No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20060531

bald

le persone si dividono in due grossi gruppi, chi ha la forfora (o la può avere) e chi non ce l'ha.
io e jumbolo siamo geneticamente del secondo gruppo.
noi del secondo gruppo siamo veloci perchè aereodinamici, siamo raggianti perchè splendiamo alla luce del sole.
chi a ha la forfora invece: un uomo va dal dermatologo perché è assillato dal problema della forfora. Il dottore lo rincuora: - Guardi... lei è fortunato! Mi è appena arrivato un prodotto dagli Stati Uniti. E' a dir poco miracoloso. Prenda questa confezione di sette fiale e segua scrupolosamente le mie indicazioni: al lunedì deve mettere la fiala rossa, il martedì quella viola, il mercoledì quella gialla, il giovedì quella blu, il venerdì quella bianca, il sabato quella rosa e la domenica quella nera. Poi ritorni fra una settimana per un controllo. Il tizio segue scrupolosamente la cura e dopo sette giorni si ripresenta dal dottore: - Allora come va con la forfora? - Beh la forfora non ce l'ho piu'... adesso c'ho i coriandoli!

by this river

Here we are
Stuck by this river,
You and I
Underneath a sky that's ever falling down, down, down
Ever falling down.

Through the day
As if on an ocean
Waiting here,
Always failing to remember why we came, came, came:
I wonder why we came.

You talk to me
as if from a distance
And I reply
With impressions chosen from another time, time, time,
From another time.

20060529

Hapworth 16, 1924

domenica ho iniziato e finito questo libro di jd salinger, si quello del giovane holden, Hapworth 16, 1924.un libretto straordinario per ironia e stile. un ragazzino di 7 anni, in campeggio estivo col fratellino di 5 scrive una lettera ai propri genitori, una lettera di 130 pagine, che comprende citazioni, critiche letterarie e sfoghi sociali, toccando anche gli istinti sessuali...consigliatissimo!

ps.è l'ultima pubblicazione di salinger prima di ritirarsia vita privata, era il 1965.

se condi


sabato e domenica ci sono state la semifinale e la finale di ondeelettriche. sabato sera abbiamo suonato solo tre pezzi (diamante-ultimo atto-sublime)che ci hanno permesso di entrare in finale. domenica la finale. secondi.
le cose belle dei due giorni:
- il pic nic di sabato sul ticino, rilassante e anche se afoso, e la scoperta di sbresi fuoriclasse del salto del sasso sull'acqua, una cosa impressionante, che nemmeno huckelberry finn!!
- il concerto di domenica che è stato molto bello, un gran suono sul palco (un service di gente simpatica!!), e i pezzi suonati come si deve e con molto trasporto, lievi quando serviva e potenti quando serviva!
- poter usare l'ampli della chitarra ad un volume alto...cazzo che goduria di suono!!
- garaz factotum e maurino che sabato sera è venuto da milano..quante birre hai bevuto maurino? (mi devi ridire la storia della setta capeggiata dall'uomo coi capelli bianchi che ha plagiato andrea pezzi!!!)
- la soddisfazione per il secondo posto veramente non sperato!
- i wild angels, rock and roll d'altri tempi, eliminati in semifinale scandalosamente!!!per me vincitori morali della compertizione.
- uscire dalla doccia e vedere solo il bosco dietro la cascina di lisa nel parco del ticino! veramente da pace dei sensi!
le cose brutte dei due giorni:
- i moscerini fastidiosissimi e le zanzare;
- una certa tensione nel gruppo dovuta svariati motivi logistico attitudinali;

la scaletta di domenica:
diamante
marialafolle
sublime
get your filthy hands off my desert
ultimo atto
duello sul porto di livorno
il pretesto
scivolando

20060528

centopercento negazione


Ero in macchina, e stava andando un cd che mi sono fatto un po' di tempo fa. E' partita una canzone che ha scatenato in me ricordi abbastanza lontani, ma indelebili e molto, molto piacevoli, al pari, lo dico, di un orgasmo.

La penultima band con la quale ho suonato ha cessato di esistere oltre 10 anni fa. Ci chiamavamo Lenostrescimmie (tutto attaccato), e abbiamo suonato abbastanza in giro. Nella zona oserei dire che eravamo anche famosi. Ci è capitato di esibirci davanti a poche persone, pochissime, ma in qualche occasione anche di fronte a diverse centinaia. In ordine di presenze fu il secondo forse, ma mi rimase impresso un concerto che facemmo in un locale vicinissimo a casa mia, chiamato Caravanserraglio. Il posto era pieno zeppo di gente, come non lo è mai stato per un concerto. Suonammo circa due ore, un tempo lunghissimo, un concerto vero, fatto di sudore, sbagli, bacchette rotte e birre vuote, sguardi verso e dal pubblico; sciorinammo tutto il nostro repertorio, due volte la nostra canzone più famosa (Granelli), e alcune cover. Memorie di una testa tagliata dei C.S.I. , Lieve dei Marlene Kuntz, ma soprattutto Sempre in bilico dei Negazione. Quest'ultima è la canzone che ha scatenato questo ricordo.

Nonostante il rispetto che porto anche alle altre due band, i Negazione sono stati "per me importanti" (cit.), e lo sono ancora oggi, nonostante non esistano più. Quel concerto era, se non erro, nel 1995, e i Negazione erano ormai sciolti. Suonare bene quella canzone mi dava gioia infinita (cit.), mi faceva stare bene. Riascoltarla mi porta vicino alle lacrime. Ma sono lacrime di gioia, perchè è il ricordo di qualcosa di positivo che riaffiora in me.

Questo è il testo

Sempre in bilico

Sempre in bilico
sei sempre in bilico
tra l'odio e l'amore
tra gioia e la tristezza
tra un senso di potenza
e il vuoto del fallimento
Sempre in bilico
forse per questo
sei proprio tu
il futuro e` da scrivere
e con lui anche tu
Sempre in bilico
tra paure e sogni
di ridente grandezza
sensazioni eccitanti
e frustranti pudori
Oltre cio` che credi
di potere fare
oltre cio` che vedi
ed il mondo che ti sei creato
oltre a tutto questo
ci sei anche tu
La tua mente, la tua anima
disegnano traiettorie di vita
oltre la morte
in bilico con la realta
`la realta` dello spirito
lo spirito della tua vita
Sempre in bilico.....

e questo è il loro sito ufficiale: http://negazione.com

PS La foto allegata, magica e inconfondibile, risale a una delle ultime esibizioni della band, l'unica in Italia davanti ad un grandissimo pubblico: aprirono infatti il Monsters Of Rock del 1991, svoltosi a Modena, presso la Festa de l'Unità, il 14 settembre, prima di Black Crowes, Queensryche, Metallica e AC/DC. Per darvi l'idea della grandezza e dell'umiltà di questa band, se non la conosceste, vi basti solo sapere che, nella mezz'ora a loro disposizione intorno alle 14 del pomeriggio, trovarono il tempo per eseguire una cover di un'altra band Hardcore-Punk italiana, i Kina. E scusate se è poco.

barry white saved my life


Metti che un venerdì arrivi stanco da lavoro, con tutto il sonno arretrato della settimana, e verso le 18,15 ti stendi sul letto e ti svegli alle 5,22 della mattina del sabato.
Metti che ti alzi, fai colazione, e poi visto che non sai che cazzo fare torni a letto fino alle 11.
Metti che poi ti alzi di nuovo, ti radi barba e cranio, prendi la bici e vai a pranzo con un amico nel ristorante di un altro amico. Sul mare.
Metti che dopo pranzo, ti fai quei 5 chilometri e vai in spiaggia a trovare una coppia di amici e stai un paio d'ore sotto il sole, per la prima volta quest'estate.
Metti che riprendi la tua fantastica sandy bike all-american style (ma made in China), ti rifai 5 chilometri per tornare a casa, metti su la discografia di Barry White e ti immergi nella vasca tiepida e schiumosa, ti fumi una sigaretta e leggi un libro.
Metti che ti cambi ed esci a cena sul mare con altri amici; dopo fai una passeggiata, guardi qualche bella scarpa da donna, incontri pure babbo, sorella e nipote, che, rasato a zero da poco, sembra davvero un tedesco, ma con la faccia più furba di un bambino tedesco.

Cazzo, questa è vita. Cosa mi manca?

