma anche noi, gente a basso reddito, avevamo la possibilità di svegliarci guardando lo stesso panorama delle persone ricche e potevamo
passeggiare sugli stessi sentieri ombreggiati dai pini. A Driggs, però, stavano già cominciando ad arrivare quelli con i soldi e le fattorie dei coltivatori di patate si stavano trasformando in enormi tenute padronali. Non ci sono più tornata, ma da quanto ne so Driggs è diventata un’altra Jackson Hole. Quanto ai camerieri e alle donne delle pulizie, non saprei dire dove abitino oggi.
Ho notato questo fenomeno anche a Key West, in Florida, dov’ero andata per la prima volta nel 1986, attratta non solo dalle notti profumate dai frangipani ma anche dal clima sociale poco formale. A una festa si potevano incontrare celebrità letterarie accanto a pescatori, cameriere e cacciatori di tesori sommersi. Poi, negli anni novanta, sono arrivati i ricchi. Sbarcavano dai loro aerei privati, appena atterrati da Miami: visi tirati, abiti di lino, comportamento impaziente. Hanno fatto salire a sette cifre i prezzi delle case. Hanno spinto i ristoranti a chiedere
tranquillamente trenta dollari per un piatto. Hanno fatto sparire i piccoli bar in stile
pseudo-polinesiano sul lungomare per fare spazio ai loro residence. Il furto della bellezza può sembrare il crimine minore commesso dai ricchi. Molti di loro devono il proprio benessere
ai soliti trucchetti: sfruttano gli impiegati, fanno pagare prezzi esagerati ai loro clienti e inquinano tutti i paesi in cui non hanno le loro terze o quarte case. Una volta che hanno accumulato
(o ereditato) le loro fortune, i ricchi possono fare alzare i prezzi di beni di cui hanno bisogno anche le persone comuni, come le case. Così i poveri si disperdono nelle periferie delle città sovraffollate, mentre gli allevamenti di cavalli dei miliardari costringono gli americani delle aree rurali a trasferirsi nelle roulotte. E quando si tratta dei college per i loro figli, i ricchi possono
permettersi di pagare rette di 50mila dollari in su, e questo ha fatto diventare l’istruzione superiore un privilegio delle classi superiori. Ma ci sono anche altri modi con cui i ricchi ci stanno rubando la bellezza e il piacere. Per esempio, mentre negli stadi le normali gradinate vengono smantellate e sostituite da “palchi” trasparenti che costano più di centomila dollari a stagione, anche assistere a una partita è diventato proibitivo per la famiglia media.


continua

Argentina ago 08 - 5

Argentina - Passaggio a Nord Ovest
La Quiaca

Troppi giorni di corsa, troppi giorni senza collegarsi alla rete. Non che sia un male, ma a questo punto mi vedo costretto a riscrivere tutto dal principio appena torno in Italia. L'italietta mia e vostra, ma soprattutto di Silvio. Ho pensato spesso a lui in questi giorni in cui non ho scritto: ho visto un sacco di cactus, e, come sapete bene, lui ne e' collezionista.
Amenita' a parte, mi sono appuntato tutto diligentemente. A grandi linee. Le emozioni credo di ricordarmele, e, novita' delle novita', questa volta avrete anche delle foto: l'amica Juli ha sempre con se la macchina digitale, niente di trascendentale, ma quanto basta. Dal momento in cui non ho piu' scritto siamo passati da San Rafael a Mendoza, a San Juan, a Barreal, all'osservatorio astronomico del parco naturale El Leoncito, a San Agustin, e ancora verso nord, Ischigualasto, Talampaya, due parchi che ti tolgono il fiato, nel secondo abbiamo fatto un'escursione di giorno e una appena sorta la luna, che era piena, io Juli e la guida Christian, un'esperienza che ti procura lacrime di gioia o una sorta di sindrome di Stendhal, avvinti dalla bellezza e dalla grandezza schiacciante della natura; a Villa Union, in una notte siamo passati da Chilecito a La Rioja a San Miguel de Tucuman a Salta; abbiamo seguito le rotaie del tren a las nubes, in un'altra escursione mozzafiato, abbiamo condiviso la tavola con una coppia francese, Jean e Annabelle, dai quali ci siamo separati ieri sera non senza commozione ma con la promessa di rivederci tutti in Italia.
Oggi abbiamo noleggiato un auto e da Salta ci siamo diretti ancora di piu' verso Nord, e poche ore fa abbiamo deciso di passare la notte a La Quiaca, Argentina, 3 km dal confine con la Bolivia, passando attraverso un paesaggio che, sono sicuro, le foto non sapranno descrivere appieno. Siamo appena tornati dalla piazza del paese dove si commemora un episodio della guerra di Indipendenza argentina. Le facce di questa gente non hanno davvero prezzo, anche se io ho in tasca la mia Mastercard. Domattina presto torniamo a Salta, dormiremo di nuovo li', dopo di che ci aspettano Cachi e Cafayate, scendendo leggermente verso Sud, e poi il traumatico ritorno da San Miguel de Tucuman a Buenos Aires, una ventina di ore in bus, un rapido attraversamento della piazza davanti al terminal del Retiro, e il bus per l'aeroporto di Ezeiza. Spero in tempo per l'aereo.

