No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20100131

fingendo la poesia


Marlene Kuntz, 14/05/2005, Firenze, Auditorium Flog

Cose che ti girano in testa mentre mangi l’asfalto della FI-PI-LI con le ruote consumate della tua macchina. Critiche, comparazioni, similitudini. Li liquidavano, o peggio, ancora oggi qualcuno li liquida come i Sonic Youth italiani. Il che di per sé mica è male. Ma come si fa a non sentirci i Soundgarden nelle musiche dei Marlene, tanto per dirne una? Come, inoltre, non rimanere affascinati dalle liriche di Cristiano, dal contrasto di emozioni che descrive, l’amore carnale e al tempo stesso romantico, intellettuale, platonico perfino.
L’evoluzione dei MK ha una logica, una sua bellezza e addirittura una sua forza. Soprattutto, come non godere della catarsi collettiva e rituale dei loro live, dove i suoni deragliano, cozzano, si attorcigliano e poi, improvvisamente, diventano ninne nanne, melodie sinuose e avvolgenti, sulle quali la figura scheletrica e signorile di Godano declama le sue inquietudini messe nella forma canzone.
Voglia forte di rivederli, curiosità per come i nuovi pezzi si integreranno nel concerto, per sapere quali vecchi ‘’quadri’’ verranno rispolverati dal repertorio.
Il Flog pian piano si affolla, e la scelta di appostarsi sul balconcino superiore, leggermente penalizzante dal punto di vista acustico, si rivela doppiamente premiante per altri motivi. Innanzitutto si apprezza il lento ma inesorabile flusso dei fans; la seconda ragione la vedremo più avanti. Il concerto inizia con notevole ritardo, precisamente alle 22,55. Il nucleo storico (Cristiano, Riccardo e Luca) si stabilisce sulla sinistra del palco, per chi guarda, mentre la parte destra vede il membro aggiunto Rob Ellis alle tastiere, e dietro, leggermente defilato ma imponente, Gianni Maroccolo, barba e capelli più corti rispetto alla scorsa estate con i PGR. Cristiano è impeccabile, quasi dandy, camicia rosa e capello fluente. Si apre con Bellezza, il singolo dal cd nuovo, scelta quantomeno inusuale per un tour promozionale. Particolare la scelta delle luci: una decina di lampade da tavolo molto Ikea, dalle forma vagamente a barca, bianche, illuminano il palco. Nessun’altra ingerenza di colore, anche gli altri faretti superiori sono sempre bianchi. Come in garage, come in sala prove. L’esatto contraltare del light-show curatissimo e notevole, per una produzione da club, della rock band italiana per eccellenza, gli Afterhours. Sarà un caso.
Subito dopo l’apertura, parte un fuoco di fila quasi inaspettato, come se Bellezza fosse stata messa lì per sviare le previsioni: una doppietta da Il Vile, Cenere e l’immancabile Ape Regina, la super-classica Sonica, manifesto d’esordio dei cuneesi, la più recente Cara è la fine, Canzone di domani che intervalla un altro pezzo da Che cosa vedi, Primo Maggio; l’energia sul palco è palpabile, Cristiano è concentrato e gli altri si divertono. Luca e Gianni sono affiatati come se suonassero da sempre insieme, il tastierista osserva attento, quasi preoccupato di sbagliare.
Primo Maggio non finisce, ma scivola, tramite una tappeto di basso e batteria, in 1°2°3°; il pubblico partecipa scandendo gli slogan del testo, Cristiano guida il coro.
Eccoci al caos organizzato: come su Catartica, 1°2°3° diventa Non ti scorgo più, e i suoni si impadroniscono del Flog come a volerlo scoperchiare. Cristiano a malapena ringrazia; dopo tre pezzi, la camicia rosa è diventata più scura, completamente impregnata di sudore. Non c’è tregua: Festa mesta (non posso evitare di ripensarci ogni volta che la ascolto: anni fa, di supporto ai Sonic Youth, a Correggio, su questo pezzo saltò tre volte tre l'energia elettrica. Imperterriti ricominciarono ogni volta) e poi una versione assolutamente assordante di Amen. Il finale sembra un duello alla scimitarra. Danza, splendida, Cristiano che appena la sussurra, e poi l’unico estratto della scaletta di stasera da Ho ucciso paranoia, Ineluttabile. Forse IL pezzo dei MK, imprescindibile. Cristiano presenta la band, con quel suo fare un po’ così; all’annuncio di Gianni, il Flog tributa una vera e propria ovazione a questo monumento della musica italiana. Sembra quasi emozionato; la situazione in effetti è particolare. Da notare tra il pubblico, oltre all’immancabile Piero Pelù, anche Giorgio Canali e Ginevra Di Marco. Ancora due pezzi da Bianco sporco: La lira di Narciso fa tirare un po’ il fiato con la sua atmosfera rarefatta, poi L’inganno, anch’essa rarefatta, ma marziale, potente ed evocativa.
Pausa, è passata gia’ più di un’ora. Al centro, sul palco, una pozza di sudore, che si apprezza solo dall’alto (eccoci alla seconda ragione ‘’premiante’’ della scelta del balconcino) dimostra la fatica del poeta; Cristiano Godano, mi piace ricordarlo ogni volta, è campione mondiale di arrotolamento di maniche di camicia. Nessuno arrotola le maniche lunghe come lui.
La folla li richiama a gran voce, la prima parte è stata decisamente carica e violenta, con un sacco di pezzi vecchi, per la gioia di chi li conosce bene. Si riparte per il lungo finale, che sarà meno tirato, ma non meno denso.
A fior di pelle, poi ancora un pezzo da Catartica, Mala mela, molto carica, introduce La cognizione del dolore, bella e straziante, dove Cristiano dà il meglio di sé, al punto che suona anche l’assolo (semplice, ma davvero bellissimo). E’ la volta di E poi il buio, e il pathos si tocca davvero, quando il piano introduce una versione di Schiele, lei, me riarrangiata efficacemente. Chiude questa parte, l’accoppiata di partenza di Bianco sporco, prima A chi succhia, cattiva nella sostanza anche se non tantissimo nella forma (‘’ti odio tutto qua, più dei soldi e la disonestà…’’, poi Mondo cattivo, dove Maroccolo la fa da padrone.
E’ tardi, ma il pubblico non si dà per vinto, ne vuole ancora. I Marlene si concedono di nuovo; ancora un pezzo da Bianco sporco, l’ottima Poeti, che acquista spessore dal vivo, e si finisce, appropriatamente, con Notte da Senza peso. Si chiude, si saluta. Le 1,20, sono passate quasi due ore e mezzo e non c’è noia in giro. Solo poesia. E non è finta. Mi andrebbe ancora.
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Der Untergang


La caduta – di Oliver Hirschbiegel 2005


Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: popo' di svarvolato lulì dé


Ispirato al lavoro dello storico Joachim Fest e alle memorie di Traudl Junge, segretaria del Fuhrer dal 1942 al 1945, il film, diretto dal regista del commissario Rex, ci racconta, a parte l’incipit nel quale si vede sommariamente la "scelta" della segretaria, gli ultimi 12 giorni di Adolf Hitler nel suo bunker di una Berlino ormai allo stremo, assediata dai russi, lo sconforto e la disperazione dei suoi generali, le incrinature nella di loro obbedienza, alcune storie marginali e umane sia dentro che fuori dal bunker. Il Fuhrer, dopo aver fatto la scelta di rimanere a Berlino, nonostante continui a sostenere la possibilità di ribaltare la situazione, arriva poco a poco alla decisione del suicidio, seguito da Eva Braun, Gobbels e famiglia, e diversi altri collaboratori, finanche a componenti delle SS lontanissimi da lui. Provato fisicamente, soggetto a paurosi sbalzi d’umore, braccato come, appunto, un animale in gabbia, vede svanire il suo sogno sotto i colpi dell’artiglieria bolscevica.

Claustrofobico (ma le poche scene "all’aperto" non sono male, e le "ricostruzioni" delle macerie di Berlino suggestive), didascalico e piuttosto freddo, il film denota la mano "televisiva" del regista; non ritengo però un male la cosa, visto che la vicenda è talmente pesante e delicata che forse è meglio così. Inoltre, la scelta di una certa asetticità, visto che il lavoro proviene proprio dalla Germania, mi è sembrata il modo migliore per affrontare l’argomento.
Momenti davvero pesanti (belli un paio di montaggi alternati tra la "vita" nel bunker, tensioni, sfuriate del Fuhrer, ma anche le feste organizzate dalla Braun, e la disperazione esterna, con i bambini della gioventù nazista a combattere; l’omicidio in serie dei sei figli di Goebbels da parte della moglie; le peripezie dei due ufficiali medici) ma necessari, qualche buona intuizione (chissà se del regista o se, come sempre, la realtà ha superato la fantasia), come l’ufficiale medico che ha bisogno del bagno e, usando quelli del Fuhrer, vede l’altro che dà gli ultimi consigli sul suicidio proprio a Hitler, o la bicicletta individuata dal bambino durante lo sfollamento insieme alla segretaria, e, soprattutto, una straordinaria interpretazione di Bruno Ganz, assolutamente di rilievo, che colloca un film nella media un gradino più in alto.

20100130

berlin


Da Internazionale nr. 828

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Esuli culturali

Da Alghero a Berlino

di Maksim Cristan


Sono sessanta milioni le persone d’origine italiana che vivono all’estero. Tra loro ci sono anche
moltissimi giovani partiti da poco. Ne ho raggiunti alcuni a Berlino, dove vivono circa 15mila italiani. L’immigrazione non sono solo i neri che avanzano verso le coste italiane. L’immigrazione è un fiume di persone in movimento intorno alla Terra alla ricerca di un posto nell’universo: Somy che dal Kenya arriva a Roma, Valeria che da Roma va a Berlino, Kati che da Berlino va sull’isola di Lamu, in Kenya. Nessun governo può fermare questo fiume che si muove come in vasi comunicanti e se ne infischia delle leggi razziste.