Come dite? Ah già, è vero. Ok, vado. Altrimenti, Barry che canta a fare dell'amore?
Ciao, a domani.

20060526

estere live al castelletto rock

pòra milàn

sabato e domanica si vota per il sindaco. in ballo l'ex ministra moratti, di un antipatia immensa, e il pacato ferrante ex questore. vabbè, c'è poco da dire...
ieri ho riordinato un pò di posta arrivata nelle ultime settimane, bollette da pagare e messaggi di propaganda politica, di quest'ultimi ho segnato la quantità divisa per partito:
12 lettere da forza italia
9 lettere da alleanza nazionale
8 lettere dall'udc
2 lettere dall'unione
2 lettere dalla lega nord
1 lettera dal nuovo partito democristiano
che siano una proiezione del voto?

20060525

lost in the mud


Mudhoney + Jennifer Gentle, 20/5/2006, Circolo degli artisti, Roma

Lo ammetto: li avevo un po’ persi di vista. Nonostante quel bellissimo manifesto, con la foto di copertina del singolo Burn It Clean (vedi foto), cimelio del concerto del ’92 al Kryptonight di Baricella, rimasto un po’ nelle menti di tutti i presenti come “il festival dello stage-diving”, quel manifesto che campeggia tutt’oggi nella stanza-studiolo, e nonostante il concerto precedente, nell’agosto del ’90 al Velvet di Rimini sia un’altra delle cose indimenticabili della mia vita. Da sempre stimatissimi dalla critica e da un pugno di fans, da sempre snobbati dal grande pubblico, forse anche perché loro stessi hanno sempre rifuggito quel tipo di successo. Mirabile fusione di sudore rock’n’roll, furore punk, dilatazioni blues lisergiche, atteggiamenti ironici da antidivi, hanno continuato a sfornare dischi interessanti in sordina e, evidentemente, a tenere vivo il fuoco che brucia loro l’anima.
Lo si vede dalla tranquillità con la quale escono dal locale passando quasi indisturbati poco prima delle 20 per andare, presumo, a cena, lo si vede dal microscopico tour bus parcheggiato lì davanti, lo si vede dalla spontaneità con la quale, al rientro, firmano autografi, si fanno fotografare con giovani che, quando loro calcavano per la prima volta i palchi italiani, erano ancora in fasce, dalla nonchalance con la quale Mark, invecchiato di pochissimo, si ferma ad accarezzare Aki, il cane dell’amico Massi.

Nonostante siamo lì da quasi due ore, riesco a perdermi interamente l’esibizione dei supporters italiani, ma targati Sub Pop, Jennifer Gentle; e pensare che ero davvero curioso di vederli. Il Circolo è un buco, e dentro fa caldissimo, già dall’inizio, soffro solo a pensare cosa sarà alla fine. Certo che, verso le 22,15, quando appaiono assolutamente in maniera low profile sul palco, e attaccano una indiavolata versione di Suck You Dry, ci penso meno e passo un panno umido sugli ultimi 15 anni. Ho come l’impressione che mi stiano ricrescendo i capelli. Mi viene voglia di urlargli “dove siete stati tutto questo tempo?”, e magari invece mi ero nascosto io. Eppure, l’iniziale lega benissimo con la seguente It Is Us, dal nuovo “Under A Billions Suns”, tirata al punto giusto. L’acustica è pessima, si perdono completamente gli assoli di Steve, però si vedono gli schizzi di sudore di tutti, e le camicie a quadri. Che, detto per inciso, portano solo loro sul palco.

Il resto è un’ora e mezzo scarsa di alternanza tra vecchio e nuovo, ben miscelata, con preferenza al vecchio. Non stonano Where Is The Future, Where The Flavor Is, Sonic Infusion, fa un figurone Hard On For War, ma con You Got It (Keep It Outta My Face) quasi all’inizio, mi ritrovo a cantare sguaiatamente come Mark, e come non mi capitava da tempo, con Sweet Young Thing Ain’t Sweet No More mi si stirano le rughe meglio che alle terme, verso la fine If I Think mi fa bagnare, anche se il sudore ha fatto il grosso, Touch Me I’m Sick non si può commentare, è storia, la doppietta dei bis, i bis introdotti da Mark come se fosse una trasmissione radio di richieste, con le altrettanto epocali In ‘N Out Of Grace, con Dan che scortica le pelli, e Hate The Police, con Mark che lascia la chitarra per afferrare microfono e asta con un effetto punk, mi fanno scoprire l’orgasmo multiplo maschile.

Inutile raccontare che la fornitura d’acqua dei Mudhoney è servita da loro stessi alle prime file. Inutile tentare di ritrovare la loro carica in qualche band moderna. Inutile provare a tagliarsi i capelli scalati come Mark Arm. Il carisma mica si vende al mercato.

Vi amo, bastardi.

sportis

avrei voluto vedere il giro d'italia arrivare a plan de corones per vedere qualche ciclista scendere dalla bici e camminare fino al traguardo perchè stremato dalla fatica e dal tempo impervio. ma determinato a tagliare il traguardo. purtroppo l'arrivo della tappa è stato anticipato e l'ultimo terribile tratto è stato tolto.
non avrei voluto sentire cannavaro sparare tante cazzate quante quelle dette ieri.un pò di buon senso cazzo!
avrei voluto essere a lucerna, per l'arrivo della nazionale di calcio brasiliana, per vivere lo spirito festoso del gIUoco del calcio.altro che italietta dei furbetti del palloncino!

20060522

generi

bhe gli hormonauts mi hanno divertito parecchio, poi hanno un batterista scalmanato.
carlo dice:"non mi piaccino i gruppi così, tutte le canzoni sembrano uguali!"
io dico:"bhe suonano un genere preciso, quindi i ritmi sono molto simili tra una canzone e un'altra"
carlo dice:"bhe ma non vedo grosse differenze tra una canzone e un'altra"
io dico:"bhe anche il reggae o lo ska o il blues sono molto simili a se stessi, hanno quel ritmo e via..magari non ti piace il genere, ma le canzoni non puoi dire che sono tutte uguali"
carlo dice:"bhe"
io dico:"bhe"

20060519

la festa di primavera

non sono più studente di agraria, ma lo sarò per sempre.
la festa di primavera, ad agraria, è sicuramente l'evento dell'anno. l'evento che unisce tutti gli studenti di agraria passati e futuri.
oggi è il giorno della festa. ci andrò, nel pomeriggiio.

ho organizzato la festa per 5 anni. trovare il vino (15 damigiane di rosso e 3 di bianco), le salamelle (200 kg), panini, torte, sangria, poi organizzare i giochi, le foto, gli striscioni, trovare i gruppi e i dj set, fino alla pulizia della facoltà a fine festa.
(sono stato rappresentante di facolta per 4 anni, diciamo che ci mettevo la faccia col preside e mi sentivo un pochetto responsabile)
sembrava di tornare in un passato sessantottino, tra amore (tantissimo),sesso (nascosto), droga (fin troppa, ma sempre e solo naturale), musica (a tratti strepitosa, tipo l'esibizione degli americani tex twill, rock and roll strafigo, che erano in tour in italia e conosciuti la sera prima sono venuti a suonare gratisss) e salamelle per riportare tutto in una dimensione campagnola che si confà alla facoltà di agraria.

ma la festa di primavera è soprattutto la festa dell'ammmore!
la festa che brinda agli ormoni, che li risveglia dall'intorpidimento invernale.
è stata LA festa per il mio periodo universitario.cazzo, che nostalgia!

20060518

arnesi progressivamente metallici


Tool – 10.000 Days

Maestoso è forse l’aggettivo che più si addice a questo nuovo disco dei Tool. Cominciamo col dire che i Tool sono una band strana, ma meritevole. Molto. Sempre di più, nel corso della loro carriera, durante la quale si prendono sempre un sacco di tempo tra un disco e l’altro, premono il pedale su due cose completamente fuori moda: il metal e il progressive. Inoltre, sembra che si circondino di mistero, che si ispirino a filosofie particolari, generando stuoli di fans adoranti fino all’integralismo, mentre probabilmente sono delle persone assolutamente tranquille. Si evince da qualche intervista ma soprattutto dalle foto promozionali, dove spesso appaiono come dei perfetti cazzoni. Altro punto a loro favore, direi.