Vi abbraccio tutte e tutti, ci risentiamo quando possibile.

20080822

conservazionisti o neo-colonialisti? parte 5





Scambi fruttuosi
E la forza del conservazionismo potrebbe crescere sempre di più ed esercitare un controllo sulle comunità locali più forte di quello dei colonialisti tradizionali. Poiché le foreste assorbono quasi un ottavo di tutto il carbonio emesso sul pianeta, le società di hedge fund statunitensi, gli esperti di inanza, i governi, la Banca mondiale, le società private e molte onlus conservazioniste hanno intravisto l’opportunità di guadagnare enormi somme di denaro fermando il disboscamento delle foreste. La grande idea per contrastare il cambiamento climatico, che sta circolando in tutto il mondo raccogliendo sempre più consensi, è che i paesi ricchi paghino i poveri afinché questi non abbattano più alberi, e compensino i loro crediti in emissioni di carbonio. Un progetto prevede che le comunità o i paesi siano retribuiti in denaro; un altro è che venga avviata una borsa planetaria del carbonio, in cui i paesi poveri potrebbero vendere il carbonio immagazzinato nei loro alberi per consentire ai ricchi di continuare a inquinare come hanno fatto finora. È un’idea che suona bene per il clima e le comunità locali, ma potrebbe rivelarsi disastrosa. “Una volta che
sulle foreste mondiali cominceranno ad arrivare i soldi versati in cambio del carbonio, ci si comincerà a chiedere se i veri proprietari degli alberi sono quelli che pagano per salvarli oppure le comunità locali”, osserva Tom Griffiths, che collabora con il Forest Peoples Programme. La corsa al carbonio, aggiunge, potrebbe far tornare il conservazionismo ai brutti giorni delle recinzioni e delle guardie private, con un controllo sempre più forte da parte dei governi e dei
grandi gruppi conservazionisti internazionali su territori molto vasti. Griffiths e altri immaginano già dei funzionari molto zelanti che sfrattano gli abitanti locali per proteggere le redditizie riserve forestali che garantirebbero crediti di carbonio, espropriano le terre e provocano l’insorgere di nuovi conflitti. “Tutti questi progetti hanno implicazioni rilevanti per la gestione delle foreste e per quello che risulterebbe lecito o illecito al loro interno. Le società del carbonio tentano già i primi approcci con le comunità locali, proponendo degli accordi in base ai quali anche loro otterrebbero dei crediti di carbonio. Questo è molto preoccupante”, osserva. Inoltre potrebbe nascere un caos legislativo. Per esempio potrebbe succedere che un gruppo conservazionista faccia un accordo con una comunità per la tutela di una grande area di foresta in cambio di un compenso in denaro. Ma cosa succederebbe se un capo firmasse all’insaputa degli altri abitanti? Quale garanzia ci sarebbe che il compenso sia effettivamente pagato? Che cosa accadrebbe se un’altra società avesse ottenuto in precedenza il diritto di sfruttamento della foresta? Le spetterebbe il compenso, a titolo di risarcimento? E alla comunità non rimarrebbe più nulla? E a chi appartiene veramente il carbonio immagazzinato negli alberi? “È comprensibile che la gente tema la privatizzazione del territorio e la sua gestione da parte dei conservazionisti”, riconosce
Vacariu. “Non importa se questo succede negli Stati Uniti, in Messico o in Africa. Bisogna essere davvero molto cauti”.


fine articolo - continua reportage

20080821

e non dite

che Avril Lavigne non sembra il nome di una pornostar...

conservazionisti o neo-colonialisti? parte 4





Proprietà private
I loro vicini, la cui ambizione ecologica è di poco inferiore, sono il fondatore della Cnn, Ted Turner, il finanziere George Soros, i magnati della moda Luciano e Carlo Benetton, l’attrice Sharon Stone e il collega Christopher Lambert. Insieme, hanno trasformato enormi territori in parchi di zone paludose, litoranee e montuose che in alcuni casi, dicono, saranno restituiti allo stato. Nel 2007 Turner è diventato il più grande proprietario terriero dell’Argentina e attualmente possiede 51mila ettari di Patagonia che, assicura, saranno amministrati “in modo ecologico”. Parte di quella terra, però, comprende uno dei più grandi giacimenti d’acqua del pianeta; per questo, tra le accuse rivolte a Turner e che lui respinge, c’è quella di volersi impadronire delle riserve idriche argentine, per mettere in dificoltà gli agricoltori del paese. Tompkins riconosce che la difidenza della popolazione locale è un problema. “Siamo stati un po’ ingenui nel valutare l’opposizione, sia politica sia popolare, che avremmo dovuto affrontare”, ha ammesso l’anno scorso parlando con i giornalisti. “Avremmo dovuto informarci meglio sulla cultura locale. Ma stiamo facendo dei progressi”. Comunque rimane fermo nelle sue convinzioni: “Chiunque, grazie alla sua posizione e alle sue potenzialità, possa fare qualcosa, dovrebbe aderire all’iniziativa. Scoprirà che questa può essere molto gratificante, e che ne vale la pena fino all’ultimo centesimo”. Quelli che possono fare qualcosa, stanno già aderendo. I gruppi
conservazionisti internazionali, come Conservation International, il WWF e Nature Conservancy, hanno raccolto miliardi di dollari tra contributi privati e stanziamenti della Banca mondiale. Con
questi soldi compreranno o afitteranno i parchi nazionali e appezzamenti di terreno a nome dei governi di paesi poveri. Questi gruppi di beneficenza o non profit possono raccogliere fondi, assumere personale di sorveglianza, costruire alberghi e molto spesso anche stabilire come dev’essere usata la terra nell’area dei parchi; inoltre arrivano a decidere se le comunità locali possono vivere o cacciare al loro interno. Questo forse può giovare alla conservazione dell’ambiente, ma rischia di suscitare ostilità. L’anno scorso, nel profondo della foresta vicino a Isangi, in Congo, ho trovato un uficio del WWF proprio al centro di un’area di disboscamento. “Chi è questa gente? Devono essere venuti per portarci via la nostra terra!”, è stato lo sfogo di
Michel, un insegnante locale che, insieme a un gruppo di abitanti dei villaggi, aveva cercato di fermare il disboscamento di un vasto tratto di foresta in una loro area tradizionale. In realtà il WWF stava cercando di convincere la società concessionaria a disboscare la foresta in maniera più responsabile. Ma questo gli abitanti del luogo non l’hanno capito e ora pensano che il conservazionismo equivalga all’abbattimento degli alberi.


