No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20101130

ciao


Non si può dire che se ne sia andato sottovoce. Ma, senza pretendere di avere la verità in tasca, mi è parso di scorgere se non una sorta di coerenza nel suo gesto ultimo, quantomeno la spavalderia datagli da quella continua ricerca di verità che lo contraddistingueva. Qualcosa tipo "mi sono rotto i coglioni, sono stanco, m'ammazzo". L'eutanasia estrema.

A parte i suoi film, perfino le sue interviste ci mancheranno. Il suo occhio caustico, il suo parlare schietto, col quale sapeva raccontare senza sconti l'italietta.

Mario Monicelli.

jonah


Jonah Hex - Revenge Gets Ugly EP - Mastodon (2010)

EP abbastanza inutile per i Mastodon, colonna sonora per l'action-movie (inedito da noi) Jonah Hex, con Josh Brolin, John Malkovich, Megan Fox e Michael Fassbender.
Quattro pezzi interamente strumentali, due dei quali (Death March e Clayton Boys) replicati in una alternate version che si distacca pochissimo dall'altra.
Se non è superfluo questo...

uomo solitario


Solitary Man - di Brian Koppelman & David Levien (2009)

Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: peggio di roccosiffredi

New York. Ben Kalmen è ormai sulla sessantina, ma oltre che ad essere un edonista, affamato di soldi, per i quali non si fa troppi scrupoli, è un assatanato della conquista femminile. Divorziato da Nancy, con la quale conserva un buon rapporto, i due hanno avuto Susan, che è sposata con Gary ed ha un figlio, Scotty. Ben è un grande venditore di auto, ed è riuscito a mettere in piedi una specie di impero, sempre tentando di ingrandirlo. Adesso sta con Jordan Karsch, bella quarantenne, reduce da un divorzio ricco di soldi, che vive con la figlia, la diciottenne Allyson. Complice un'influenza che colpisce Jordan, la stessa Jordan chiede a Ben di accompagnare Allyson a Boston, per conoscere il college dove vorrebbe studiare, college che Ben conosce perfettamente: ha studiato anche lui proprio lì, lì ha conosciuto Nancy, e la biblioteca porta il suo cognome, visto che finanzia lautamente la scuola, per cui non ci saranno problemi per un incontro tra Allyson ed il rettore. Qualcosa che non dovrebbe accadere, accade, e dopo di ciò, per Ben cominciano i problemi.

Film interessante questo Solitary Man, che naturalmente inizia sulle note di Johnny Cash (un po' scontato, ma ci sta), ed ha un cast stellare. I due registi sono soprattutto sceneggiatori, hanno praticamente lavorato sempre insieme, spesso con Soderbergh (Koppelman è stato anche discografico, scoprendo Tracy Chapman), e mettono in scena una storia tutto sommato semplice, in molti passaggi anche prevedibile, ma con un finale aperto e con una giusta prospettiva morale (anche troppo, riflettendoci). Le interpretazioni sono tutte ottime, e Michael Douglas (Ben, un po' nella parte di se stesso, ricordiamoci i suoi problemi da sex-addicted) agisce ovviamente da mattatore assoluto. Certo, vederlo con il grembiule che serve hamburger non ci era mai capitato. Tutto il resto del cast ha un minutaggio ridotto. Mary-Louise Parker è Jordan, Susan Sarandon è Nancy, Jenna Fischer è Susan, Imogen Poots (l'abbiamo vista di recente in Centurion) è Allyson, Danny DeVito è l'amico Jimmy (quello che fa indossare un grembiule a Douglas). Potrei continuare, ma voglio solo aggiungere che c'è Jesse Eisenberg, in una parte simile a quella di The Social Network (è il protagonista, Marck Zuckerberg), e devo dire che ho capito perchè è stato scelto poi per quella parte: visto che si trattava di sparare dialoghi alla massima velocità, lui era quello giusto. E nella parte del nerd ci sguazza.
Non è passato al cinema, ma è uscito da poco in dvd.