Musicisti superbi, ancora una volta danno vita ad un lavoro pressoché impeccabile, pesante, cupo, apparentemente pessimista. Dal punto di vista musicale, in una parola sola stratificato. Ritmiche sincopate, percussioni violente, secche, tribali (ampio, anche qui, l’uso delle tabla), basso intenso che usa una serie di suoni molto ampia, dà profondità al suono e sorregge le canzoni nei (rari) momenti di pausa che la chitarra si e ci concede, oppure quando, sempre la chitarra, lavora di cesello; per la voce, stesso discorso del basso, ma amplificato. Una gamma infinita di timbriche, fino ad arrivare a quello di The Pot, dove Maynard è irriconoscibile. Lo stesso Maynard mette a frutto l’esperienza degli A Perfect Circle, creando a tratti linee melodiche affascinanti, all’interno di un contesto duro come il granito. Le improvvise e bellissime aperture melodiche, spesso stroncate come in una sorta di coitus interruptus musicale, caratteristica già riscontrata nei Tool, sono uno dei temi portanti del disco, e richiamano vagamente quelle di “And Justice For All” dei Metallica (fatte le dovute e debite differenze tecniche, tutte ovviamente a favore dei Tool; ricordiamoci inoltre, che quello è stato il primo ed unico disco metal dove il basso non esiste), tanto per non andare molto indietro nel tempo.

Ovviamente non è la sola nota interessante. Se vogliamo rimanere nell’ambito delle assonanze, le ritmiche di chitarra stoppate, richiamano a volte quelle dei Korn e, in genere, quelle del Nu Metal, ad essere sinceri ridicolizzandole. Fin qui, siamo nel campo del “marchio di fabbrica”; in effetti, queste caratteristiche appartenevano già ai Tool in passato. E’ interessante invece, andare a rendersi conto dell’operazione costante che i Tool continuano ad operare sulla forma-canzone, dilatandola, aggiungendoci tocchi lisergici e psichedelici senza quasi farsene accorgere. E’ il vortice della chitarra, spesso, che diventa spirale e ti trascina in una dimensione dove la musica diventa, o ridiventa, padrona assoluta. Come descrivere altrimenti, ad esempio, la parte finale di un pezzo davvero ostico come Rosetta Stoned (mirabile gioco di parole), dal minuto 6,00 in poi, che introduce al punto probabilmente più alto del disco (l’esplosione melodica innescata dalle parole overwhelmed as one would be, placed in my position)? Qui, come in altri punti, ricordano concettualmente i Pink Floyd, mentre in Jambi richiamano più precisamente, anche come suono, quelli di “The Wall”, con la chitarra che “divide” le strofe. Impiegheremmo troppo tempo sviscerando pezzo per pezzo il disco. Meglio, forse, darvi qualche impressione per poi lasciarvi in balìa di questo lavoro molto complesso. Vicarious e Jambi hanno l’andamento di un vulcano che erutta ogni tanto: colate di lava metallica alternate a momenti di calma apparente, ma tesi e vibranti. Wings For Marie (Pt 1) è la perfetta introduzione, barocca e vellutata, ad un pezzo intenso quale 10,000 Days (Wings Pt 2), all’apparenza un film horror, nella realtà la descrizione di una sorta di calvario, ma anche di un avvicinamento alla pace (pare che i 10.000 giorni del titolo siano i 27 anni che la madre di Maynard ha passato su una sedia a rotelle dopo un ictus). The Pot, una canzone che mi ha colpito molto, riesce ad inserire complessità in un pezzo relativamente breve (6 minuti e 24 secondi) per lo standard Tool. C’è chi ha provato ad accostare 10,000 Days (il pezzo) a Stairway To Heaven dei Led Zeppelin; bene, mi viene da “rispondere” che invece The Pot è la loro Rock And Roll: il riff iniziale la ricorda, e l’incedere discordante, con l’effetto fuori tempo accentua la similitudine. Se Lipan Conjuring è un intermezzo tribale, Lost Keys (Blame Hofmann) è molto più di questo: il dialogo infermiera/dottore introduce la storia, tra l’altro divertentissima, se la si legge in una chiave “leggera”, della già citata Rosetta Stoned, un altro dei picchi del disco. Intension è quasi un pezzo ambient, una specie di mantra, mentre Right In Two è ancora una canzone complessa, ma dalla bellezza mozzafiato. Chiude Viginti Tres, un divertissement che mette quasi i brividi.

Detto dei testi, che alternano pessimismo (Vicarious, Right In Two) ispirato dalla visione dell’odierno genere umano, a poesia venata di misticismo (10,000 Days, Jambi), storie complesse, ispirate alle droghe (forse), divertenti (come già detto) e interessanti (Rosetta Stoned), vorrei spendere due parole sull’artwork. Sempre nella tradizione Tool già dal precedente, curatissimo e molto particolare (questa volta abbiamo una “costola” in più, nel cartone che fa da copertina, con due lenti 3D che permettono di guardare le foto del booklet interno), è una di quelle cose che ti riavvicina al piacere di acquistare un disco, rendendolo un po’ più simile a quando si acquistavano i vinili anche solo per le copertine.

In definitiva, e come ebbero a dire loro stessi in occasione del precedente “Lateralus”, la loro musica andrebbe ascoltata in una stanza buia, in assoluto silenzio. Per coglierne tutte le sfumature, questo vale più che mai anche per 10.000 Days.

Un disco fatto per rimanere.

meta


questa foto qui non ha uno scopo preciso, ma è la metafora della vita.

felicità è...


Una cosa chiamata felicità - di Bohdan Slama 2006

Come spesso accade, i film più gustosi, interessanti, pieni di emozioni, arrivano da luoghi impensabili per noi, o almeno, per chi è abituato al blockbuster occidentale. Una cosa chiamata felicità arriva dalla Repubblica Ceca, ed è, insieme, un inno alla vita, alla semplicità, a guardarsi dentro ma anche intorno molto vicini, alla ricerca, appunto, della felicità. Non è necessario, a volte, inseguire il sogno della ricchezza in paesi apparentemente opulenti.

Le figure attorno alle quali ruota la narrazione sono quelle di Monika, brava ragazza, innamorata del fidanzato che parte per cercare fortuna negli USA, con un padre disoccupato, un po’ ubriacone e vessato dalla moglie, ma simpatico, Dasha, due figli piccoli avuti chissà da chi, innamorata di un uomo sposato, instabile e a tratti pericolosa, e Tonik, che il padre e la madre, molto inquadrati, vorrebbero sistemato e con un lavoro sicuro in fabbrica, che invece sceglie la via della semplicità, abitando con la zia nel rudere familiare di campagna, vivendo di poco e opponendosi all’acquisizione del rudere stesso da parte di alcune società.

Monika sogna di raggiungere il fidanzato negli USA, e di lasciare il suo lavoro al supermercato; ce l’ha quasi fatta quando Dasha, ormai completamente fuori di testa, viene ricoverata. A quel punto, Monika, insieme a Tonik, si assumono la responsabilità dei piccoli, e si trasferiscono nel rudere, dando vita ad uno strano nucleo familiare. Tonik, da sempre innamorato di Monika, inizia a ristrutturare il tutto. Insieme, getta le fondamenta di “qualcosa come la felicità” (pare che il titolo originale fosse questo).
La storia prenderà una piega dolorosa, all’apparenza. Ma è proprio in quel momento che escono fuori i sentimenti e le emozioni forti.

Minimale, malinconico ma con un retrogusto dolciastro, e pure divertente a tratti, il film avvince lentamente fino a prenderti le viscere. Perfetti i protagonisti, figura incredibile quella di Pavel Liska (e non solo per la t-shirt di Arise dei Sepultura esibita per l’intero film), interprete di Tonik, il risultato è una pellicola forte e delicata, davvero molto bella. La ricorderete un bel po’.

20060517

caccalcio

adesso a me del calcio mi frega poco(tranne del verona). ma la gente sta impazzendo. questa mattina alla radio ho sentito un pisano che chiamava incazzato perchè non hanno convocato lucarelli in nazionale....capito...un pisano!!!!!

piesse:moggi santo subito!

20060516

il gioco della torre?