continua

20080820

di pietro

Dal suo blog:
Ho letto che la petizione lanciata dal Partito Democratico ha raggiunto un milione di firme. E' una petizione che in apparenza dice tutto, ma che in pratica non serve a niente, perché resteranno firme inutili, sulla carta, che Berlusconi non si degnerà nemmeno di prendere in considerazione.
Sono amareggiato con il PD e con Walter Veltroni. Non capisco come possa vantarsi del milione di firme quando ne erano sufficienti 500 mila per mettere Berlusconi con le spalle al muro e abrogare la legge "Salva Premier". Il governo sarebbe stato in discussione sul piano morale, su quello del conflitto d´interessi, e sarebbe stata evidente a tutti l’anomalia di un signore che fa le leggi per non farsi processare.

conservazionisti o neo-colonialisti? parte 3





Emarginati dai gorilla
Uno degli episodi più gravi è successo negli anni novanta, quando le terre dei pigmei bambuti bat’wa, che vivevano nelle basse foreste equatoriali al confine tra il Ruanda e la Repubblica Democratica del Congo, sono state trasformate in un parco nazionale per la tutela dei gorilla. I pigmei sono stati sloggiati in nome del conservazionismo e ora vivono in maniera precaria, dispersi in piccoli gruppi intorno alla periferia del parco. “La nostra vita era sana: ora siamo
diventati mendicanti, ladri e delinquenti”, spiega uno dei loro capi. “Questa catastrofe è la diretta conseguenza della creazione del parco nazionale”. “Si stima che in Africa, dagli anni settanta, siano stati coinvolti dalla creazione di aree protette o di interesse naturalistico circa un milione di chilometri quadrati di foreste, savane, pascoli e terreni agricoli. Eppure in gran parte di queste aree, alle popolazioni indigene è stato negato il diritto di possedere, controllare e gestire i propri territori”, spiega Colchester. “Nessuno sa quante persone siano state obbligate a emigrare dalle aree protette”. Di fronte alla presenza dilagante diprivati, onlus, fondazioni e gruppi ambientalisti che comprano fattorie, campi, colline e foreste, molti temono una nuova ondata di eco-colonialismo. In Patagonia, la regione che comprende le estremità meridionali del Cile e dell’Argentina, si stima che almeno trecento ricchi statunitensi abbiano comprato centinaia di migliaia di ettari dei più selvaggi, remoti e spettacolari angoli del pianeta a circa 120 dollari all’ettaro, in nome della conservazione della natura. I più importanti acquirenti di quelle terre ricche di laghi incontaminati, fiumi e vette innevate sono miliardari come i coniugi statunitensi Douglas e Kris Tompkins, proprietari degli imperi dell’abbigliamento North Face e Patagonia. Hanno cominciato con un allevamento di pecore e ora sono proprietari di vari milioni di ettari. Il loro scopo, spiega Kris Tompkins, era quello di creare il primo parco nazionale costiero in Argentina. “Improvvisamente mi sono resa conto che era a rischio la natura incontaminata,
apparentemente perfetta, in cui per anni siamo andati ad arrampicarci, a sciare e a camminare. L’impegno dei benefattori privati, insieme alla volontà politica, può consentire la conservazione
dell’ambiente su vasta scala e permetterà di invertire la tendenza all’estinzione delle specie minacciate”.