Alessandro Serra, nato ad Alghero nel 1975, si è laureato in biochimica e immunologia al King’s college di Londra e ha completato un dottorato in immunologia molecolare presso il centro ricerche Novartis Vaccines a Siena. Dal 2006 vive a Berlino. Rappresenta due fenomeni tipici dell’Italia di oggi: la “fuga dei cervelli” e “i giovani che se ne vanno dal sud”.

“Quand’ero piccolo la mia famiglia mi spingeva ad andare via”, racconta Alessandro. “I miei genitori mi hanno mandato in vacanza in Gran Bretagna per studiare l’inglese e hanno fatto dei sacrifici per darmi l’opportunità di partecipare a uno scambio culturale di un anno negli Stati Uniti”.

In America Alessandro si è innamorato della scienza, mentre al liceo in Italia rischiava tutti gli anni di essere rimandato proprio in questa materia. Il caso ha voluto che ricevesse un’offerta di lavoro da un istituto di ricerca berlinese proprio a una conferenza ad Alghero.

“Negli anni dopo la laurea ho provato a puntare sull’Italia, ma era quasi impossibile trovare un lavoro soddisfacente. E con quello che guadagnavo non potevo permettermi di vivere nel posto che mi piaceva”.

Alessandro collabora a due progetti di ricerca e vive nel quartiere di Kreuzberg.

“Ho trovato casa su internet. L’annuncio sembrava assurdamente a basso costo rispetto a Siena e temevo una truffa. Invece era tutto vero”.

In Germania, dice, “non c’è quella forte tensione, quella specie di ansia serpeggiante che si avverte ogni volta che si fa un salto in Italia. Berlino è una città che ti avvolge come un abito fatto su misura, a misura d’uomo. Ti toglie ogni forma di pressione”.
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Maksim Cristan è uno scrittore croato nato nel 1966. È arrivato in Italia nel 2001

kingdom of heaven


Le crociate – Kingdom of Heaven – di Ridley Scott 2005


Giudizio sintetico: si può perdere (1,5/5)
Giudizio vernacolare: boia du' palle


Francia, 1184. Baliano è un giovane maniscalco che ha perso il figlio e in seguito la moglie suicida dalla disperazione. Ha perso la fede, e si macchia di omicidio, per giunta, di un prete. Goffredo di Ibelin, sulla strada per Gerusalemme, si rivela a lui come suo padre mai conosciuto, e lo convince ad andare con lui in Terra Santa. In punto di morte, lo nomina cavaliere, e gli fa promettere solennemente di continuare il suo lavoro, di servire fedelmente re Baldovino di Gerusalemme e di rispettare tutti gli uomini di tutte le religioni. Arrivato a Gerusalemme, scopre un mondo tollerante e laborioso, amici (Tiberio), nemici (Reinaldo), e una donna splendida, Sibilla, sorella del re e moglie di Guy di Lusignano. Nonostante faccia prosperare Ibelin, il suo piccolo regno, gli intrighi e gli interessi scatenano la guerra contro i saraceni guidati da Saladin; Baliano dimostrerà coraggio, astuzia e integrità, difendendo Gerusalemme seppur in netta inferiorità.

Arriva dopo mille polemiche il nuovo filmone di Ridley Scott, regista col gusto dell’epica, autore di grandi flop ma che ha il merito di aver sfornato un capolavoro (Blade Runner), ormai più di 20 anni fa.

Polemiche sull’opportunità di un film su una guerra di religione in questo momento, come spesso accade, partite da persone che non avevano visto il film. Invece, il film pecca forse del difetto opposto: ci mostra una cerchia (ristretta) di personaggi illuminati, tolleranti e aperti verso tutte le religioni; fa piacere crederlo, ma chissà. E potrebbe andare oltre, viste le premesse, il personaggio principale che ha perso la fede a causa di tremende vicissitudini personali, e che parte per Gerusalemme (vista già allora come la culla di tutti i culti) soprattutto perchè assetato di fede. Il percorso potrebbe essere interessante, ma si perde nei meandri oscuri della sceneggiatura, che evidentemente soffre degli imponenti tagli (il film nella versione originale pare durasse circa 4 ore; per scendere sotto le 2 e mezzo il regista ha dovuto usare le cesoie, e si nota benissimo), e che quindi pare spesso navigare a vista. Unite il tutto a scene di battaglia non esaltantissime (ormai ci siamo abituati benissimo, ed il merito va anche a Scott, vedi Il Gladiatore), e a personaggi un po’ macchiettistici (ci mette il carico da 11 il doppiaggio nella versione italiana, la vogliamo finire di doppiare qualsiasi tipo di arabo in maniera ridicola?), e va a finire che la noia ci assale molto presto.
Pochi attori convincenti, forse per il poco pathos che il film riesce a creare; forse su tutti Jeremy Irons; menzione particolare per Edward Norton, sofferente re Baldovino, inquietante dietro le vesti che ricoprono l’intero corpo divorato dalla lebbra, col volto nascosto da una maschera di ferro.

20100129

sunshine of his voice


Flippaut Festival, 2/06/2005, Bologna, Arena parco nord

Festa della Repubblica con un caldo bestiale, e già ci si sente male a pensare al solleone del parco nord. Zone d’ombra allargate, e meno male, altrimenti ci scappava l’insolazione.
Cominciano i RumoreRosa, guidati ovviamente da una ragazza, Margherita (Margot); si faranno ricordare solo per la cover di Lamette di Rettore, e per la gonna rosa di Margot.
Giornata improntata all’Hard Rock e al Metal, e infatti i secondi sono i Gizmachi, emuli, senza maschere, degli Slipknot, che però arriveranno più tardi. Per il pomeriggio ci si accontenta della fotocopia sbiadita.
The Ga*Ga*S sciorinano hard’n’roll misto a schitarrate semi-metal, roba che ci scivola addosso come l’acqua, ma non ci disseta.
I Marla Singer arrivano poco dopo, e sembrano i Subsonica nu metal. Non ci convincono.
Gli Shadows Fall attaccano frontalmente la platea, e picchiano sodo. Ci ricorderemo soprattutto però, del metro e mezzo di dreadlocks del cantante, che quando fa headbanging ricorda una piovra. Positivi anche se ovviamente originalità zero.
I Wednesday 13, dell’omonimo ex Murderdolls, disinvolti e truccati da zombies, ricordano i Motley Crue virati in chiave horror di serie B.
Gli Slipknot lamentano l’assenza del Clown, per gravi motivi familiari rientrato di corsa negli USA. Dal vivo, in un’arena, perdono in potenza di fuoco, nonostante il grande e numeroso dispiegamento "da battaglia" sul palco. Corey Taylor ruffiano col pubblico, che coinvolge in discorsi semplicistici sulla "famiglia", non risparmia le bestemmie. Poco elegante, ma così è, se vi pare. Pensavo meglio.
Arrivano i Prodigy. E subito uno si chiede: perchè oggi e non ieri, con Chemical Brothers e Moby? Misteri del Flippaut. Maxim, reintegrato per l’occasione, canta e sobilla, Keith gira a vuoto e sembra un metronotte al quale hanno rubato la macchina. I pezzi dell’ultimo disco confermano la loro pochezza anche dal vivo, nel confronto impietoso con i sempreverdi estratti da The Fat of the Land. Ma la platea balla.
Siamo al climax della serata. 15000, molti qui per loro, alla fine. Audioslave, come ripete, con la sua inconfondibile voce, Cornell, quasi a ribadire chi sono adesso. Il concerto dura un’ora e mezzo scarsa, con una pausa dopo un’oretta (che fa temere l’ennesima durata-burla alla, appunto, Audioslave). Qualche doveroso estratto dal nuovissimo Out of Exile, diversi invece dall’esordio omonimo, tre pezzi dei Soundgarden, tre pezzi dei Rage Against the Machine, un accenno di un pezzo dei Black Sabbath.
Dispiace, a chi scrive, a suo tempo devoto discepolo della dottrina del giardino del suono e del suo immenso cantore, ammettere che Cornell ha sempre un gran fascino come uomo (anche se assomiglia sempre di più a Luca Bizzarri di Luca&Paolo) e sui toni bassi, ma non è più il Robert Plant della nostra generazione. I primi sei pezzi si passano a sperare che sia il microfono che ha un problema, ben sapendo invece, che il microfono non ha un bel niente: è l’ex capellone che "non ci arriva" più. Be Yourself è il primo pezzo che il cantante azzecca per intero; ma è uno specchietto per le allodole. Riascoltate quel pezzo anche su cd: è un pezzo che Chris canta a filo di gas. La medley tra Bulls on Parade e Sleep Now in the Fire fa quasi tenerezza: Bulls è strumentale, e su Sleep Now si ha nostalgia perfino della pronuncia dura, da immigrato, sul nome delle tre famosissime caravelle che ognuno di noi ha studiato a scuola. Spoonman è decente, ma non ha senso senza Cameron, anche se Wilk è un onestissimo gregario, con Commerford (qualcuno ha notato che si sta allargando con i cori?), Black Hole Sun è inutile fatta chitarra e voce (anche se prima di averla sentita non lo avrei detto), e soprattutto Outshined (doveroso l’inchino religioso) è una canzone quasi normale, senza prodigiosi acuti. E che dire di Killing in the Name cantata come se fosse una semplice canzone e non uno slogan?
Lo so, sembra un bollettino di guerra; ma non si può prescindere da tutto quello che questi quattro musicisti hanno fatto in passato, io credo. Chi giudica il nuovo Out of Exile un buon disco, mi si perdoni, fa un po’ come i fidanzati che si accontentano del fidanzamento abitudinario e stanco. Cornell, Morello, Wilk e Commerford che fanno Adult Orientated Rock (chi si ricorda gli House of Lords?)? Accomodatevi.
L’assurdità è che Morello, il Santana comunista dei nostri tempi, ha, con questo "schema", la possibilità di dare sfogo, oltre che alla sua geniale tecnica chitarristica, anche al suo gusto sopraffino in fatto di assoli (sulle ritmiche, quando non sono geniali come capita, lo stile Audioslave invece, soprattutto live, fa calare la tensione, nonostante gli sforzi del nerboruto Tim). Come dire, speriamo che arrivi presto l’assolo che ne ho piene le tasche di stecche!
Il pubblico, comunque, gradisce; è bene dirlo, più l’amarcord RATM che quello Soundgarden. Ma, come credo sia giusto, dai maestri è bene pretendere il massimo.
Se la scelta è quella di rifarsi dei milioni di copie non vendute nel passato (ma come quantificarle, poi?), ne prendiamo atto. La magica voce di Christopher Cornell, però, è tramontata. Rimane alto il sole di Tom Morello.