Non buttiamoci giu’ – di Nick Hornby

Jess, adolescente sciroccata, Martin, giornalista televisivo incarcerato per pedofilia, Maureen, ultracinquantenne con un figlio vegetale di vent’anni a carico, e JJ, americano a Londra, musicista fallito, si ritrovano, la notte di Capodanno, sul tetto di un palazzo noto come ‘’la Casa dei Suicidi’’, per buttarsi di sotto e darci un taglio. Dopo un incipit buffissimo, ne viene fuori una specie di gruppo di supporto nevrotico e quantomai eterogeneo. Finale aperto.

Hornby non sente la pressione, nonostante sia uno dei pochi scrittori, sulle cui nuove uscite ci sia un’attesa paragonabile ai dischi nuovi dei grandi gruppi rock. Sforna un altro libro snello, scorrevole, divertente, a tratti molto divertente, con un retrogusto amaro amaro.

Spassoso e interessante dal punto di vista prettamente linguistico; incredibile lo stacco tra i linguaggi dei quattro protagonisti, che inquadrano non solo la classe sociale, ma anche l’ambiente che frequentano. Inquietanti le riflessioni che ne escono, e non solo quelle ‘’pensate’’ dai quattro aspiranti suicidi. Sicuramente ci sara’ chi critichera’ Hornby, ma a chi scrive pare proprio che il purosangue inglese continui imperterrito in un percorso nei meandri dell’animo umano con un piglio popolare ma intelligente.

Divertitevi.

sesso (poco) e violenza (molta)


Due film visti uno di seguito all’altro, con tematiche avvicinabili, come recita il titolo. Uno mi è piaciuto, l’altro non molto. Quello che mi è piaciuto, ha la locandina qui a fianco.

Bittersweet Life, del regista coreano Kim Jee-Woon, da noi conosciuto l’anno passato con Two Sisters, ci racconta la storia di Sun Woo, elegante e impeccabile scagnozzo del boss malavitoso Kang, che lavora con la copertura di direttore d’albergo. Sun è efficiente e diligente, inappuntabile. Il capo gli affida un compito particolare: dopo avergli rivelato di essere follemente innamorato di una ragazzina, Hee Soo, e di essere in procinto di partire per tre giorni, gli ordina di sorvegliare la ragazza, accompagnarla in giro se lo necessita; ma soprattutto, visto che Kang sospetta che Hee abbia una tresca con un ragazzo della sua età, si raccomanda di ucciderli se li coglierà in flagrante.
La tresca c’è, ma Sun non se la sente di uccidere i due. Si è forse innamorato anche lui di Hee? Si scatena così la guerra tra Kang e Sun.
Film stilisticamente e tecnicamente impeccabile, avvince nella primissima parte per poi perdersi nei meandri della spirale infinita della faida vendicativa; citazioni a più non posso, è bellissimo da vedere ma dice poco. Inoltre, a dire la verità, queste storie di gangster asiatici hanno pure rotto i coglioni.

Bubble, di Steven Soderbergh, ha fatto notizia innanzitutto perché il genietto Soderbergh ha deciso di inaugurare con questo film, una serie di sei pellicole che saranno distribuite contemporaneamente in sala, in dvd e in tv, via cavo e non, abbattendo i costi pubblicitari. Minimalissimo, girato in digitale e con attori non professionisti, è una spietata fotografia della profonda provincia USA. Martha è una ultra-quarantenne sovrappeso, col padre, vecchi e quasi infermo, a carico, e non fa altro che lavorare. Kyle è un quasi ventenne con la madre disoccupata, vive in una classica casa-roulotte e fa due lavori. I due hanno in comune il lavoro alla fabbrica di bambole, e Martha ha, nei confronti di Kyle, un ambiguo atteggiamento materno, che si esaspera quando nella fabbrica arriva Rose, una giovane ragazza madre abbastanza carina. I finti sospetti di Martha sulla falsità di Rose si rivelano fondati, esattamente una settimana dopo l’arrivo in fabbrica di Rose, e precisamente la sera nella quale i due decidono di uscire insieme. Purtroppo, Rose chiede proprio a Martha di fare la babysitter alla figlia Jesse.
Dura esattamente 73 minuti ma è pesante come un macigno, nonostante scorra meravigliosamente bene. Lo hanno paragonato a “Una storia vera” di Lynch, nelle intenzioni di dipingere la provincia americana, ma il lavoro di Soderbergh manca completamente di quel romanticismo asimmetrico tipicamente Lynchiano, e quindi non fa prigionieri. Caustico, asciutto, diretto e angosciante.
Da non perdere. Onore, ancora una volta, a Steven Soderbergh.

20060515

ier

ieri era la festa dalla mamma, la mia andrà finalmente in pensione alla fine dell'anno scolastico, cioè tra un paio di mesi.e farà una festa...che ridere!
ieri sono andato al parco del ticino in moto, una giornata di una splendevolezza adamantina col vento in faccia tra i pelumini di ambrosia. sto provando il gusto della moto. poi i novelli sposi mi hanno raccontato la battaglia delle bandiere a Nicosia, la capitale di Cipro, l'unica capitale divisa in due da un muro. e vicino al muro c'è il pub Berlino...ironici questi ciprioti!
sabato sera al concerto dei vanillina e unsifted si è scoperto che il bassista degli unsifted lavora alla solvay come jumbolo! ma non vi siete mai incontrati?!??!!?vabbè che la solvay è grande!!?!peròòòòò....

esco a prendere tre paia di pantaloni che sono senza e vesto sempre pantaloni non stirati!

20060514

shock the monkey


Arctic Monkeys + Milburn, 12/5/2006, Nonantola (MO), Vox Club

Era un bel po' che non entravo qua dentro. Uno dei locali più belli d'Italia, il Vox. E' rimasto figo.
Misteri del business, fuori c'è il cartello "esaurito", dentro si vendono i biglietti. Alla fine, dicono che c'erano 1800 persone. A me pare che non ci entrino dentro al Vox, ma tant'è.
Un sacco di giovani, ma ormai ci sono abituato. E un sacco di stranieri, soprattutto inglesi. Chissà da dove vengono. Uno di loro non capisce la mia maglia dei Mogwai con lo stemma scozzese, e non si spiega perchè tanti italiani amino la Scozia. La sua ragazza, scozzese, apprezza. Aprono in perfetto orario (alle 21,00, che stia cambiando qualcosa in Italia?) gli altrettanto inglesi Milburn, e non sono da buttare completamente. Un po' di chitarre reggae su un impianto piuttosto rock e piuttosto brit. Il cambio palco non è neppure tanto lungo, ma il pubblico è davvero impaziente. Io sono solo curioso, ma pronto a stupirmi, se ce ne fosse bisogno. Il disco mi piace. Ancora in perfetto orario arrivano i quattro di Sheffield, e si piazzano tranquillamente sul palco. Pubblico eccitato. Apre The View From The Afternoon e si capiscono alcune cose. Che i suoni sono ancora da mettere a punto, ma che questi bambocci ci sanno fare, e la mettono giù dura.
Sono dei bambini, e quando lo spot neutro illumina il viso del cantante/chitarrista Alex si vede chiaramente. Eppure non hanno nessun timore reverenziale. Certo, sono eccitati di essere first time in Italy, come dice lui stesso più volte, ma il palco lo tengono con un ottimo piglio, lo dominano quasi, senza strafare, non sono degli ossessi, ma sono tesi a suonar bene e a coinvolgere. E in effetti, la tecnica non gli manca: mi ricredo su quanto avevo pensato ascoltando il loro "Whatever People Say I Am, That's What I'm Not". I suoni migliorano in breve, e i pezzi si succedono senza cali di tensione; le piccole pause dell'inizio spariscono via via, Alex riempie gli spazi, dialoga, introduce i pezzi, gli altri lo seguono e lo assecondano. Dentro al Vox fa un caldo infernale, la gente si muove e il sudore è nell'aria. You Probably Couldn't See For the Lights But You Were Looking Straight At Me (ma quanto sono forti questi titoli?) è diretta e arriva subito, aumentando la temperatura, se possibile.
Dancing Shoes, manco a dirlo, è una specie di riempipista, e non mi capitava di vedere tanta gente ballare insieme dal '92 (RHCP a Milano per la prima volta), così come la più dura When The Sun Goes Down. I Bet You Look Good On The Dancefloor è tiratissima, ed eseguita in una splendida e vibrante versione: la pronuncia inglese di Alex impreziosisce il tutto. Floa fa rima con Foa. Schizzi di sudore dappertutto. Perhaps Vampires Is A Bit Strong But... è cantata dal pubblico quasi interamente: Alex si arrende e porge il microfono. From The Ritz To The Rubble è molto dura, e Fake Tales Of San Francisco è preziosa nel crescendo che precede la fine. Mardy Bum la immagino come se fosse solo per me (è la mia preferita), ed è bellissima. Sulle note dell'assolo mi immagino amoreggiare con la metà delle donne del locale, e mi sento bene.
Verso la fine, appaiono i Milburn sul palco e fanno stage-diving insieme. E' una festa, e il pubblico gradisce. Alle 23,10 è tutto finito, si sfolla.
Mi compro una splendida T-Shirt verde dei bambini Arctic Monkeys, la indosserò per andare a vedere i Tool, perchè l'apertura mentale è una piantina che va coltivata con cura, e ce n'è sempre tanto bisogno. E poi è molto bella, la maglia. Inoltre, le band che hanno qualcosa a che fare con le scimmie nel nome, non so perchè, mi stanno simpatiche.
Cantagallo ci aspetta.