continua

20080819

conservazionisti o neo-colonialisti? parte 2





A ogni costo
“Vogliamo acquistare circa 400 ettari all’anno. Sappiamo cosa viene messo in vendita grazie a molte fonti. Appena ci arriva la notizia, spesso la nostra reazione è ‘Compriamo!’”, spiega una portavoce della fondazione. “Alla gente piace l’idea di comprare boschi, perché sono qualcosa di tangibile. Molti sono convinti che il governo non faccia abbastanza, anzi che stia andando nella direzione sbagliata, per quanto riguarda la difesa della natura”. Anche negli Stati Uniti le organizzazioni conservazioniste si stanno organizzando per comprare le terre demaniali messe in vendita dal governo. “È un modello nuovo di politica della tutela ambientale”, osserva Kim Vacariu, che collabora al progetto Wildland negli Usa, con cui si punta a mettere al sicuro centinaia di migliaia di ettari di terra dall’Atlantico al Pacifico. “È eccessivo pretendere che lo faccia il governo. L’unico modo per proteggere questi terreni è comprarli quando sono in vendita”. I conservazionisti con molti soldi a disposizione sono tendenzialmente benvisti nei paesi ricchi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, perché sostengono o incrementano il prezzo di mercato della terra. Nei paesi poveri, invece, suscitano spesso timore e ostilità. Non è strano. I conservazionisti stranieri hanno una pessima reputazione nei paesi in via di sviluppo. Prima ci sono stati i colonialisti che hanno preso il controllo dei paesi e delle loro comunità per sfruttarne le risorse; poi sono arrivati i conservazionisti che hanno fatto le stesse identiche cose, ma con la pretesa di salvaguardare l’ambiente. In tutti i paesi in via di sviluppo decine di migliaia di persone sono state espropriate delle loro terre per istituire parchi faunistici e altre aree protette. Alle popolazioni è vietato cacciare, tagliare gli alberi, estrarre il materiale da costruzione, coltivare nuove piante e fare qualunque cosa che sia ritenuta una minaccia per la fauna o per l’ecosistema. Le terre dove quelle popolazioni abitavano da secoli sono state improvvisamente trasformate in idilliache riserve naturali, senza alcun riguardo per gli esseri umani che ci abitavano. “La conservazione della natura ha danneggiato enormemente le popolazioni indigene di tutta l’Africa”, osserva Simon Colchester, direttore del Forest People Programme, che lavora nei paesi tropicali. Le sue ricerche hanno documentato espulsioni forzate, violazioni dei diritti umani e la graduale distruzione delle fonti di sussistenza come dirette conseguenze dell’intervento dei conservazionisti nel continente. In Botswana, per esempio, i conservazionisti locali collaborarono con il governo per espellere i boscimani dalle loro terre ancestrali che sono state trasformate in un parco nazionale. Anche in India i nomadi gujjar dell’Uttar Pradesh hanno subìto le conseguenze delle iniziative delle organizzazioni conservazioniste internazionali. In Camerun, interi villaggi sono stati costretti a sloggiare da una regione della foresta particolarmente ricca di risorse. Gli aborigeni delle isole Palawan nelle Filippine sono stati obbligati ad abbandonare i loro villaggi per far posto a un parco nazionale.


continua

20080818

conservazionisti o neo-colonialisti? parte 1


Da Internazionale nr. 754


Montagne verdi in svendita

Dal Botswana alla Patagonia, gli ambientalisti comprano foreste e pascoli per proteggere l'ecosistema. A farne le spese, però, sono le popolazioni locali. L'inchiesta del Guardian

JOHN VIDAL, THE GUARDIAN, GRAN BRETAGNA



Clic! Su internet ho appena comprato, per pochi centesimi, dieci centimetri quadrati di foresta pluviale. Clic, clic! Un altro fazzoletto di costa della Patagonia salvato dallo sfruttamento minerario. Clic, clic, clic! Un amico mi ha appena regalato un metro quadrato dell’atollo Palmyra (dovunque esso sia). Grazie a internet, salvare i posti più belli ed ecologicamente più importanti del pianeta è diventata un’impresa semplice e accessibile: centinaia di onlus, fondazioni e privati invitano sui loro siti ad acquistare foreste, pascoli e montagne per salvarli dalla distruzione e dal cambiamento climatico. Perché limitarsi a spendere pochi spiccioli? Il World Land Trust (Wlt), patrocinato dal naturalista David Attenborough, suggerisce di comprare quattromila metri quadrati di un corridoio di terra riservato agli elefanti indiani per 50 sterline (63 euro), oppure duemila metri quadrati del Chaco Pantanal in Brasile per 25 sterline. Dal 1989 i sostenitori del Wlt in Gran Bretagna hanno comprato 141mila ettari di terra. Per i ricchi, la conservazione dell’ambiente è ancora più raggiungibile. John Eliasch, un uomo d’affari nato in Svezia, scelto dal primo ministro britannico Gordon Brown come consulente per le foreste, nel 2006 ha comprato 162mila ettari di foresta pluviale amazzonica per otto milioni di sterline e ora chiede ai sostenitori di aiutarlo ad acquistare altre terre in Brasile e in Ecuador. La sua associazione, Cool Earth, chiede 70 sterline per quattromila metri quadrati e afferma di aver comprato tredicimila ettari in un anno. I suoi acquisti hanno suscitato le proteste del governo brasiliano, secondo cui Eliasch è un “eco-colonialista”. I brasiliani, affermano le autorità, sono perfettamente in grado di occuparsi delle loro foreste. Il presidente Luiz Inácio Lula Da Silva ha dichiarato che “il Brasile non è in vendita” e un gruppo di ministri ha scritto che Cool Earth sta attaccando la sovranità del paese. Questi “stranieri benintenzionati ignorano la realtà della foresta pluviale amazzonica”, sostengono i ministri brasiliani. “Dovrebbero piuttosto cercare di fare pressioni sui loro governi per proteggerla”. Eliasch e le numerose organizzazioni conservazioniste come la sua fanno parte di una nuova tendenza mondiale. La privatizzazione dei terreni è diventata il sistema preferito per salvare l’ambiente dal degrado causato dall’edilizia, dall’industria o dall’incuria. Sta succedendo ovunque. In Gran Bretagna, dove il governo sta riducendo drasticamente i finanziamenti pubblici per la tutela ambientale, i gruppi come il Woodland Trust comprano terreni a un ritmo mai visto e stanno diventando i protagonisti del mercato delle proprietà rurali. L’anno scorso il Woodland Trust , che ha 200mila aderenti, ha raccolto 22 milioni di sterline e oggi possiede e amministra oltre 1.100 foreste pari a una supericie di 20mila ettari. La fondazione dichiara addirittura di piantare più alberi della commissione forestale del governo.