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Edit, quasi 5 anni dopo. Cornell pare si sia leggermente ripreso vocalmente (non certo stilisticamente). E questo non fa altro che aumentare il nervoso per quella serata.

travestitismo seicentesco


Stage Beauty – di Richard Eyre 2005


Giudizi sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: bellino, ma c'è un branco di manfruiti


Londra, 1660. Il teatro è la passione di ricchi e poveri; secondo le leggi vigenti, le donne non possono recitare in luogo pubblico. Le parti femminili sono così affidate ad uomini, spesso appositamente "allevati" a recitare esclusivamente parti femminili.

Edward Kynaston è il più famoso di questi attori, e il suo ruolo lo porta ad avere privilegi, stima e corteggiatori sia tra gli uomini che tra le donne. La sua Desdemona è applaudita ogni sera, al punto da dover chiudere la rappresentazione anzitempo, dagli applausi che si sprecano alla di lei morte. Maria, la sua fedele (e segretamente innamorata) assistente, culla il sogno di recitare, e in effetti lo fa, in una specie di teatro clandestino; ogni rappresentazione di Kynaston è per lei fonte di insegnamento. Anche il re Carlo II è appassionato di teatro, e proprio durante un ricevimento a corte, al quale sono presenti sia Kynaston che Maria, si convince, su pressione della sua amante Nell, a sovvertire le regole fino ad allora vigenti: non solo le donne, di lì in avanti, potranno recitare in pubblico, ma sarà vietato agli uomini recitare parti da donna. La carriera di Kynaston finisce, quella di Maria spicca il volo.


Ispirato alla commedia di Jeffrey Hatcher Complete Female Stage Beauty, il film di Eyre (già regista del delicato Iris sulla vita di Iris Murdoch) risulta un buon lavoro, diretto canonicamente, ma aiutato da una fotografia calda, scenografie molto belle che ricostruiscono la Londra dell’epoca, e da ottime prove recitative dell’intero cast, sinceramente sontuoso; citando i due protagonisti, lo spassoso Carlo II di Rupert Everett, o il viscido Duca di Buckingam di Ben Chaplin, farei un torto a qualcun altro. Ma non c’è solo questo in Stage Beauty; c’è anche, e soprattutto, una sorta di grande metafora, non tanto dell’omosessualità, quanto del transgenderismo, unita a una bella verve comico-grottesca senza eccessi di volgarità, nonostante se ne sia continuamente sull’orlo. Un film attuale, nonostante l’ambientazione, divertente, e che scatena riflessioni interessanti, che, anche se fossero provocate involontariamente, gli vanno ugualmente riconosciute. Due le scene madri (e qui un altro pregio del film, la recitazione nella recitazione), tutte nel finale, quando i due protagonisti provano, e quando vanno finalmente in scena insieme. Meno convincenti le scene "intime", sempre tra i due.

Godibile.

20100128

tradito


The Betrayed - The Lostprophets


Quarto disco per i gallesi. Sinceramente, un disco anche ben suonato, ma che non sposta di una virgola gli orizzonti musicali in genere, e non ha niente di veramente accattivante.

C'è solo una cosa che potete fare, ascoltando questo disco: divertirvi, come in un film pieno zeppo di citazioni, ad indovinare a chi si stanno "riferendo" in questo o quel pezzo, come in questo o quel passaggio. Si va dai Rage Against The Machine alle band screamo più in voga, dall'hard rock di stampo statunitense, da airplay radiofonico, a qualcosa che sta tra i Coldplay, gli Editors, i nuovi Linkin Park e i My Chemical Romance.

E' permesso andare da un genere all'altro, ma il problema è che è necessario avere una certa personalità per farlo ed essere credibili. Ai Lostprophets manca proprio questa.

lady vengeance


Lady Vendetta – Sympathy For Lady Vengeance - di Park Chan-Wook 2006


Giudizio sintetico: da vedere (4/5)
Giudizio vernacolare: a un fione cinese ni fanno un torto grosso, e va a finì alle Sughere. Un vede l'ora di uscì per ritrovà quello che n'ha fatto ir torto e sciagattallo bene bene.


Geum-ja è molto bella, almeno secondo i canoni coreani, e fin da adolescente ha molto successo con gli uomini. A poco meno di 20 anni, "cade" sotto i riflettori dei media e viene accusata di aver rapito e ucciso un bambino, condannata e incarcerata per 13 lunghissimi anni; scopriremo che, al contrario, non fu lei ad uccidere il piccolo.

Negli anni di carcere, la dolce Geum-ja (così viene chiamata da tutte le galeotte, anche dopo aver capito che non si è fatta scrupoli ad uccidere una detenuta tiranna che vessava tutte le altre, dandole per alcuni anni di seguito il cibo misto a candeggina, perforandole lentamente lo stomaco, e divertendosi a farle scherzi pesanti, dei quali nessuno si dava conto) mette evidentemente a punto la sua tecnica di vendetta, facendo crescere l’odio dentro di sé e lavorando sul controllo della rabbia. Si crea inoltre una interessante rete di conoscenze tramite il cameratismo da carcere.

La persona che ha veramente commesso il delitto, non ha solo approfittato di lei per farla franca, ma ha commesso nei suoi confronti, e verso la comunità intera, delle cose abominevoli. Geum-ja esce di prigione più dura, più matura nelle sue consapevolezze, padrona della sua esistenza, libera di assecondare completamente i suoi impulsi, ancora più bella, ma soprattutto, assetata di una vendetta che sarà terribile e inesorabile.


"Perché usi l’ombretto rosso?"

"Per sembrare meno buona"

Questo scambio di battute è senz’altro una delle chiavi di questo film molto interessante. Ultimo capitolo della trilogia della vendetta di Park, che si avvia ad essere il nuovo orientale beniamino della critica occidentale, visto che già con il precedente Old Boy, secondo capitolo di questa trilogia, aveva riscosso unanimi plausi e osanna, secondo chi scrive un po’ affrettati, anche perché questo Lady Vendetta gli è superiore, almeno per chiarezza dell’assunto, oltre che nella parte stilistica. Se c’è ancora un difetto, nel lavoro di Park, anche in questo film, è invece una sorta di confusione nella sceneggiatura; dove Old Boy aveva un finale ridondante, in Lady Vendetta c’è un intreccio temporale un po’ troppo arzigogolato nella prima parte, e, nonostante la costruzione "a scenette", il risultato è lontano dai classici film con montaggio cronologicamente random, visto che, in pratica, anche qui si salta avanti e indietro nel tempo. Fortunatamente, tutto questo non impedisce di godere della seconda parte, parte dove il film diventa grande, oserei dire epico.

Detto dei titoli di testa, davvero un piccolo capolavoro, che già mettono lo spettatore esigente a suo agio, e dei difetti della prima parte, dobbiamo dire pure della enorme bravura stilistica di Park: il film è quasi impeccabile da questo punto di vista. L’uso della macchina da presa, le inquadrature, i colori, la fotografia, tutto lavora all’ottima riuscita del film (molte le scene da ricordare, non ultima l’intera sequenza della vendetta finale dentro la scuola abbandonata, praticamente da sola un capolavoro di tensione e di tecnica), sempre in bilico tra comicità non-sense, un’epicità , come già detto, quasi western, ma anche un forte sentimento religioso (la vendetta come percorso che la protagonista attraversa andando dal peccato verso la redenzione), e un senso del grottesco usato senza vergogna alcuna.

Per finire, una riflessione sul tema portante della trilogia ma soprattutto, di questo Lady Vendetta. Importante, credo, per la filmografia orientale, che questo film coinvolga una donna, elemento che permette inoltre di tracciare paragoni con l’intero Kill Bill di Tarantino. La vendetta, efferata allo stesso modo, ma qui dipinta e perpetrata con una violenza molto più "vera" e possibile, anche rispetto allo stesso Old Boy, ha un senso e apre gli spazi per pensare, o ripensare, in maniera approfondita al nostro rapporto con questo sentimento, e su cosa sia eticamente giusto o sbagliato; i dialoghi dei genitori convocati da Geum-ja (per cosa, lo scoprirete andando a vedere il film) sono in questo senso molto interessanti.

Sul cast, perfetta la protagonista, Lee Young-Ae e Choi Min-Sik (in Old Boy era il protagonista, Oh Dae-Su) nei panni dell’odiato Mr.Baek, interessante e ben dipinto, anche se poco sullo schermo, il detective Choi, interpretato da Nam Il-Woo.

In conclusione, un passo avanti rispetto al passato, ancora un piccolo difetto, per un film che lascia a bocca aperta per lo stile, e avvince per i contenuti.

Ottimo.

20100127

amnesia youtubica

non mi ricordo più la password di youtube.
ho provato a farmi mandare email a tutti i miei indirizzi, ma non arriva nulla.
potete aiutarmi?

botta di vita




One Life Stand - Hot Chip




Quarto album per i londinesi Hot Chip, che fino ad ora avevo sempre snobbato, all'inizio mi ha ricordato, pensate un po', gli Erasure. Dopo di che sono "entrato" nel mood dance del disco, che lentamente ha aperto le sue braccia e mi ha accolto.


Un tipo di dance che oserei definire quasi lounge, rilassata, quasi declinasse la bossa nova all'elettronica, guardandosi indietro ed incamerando tutto quello che è stato, in quel campo.


Chi non si spaventa dovrebbe dargli almeno un ascolto.

petalo


Moltheni - 15/10/2003 - Baraonda, Marina di Massa

Una tristezza senza fine mi assale durante e dopo il concerto acustico di Moltheni al Baraonda; dopo l'esibizione breve dei Marta sui tubi, un interessante band che mescola il rock con la musica popolare del sud Italia, Moltheni alla chitarra acustica, con due collaboratori uno alla chitarra elettrica e uno alle tastiere, iniziano il set (circa a mezzanotte) che, per inciso, sarà anche ridotto su richiesta, mi pare, del locale.