20060511

new amsterdams

il nuovo disco dei THE NEW AMSTERDAMS -Scary like a scar- mi piace un bel pò!

liberi tutti


Anche libero va bene - di Kim Rossi Stuart 2006

Tommaso detto Tommi (scelta davvero infausta, di questi tempi; ma che ne poteva sapere il buon Kim?) è il più equilibrato della sua famiglia, pur essendo il più giovane. La sorella Viola scherza sempre con lui in modi strani che a lui non piacciono per niente, e anche con le amichette fa giochi strani, il padre Renato, operatore cinematografico, è rissoso e irascibile, anche se buono di cuore, dal turpiloquio facile, un po' infantile nonostante la vita lo abbia messo alla prova e continui a farlo, la madre Stefania, donna alla quale, come gli confida il padre, "je prude la fica continuamente", bella e fragile, se ne va costantemente di casa con ricchi sconosciuti per poi tornare strisciando, e sostenendo di aver sempre voluto portare via con se i figli, ma il padre si è sempre opposto: Tommi la guarda con sospetto, pur volendole bene, ma il suo esempio lo fa crescere diffidente verso le donne tutte.
Tommi si fa grande caricandosi tutto sulle spalle, leggermente introverso, si crea spazi tutti suoi, tira avanti tra mille difficoltà e cerca di non sottrarsi alle sue responsabilità; vorrebbe giocare a calcio, per esempio, ma il padre ha la fissa del nuoto, e quindi lui nuota.
E quando tutto converge verso il punto di rottura, sarà ancora lui a sostenere il peso più grande.

E' un esordio felice quello di Kim Rossi Stuart alla regia, proprio adesso che si sta ritagliando, sempre più, un posto di tutto rispetto come attore, viste anche le sue ultime, convincenti prove, sia in Romanzo criminale che ne Le chiavi di casa. Sceglie Barbora Bobulova, della quale ho più volte tessuto le lodi negli ultimi tempi, nel ruolo di Stefania, ma la usa con parsimonia, per lasciar spazio ai bambini, Marta Nobili nei panni di Viola, ma soprattutto Alessandro Morace, splendido protagonista nel ruolo di Tommi; "costretto" a recitare nella parte di Renato (pare per la rinuncia di Sergio Rubini), se la cava egregiamente, disegnando una specie di Freddo (Romanzo criminale) fuori della malavita, onesto, appassionato ma instabile, sballottato come una scialuppa alla deriva nel mare mosso della vita.
Duro, e non solo nel linguaggio (chissà se la bestemmia bissata solleverà lo stesso polverone di quella pronunciata da Castellitto ne L'ora di religione), assolutamente aderente ai nostri tempi, proprio per questo riesce a imbarazzare lo spettatore che non può, neppure per un attimo, dimenticarsi che lì, sullo schermo, ci siamo proprio noi che parliamo così male, forte di una sceneggiatura fluida, lineare e credibile, diretto in maniera diligente, ma con alcuni lampi molto interessanti (le nuotate di Tommi in soggettiva, le camminate sui tetti, la sequenza onirica), il debutto di Rossi Stuart si propone come uno dei migliori, almeno a livello italiano; tutti i particolari descritti sopra, fanno prevedere anche una carriera registica quantomeno da seguire.
Bravo Kim.

20060510

sol

sto buttando via molte cose vecchie.
faccio le pulizie d'aprile a maggio, comunque meglio tardi...
ritrovo spesso fogli svolazzanti con scritti in rima, forse idee per canzoni o lettere d'amore mai spedite, prendo la chitarra e provo a cantarle improvvisando una melodia. spesso sono malinconiche. ero così malinconico quando ero più giovane? forse ascoltavo troppo i pearl jam!?!

devo decidere tra queste ipotesi:
-diventare una rock star;
-iscivermi all'università per fare una seconda laurea;
-tornare a giocare a calcio in modo semi agonistico.

ci penso un pò.

20060508

cosa resta del grunge


Pearl Jam – Pearl Jam 2006

Inutile mentire: probabilmente questa recensione sarà falsata dal tempo. Era il tardo 1991, e già si parlava dei Pearl Jam, quando il folgorante debutto “Ten” cominciò una heavy rotation dentro il cassettino del lettore cd, quando il semplicissimo ma efficacissimo videoclip di Alive, una canzone impossibile da dimenticare, catturò per sempre il cuore di chi vi scrive. E’ anche vero che l’imprinting personale è sempre difficile da superare: ogni nuovo passo sembra un gradino sotto quello che ti colpisce all’inizio, il primo disco. E poi c’è l’alone di leggenda che circonda chi è sopravvissuto. Negare, anche qui, è impossibile: chi si è ritrovato dentro a una moda senza volerlo, perché già portava jeans strappati e camicie di flanella, non può rimanere imparziale di fronte a chi, appunto, ha navigato nel mare della musica, rimanendo a galla dopo il naufragio del grunge. Una parola che, a distanza di quasi 20 anni si può tranquillamente dire, significava tutto e niente: nessuna delle band che si mettevano dentro quel vibrante calderone somigliava all’altra. Questa era la peculiarità che ha per sempre contraddistinto quel movimento.
Nonostante ciò, chi è disincantato, non poteva non avere sospetti, almeno sulla possibilità di un naturale inaridimento della vena creativa, della capacità di songwriting, della voglia di dire ancora qualcosa nel panorama musicale.
Invece, dal punto di vista idealista, le battaglie continuano. A partire dall’artwork dell’album, francamente bruttino, ma con un significato politico-sociale ben preciso (la Avocado Declaration contro il duopolio politico USA Democratici/Repubblicani), proseguendo con i testi del disco, forti e impegnati come non mai, metafore neanche troppo velate sui mali dell’unica potenza mondiale, e di conseguenza del mondo intero. E questo è un punto a loro favore, nonostante i PJ abbiano ormai fans anche schierati in maniera politicamente diversa da loro, fans che non possono ignorare le posizioni politiche dei 5, ma che rispettano ugualmente la band. In tempi come questi, bisogna essere forti e convincenti per riuscirci.
E la musica? La musica c’è, e continua a rispecchiare le diverse anime che compongono, tormentano e arricchiscono il quintetto di Seattle. E spesso è tirata al punto giusto, come non ci si aspettava e come non si sentiva da tempo. Il terzetto d’apertura Life Wasted, World Wide Suicide e Comatose va suonato ad alto volume, è rock sporco che fa muovere la testa, si apre melodicamente quando ci vuole, ci ricorda i Pearl Jam e subito dopo si mette a fuoco che sono proprio loro e che si, sono sempre in pista e non stanno ancora facendo completamente il verso a loro stessi. Si apprezza d’impatto il suono volutamente datato, le distorsioni che affascinarono un pubblico ben più vasto di quello che sarebbe stato lecito aspettarsi tre lustri fa, ci si complimenta con i vecchietti per l’effetto grattugia delle chitarre. Nessun compromesso da classifica: ascoltare l’assolo di Comatose. Scale metal. Non si va al Festivalbar con questi pezzi.
Severed Hand rallenta, ma di poco, ed è un classico pezzo PJ, Marker in the Sand anche, ma nel ritornello la voce di Eddie canta e dà i brividi, mentre sugli stacchi Matt alla batteria, essenziale come non mai, ci ricorda di che pasta è fatto. Le tastiere sul finale danno al tutto un aria vissuta, come l’effetto invecchiato ai filmati.
C’è anche lo spazio per un capolavoro. E’ Parachutes, una ballata zoppicante e asimmetrica su un arpeggio classico, delicata ma coraggiosamente sperimentale, mai scontata nonostante la sua beatlesianità conclamata. Una finestra su come sarebbero i PJ se solo osassero di più. E quando, al minuto 3, Eddie sale cantando “and waaaar..” , sfido chiunque a rimanere ad occhi scoperti e asciutti.
Come per la legge del contrappasso, i pezzi che seguono non sono l’apice del disco. Unemployable ha una strofa piuttosto dimenticabile, nonostante sia un pezzo complesso, ma dà una certa gioia nel ritornello e nei magistrali colpi di piatto sulla “campana” di Matt, Big Wave è vivace e non sfigurerebbe accanto ai tre pezzi iniziali, Ament gigioneggia col basso nella parte centrale e ci ricorda che ne sa, Gone crea una certa atmosfera ma somiglia un po’ troppo a diversi pezzi vecchi, fortunatamente impreziosita da un bel testo e da un’ottima prova di Eddie, Wasted (Reprise) riprende, appunto, Life Wasted con un bel tappeto di tastiere, e fa tirare il fiato prima dei tre pezzi di chiusura.
Army Reserve sciorina un tessuto chitarristico invidiabile e soddisfacente, e introduce Come Back. Indubbiamente bella, ha forse il difetto, e dico forse, di essere in pratica la versione riveduta, corretta, controllata e simmetrica, del loro pezzo cult Yellow Ledbetter, ma il crescendo finale, che parte dall’assolo, giustamente infinito, caldo, intimo, uno di quelli che riempiono di note lunghe qualsiasi palazzetto, arena, stadio, la rivela come la canzone perfetta per chiudere i concerti. Si chiude con Inside Job, e sarebbe inutile sottolineare che suona come i Pearl Jam che rifanno Nutshell degli Alice In Chains, perché sarebbe cercare davvero il pelo nell’uovo.
Un disco non perfetto, per carità, ma che ci riconsegna i PJ in buona salute, capaci di proseguire ancora sulla loro strada di sempre: continuare a suonare IL rock, quello che elettrifica il blues, che è passato attraverso il punk, che ha sempre qualcosa da dire a chi comanda. Al tempo stesso, nelle canzoni dei PJ, oltre a ritrovare loro stessi, si ritrovano quelli che hanno suonato rock prima di loro, rendendo questo genere sensibile e al tempo stesso ruvido, sicuramente sempreverde.
Finché ci sarà chi canta cose come “high above I’ll break the law, if it’s illegal to be in love, leave the hatred on the cross” , sapremo che c’è ancora un domani.