continua

20080817

Marco Polo Didn't Go There - parte 2




Il punto è che con le tecnologie sorge il dilemma che ribattezzeremo l'"iPhone di Marco Polo". Chiediamo a Rolf: se andiamo in India un mese con la speranza di perderci per ritrovare se stessi, ma poi non passa un giorno senza che controlliamo le e-mail, sbagliamo? "Premesso che questa storia della tecnologia che ammazza il valore del viaggio è vecchia come le navi a vapore che privavano del romanticismo della vela, anche nei '90 quando ho cominciato i telefonini non erano smart e non esistevano Wi-fi e GPS. Oggi l'avventura è una scelta, basta spegnere. E consiglio di non microrganizzarsi il viaggio fino all'ultimo dettaglio. Porsi l'obiettivo "estremo" di conoscere almeno tre esseri umani al giorno. Per non fare la fine del banchiere JP Morgan che nel 1911 passò la crociera sul Nilo a rispondere ai telegrammi dalla sede centrale. La sindrome del viaggio come estensione della vita quotidiana, che avevano anche i re quando si facevano portare lo scrittoio dai servi. Il difficile - causa iPhone, o modelli precedenti - è l'essere-veramente-dove-si-è in un dato momento". Per convincerci a spegnere qualcosa ogni tanto Rolf invita a ripetere il suo mantra: "Le cose più interessanti dello spostarsi da A a B succedono nel punto G". E aggiunge la strategia che lui applicava ai viaggi stampa: "Arrivare tardi all'appuntamento del mattino, anche se si è con un gruppo di amici, e vagabondare da soli, interagire con i locali. Senza rimpiangere l'escursione estrema che vi siete persi". Forse allude al fenomeno del turismo-verità, o dark tourism, nelle favelas brasiliane o nelle discariche del Messico organizzato da agenzie come la Reality Tours. Già, cosa ne pensa Potts? "Anche questo non è nuovo, nell'800 andavano a visitare le morgue parigine, gli obitori. Purché non sia voyeurismo, o una forma di sfruttamento che arricchisce solo chi si è inventato il business. Se invece serve ad accrescere la consapevolezza, vadano pure nelle favelas". E ad agosto Potts va "in Africa subsahariana a indagare per il NYT il fenomeno del trophy tourism, il turismo competitivo dei maniaci dell'avventura che gareggiano a chi accumula il maggior numero di viaggi estremi. Una fissa da manager, addetti alla Web economy, quasi-ricchi. "Sono i documentari su Discovery che li rovinano, i reportage al testosterone sui mensili patinati o sul National Geographic". Se non è estremo è ecologista, purché abbia un'etichetta, loro partono. Voi italiani, poi, perché andate a New York e mai nelle Grandi Pianure o nel Midwest? Perché non nell'Isaan nel nordest della Thailandia anziché a Phuket. Nel Pantanal e non sulle coste brasiliane? Se poi causa recessione quest'estate si sta a casa, o come vuole il neologismo si fa una staycation, Potts ha un suggerimento. "Avete presente il couchsurfing, cercare ospitalità a casa di qualcuno contattato su internet? Fatelo al contrario, se non potete partire voi ospitate i turisti a casa come compagni di ferie. Parlatevi in globish. Rivisitate con loro la vostra città". Potete provare e poi inviare a Rolf Potts.


fine

vi presto

le mie pinne
fucile
ed occhiale.

fatene buon uso.