Un centinaio di persone scarse (e sparse) dentro al Baraonda, ma quelle interessate a Moltheni e alla sua musica saranno ad esagerare 30. Eppure lui si prodiga, suona, canta, fa sentire un sacco di canzoni nuove, che dovrebbero finire nel nuovo disco ("questa canzone s'intitola Petalo, dovrebbe essere il nuovo singolo....se me lo faranno uscire"), nuove versioni del suo repertorio (soprattutto dal primo, splendido e mai dimenticato Natura in replay).

Chiede un attimo di silenzio per un pezzo sommesso, ma non c'è niente da fare. E dire che l'iniziativa dell'ingresso gratuita e consumazione non obbligatoria da parte del Baraonda è da lodare. Ma il rispetto non abita qui, purtroppo.

Alla fine, Moltheni ringrazia ("Grazie. Siete stati pochi, ma attenti. Finchè c'è gente come voi, la musica alternativa ha un futuro."), e noi ringraziamo lui personalmente, visto che si aggira per il locale.

L'unica pecca delle canzoni è l'uniformità, cosa plausibile quando si ha uno stile così ben definito fin dall'inizio. Però è veramente un peccato che un artista così talentuoso sia costretto in queste condizioni.

20100126

fragole

Grazie a Bruzzone che ogni tanto mi invia pensierini via e-mail, ho "scoperto" questo delizioso videoclip dei Coldplay, una band che mi è molto piaciuta ai suoi inizi, con colpevolissimo ritardo (pare che il video sia uscito nel luglio 2009), quindi chiedo scusa, per la perdita di tempo, a chi lo conosce già, ma per chi non lo ha mai visto, vi invito alla visione.
Il pezzo è la solita solfa, ma, ripeto, il video è veramente bello. Coldplay, Strawberry Swing.

vecchio ragazzo


Old Boy – di Park Chan-Wook 2005


Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: un cinese s'incazza perchè ni fanno un torto e sciagatta tutti


Dae-su, un coreano medio con moglie e figlia, viene trattenuto dalla polizia che lo ha sorpreso ubriaco; liberato dall’amico No Joo-Hwan, che garantisce per lui, sparisce mentre i due si stanno scambiando il telefono di una cabina, per tranquillizzare la famiglia. Viene misteriosamente rapito, segregato, ipnotizzato, narcotizzato, esaurito, per 15 lunghissimi anni, durante i quali sua moglie viene uccisa (e lui viene accusato dell’assassinio), sua figlia affidata a una famiglia svedese, e il suo paese, la Corea del Sud, diventa moderno. Tenta la fuga ma non ci riesce, poi viene liberato, rivestito, e dotato di cellulare e soldi. Comincia a girovagare, e si innamora di Mi-do, una giovanissima cuoca conosciuta in un ristorante. Il suo carceriere, Woo-jin Lee, si rivela, ed inizia un gioco strano, che Dae-su affronta con indicibile violenza e una inarrestabile sete di vendetta. Perché Woo-jin Lee lo ha sequestrato? Lo scopriremo poco a poco.


Secondo lavoro di una trilogia del regista imperniata sulla vendetta (gli altri due titoli sono Sympathy for Mr.Vengeance e Sympathy for Lady Vengeance), liberamente tratto da un manga giapponese, vincitore a Cannes nel 2004 del Gran Premio della Giuria, arriva nelle sale strombazzatissimo e molto pubblicizzato, paragonato a Tarantino. Film dai molti riferimenti, letterari classici e cinematografici (Kafka, Edipo, Tarantino, Leone ma anche The Game), piuttosto accattivante, diventa un thriller con il dipanarsi della trama, anche se gridare al miracolo mi sembra sinceramente eccessivo, è senz’altro un film sopra la media, ma per affermarsi al pari di altri dotati registi asiatici, Chanwook ci deve ancora dimostrare qualcosa. Ottimamente girato, con una bella fotografia che si adatta ai momenti e belle soluzioni stilistiche, ha diversi difetti, e diventa ridondante nel finale, anche se globalmente, nel suo cammino, introduce molti spunti di riflessione, affrontandoli a volte sommariamente, altre coraggiosamente, anche se tutto viene seppellito da una forte dose di violenza, tra l’altro spesso mostrata solo accennandola.

Un buon film si, un capolavoro no.

20100125

up in the air


Tra le nuvole - di Jason Reitman 2010


Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: un c'è una sega da ride'


Ryan Bingham è il più efficiente "tagliatore di teste" della sua società: una società che le multinazionali "affittano" per licenziare, in prima persona, i propri dipendenti in esubero. In pratica: il lavoro più schifoso, detestabile e di merda del mondo. Possiede un monolocale a Omaha, dove passa al massimo 20 giorni l'anno. La sua vita è up in the air, su in alto, praticamente sempre in aereo, al check-in veloce, nelle suite lounge di business class, e il suo obiettivo è raggiungere un numero incalcolabile di miglia aeree per entrare in una ristrettissima elite di frequent flyer con una serie di innumerevoli privilegi. Tutto quello che gli serve sta nel suo trolley-bagaglio a mano. La sua famiglia praticamente non lo conosce, e i suoi rapporti sono esclusivamente occasionali, visto che è, comunque, un uomo piacente, affascinante e affabulatore.

Ma neppure lui è al riparo dalla crisi economica, e dalla corsa affannosa ai dividendi: l'arrivo della neo-laureata Natalie Keener, che affascina il capo di Ryan con una proposta che prevede il passaggio ai colloqui via video-conferenza, e quindi il taglio di qualsiasi spesa di trasferta, mette in dubbio, seppur dal punto di vista prettamente egoistico, lo stile di vita al quale ormai Ryan si è assuefatto. Quasi in contemporanea, Ryan intreccia una relazione che va oltre la "botta e via" con Alex, una affascinante sua equivalente femminile.

Il "richiamo all'ovile", da parte di sua sorella più grande, per il matrimonio della sorella più piccola, unito a queste due novità nella vita perfettamente schedulata di Ryan, sono l'inizio dello sgretolamento delle sue certezze.



Prima di tutto, ripetiamo che il giovane (33 anni) Jason Reitman è uno di quei figli d'arte che non usurpano niente. Anzi, se guardiamo quel che ha fatto con tre lungometraggi, nonostante la notorietà del padre Ivan, la "profondità" del figlio supera di gran lunga quella del padre, che è stato uno dei re della commedia, ed ha lanciato comici, o rivelato il talento comico di attori considerati "seri". Per chi non lo sapesse, i due lungometraggi precedenti a questo, sono stati Thank You For Smoking e Juno.

Questo Tra le nuvole (Up In The Air nella versione originale) è liberamente tratto dall'omonimo romanzo di Walter Kirn, ed è un film che può ricordare, seppur vagamente, più lo schema del suo primo film, anzichè il secondo: Reitman riesce a far rimanere simpatici allo spettatore dei personaggi che, in realtà, sono assolutamente odiosi. C'è pure un'ulteriore similitudine, se vogliamo proprio forzare la mano: una critica senza pietà alle multinazionali, fatta col sorriso sulla bocca. Qui sta la chiave della bontà e dell'originalità dello stile di Jason: costruisce film che sembrano lievi, e invece pesano come pietre, divertono ma alla fine capisci che non c'è proprio niente da ridere.
Come pure gli altri, anche questo lavoro è attualissimo: descrive esattamente quello che sta accadendo, negli Stati Uniti, ma un po' in tutti i paesi cosiddetti industrializzati. Tra l'altro, a parte alcuni caratteristi, quasi tutti i "volti" che si vedono tra i licenziati sono proprio persone comuni che hanno perso il lavoro, così come sui titoli di coda c'è addirittura un pezzo scritto da una persona che ha perso il lavoro e che ci ha scritto una canzone.
Ma non c'è solo questo. Ci sono dei titoli di testa spettacolari, dopo di che una regia attenta anche senza essere pirotecnica, una sceneggiatura ottima e dei dialoghi assolutamente brillanti, un ritmo sostenuto, tutta una serie di recitazioni perfette, dove Clooney è la ciliegina sulla torta: un mattatore superlativo.
Non tragga in inganno la virata sentimental-buonista della seconda parte: è il pretesto per il contrappasso finale, meritatissimo, per lo spietato protagonista, che lentamente prende coscienza di quello che è. Non mi sento sinceramente di sostenere che, appunto, questa seconda parte sia un difetto del film. Ho serie difficoltà a trovarne, in effetti. A me è parso un film molto ben fatto, da vedere, che ci segnala un giovane regista molto maturo, e che non sbaglia un colpo.

il montaggio finale


The Final Cut – di Omar Naim 2005


Giudizio sintetico: si può perdere


In un futuro molto vicino, una società, la Zoe Tech, ha creato un chip che, inserito nel cervello umano, registra l’intera vita del soggetto al quale è applicato, come se gli occhi fossero telecamere. Alla morte, un montatore crea, con un’operazione chiamata rememory, dal contenuto del chip, mediante un maxi computer chiamato "la ghigliottina", un film di un paio d’ore, che di solito viene proiettato al funerale dell’interessato. Alan Hackman è il miglior montatore sul mercato, richiestissimo, professionale, discreto. E’ un uomo solo, che vive attraverso le altrui vite (e morti), incapace di provare slancio anche verso Delila, la donna che, occasionalmente, divide con lui le notti.
Appena viene incaricato del rememory di Bannister, un importante funzionario della stessa casa produttrice del chip, Fletcher, un ex montatore passato nei gruppi che ne contestano l’uso, palesa l’intenzione di entrare in possesso del rememory, che potrebbe essere compromettente e quindi influenzare l’opinione pubblica a sfavore della Zoe Tech, con le buone o con le cattive. Le sorprese, per Alan, non finiscono qui.