sabato

a torino
nel pomeriggio alla fiera del libro. vabbè che ci sono tutte le case editrici esistenti, ma perchè far pagare l'ingresso, per poi vendere senza nemmeno uno sconto simbolico i libri? una grande libreria, con poco valore aggiunto. comunque ho visto in faccia davide enia. l'autore/attore di rembò, la splendida sceneggiata di radio rai.
alla sera il concerto dei dEUS all'hiroshima mon amour. bellissimo concerto, molto emozionante e intenso, mi è piaciuto di più dell'ultimo visto al rolling stone, anche se hanno suonato con un pò di sbavature.ottime le luci anche questa volta. si vede che ci tengono alla cornice luminosa. prima dei dEUS i Millionaire, bravissimi, ho visto la loro esibizione di fianco a tom barman che cercava di fumare nascondendosi, scambiando un paio di battute sul fatto che non si possa fumare nel luoghi pubblici; gli ho detto di fumare tranquillo che il posto era mio.

20060507

yeah!!


Yeah Yeah Yeahs – Show Your Bones

Occhio a questo nuovo degli YYY, proprio un bel dischetto. Il secondo per la band di NY, dopo l’esordio al fulmicotone “Fever To Tell” di un paio di anni fa. Rallentano i ritmi leggermente, ma in verità non sono mai stati dei corridori, se in caso dei passisti molto ma molto energici. Gold Lion in apertura ha un retrogusto country, e introduce quella che alcuni recensori hanno già definito svolta acustica, a mio parere un po’ esagerata. In effetti, a conti e ascolti fatti, questo lavoro è meno suonato con le chitarre distorte, ma non per questo perde di intensità; se lo suonerete ad alto volume, vi dimenticherete della spina, in qualche occasione staccata. Gli YYY picchiano duro ugualmente, anche se leggermente più controllati, non necessariamente un male. Tornando all’opener, gli armonici del ritornello sanno di autoscontro della fiera di paese. La voce di Karen O è sguaiata e allo stesso tempo sotto controllo, in senso positivo. Way Out cresce pian piano e aumenta l’elettricità un po’ per volta, la batteria secca e prepotente di Brian scandisce marziale, e introduce Fancy pomposamente, le chitarre di Nick volano basse e pompate. Li accomunano agli Strokes ma siamo in un altro padiglione. Gli assolini, sempre di Nick, sono stacchi horror. Uno stacco col pianoforte, ma il pezzo è davvero teso e chitarroso. La successiva Phenomena è un bel pezzo che non ti aspetteresti dagli YYY: intro di batteria e sospiri, urletti di Karen, riff che sa di tutto ma ci sta bene. Continua sincopata fino alle pennate libere tra il bridge e il ritornello, e ti fa muovere la testolina. Honeybear sembra Jon Spencer pop misto a una colonna sonora di un poliziesco anni ’70, Cheated Hearts vibra come una filastrocca elettrificata, e la voce di Karen leggermente effettata è il valore aggiunto, sinuosa e altalenante, ti prende per mano tra pop e punk. Dudley è Maps parte seconda, quasi intensa come lei, profuma vagamente di new wave, la chitarra è cupa ma va dritta al cuore, Mysteries è una cavalcata punkabilly, The Sweets sembra un riempitivo ma assume un senso nel finale straziante, così come Warrior, leggermente più elettrica. Chiude Turn Into, leggera e spensierata. Molto bella.
Sempre pensando alla mediocrità imperante, un disco non uguale al primo, che cerca di conservare adrenalina anche suonando un po’ meno forte. Imperdibili e trascinanti dal vivo, dategli fiducia se amate il rock, anche un po’ retrò.

piovono bei film


Giovedì un ripescaggio, Il mio nuovo strano fidanzato, di Teresa De Pelegrí e Dominic Harari, una commedia degli equivoci molto ma molto telefonata, con velleità da film anti-razzista. Andamento da piéce teatrale, non annoia ma, insomma, è un filmetto.
Venerdì invece, due gran bei film, e visto che proprio sabato scorso avevo visto Le particelle elementari, devo dire che questa settimana è stata particolarmente fruttuosa.

Romance & Cigarettes è il terzo film come regista del grande John Turturro, ed è un film strano. Lo hanno definito “un musical proletario”, e, in effetti, è solo un mezzo musical (eccezionale, però). Le parti musicali si trovano quasi tutte nella prima parte, e non annoiano, anche perché molto brevi e costruite su canzoni molto conosciute (James Brown, Janis Joplin, Tom Jones, Bruce Springsteen, perfino Anna Identici con Quando m’innamoro e il suo equivalente in inglese di Engelbert Humperdinck), mentre nella seconda parte il film diventa melodrammatico, e, anche se la trama è un po’ prevedibile, riesce a commuovere sinceramente. C’è una bella vena comica, un linguaggio greve, al limite del pornografico, ma molto più rispondente alla realtà di tanti altri dialoghi da film; a proposito dei dialoghi, alcuni nel doppiaggio sono stati costruiti su frasi di canzoni popolari italiane, così come nell’originale, evidentemente, erano basati su pezzi famosi negli Stati Uniti, mentre quando non si citano canzoni e non si parla scurrilmente, si possono tranquillamente trovare delle perle di saggezza popolare che ti lasciano basito proprio perché ti sembra di averle sempre sentite nella vita di tutti i giorni.
Nick, carpentiere di NY, vive nel Queens, ama la moglie Kitty ma la tradisce con la più giovane e arrapante Tula. Quando Kitty scopre casualmente la tresca, i due si separano in casa e le tre figlie stanno tutte dalla parte della madre.
L’ambientazione proletaria è ricostruita in maniera affascinante e impeccabile (splendida nella sua assurdità l’inquadratura della camera d’ospedale di Nick, dove dalla finestra si intravede una fabbrica e un enorme ponte trafficato), i movimenti di macchina di Turturro sono intriganti e magistrali, da vero esperto, per di più con una bella mano, gli attori sono fantastici, Gandolfini, Sarandon, Winslet, Walken, Buscemi, Parker e via via tutti gli altri, e Mandy Moore (Ve la ricordate? Dal 1999 al 2003 uscì con 4 dischi di pop adolescenziale) è bellissima.
L’amore visto “dal basso”. Ottimo.