matrimonio rom


Da Internazionale nr. 754


Permesso di amare


di Mihai Mircea Butcovan



“Per carità, non permetterei mai a mio figlio di sposare una rom!”. L’editto della signora brianzola, proclamato dal panettiere, non mi stupisce. L’ho sentito spesso nella mia vita. In Transilvania, riferito a rumeni o a ungheresi. In Padania, nei primi anni novanta, riferito a meridionali o “terroni”. Poi il divieto si è esteso a marocchini e albanesi. Poi di nuovo ai rumeni e ora ai rom. Domani chissà. Eppure il numero delle coppie cosiddette miste è in aumento, forse perché molti genitori hanno abbandonato la loro arroganza “autorizzando” i figli a decidere da soli chi e cosa amare. O forse perché le persone stanno cambiando il loro modo di pensare. “Io sono figlio di una coppia mista, mio padre era rumeno, mia madre rom e si volevano un gran bene”, racconta Romulus. Ma lui non usa l’aggettivo “mista” per distinguere una storia d’amore dalle altre in base alla diversità culturale o etnica, come potrebbero fare i sociologi. “Vivevamo a Bucarest con mio padre, poi quando lui è morto siamo tornati a stare con i nonni materni”. Figlio di un rumeno, con passaporto rumeno, oggi per gli italiani Romulus è uno zingaro. Al lavoro si limita a dire che è rumeno. Ma è preoccupato per suo figlio: “A scuola, se non dice che è anche rom va tutto bene. C’ha la fidanzatina, come dicono i ragazzi, italiana. Finché lei pensa che è rumeno saranno amici, poi chissà…”. Ci sono diversi tipi di coppie miste rom-gagè. Per esempio le coppie che, una volta formate, dimenticano l’origine di uno dei due, quella più “debole”. C’è anche chi nega questa origine per vergogna e per sfuggire alla frequente stigmatizzazione dei rom.
In assenza di testimonial eccellenti, molti preferiscono semplicemente non parlarne. “Non è il momento”, dice uno di loro, “soprattutto per i miei figli”. Un’altra è lapidaria: “Io sono figlia di
rom, amo un italiano e mi sento amata da lui. Ma in giro evitiamo di parlare delle mie origini”.
Florica invece guarda al futuro così: “Ho girato il mondo, io. Con la mia famiglia rom. Se mia figlia sposasse un gagè, come dovrei chiamare mio nipote? Gagè? Ma no, sarà mio nipote. E pure nipote dell’altra nonna. Mi dispiacerebbe solo se si dovesse vergognare della nonna rom”.
Domani chissà. Forse si parlerà di coppie, di amori, inalmente di persone. “L’unica razza che conosco è quella umana”, diceva Einstein. Vale la pena pensarci su, magari mentre si compra il pane.





MIHAI MIRCEA BUTCOVAN è nato nel 1969 in Romania e vive in Italia dal 1991.
Lavora a Milano come educatore per il recupero dei tossicodipendenti. Ha pubblicato Allunaggio di un immigrato innamorato (Besa 2006).

20080816

Marco Polo Didn't Go There - parte 1


Giuro, quando ho scritto il mio primo "diario di viaggio" Holiday in Colombia, che troverete qui su questo blog, non sapevo dell'esistenza di questo tizio. Che rimane comunque interessante.

Da D la Repubblica delle donne, nr. 608

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L'ANTI MARCO POLO
Turismi

Abbiamo chiesto al teorico del Vagabonding e pioniere dei blog-reporter come si fa, oggi, a viaggiare davvero
di Laura Piccinini


Meglio prenotare l'hotel dopo averlo visitato virtualmente, grazie alle candid camera online di quelli che ci sono stati, o fidarsi delle falsissime brochure per non privarsi dello shock dell'inaspettato (e una singola-uso-doppia-vista garage lo è)? Altro quesito: sono un avvocato 40enne, posso piantare il mio lavoro per fare il giro dell'Asia come ha fatto lei negli ultimi dieci anni per scrivere il suo ultimo libro, Marco Polo Didn't Go There (Marco Polo non è passato di lì) in uscita a settembre?". Sono solo alcune delle domande che viene da fare a Rolf Potts, come fanno tutti sul suo frequentatissimo http://www.rolfpotts.com/ . Ora, avendo al telefono il pioniere dei blogger viaggiatori, il teorico del Vagabonding, il "Kerouac della Internet age" anche se a lui la definizione non piace (ma provate a liberarvi di un'etichetta una volta che è finita online), chiediamogli quel che si può fare per girare il mondo come lui e non come i soliti turisti. E invece è l'unica domanda da non fargli, "perché trovo che quella tra viaggiatori e turisti sia la dicotomia più insipida della terra come la percorriamo oggi, un falso snobismo da vicino d'aereo". Di quelli che vi dicono che loro partono quando voi e gli altri tornerete e comunque scelgono solo le cosiddette mete "non-tradizionali". Nontraditional destinations: secondo le riviste di viaggi cool (e forse la lista zone a rischio del ministero degli Esteri) sarebbero l'Iran, l'Afghanistan e la Corea de Nord. "Illusi", dice Potts. "Siamo tutti turisti, quando ci squilla il cellulare nelle montagne afghane come quando sbarchiamo dal bus in un quartiere inesplorato, né lo diventiamo meno perché abbiamo studiato la mappa su Google e guardato i documentari su NatGeo channel. Gli unici a viaggiare sul serio oggi sono i rifugiati o gli esuli, che non lo fanno per motivi professionali né per piacere". Adesso però non buttatevi giù. Guardate lui, che è dal 1994 che pratica l'arte del viaggiare a lungo termine scrivendone per il New York Times o la rivista letteraria di culto The Believer e svariati blog, e sa bene cosa si trova a vagabondare nel XXI secolo. Tipo: "Incontrare un maestro di tantra che si chiama Swami, ma poi scopri che è romeno, in un ashram di Rishikesh, conoscere mr Ibrahim a Beirut che canta Six Bombs anziché Sex Bombs non per ironia ma per proibizionismo religioso, o rifugiati di Burma che fanno i rapper. Non per ripetersi, ma è la globalizzazione belli, fa notare Rolf, che anche se non è pallido come un nerd ma ha le labbra carnose e l'aria sana da ragazzone del Kansas, ama definirsi un "travel writer postmoderno". I suoi reportage sono cover, reinterpretazioni di itinerari già battuti, e continuano nel botta e risposta con i lettori online. Che non si limitano a seguirlo ma lo imitano: vedi il fondatore della rivista di viaggi online Vagabondish, che considera la lettura degli scritti di Potts "un rito di passaggio per i ventenni confusi, i quarantenni frustrati e i pensionabili che vogliono mollare tutto e diventare come lui". Che poi, avendo oggi tutti la possibilità di raccontare i nostri viaggi online al resto del mondo, tutti possiamo essere Rolf Potts. Deve essere per questo che c'è il pienone al corso di scrittura di viaggi creativa che lui tiene all'American Academy di Parigi a luglio, l'unico mese dell'anno in cui riesce a stare fermo. Una sua allieva gli ha appena "raccontato di esserci rimasta male per aver scritto su un blog la storia che aveva avuto con un ragazzo del Rwanda, che deve averla scovata online e le ha mandato un'e-mail del genere "ma dovevi proprio farlo sapere a tutti?". "Elementare, è uno degli effetti più o meno collaterali dello scrivere di viaggi nell'era dei blog. Se diffondi la tua avventura, devi aspettarti un'e-mail o un post da un tassista indiano o un trafficone del Laos che si lamentano perché li hai descritti in modo troppo realistico o folkloristico e non si sono piaciuti". È la comunicazione Web.2, interattiva, che ha rivoluzionato i reportage di viaggio e reso le guide tradizionali obsolete come l'elenco delle Pagine Gialle. Non a caso per salvarsi la Lonely Planet e le altre si sono corredate dei forum online come Thorn Tree (che non è in italiano ma in globish, l'inglese semplificato per tutti).