Potenzialmente interessantissimo, il film perde di interesse nella seconda parte, quando sposta il tiro dagli inquietanti risvolti etico-morali che una cosa del genere comporterebbe, alle beghe personali del protagonista (un Robin Williams volutamente sottotono, a dire il vero poco efficace), perdendo così l’occasione per una bella riflessione sulla strada imboccata dalla nostra società, tutta protesa all’apparire. Un’occasione persa; aiuta anche la generale stanchezza del cast e il ritmo blando.

20100124

arresi






Ormai si sono arresi tutti. Qui troverete un articolo da Il Riformista dove Piero Sansonetti loda Silvio Berlusconi.

donna


Warmi - Magaly Solier

Capisco che la musica andina possa risultare insopportabile: anch'io non è che la ascolti di continuo, anzi. Però il personaggio di Magaly Solier, peruviana "scoperta" con il film Il canto di Paloma, e che ha confermato la particolarità con il precedente Madeinusa, mi ha spinto ad ascoltare questo suo per adesso unico album Warmi, che in lingua quechua significa donna.
Cantato in parte in castigliano (spagnolo), in parte in quechua, composto interamente dalla stessa Solier, che in patria è soprannominata Principessa Inca, ha il suo fascino, folkloristico quanto volete, ma ce l'ha. La voce di Magaly, per chi non avesse visto nessuno dei due film citati poco fa, è sottile e altissima, molto particolare, a volte bambinesca. Il disco risulta a volte anche troppo arrangiato, tanto da far rimpiangere i pezzi cantati a cappella come nei film, ma la potenza suggestiva e cristallina della voce rimane intatta.
La mia preferita è Guitarra Yuyariptiy, e, seppur ancora bella, Por qué me miras asì (ascoltata in Madeinusa) la preferivo a capella.
Come dicevano i Monty Python, "...qualcosa di completamente diverso".

Un uomo solo


A Single Man - di Tom Ford 2010


Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)

Giudizio vernacolare: bello eh, maddé, a un certo punto ti vien vollia di spingilo da tanto va piano



Venerdì 30 novembre 1962, Los Angeles. Il professor George Falconer si sveglia con la voglia di mettere fine alla sua vita una volta per tutte. Sono passati otto mesi dall'improvvisa morte del suo compagno Jim, con il quale condivideva una vita agiata e piena d'amore, ed ogni giorno che passa, George si convince che senza Jim, la sua vita non ha più significato.

Uomo preciso, meticoloso, impeccabile, si prepara mettendo nella sua valigetta una pistola, per ricordarsi di comprare i proiettili: gli serviranno più tardi. Prima deve andare a lavoro, nella scuola dove insegna, più tardi ancora a cena da Charlotte, l'amica di una vita, ed è addirittura costretto a declinare l'invito dei vicini, gli Strunk, per un cocktail.

Deve ricordarsi inoltre di preparare tutto per "andarsene" senza lasciare niente in sospeso. Ma la giornata gli riserverà alcune sorprese, tra un ricordo e l'altro...


Debutto alla regia per Tom Ford, ex Creative Director di Gucci e vero Re Mida della moda, che da vero eclettico si tuffa nel cinema da regista, produttore e co-sceneggiatore, dirigendo questo A Single Man, tratto dall'omonimo romanzo di Christopher Isherwood (dedicato a Gore Vidal) del 1964, romanzo del quale Ford comprò i diritti già nel 2007.

Gay dichiarato e persona affermata, Ford prende un romanzo considerato una pietra miliare della letteratura gay, e ne fa un film non solo gay. Questo è uno dei tanti pregi di questo suo debutto: un film d'amore, di sofferenza, che fotografa un momento storico importantissimo (un mese dopo la crisi dei missili di Cuba) con tutto quello che ne conseguì, vista da una sorta di "osservatorio" omosessuale, ma calato nella realtà americana che cominciava a prendere coscienza del fatto che l'american style non era proprio il paradiso in terra, anzi.

Film dai ritmi lenti (a volte veramente troppo), levigato fino all'ossessione, perfetto nelle inquadrature, nei movimenti di macchina, eccede forse nei ralenti e in qualche eccesso di gaytudine, varia la fotografia rimanendo sui toni tenui ma desaturandola quando il protagonista è a single man, stilosissimo sia negli interni (molti) che negli esterni (pochi), si avvale di una colonna sonora in prevalenza classica, ma con un paio di hit dell'epoca (fra cui la meravigliosa versione di Stormy Weather eseguita da Etta James), e racconta questa giornata nella vita del professor Falconer, in bilico tra una vita senza significato e la morte per revolverata. Straordinari gli interpreti, ottimamente diretti da Ford, tutti, anche quelli marginali.

Meritata la Coppa Volpi a Firth. Un paio di riferimenti a Mad Men, e i favolosi trivia di imdb.com ci fanno scoprire che Jon Hamm (Don Draper in Mad Men) "appare" in un cameo vocale: nella versione originale, è sua la voce che, proprio all'inizio del film, chiama il professor Falconer per comunicargli la morte del suo compagno.

Una storia che immediatamente lascia sorpresi e spiazzati, ma che in seguito porta lo spettatore alla riflessione.

Un ottimo debutto.

20100123

half a doctor




Da Internazionale nr.828; se siete dottori laureati e amate l'India, magari vi prendono.




INDIA
Nelle campagne dottori a metà
Una laurea breve per i medici di campagna: è la proposta che il ministero della sanità di Delhi sta vagliando per affrontare la carenza di personale sanitario nelle zone rurali. Solo tre anni e mezzo di studi per poter esercitare la professione in regioni remote dove normalmente i dottori si rifiutano di operare. Times of India scrive che “gli incentivi per spingere i medici a trasferirsi nelle zone rurali non hanno avuto successo e che per il governo sarà difficile raggiungere gli obiettivi previsti dal National rural health mission 2009. La laurea in medicina e chirurgia rurale sarà offerta dagli istituti delle regioni interessate a studenti che hanno completato la scuola dell’obbligo in città con non più di diecimila abitanti. Per loro potrebbe nascere anche un albo nazionale ad hoc”.

mondi a parte


…And You Will Know Us by the Trail of Dead + Dead Meadow + The Black, 11/03/2005, Bologna, Il Covo

Sono molto curioso di vedere dal vivo i Trail of Dead, tanto che mi sento un po’ in colpa per non averlo fatto prima. Forse è per questo che dopo 10 minuti di The Black, cantautore chitarra acustica e voce per una manciata di canzoni malinconiche, divento gia’ insofferente.
Finisce The Black e salgono sul palco i Dead Meadow; loro mi colpiscono molto. Power trio stoner e predilezione per i pezzi dall’incedere lento, a parte l’imprescindibile riferimento blacksabbathiano, ricordano un po’ i Saint Vitus con una voce da brit-rock. Avrei scommesso che il cantante-chitarrista e il bassista fossero fratelli, e invece una ricerca mi dice di no. Forse a forza di frequentarsi hanno finito per somigliarsi.
Buona tecnica, set di quasi un’ora, quindi nonostante la bonta’, verso il finale comincio a pensare come Alex Drastico di Albanese (bravi motto bravi…poi dopo un po’….), e voglio i Trail of Dead.

23,37, siamo pronti e si parte con l’accoppiata che apre l’ottimo e già sottovalutato Worlds Apart: Ode To Isis e la martellante Will You Smile Again?, che mette già in chiaro a quale tipo di concerto e di prestazione assisteremo. Due batterie sul piccolo palco, un aiuto, limitato, alle tastiere (che saranno suonate da un collaboratore, da Jason e da Conrad), il chitarrista Kevin, calvizie incipiente e occhiali da nerd, defilato sulla sinistra quasi dietro all’amplificazione, il bassista Neil, lungo e dinoccolato, spavaldo e scatenato, scherza con tutti e ogni tanto si dimentica di fare i cori; il batterista aggiunto Doni non si muove dalla batteria di destra e contribuisce pesantemente alla grandiosità sonora della sezione ritmica, parte fondamentale del suono T.o.D.; Conrad, che in prevalenza occupa lo spazio al centro del palco, si alterna alla batteria e alla voce con Jason (e alla batteria va anche lui alla grande), quest'ultimo una vera e propria forza della natura, fisico da culturista tarchiato, spacca le pelli e i piatti della batteria di sinistra, e in alternativa canta sobillando letteralmente il pubblico che gremisce il Covo, e suona anche la chitarra, onestamente in maniera non trascendentale (sarebbe davvero chiedere troppo!).
Presenza costante sul palco anche un paio di tecnici, uno di spalle alle tastiere e ai sampler, più una specie di Bluto (vedi Braccio di Ferro cartoon) con gli occhiali alle accordature. Un altro tecnico appare e scompare più discretamente, e ritira soprattutto le chitarre.
Dopo il dittico iniziale c’è The Best, dove Conrad stecca (ad onor del vero il pezzo ha una parte vocale difficile), e si palesa l’unico problema del concerto, la voce di Conrad che ogni tanto sparisce, non si capisce se per via del microfono o per colpa sua, dopodiché cominciano gli ‘’scambi’’ tra lui e Jason.
Si mormorava prima del concerto che quello della sera prima a Milano era durato poco, questa sera si arriverà all’ora e venti piena. Più che sufficiente per un concerto dalla rara intensità sonica ed emotiva. L’impatto sonoro è davvero devastante, la sezione ritmica ha l’imponenza di un tempio romano, le chitarre tagliano e quasi riescono a dipingere l’inquietudine dei tempi moderni. Il cantanto, più punk quello di Jason, aggiunge la giusta dose di rabbia al tutto, le strutture delle canzoni disegnano uno stile complesso senza dilatare i tempi. La cifra personale è altissima, e il valore aggiunto della prestazione live dei T.o.D. è la potenza dell’impatto, cosa che li rende davvero unici.
Oltre a diversi estratti da Worlds Apart (superba e trascinante The Rest Will Follow), non mancano pezzi da Source Tags & Codes (piccoli grandi classici come Another Morning Stoner e Relative Ways) e da Madonna.
Da sottolineare quanto si divertono i ragazzi sul palco, veramente tanto.
Si chiude con Conrad che chiede di accendere le luci prima degli ultimi encore, per poter vedere le facce di quelli che riempivano il fucking concrete bunker (così aveva definito il locale poco prima), con Neil che scappa dal palco e lancia una lattina, mezza piena, di birra, addosso a quelli rimasti sopra, e con Jason che mentre si smonta il palco continua a suonare la batteria accompagnando i nastri di sottofondo.