Le mele di Adamo, del danese Anders Thomas Jensen, sarà difficilmente superabile in questo 2006. Un film assolutamente asimmetrico e spiazzante, divertente e denso di contenuti anche se a una visione sommaria può sembrare un film demenziale. Il regista, alla prima prova abbastanza visibile in Italia, aveva già dimostrato di avere delle idee interessanti e fuori dal coro sceneggiando, tra gli altri, Mifune – Dogma 3 (eccezionale e, per certi versi, molto simile a questo), di Soren Kragh-Jacobsen, e il bellissimo Non desiderare la donna d’altri di Susanne Bier, del quale usa qui la stessa coppia di attori maschi. Evidentemente, fuori da condizionamenti altrui, si sente libero di dare sfogo al suo pensiero del tutto fuori dagli schemi. Ne esce un film davvero elettrizzante, che ti lascia senza fiato anche senza avere un ritmo serrato, e che mette in crisi le convinzioni diffuse su molti temi importanti. Si passa senza imbarazzo dalla commedia all’horror, dal dramma al film politico. Si ride a crepapelle e si rimane basiti di fronte al campionario degli assurdi protagonisti: il cattivo neonazista, il prete senza macchia, l’ex tennista grasso, cleptomane e alcolizzato, l’ex tossica incinta e impaurita dalla possibilità di partorire un handicappato, l’arabo che rapina solo stazioni di servizio della multinazionale che ha strappato la terra alla sua famiglia, lo sboccato e diretto dottore della piccola comunità.
Adam, il neonazista, capo di un gruppo di skin, deve scontare l’ultima parte di una pena in una comunità di recupero, diretta da Padre Ivan, un pastore che si rifiuta di vedere il male. Mentre intorno a loro ruotano i personaggi descritti poco fa, Adam pensando di prendere in giro Ivan, sceglie come obiettivo del suo soggiorno la cottura di una torta di mele, in realtà si decide, spiazzato dal comportamento di Ivan, a metterlo definitivamente di fronte alla malvagità della vita reale.
Dopo 10 minuti di questo film, vi ritroverete a pensare che non avete idea di dove vuole andare a parare, ma sarete così curiosi di capirlo che non vorrete perdervene un istante, neppure per andare al bagno.
Eccezionale.

20060506

approfondimento bis

Deve essere rigorosamente servito con il pan francese, il sale lungo tutto l'asse del solco, il "davanti" di color oro-rosaceo, i lati bianchi e ben rugosi, il "retro" appena-appena ingrigito dalla cenere. (la focaccina è soluzione più tarda - fine anni '60 - allorché i tortai si aprirono più massicciamente alla pizzeria, non più di solo asporto come accadeva prima della rivoluzione iniziata da Lilly in Piazza Grande). La torta deve essere OBBLIGATORIAMENTE ben calda; il sopra leopardato di macchioline non troppo fitte derivanti da scintille da fuoco di forno ed il sotto di un bel giallo-lucido uniforme e leggermente oleoso. La consistenza deve essere piena e da garantire una flessione di almeno 70°. Alla eventuale rottura si devono notare le due sottili pellicole del sopra e del sotto e la parte centrale, alta meno di 3 mm, si deve appalesare con una massa non grumosa e di color giallo pallido. Il pepe e fondamentale!! Da versarsi sulla parte di sotto (quella leggermente oleosa) si da dosarlo giustamente nella dovuta abbondanza e densità centimetrica - ove si posasse sulla parte superiore le macule predette confonderebbero l'aspersore. Devesi servirlo in carta gialla (Papiro d'Altopascio) poiché la carta oleata serve solo per l'eventuale rapido asporto. Da bere: Vino bianco (Chianti Montalbano o Sammontana al fiasco) versato nel classico gotto da ponce. Le varianti: spuma bionda, coca, birra, estathè sono solo da accompagnare all'improponibile focaccina!!

Di: anonimo

approfondimento

Cinque e cinque

Antica locuzione livornese che sta a indicare la tradizionale porzione di pane e torta (cinque centesimi di pane e cinque di torta), nutrimento impareggiabile e gustoso del popolo da numerose generazioni.
La torta (preparata in apposite teglie, basse e rotonde, ove si versa il composto di farina e acqua che viene cotto in forno a legna; nella migliore configurazione assume un aspetto di superficie dorata e croccante e viene servita tagliata a fette su fogli di carta gialla; il responsabile unico della torta è il tortaio, rude e silenzioso artigiano che ama esibirsi solo nel taglio, il complesso rituale di fendenti accompagnato da schiocchi e botte d’un particolare marraccio sul bordo e sul fondo della teglia; in tal guisa egli è capace di misurare alla perfezione il peso della porzione; prima di procedere al taglio, il tortaio avvertito, un tempo, pretendeva di vedere la moneta corrispondente, al che l’avventore era uso replicare : “è saosa, e ti fidi….!”. Tra i tortai più illustri di scuola di tradizione labronica basti citare il grande Maestro Seghieri di fronte al Liceo Classico Niccolini, presso il quale il sottoscritto, nel corso del primo trimestre dell’anno scolastico 1960-61 consumò un quintale della prelibata vivanda -record tuttora imbattuto sulla distanza-), che essendo fatta con farina di ceci altrove è nota anche col nome di “cecìna” o “torta di ceci”, rappresenta un archetipo alimentare della civiltà della gente livornese, così come i maccheroni lo sono di quella napoletana; la torta, per la sua semplicità e versatilità, può essere consumata indifferentemente in qualsiasi momento del giorno e può fungere da prima colazione, pranzo, merenda o cena, risultando, in virtù della sua base leguminacea, ugualmente pesante e indigesta a tutte le ore.
Dal “first report on “torta” eating among the very hungry Leghorn’s people” :
“Due sono le condizioni tipo alle quali può essere consumata la torta : quella “diaccia marmata e unta” preferita dall’ “allezzito”, empie subito le viscere e vi permane per mezza giornata, dando luogo al fenomeno del “fortore”; spesso fa mappazza in gola e deve essere vigorosamente sfondata con un bicchiere di spuma bianca gelata che può provocare intensa lacrimazione e mancamenti di coscienza; quella “abbollore” a temperatura di fusione della ghisa con pericolo di ustioni gravi nel cavo orale e nella canna della gola; la sua assunzione è accompagnata da soffi, sbuffi e stronfiamenti di diversa intensità, quando non dalla sua restituzione in forma di bòlo bavoso sul foglio; anche in questo caso possono insorgere lacrimazione e turpiloquio di varia coloritura”
È inoltre da segnalare il bizzarro comportamento del neofita (turisti in cerca di emozioni, pisani ed altri sprovveduti) del “cinque e cinque” il quale è spesso indotto in fallo dalla cospicua differenza termica tra il pane, a temperatura ambiente, e il ripieno di fette di torta, “abbollore”; nell’addentare con decisione la vivanda può accadere ch’egli indulga nella nota espressione “…..la rotta ‘n culo di tu’ ma’!” rivolta al tortaio che segue divertito la scena.
È opportuno sottolineare che gli effetti della “torta” sul piano fisiologico dei processi digestivi e metabolici in generale son pressoché pari a quelli del temibile “cavolo straciàto” con l’aggravante della velocità dei processi stessi e dell’incontenibilità del prdotto; se ne sconsiglia pertanto l’assunzione a chi non abbia il pieno controllo degli apparati d’uscita.