continua

visti da dentro


Da Internazionale nr.754


Il paesaggio del ritorno


di Helene Paraskeva





Ogni estate vado in Grecia. “Beata te, unisci l’utile al dilettevole!”, commentano amici e conoscenti. In verità questo viaggio è un rituale privato, che ripercorre il primo viaggio di emigrazione, compiuto tempo fa. Comporta insidie e sorprese, nostalgia e banalità, come in una parodia del nostos omerico. Un viaggio via mare, perché con l’aereo il fascino svanisce, diventa solo spostamento. Il ritorno presuppone preparativi lunghi e onerosi. Bisogna risparmiare tutto l’anno perché il migrante deve tornare carico di doni, dimostrando così che gli affetti sono inalterati e che il sacrificio dell’allontanamento non è stato inutile. La partenza invece ha tutte le banali caratteristiche del primo giorno di vacanza: i bagagli che traboccano, la fila sull’autostrada, le lunghe attese ai caselli autostradali. Per scacciare la noia durante il viaggio riciclo il vecchio indovinello: qual è la città più bella d’Italia? Brindisi, quando si parte. E quella più brutta? Brindisi, quando si torna. Adesso però, non vale più. I traghetti non attraccano più al vecchio porto. Il porto di Brindisi è stato trasferito altrove, in un luogo anonimo. Su questo spiazzo sterminato le macchine aspettano sotto il solleone. L’ombra scarseggia ma non è ancora in vendita, ancora per poco, temo. Qui, accanto alle auto in sosta e sopra le coperte distese sull’asfalto fumante, si sistemano le famiglie di migranti turchi e albanesi. In viaggio di ritorno
anche loro. I motivi decorativi delle vecchie coperte marroni mi inteneriscono come le madeleine di Proust. Mi riportano alla prima infanzia. Il ritorno va venerato perché è anche un viaggio nel tempo. L’emozione dell’arrivo si maschera dietro occhiali scuri. Per fortuna la confusione di autovetture e passeggeri che sgorgano dalla pancia del traghetto rende tutto meno lacrimevole. Ci sono poi le novità da capire e digerire rapidamente, come la trasformazione del territorio, le nuove strade, perfino gli slogan pubblicitari che rivelano l’evoluzione della lingua. Presto mi toccherà la prova di autenticità: dovrò dimostrare di non aver perso la mia identità nel processo d’integrazione. Anche Ulisse, a distanza di vent’anni, deve stendere l’arco con la stessa forza e abilità di quand’era giovane. Il rituale è antico e si compie all’infinito. Non mancano gli italiani in vacanza, che all’andata si distinguono per la raffinatezza nel vestire. Anche per loro il ritorno in patria assume un significato particolare: tutti altrettanto abbronzati, trasformano l’esibizione in familiarità e si scoprono, finalmente, fratelli. Prima dell’imbarco sui traghetti, colpiscono i ragazzi migranti che aspettano davanti al porto di Patrasso, seduti sul muretto, osservando in silenzio le vetture che rientrano in Italia. Nei loro occhi si legge il desiderio di partire per un viaggio da clandestini verso la terra promessa. Spesso si assiste a scene disperate, quando qualcuno di loro riesce ad aggrapparsi a un camion. Ma l’avventura dura poco, vengono scoperti e costretti a scendere. I giovani migranti tornano allora silenziosamente a sedersi sul muretto, insieme agli altri, e riprendono l’attesa. Il paesaggio del mio ritorno è questo: banale e venerabile.