Se riusciranno a farsi capire, avranno un luminoso futuro.

20100122

perchè margherita...


Stasera, pochi minuti fa, a Otto e mezzo su La 7. Lilli Gruber domanda a Margherita Hack che consigli ha da dare, se li ha, a Fini, a Bersani e a Berlusconi. Tralascio i primi due, benevoli. A Berlusconi, la Hack dice (riassumo):


"Si levi dai piedi dalla politica italiana! Torni a fare il palazzinaro, o quello che faceva prima. E' stato un pessimo esempio di morale politica".


Più chiara di così....

f.t.p.





Ma va?

addobbi invernali


Midwinter Graces - Tori Amos


Come spesso capita, un album di cover, o qualcosa del genere, può essere rigenerante per artisti un po' a corto di fiato. E' proprio il caso di Tori Amos, alle prese, ultimamente, con un eccesso di produzione; paradossalmente, la pubblicazione del secondo album del 2009, ma essendo questo Midwinter Graces un classico "seasonal album", più precisamente un disco di canzoni di Natale, solleva decisamente la qualità del prodotto.

Molti traditional anglosassoni, diversi pezzi di produzione propria (cinque nell'edizione standard, uno in più nell'edizione deluxe - che contiene un sacco di materiale extra -), arrangiamenti sontuosi e avvolgenti (Our New Year, per esempio, è davvero maestosa), a volte perfino barocchi (Candle: Coventry Carol) .

Una chicca, che vale da sola l'ascolto: nel traditional Holly, Ivy and Rose, Tori duetta con la figlia Tash, di 9 anni. La attende un futuro radioso, se il buongiorno si vede dal mattino.

The Damned United




Il maledetto United - di Tom Hooper 2009



Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Giudizio vernacolare: pare di vede' il Livorno



Brian Clough, nato a Middlesbrough nel 1935, fu un calciatore del Middlesbrough e del Sunderland, con due presenze anche nella nazionale inglese, che dal 1965 scelse la carriera di allenatore. E' stato uno degli allenatori più vincenti d'Inghilterra, ed è rimasto famoso anche per il suo approccio mediatico, senza peli sulla lingua, e per il suo "odio" verso Don Revie e il "suo" Leeds United (il "maledetto" del titolo). Il film racconta i 44 giorni di Clough alla guida del Leeds, allorché Revie fu chiamato ad allenare la nazionale inglese, per sostituire Alf Ramsey, esonerato in seguito alla mancata qualificazione dell'Inghilterra alla fase finale dei Mondiali del 1974. Ma non solo: c'è il suo rapporto con l'amico e collaboratore Peter Taylor, scopritore di talenti e grande conoscitore di calcio, quello con alcool e sigarette, la ragione della rivalità con Revie e il lato etico di Clough (uno dei motivi per cui odiava Revie e i giocatori del Leeds è che erano scorretti e "montati"; ricordato anche perchè definì i calciatori della Juventus, dopo una semifinale di Coppa Campioni giocata dall'allora suo Derby County contro la squadra torinese, cheating bastards).



Non propriamente una bio-pic, questo film di Hooper, regista soprattutto televisivo, che doveva essere diretto da Stephen Frears, tratto dall'omonimo libro di David Peace. Come detto, il film focalizza l'attenzione su alcuni periodi della carriera di allenatore di Clough, i 44 giorni di cui sopra, nel 1974, e l'episodio dal quale scaturisce la rivalità con Revie, nel 1967, ripercorrendo non pedissequamente poi la storia di Clough; la sceneggiatura è di Peter Morgan, autore tra l'altro di L'ultimo Re di Scozia, Frost/Nixon - Il duello (sua anche la commedia teatrale omonima) e di The Queen, e si destreggia bene tra molti "salti" (avanti e indietro) temporali, concedendosi una chiusura buonista che lo rende adatto a qualsiasi tipo di pubblico, facendolo diventare una sorta di inno all'amicizia (anche se la scena della riconciliazione tra Clough e Taylor va oltre l'amicizia; mi chiedo come doppieranno gli "I love you", "I love you too" in italiano).


Se pensiamo ai film sul calcio, ci rendiamo conto di quanto siano scarsi, di quanto nessuno sia mai riuscito a rendere su pellicola la magia di questo sport, per cui dev'essere proprio difficile. Anche questo film non fa eccezione, seppur il soggetto sia una persona, è stato pur sempre un allenatore di calcio. Ma, anche se non è un capolavoro, The Damned United risulta davvero avvincente soprattutto nella prima parte, e ci regala alcune scene davvero da grande cinema (la preparazione degli spogliatoi per la partita contro il Leeds, da parte di Clough, fantastica), insieme a dialoghi mai noiosi o prevedibili.


La fotografia si adatta perfettamente al contesto storico, la cui ricostruzione è accurata e affascinante (gli stadi, i vestiti, ma anche gli interni). La regia è forse un po' didascalica ma ha buone trovate, e alla fine lascia soddisfatti. Gli attori, sia i protagonisti sia quelli con meno spazio, fino ai bambini, svolgono un grandissimo lavoro. Seppure troverete molte critiche ed articoli che vi diranno che Michael Sheen è stato scelto anche per la sua somiglianza con Clough, la somiglianza più impressionante mi è parsa quella di Colm Meaney con Don Revie (la apprezzerete anche perchè ci sono diverse immagini di repertorio con i veri Revie, Clough e Taylor). A parte questo, il trio Sheen, Meaney e Spall è eccezionale. Nel cast anche Stephen Graham (Billy Bremner) e Jim Broadbent (Sam Longson).


Un film e un (grande) attore (Michael Sheen) che rendono giustizia a un grande personaggio.

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Il film doveva uscire oggi in Italia. La data di uscita, invece, è stata cancellata.

20100121

presidente


In questi giorni si è scatenata la polemica sull'attuale Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, reo di essere appartenuto all'ala cosiddetta migliorista del PCI, quindi troppo blando, e di avere delle supposte commistioni con il gruppo Berlusconi, in passato.


Mi interessa poco. Dico solo questo: dobbiamo ringraziarlo. Perchè ci sta traghettando verso il peggio, in maniera il più indolore possibile.


Perchè il prossimo Presidente della Repubblica sarà sicuramente un succube di Berlusconi, se non Berlusconi stesso, dopo una accurata riforma verso una Repubblica presidenziale. Anche se non credo che il PdL ce la farà, impegnato com'è a "sistemare" il "problema giustizia" (sempre per il "capo").


Lo so che è uno scenario spaventoso. Ma cominciate a rassegnarvici fin da adesso.
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Dopo aver letto i primi due commenti, sono costretto a spiegarmi meglio: è evidente che non mi è riuscito molto bene questo post, che voleva essere sarcastico. Invecchio, e con me la mia capacità di spiegarmi e di pungere. Potrei cancellarlo e riscriverlo, ma lo lascio a (mia) futura memoria.

Dunque: il mio "dobbiamo ringraziarlo" era più che ironico. Intendevo: l'attuale Presidente della Repubblica, a mio modo di vedere, è un uomo politico talmente "migliorista" di centro-sinistra da essere molto vicino al centro-destra. Per cui blando, e blandamente "fronteggia" Berlusconi.
In pratica, ci sta abituando ad un paese dove, sparita l'opposizione (già adesso), sparirà pure la figura che dovrebbe conservare l'equilibrio, essere super partes, e cioè (appunto) il Presidente della Repubblica quando il Presidente del Consiglio dei Ministri è Silvio Berlusconi.

Io mi ero capito, ma evidentemente non bastava. Giusto così.

pulsanti


Tarot Sport - Fuck Buttons


I due componenti dei Fuck Buttons sono cresciuti a Worcester, ma si sono formati, come band, a Bristol; fans dei Mogwai, ma molto, molto "elettronici", quello che ne esce, è, appunto, una sorta di Mogwai elettronici, il che sembrerebbe una semplificazione, ma non proprio. Assenza di parti vocali, ricerca di melodie sintetiche ma ariose, ipnotiche perchè reiterate, con pochi cambiamenti, introdotti un poco per volta. Una sorta di psichedelia (vedi la copertina) sintetizzata, come ai tempi dei Chemical Brothers di una volta.

rappresentazione




Avatar - di James Cameron 2010


Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)

Giudizio vernacolare: firmone! ballacolupi di fantascienza colla musi'a der titanicche

2154: sul pianeta Terra, tra le altre cose, è sparito il verde. Jake Sully è un giovane ex marine sulla sedia a rotelle; suo fratello gemello Tom, uno scienziato che lavorava ad un progetto complesso, è morto; la multinazionale per la quale lavorava gli propone di sostituirlo, visto che il progetto è costosissimo e lui è geneticamente compatibile. Jake accetta. Il progetto affianca quello "finale", della stessa multinazionale, che è presente in forze su Pandora, un pianeta lussureggiante, satellite di Polyphemus, dove esistono addirittura montagne sospese in aria, per sfruttare un enorme giacimento di un minerale che potrebbe risolvere la crisi energetica una volta per tutte: l'unobtanium. Jake, nonostante il suo handicap, ha ancora un animo guerriero, ed è dubbioso sulla sua missione. Si tratta, infatti, di comandare altri corpi, denominati avatar, "costruiti" incrociando il DNA umano con quello dei nativi di Pandora, i Na'vi. L'atmosfera di Pandora, infatti, è tossica per gli umani, e i Na'vi "ostruiscono" il progetto della multinazionale; c'è anche un esercito privato, che non vede l'ora di usare la forza, ma per conservare una parvenza di politically correctness, il programma avatar, guidato dall'idealista dottoressa Augustine, sta tentando di far fraternizzare questi corpi comandati da umani con i Na'vi, in modo da trattare il loro "sgombero" pacificamente. Jake, mentre prende velocemente dimestichezza col suo avatar, provando nuovamente sensazioni ormai dimenticate (correre, camminare, muoversi liberamente), viene incaricato dal comandante dell'esercito privato, il colonnello Quaritch, di raccogliere più informazioni possibili sul territorio e sui Na'vi stessi, per preparare un più che probabile attacco: in pratica, un doppio-doppiogioco. Quando Jake, a causa della sua stessa spavalderia, rimane isolato per una notte intera nella foresta di Pandora col suo avatar, e sta per soccombere ad un agguato di un branco di animali feroci, una bellissima donna Na'vi, Neytiri, lo salva. Jake le dimostra riconoscenza, anche se inizialmente Neytiri non vuole saperne di fraternizzare con lui, ma entrambi ancora non sanno che ormai i loro destini sono irrimediabilmente segnati...