Da “il Borzacchini Universale, dizionario ragionato di lingua volgare, anzi volgarissima, d’uso del popolo alla fine del secondo millennio dal parlare toscano e vieppiù labronico diligentemente mutuata” edizione accresciuta e corretta, Ed. Ponte alle Grazie 1996

http://borzak.splinder.com/

lavoro


Perdonerete l'impertinente accostamento della foto, ma la causa dei miei non scritti è proprio il lavoro, unita alla mia voglia di uscire tutte le sere a fare qualcosa di interessante, come se dovessi dimostrare di essere ancora giovane a 40 anni. Cosa, quest'ultima, che mi riprometto di approfondire a breve, visto che non è niente più che un luogo comune; inoltre, non è vero niente. Non è vero che se si è giovani si esce tutte le sere, e se si invecchia si rimane a casa. Ma passiamo oltre.

Da ottobre ero in formazione in un nuovo reparto, con lo stesso inquadramento di prima. La persona che mi ha "lasciato" il posto è andata in pensione a fine aprile, e con ieri si è conclusa la prima settimana da responsabile del nuovo posto, ben più impegnativo di quello che occupavo prima. Avevo un po' di timore, ma tutto è andato bene. Ho capito anche cose che non ero riuscito a farmi spiegare, forse perchè non riuscivo a fare le domande giuste. E' andata bene, e sono stato molto felice, soddisfatto. La cosa che a volte appare strana anche a me stesso, è la seguente: mi piace il mio lavoro. Mi piace anche se so benissimo che non faccio quello che ho sempre sognato di fare, lavorare nel campo musicale, suonare, scrivere. Mi piace ugualmente, e spesso lo faccio con passione, una passione che non so proprio da dove arrivi. Forse sono malato. Forse sono un camaleonte, e sono riuscito a farmi piacere una cosa brutta. Che ne so. Mi dispiaccio sempre quando parlo con qualcuno che conosco e che si lamenta del lavoro che fa. Non so come dargli una mano, cerco di mettermi nei suoi panni, ma non so se ci riesco.

A proposito di quello che dice lafolle su popinga e sulla loro città, natale o d'adozione fa lo stesso, mi trovo d'accordo, come ho detto a popinga, senza prendere posizione. Ogni scarrafone è bello a mamma soja.
Di recente, un amico di Milano, mentre mangiavamo un 5&5 in via Grande a Livorno, mi fa "Ma sai che non è tanto bello qui?". Gli ho risposto "E chi l'ha detto che è bello? Però a noi ci garba, dé no!". Ieri, verso l'ora di cena, mi sono seduto da solo nello stesso posto, ho sgonfiato due 5&5 con una birra, è passato lo stesso barbone della volta scorsa che mi ha detto "Capo, una monetina?" e io gli ho dato, ancora una volta, un euro. Nel tragitto da Piazza della Repubblica, dove ho lasciato l'auto, al posto dove ho mangiato, ho sentito parlare almeno 4 lingue diverse: la prima frase in italiano, o meglio, in livornese, l'ho scambiata con il ragazzo della pizzeria.
Chi l'ha detto che deve essere bello?

Mercoledì, come preannunciato tempo fa, sono tornato a vedere Marco Paolini, a Cascina, con un altro spettacolo, "Il Sergente di Mario Rigoni Stern". Bello, poetico, intenso e divertente, il volto umano della campagna di Russia voluta dal Duce. Ancora una volta, grande Marco.

Sullo sfondo, The Sword con il loro debutto "Age of Winters": Black Sabbath, St. Vitus e altri Doom metallers rivisitati in chiave moderna. Doom del 2006. Non importa se abbia un senso: ci piace.

20060505

mi

l'attore popinga, figlio di milano, ha scritto un bel post su milano stessa.
io sono un figlio adottato di questa città, ma sono un figlio grato.

di seguito una canzone che amo di alberto fortis...

Milano sono tutto tuo
Vincenzo no non mi rinchiude piu'
oh Milano sii buona almeno, almeno tu
Lui mi picchiava tutto l'anno
e mi faceva dire si
Milano tu non trattarmi mai cosi.
Vincenzo io ti ammazzero'
sei troppo stupido per vivere
oh Vincenzo io ti ammazzero' perche'
perche' non sai decidere.
Mi piacciono i tuoi quadri grigi
le luci gialle, i tuoi cortei
oh Milano, sono contento che ci sei.
Vincenzo dice che sei fredda,
frenetica senza pieta'
ma e' cretino e poi vive a Roma, che ne sa?
Vincenzo io ti sparero'
sei troppo ladro per capire
che il tuo lavoro amici non trovera' mai
perche' non sai soffrire
Ti devo tanto come uomo
lavoro insieme ai figli tuoi
oh Milano, fa' di me quello che vuoi.
Ti lascio tutti i miei progetti
le mie vendette e la mia eta'
oh non tradirmi sono vecchio e il tempo va.
Vincenzo io ti inseguiro'
sei troppo stupido per vivere
oh Vincenzo io ti ammazzero' perche'
perche' non sai decidere.
Vincenzo io ti prendero'
sei troppo stupido per vivere
Vincenzo io ti ammazzero' perche'
sei troppo ladro per amare

20060503

morningwood

rock and roll e giochi di tette bagnate nel sito dei morningwood...
aspettate che carichi il gioco e poi ...

20060502

tre

sabato il matrimonio è stato molto bello. c'è stato sole fino al pomeriggio, poi un acquazzone ha reso tutto più intimo. si è mangiato, ballato, festeggiato... un gran giorno. ero emozionato. ero felice di rivedere amici che non vedevo da tempo. sono felice per sbresi e paola. stanno bene assieme.

mi hanno invece rubato la seconda bici che era in cortile. probabilemnte venerdì notte. stanno rubando un pò troppi mezzi ultimamente!ziocan!

voglio riprendere con la corsa serale, ma il tempo (metereologico) non mi asseconda. sembra sempre che venga da piovere verso sera...allora sta primavera arriva o no?!?!

ogni tanto quando conosco delle persone nuove mi chiedo :"chissà cosa pensano mentre fanno all'ammore!?"...sarò malato?!

20060501

iperrealismo mongolo


Il cane giallo della Mongolia - di Byambasuren Davaa 2006

Mongolia, steppa. Una famiglia che pratica ancora il nomadismo e la pastorizia ha 3 figli, la più grande, Nansal, va a scuola e torna a casa ogni tanto. In uno dei suoi soggiorni con la famiglia, incaricata di portare a far pascolare il gregge delle pecore, trova, in una grotta, un cane che lei battezza prontamente Macchia, a causa della colorazione del suo pelo. Il padre si oppone al fatto che la bambina tenga il cane, preoccupato che lo stesso sia stato a contatto con i lupi e che, tramite lui, arrivino al gregge, già martoriato dagli agguati. Quando la stagione cambia, e la famiglia si trasferisce, un accadimento particolare convincerà tutta la famiglia che il cane si merita di restare.
Per andare a vedere questo film dovete essere preparati. Il ritmo è lentissimo, quasi rallentato. E' il ritmo della vita, e non di quella occidentale, bensì di quella, appunto, dei nomadi mongoli.
Inoltre, succede poco, o niente, nei 90 minuti circa di questa pellicola. Ancora una volta, è il ritmo della vita, di quella vita; però, vedrete una realtà talmente diversa dalla nostra che ne rimarrete affascinati, anche se provati dall'impegno che richiede seguire la storia.
La regista viene, i più attenti se lo ricorderanno, dall'esperienza de La storia del cammello che piange, insieme al toscano Luigi Falorni; questo film gli somiglia molto, infatti è una sorta di docu-fiction, che, pare, doveva essere solo un compito per il diploma in storia del cinema a Berlino. La trama, fino alla fine, sembra solo un pretesto per raccontare come vivono i nomadi mongoli, una realtà assolutamente affascinante, che ci dà lezioni di vita anche solo dallo schermo di un cinema; osservando attentamente, oltre a ciò, c'è anche una sorta di incontro tra tradizione e modernità, del quale la regista è solo osservatrice (anche se, in verità, l'agognato nuovo mestolo di plastica risulterà inutilizzabile dopo il primo incidente). Inoltre, ci sono i bambini, belli da far paura, trattati da tali solo quando è necessario, mentre per il resto sono molto responsabilizzati. La regista è brava anche nei movimenti di macchina, essenziali ma non scontati (l'inquadratura dall'alto quando la bambina sta cercando il cane sulla rupe), necessari per far rendere in pieno gli straordinari scenari della steppa mongola, sottolineati da campi lunghi mozzafiato.
Un raro esempio quindi, di cinema didattico per adulti. E, per questo, impegnativo.