HELENE PARASKEVA è nata ad Atene e vive a Roma. Ha scritto Nell’uovo cosmico (2006) e Il tragediometro e altre storie (2003), pubblicati da Fara editore. È tra gli autori di San Nicola (La Meridiana 2006).

20080815

7 anni - parte 9




L'opinione

Sette anni dopo

JEFF ISRAELY PER INTERNAZIONALE


Abbiamo avuto sette settimane per capire Genova. Dalla fine di luglio ai primi di settembre del 2001, molti hanno cercato di dare un senso a quello che era successo quel fine settimana:
l’equivoco sorto intorno alla foto di Carlo Giuliani l’istante prima di morire; l’autocompiacimento dei politici del G8; la distruzione dei simboli del capitalismo globale da parte dei black bloc; le violenze della polizia nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Ogni immagine, ogni polemica è stata esaminata e dibattuta. Ma il tentativo di trovare un senso ai fatti di Genova – un eventuale filo unico che collegasse la limousine di Bush al sangue di piazza Alimonda, i bambini
poveri dell’Africa agli anarchici della piccola borghesia di corso Torino – si è esaurito l’11 settembre, e con esso lo slancio del movimento noglobal. Dopo il crollo delle torri gemelle i fatti
di Genova sono apparsi improvvisamente piccolissimi. La vera aggressione, contro degli esseri umani innocenti e contro i simboli del capitalismo globale – altro che polizia, altro che black bloc – l’aveva messa in atto Al Qaeda. A Genova sia i manifestanti sia i politici sbandieravano obiettivi globali, ma la nuova mappa del mondo l’ha disegnata Bin Laden. Di fronte allo scontro di civiltà la
maggior parte delle persone si è semplicemente dimenticata degli scontri nelle piazze genovesi. L’Italia però dovrebbe insistere nel tentativo di capire: non solo per fare i conti con la brutalità della polizia o per rendere omaggio a un martire imperfetto con il passamontagna.
Ma perché negli eterni melodrammi della vita pubblica italiana si nascondono degli insegnamenti validi per tutti. Forse Genova ci ha sussurrato all’orecchio degli indizi importanti. Riguardano le contraddizioni, le accelerazioni e il ridimensionamento del mondo moderno. Riguardano scontri interni anche alle stesse civiltà. Riguardano gli impalpabili ma duraturi cambiamenti in atto nella
storia del genere umano: cambiamenti che sette settimane – o sette anni – non sarebbero mai bastati a spiegare.



Gli autori


NICK DAVIES è un giornalista britannico. Scrive per il Guardian e gira documentari. Ha vinto il premio Martha Gellhorn e il premio europeo per il giornalismo per le sue inchieste sulla crisi della scuola e sul traffico di droga. Il suo ultimo libro è Flat Earth News (Chatto & Windus 2008).
JEFF ISRAELY è il corrispondente del settimanale statunitense Time per il Mediterraneo. Era a Genova durante il G8 del 2001.


fine reportage

20080814

Argentina ago 08 - 4

Argentina - Passaggio a Nord Ovest
San Rafael

Velocissimo aggiornamento, mentre stiamo aspettando il mini bus che ci portera` al Canyon del Atuel. Ieri spostamento da Mendoza a San Rafael, visita a una fabbrica di fermentazione e imbottigliamento di spumante (la Bianchi, un tipo italiano che ha veramente trovato l'America qui), della citta' e di un lago artificiale (c'e' una diga), chiacchiere anche sulle politiche argentine e sudamericane. Oggi altre bellezze naturali, domani ci fermiamo a cerchiamo un passaggio per San Juan e per proseguire verso il Nord.
Saluti

7 anni - parte 8





La lezione della Diaz
È una storia di fascismo. Circolano molte voci che poliziotti, carabinieri e personale penitenziario appartenessero a gruppi fascisti, ma non ci sono le prove. Secondo Pastore, però, così si rischia di
perdere di vista la questione principale: “Non si tratta solo di qualche fascista esaltato. È un comportamento di massa della polizia. Nessuno ha detto no. Questa è la cultura del fascismo”. La requisitoria di Zucca parla di “sospensione dello stato di diritto”. Cinquantadue giorni dopo l’irruzione nella Diaz, diciannove uomini usarono degli aerei pieni di passeggeri per colpire al cuore le democrazie occidentali. Da quel momento, politici che non si definirebbero mai fascisti hanno autorizzato intercettazioni telefoniche a tappeto, controlli della posta elettronica, detenzioni senza processo, torture sistematiche sui detenuti e l’uccisione mirata di semplici sospetti, mentre la procedura dell’estradizione è stata sostituita dalla “consegna straordinaria” di prigionieri. Questo non è il fascismo dei dittatori con gli stivali militari e la schiuma alla bocca. È il pragmatismo dei nuovi politici dall’aria simpatica. Ma il risultato appare molto simile. Genova ci dice che quando il potere si sente minacciato, lo stato di diritto può essere sospeso. Ovunque.


fine articolo, continua reportage