Ognuno è chiaramente libero di pensarla come vuole: troppo pubblicizzato, troppo americano, troppo chiassoso, troppi film in 3D, la trama è uguale a quella di Pocahontas, troppo chiassoso.

Tutto vero, innegabile. E chi legge le mie recensioni sa che amo il cinema fatto sottovoce, amo scoprire piccoli gioielli che riesci a scovare in sale nascoste e in via di estinzione, o addirittura nei meandri della rete, in altre lingue, mai usciti nel Paese dei cinepanettoni. Però, assumendo una posizione quasi democristiana, vorrei dire che c'è spazio per tutto, anche per il cinema "di massa", se non è stupidissimo. Del resto, guardiamoci indietro, solo per un momento. James Cameron ci ha dato, nella sua carriera, pochi film, la maggioranza dei quali indimenticabili: Terminator, Aliens, Terminator 2 (uno dei pochi casi in cui il sequel supera l'originale), Titanic. Senza dimenticare che, quando si è dedicato alla televisione, ha creato Dark Angel. Un visionario che riesce a semplificare le cose, un megalomane che riesce a sperperare montagne di denaro degli studios. Un personaggio, comunque.

Questo Avatar è un film iper-prevedibile nella trama, che però contiene un messaggio semplice ma corretto. Stiamo distruggendo il nostro pianeta, e probabilmente, se ce lo permettessero saremmo in grado di distruggerne pure altri, con l'aggravante che la storia si ripete ciclicamente: il plot di Avatar può ricordare sia l'approccio dei Conquistadores e dei Padri Pellegrini verso il continente americano e i suoi nativi, così come quello delle multinazionali del petrolio verso il continente africano e, ancora una volta, i suoi nativi. Non mancano frecciate tanto irriverenti quanto terribilmente possibili e paurose: ascoltate bene dove è stato in missione Jake Sully, dalle parole del colonnello Quaritch, dopo che ha letto il suo curriculum. Onore a Cameron anche da questo punto di vista: non si era mai visto un eroe di un colossal in sedia a rotelle. E poco importa se è solo uno specchietto per le allodole, visto che si mette praticamente da subito alla "guida" del suo avatar altissimo, "fisicato" e blu.

Avatar, visto in 3D, e quindi quasi psichedelico, porta lo spettatore in un mondo fantastico e gli fa vivere un'esperienza davvero superba: Pandora è una sorta di Paradiso mixato con l'isola di Jurassic Park, Cameron lo accarezza con la macchina da presa, poi accelera inseguendo l'avatar del protagonista e le sue imprese. Di prevedibile c'è "solo" la trama. Se fosse stato Kiarostami non l'avrei accettato. Questo però, è vero cinema spettacolo.

Prove del cast oneste. Zoe Saldana (Neytiri) è favolosa anche in versione Na'vi: me ne sono innamorato all'istante.

Fidatevi, e tornate bambini per una sera. C'è tempo dopo, per cogliere le grossolane ma dignitose allegorie anti-imperialiste.

20100120

ricordate gran torino?




Da Internazionale nr.828, a proposito dell'etnia di cui si "parlava" nel film Gran Torino.




L’odissea dei hmong laotiani




The Nation, Thailandia


Arruolati dagli Stati Uniti contro i comunisti durante la guerra del Vietnam, i hmong sono
perseguitati nel loro paese e pagano le conseguenze di una questione mai risolta




A fine dicembre le tv tailandesi hanno riferito, citando fonti anonime, che i quattromila hmong rimpatriati con la forza in Laos in quei giorni erano solo immigrati clandestini in cerca di un modo per raggiungere gli Stati Uniti. La verità è che i hmong erano arrivati in Thailandia nella speranza di trovare asilo in un paese straniero. I hmong sono perseguitati dal governo di Vientiane per aver combattuto nella guerra segreta in Laos alla fine degli anni sessanta per conto degli Stati Uniti. A più di trent’anni dall’arrivo al potere dei comunisti in Laos, i hmong continuano a fuggire attraverso il confine con la Thailandia. Alcuni cercano soltanto una vita migliore, altri tentano di raggiungere le famiglie che si sono stabilite all’estero. Tra loro ci sarebbero anche parenti degli uomini che furono arruolati dagli Stati Uniti a partire dai primi anni sessanta e addestrati
dall’esercito tailandese contro il Laos comunista. Thailandia, Stati Uniti e governo laotiano non hanno ancora trovato una soluzione alla questione dei hmong disseminati in giro per il mondo, uno dei tristi retaggi della guerra fredda. Il problema non riguarda solo qualche gruppo tribale confinato su remote vette montane, come pensa la maggior parte dei tailandesi. E ridurre il problema a una semplice questione bilaterale con il Laos, come ha fatto il viceprimo ministro
tailandese Suthep Thaugsuban, non ha senso. I telegiornali tailandesi non hanno parlato della crescente preoccupazione delle Nazioni Unite, del governo di Washington e dell’Unione europea per il rimpatrio forzato dei hmong. Né hanno parlato del fatto che l’agenzia dell’Onu per i rifugiati ha concesso a 158 hmong, detenuti in un campo profughi a Nong Khai, in Thailandia, lo status
di “persone bisognose di protezione”; né di come le autorità tailandesi hanno ostacolato il trasferimento di queste persone in un altro paese. E non hanno detto nemmeno che l’esercito tailandese, durante le procedure di schedatura, ha identificato circa 500 persone che hanno legami di parentela con uomini che, addestrati dai militari tailandesi, combatterono nella guerra segreta contro i comunisti finanziata dalla Cia.
Quale soluzione?
Sembra che manchi la volontà politica di trovare una soluzione. I protagonisti della vicenda restano ostaggi di una mentalità da guerra fredda e continuano a tenere segrete le loro intenzioni. Nessuno vuole riconoscere che c’è ancora una manciata di guerriglieri hmong che si nasconde nella giungla per liberare il Laos dai comunisti. Anche se ufficialmente non danno peso alla questione, alcuni membri del governo di Vientiane sono convinti che questo esercito sia armato dai militari tailandesi con il sostegno dei hmong che vivono in esilio. Ma se davvero le parti in causa non hanno nulla da nascondere, dovrebbero risolvere la situazione una volta per tutte. Possono cominciare con il gestire il problema tutti insieme e accertare l’identità di quelli che discendono realmente dai guerriglieri hmong arruolati dalla Cia. Per il momento solo le autorità tailandesi stanno facendo una schedatura, sollevando tra la comunità internazionale più interrogativi che risposte. Una presenza delle Nazioni Unite darebbe maggiore credibilità all’operazione, perciò bisognerebbe coinvolgere rappresentanti dell’Onu e altre personalità internazionali, come il generale Vang Pao, il leader hmong in esilio che ha dichiarato di voler tornare nella sua terra d’origine. È buffo come l’esercito tailandese, che insiste nel classificare i hmong come semplici immigrati irregolari, abbia “dimenticato” di aver avuto un ruolo nel conflitto in Laos.

cibo per l'anima 2




A proposito di Soul Kitchen, recensito ieri, mi fa piacere darvi un parere diverso, più positivo.



Ecco quindi la recensione di Dietrich Kuhlbrodt del Die Tageszeitung, nella traduzione che si trova su Internazionale nr. 828






Soul Kitchen - di Fatih Akin (4 su 5)







Soul Kitchen è uno sgangherato ristorante aperto da Zinos, un tedesco di origini greche interpretato dal bravissimo Adam Bousdoukos, in un vecchio capannone industriale di Wilhelmburg, un quartiere di Amburgo dove sta nascendo un’interessante scena artistica. Pizza,
salsicce, patatine fritte e pasta non sono il massimo, ma i clienti del locale, in gran parte immigrati o tedeschi di origine straniera, sono tenuti insieme dalla musica, onnipresente nel ilm, un crossover di soul, funk, rembetiko, hip-hop. In questo ipnotico susseguirsi di generi si alternano le vicende dei diversi personaggi, compresa la tribolata storia d’amore di Zinos. Ebbene, devo confessare di essermi fatto prendere dal film al punto di sentirmi uno dei clienti di Soul Kitchen, come se quel ristorante fosse la mia seconda casa. Una cosa inopportuna per un critico cinematografico: i miei colleghi mi hanno sempre detto che si perde un po’ di credibilità se non si trova almeno un aspetto negativo in un film. Anche una piccola cosa può bastare.
Allora, vediamo, ci provo... Be’, che devo dire? Non mi viene niente. Mi dispiace.

20100119

craxonetto


Sono da qualche giorno perplesso. Si fa un gran parlare di Bettino Craxi, e volevo sbattermene bellamente i coglioni. Alla fine, non ce l'ho fatta. Ho letto questo articolo del Sole 24 ore, e non ce l'ho più fatta.

Non so voi, ma io penso che se si vuole commemorare uno che l'ha messo nel culo agli operai ("... il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, nell'indicare il decreto sulla scala mobile del febbraio 1982 e nel successivo referendum del 1984, uno dei «capolavori» politici di Craxi, che osò sfidare, in nome della modernizzazione, una parte della Cgil e del Pci, fermamente contrari al taglio di tre punti di scala mobile..."), e che è morto per cause naturali da latitante in Tunisia (dove, se non ricordo male aveva pure una certa fontana), dopo l'accusa di correità verso tutto il Parlamento del 3 luglio 1992, e quindi l'implicità ammissione di accuse, per altro provate, di aver rubato non so quanti soldi, ecco, dicevo, se proprio lo volete commemorare, fatelo a casa vostra, nel giardino (sperando che piova) o in salotto (sperando che salti la corrente).

Se però lo fate nella biblioteca del Senato, e l'oratore è il Presidente del Senato, beh, non solo dovete andare a cagare, ma dovreste pure vergognarvi. O forse era una cerimonia per ringraziarlo del debito pubblico da lui (e dai suoi amichetti Andreotti e Forlani) accumulato, e arrivato fino ad oggi (anche se la figlia Stefania - brrrrr - dice che "non è vero che lo fece aumentando il debito pubblico", riferendosi al risanamento economico, sostenendo inoltre che fu addirittura "il suo capolavoro"....ma pensa un po'....)?

Su queste cose dovrebbe riflettere chi mi critica quando dico che mi vergogno di essere italiano. E alla luce di questo sono orgoglioso di non votare.

l'amore ci avvicina


Love Come Close - Cold Cave


A metà tra Joy Division e Depeche Mode, a livello di influenze storiche, la title-track Love Come Close è un po' la loro Love Will Tear Us Apart, come The Laurels Of Erotomania è un po' la loro I Just Can't Get Enough (ma anche in Youth And Lust si sente prepotente non solo l'influenza dei Depeche più gigioni, ma qualcosa di più), la band di Wesley Eisold, allargata ad altri elementi e collaboratori, con esperienze non indifferenti, ha la sua base in Philadelphia.

In alcuni frangenti possono ricordare perfino i Paradise Lost post-metal, e l'elettronica tedesca (Heaven Was Full) in genere. Ci sono anche momenti divertenti (The Trees Grew Emotions And Died), per cui il disco è in bilico tra cupezza e divertimento elettronico. Un po' ostico all'inizio (ma sicuramente meno della precedente raccolta Cremations), per chi, come me, non è proteso verso certe sonorità, acquista valore negli ascolti seguenti. Ci vuole un po' più d'attenzione, e di pazienza.

i conti col passato



La prima cosa bella - di Paolo Virzì 2010


Giudizio sintetico: da vedere (3/5)

Giudizio vernacolare: so' troppo di parte...andatilo a vede' solo per senti' una bimbetta di sei anni che dice "mamma Bruno m'ha dato un picchio"



Bruno ha circa quarant'anni, vive a Milano, una donna che lo ama, un lavoro come insegnante, e un vuoto dentro, che non riesce a colmare, se non consumando saltuariamente droghe leggere. Bruno è livornese, ma ha tagliato i ponti con la sua città e la sua famiglia. Un giorno, però, la sorella Valeria, insieme al figlio più grande, piomba a Milano, nella scuola dove insegna Bruno, visto che lui ormai non risponde più neppure alle sue telefonate, per comunicargli che alla madre, Anna Nigiotti (in Michelucci), ormai rimane poco da vivere, e forse sarebbe il caso che lui tornasse a Livorno insieme a loro per farsi rivedere. Bruno, più per apatia che altro, sale in macchina (stupendosi che il figlio di Valeria guidi, da tanto tempo non lo vedeva), e i tre partono verso la città dei Quattro Mori. Si innescano così, tutta una serie di ricordi, mai sopiti, da parte di Bruno e di Valeria, ricordi che non si placano, quando Bruno arriva al capezzale della madre, e la scopre si malata terminale, ma ancora incapace di preoccuparsi per qualsiasi cosa.



Virzì, come già sostenuto in occasione del suo film precedente Tutta la vita davanti (anche se, ad essere pignoli, il regista ha girato, in mezzo, il documentario L'uomo che aveva picchiato la testa, uscito direttamente in dvd), è "l'unico depositario della commedia all'italiana, che diverte ma graffia profondamente". In questo suo ultimo, divertente e toccante La prima cosa bella, Virzì regola i suoi conti col passato e con la sua città di origine, partendo da parecchie note autobiografiche (leggete le prime righe della sua biografia su Wikipedia), e infarcendo il tutto con elementi storici e non, deliziosamente livornesi (leggete, a tal proposito, l'articolo degno di nota, anche se non privo di inesattezze - il Cinema/Teatro 4 Mori non è l'unica sala del centro ad essere sopravvissuta -, di Marco Gasperetti sul Corriere della Sera del 17 gennaio 2010 - grazie all'amico Cipo per la segnalazione -). E' vero, in effetti, che, come dice il buon Gasperetti, "l'insostenibile leggerezza dell'essere livornesi", si basa soprattutto nel non dare troppa importanza alle cose: non so se è nata qui a Livorno questa scuola di pensiero, ma, a proposito dei soldi, ad esempio, si pensa che quando si contrae un debito, con la banca, per dire, ad essere preoccupata deve essere in primis la banca, o in generale, chi deve averli indietro i soldi, e non chi beneficia del prestito. Questo, per fare un esempio, che può essere importante per capire qualcosa del film. Un'altra chiave di lettura, che secondo me, purtroppo, si capisce poco, è che Mario Michelucci, il padre del protagonista Bruno, maresciallo dei Carabinieri, interpretato più che dignitosamente da Sergio Albelli (che abbiamo visto anche in Miracolo a Sant'Anna di Spike Lee), non è livornese (si intuisce che è fiorentino, o qualcosa del genere), al contrario della madre Anna (interpretata, da giovane, dalla moglie di Virzì, Micaela Ramazzotti, che ci è piaciuta di più in Tutta la vita davanti, ma che anche qui non sfigura affatto, e da "anziana" da una sempreverde Stefania Sandrelli, credibilissima). Magari sbaglio, magari questa è solo un'idea che mi sono fatto: purtroppo, per quanto si sforzino, Mastandrea, Pandolfi e Ramazzotti riescono a sembrare toscani (anche se qualche ciak io l'avrei fatto rifare, perchè qualche inflessione romana scappa, qua e là, a tutti e tre), ma non perfettamente livornesi (leggi anche: non ci sono attori livornesi abbastanza "di richiamo" che possano fare i protagonisti di un film italiano importante); per cui è difficile fare delle distinzioni (come invece si potrebbero fare nella realtà, e si fanno: un toscano capisce subito da dove viene un altro toscano, così come succederebbe in altre regioni italiane), e quindi non è detto che, nelle intenzioni del regista, il padre dovesse essere un "extra-livornese". Certo è che il carattere del padre non è esattamente quello della madre, reginetta di bellezza con la passione del cinema, svampita, ingenua ma piena d'amore per i figli e per la vita, carattere che segna per sempre le vite dei due figli (come Bruno dice apertamente, in un'occasione quantomeno fuori dagli schemi).



Fatte tutte queste, anche tediose immagino, premesse, c'è da ribadire che il film parte un po' ingessato, dati i frequenti salti nel tempo, dopo di che prende una certa quota, si inizia a ridere e a calarsi nella storia. E' innegabile che le persone che più si rispecchieranno nella storia, sono i "fuori sede", quelle e quelli che, per motivi vari (soprattutto per lavoro), dalla provincia si sono trasferiti in grandi città. Insieme alle risate, però, si fa strada una certa amarezza, simile a quella di Bruno. Poi, insieme ai consigli del Dottor Malfatti, alla fine molto simili a quelli di mamma Anna, ci si rilassa, e, nonostante pian piano si arrivi al momento di massima commozione della storia, che ci racconta tutte, ma proprio tutte le complicate, strambe, deliziose peripezie di Anna, Bruno e Valeria, ci si compiace e ci si rispecchia nel finale del film.



Al tempo stesso, La prima cosa bella è un omaggio intenso ai maestri e alle ispirazioni italiane di Virzì. Sandrelli a parte, la ricostruzione, legata alla storia di Anna, di un set di Dino Risi a Castiglioncello, con una giovane Anna che è ingaggiata e deve dire una battuta davanti a Mastroianni (Bobo Rondelli dà la voce al fantasma di Marcello, quasi inudibile, ma perfetta) e a Risi stesso (interpretato dal figlio Marco), o il finale del film stesso, che si chiude a poche decine di metri da dove si concludeva Il sorpasso, tanto per dirne alcune, serrano un ideale cerchio cinematografico.



Un difetto grave, che purtroppo ogni tanto bisogna ricordare, e che accomuna molte produzioni italiane: il suono in presa diretta è orrendo: i primi 15 minuti non si capisce assolutamente niente. Macchina da presa sicura, fotografia leggermente diversa a seconda dei periodi storici, appena percettibile, direzione degli attori, ricercatezze linguistiche e vernacolari a parte, brillante e giocosa. Bravi i protagonisti e i personaggi (tanti, tantissimi) di contorno; tra questi ultimi, voglio nominarne, tra tutti, alcuni, meritevoli di menzione e tutti livornesi: Isabella Cecchi (la zia Leda), già vista in Non c'è più niente da fare, focosa e molto brava, a dispetto della parte che la relega nel ruolo dell'antipatica a tutti i costi, Emanuele Barresi (il Lenzi, tra l'altro regista del Non c'è più niente da fare citato poc'anzi), mastroiannesco nel suo personaggio, Fabrizio Brandi (Giancarlo, il marito di Valeria, vigile urbano, anche lui in Non c'è più niente da fare), una mitraglia verbale, travolgente nel suo livornese forbito e, di conseguenza, esilarante, Roberto "Bobo" Rondelli (il Mansani), dolente come nelle sue canzoni. Capitolo a parte per i due Bruno e Valeria bambini: Giacomo Bibbiani e Aurora Frasca, fantastici.



Concludo. Non è il miglior film di Paolo Virzì (a mio giudizio, rimane, al momento, Tutta la vita davanti; il più preciso nel dipingere la - triste - situazione sociale italiana). Probabilmente, non è neppure il più "livornese" (diciamo che questo La prima cosa bella è a pari merito con Ovosodo, ma tutti, compreso il già citato L'uomo che aveva picchiato la testa, sono tasselli che definiscono l'essenza del luogo d'origine di Virzì, ed è, credo, normale che un regista si porti dietro le proprie origini).

Certo è, che questo film è il suo più personale. E, pure in questa sorta di autobiografia romanzata e mascherata, Virzì riesce a non perdere la tenerezza, la sensibilità, il sarcasmo e l'ironia di cui è capace, come pochi altri in Italia.