20101129

varietà


Varieté - Marc Almond (2010)

Un po' come nel caso di Elvis Costello, anche per Almond possiamo parlare tranquillamente di classe superiore. Con questo nuovo disco, uscito in giugno, il vecchio Marc ci porta dentro un déjà vu ambientato, appunto, in un locale di varietà tipo Cotton Club, tra gli anni '20 e '30, nell'epoca del proibizionismo (tanto per stare sul pezzo, potrebbe fare da colonna sonora a Boardwalk Empire).
Certo, è un disco dell'anno 2010, per cui è naturalmente attualizzato, ma molti pezzi hanno quell'atmosfera, è quelli che non la hanno la mutuano.
Detto ciò, siamo poi di fronte ad uno di quelli che ha il dono di saper scrivere belle e semplici canzoni. Ecco quindi che già dalla traccia 2, Bread And Circus, una sorta di manifesto che introduce l'album, anche se prima di lei c'è pure un Intro, si ha l'impressione di essere al cospetto di canzoni quasi perfette. Il mood di Almond è sempre a cavallo tra il divertito e il passionale, e risulta encomiabile.
Un disco strano, ovviamente fuori dal tempo, ma molto interessante.

the time that remains


Il tempo che ci rimane - di Elia Suleiman (2010)

Giudizio sintetico: da vedere (4/5)
Giudizio vernacolare: risate a denti stretti eh

La storia, probabilmente in larga parte autobiografica, del regista e di suo padre, Fuad Suleiman, giovane palestinese di Nazareth che nel 1948 subisce l'occupazione israeliana, e della sua famiglia, che decide di rimanere nella propria città natale, a differenza di molti compatrioti che espatriarono, molti in Giordania, e vennero inglobati nella società israeliana sotto la voce di "arabi israeliani", anche detti "minoranza araba".

Vedere un film di Suleiman è un'esperienza straordinaria, e la cosa che ti viene immediatamente da desiderare è che ne faccia velocemente un altro. Dico questo, nonostante mi renda conto che i suoi film non siano esattamente semplici, scorrevoli, facilmente inquadrabili. A sette anni (otto, se si guardano le uscite italiane) dal precedente e bellissimo Intervento divino, il regista di Nazareth ci racconta, attraverso la storia della sua famiglia, cosa significa non avere una patria (come dice lui stesso nel suo documentario The Arab Dream "Non ho una patria per poter dire che vivo in esilio...vivo in postmortem: vita quotidiana, morte quotidiana"), vivere un'occupazione che dura ormai da 62 anni. E ce lo racconta con il suo stile, surreale, fatto di pochissimi dialoghi (il suo personaggio non dice una parola che sia una in tutto il film, nonostante sia presente in tre dei quattro blocchi che lo costituiscono), spesso apparentemente assurdi, e da episodi assolutamente metaforici che intervallano strampalati accadimenti, accadimenti però molto vicini alla realtà di quei luoghi. Nonostante quel che si possa pensare, si ride molto, ma quasi subito ci si accorge che le gag sono lo sberleffo verso un potere esercitato in una maniera illogica, ed insieme la maniera di esorcizzare una situazione ancora più contraddittoria ed incredibile.
Inquadrature fisse ma larghissimo uso di campi e controcampi, stacchi in nero, nessuna voce fuori campo e nessun uso di didascalie per spiegare dove siamo, in quale anno: solo un attento e dosato uso dei dialoghi e dei particolari basta e avanza.
Straordinario Saleh Bakri nei panni di Fuad (lo abbiamo visto nell'altrettanto straordinario La banda, occhi bellissimi e viso tagliente, qui mi ha ricordato Charlton Eston), bravo il regista nei panni di se stesso (molti critici lo avvicinano a Jacques Tati, io - come altri - a Buster Keaton), e bravo anche Ayman Espanioli che intepreta perfettamente Elia da teenager, allucinato come un gufo.
Difficile da descrivere oltre, da non perdere.

20101128

battute

Le rivelazioni di Wikileaks. Cicchitto: "una forma di terrorismo". Paura eh? Ma di che cosa, precisamente? Che esca fuori quello che veramente gli altri pensano dell'Italia e dei suoi vertici? O peggio?

Inchiesta sui fondi neri di Finmeccanica. Berlusconi: "suicida indagare contro chi costituisce con la propria capacità operativa, la forza del paese". Giusto. Finalmente una cosa di destra: lasciamo che i potenti rubino in pace. Tra l'altro, non essendo a conoscenza di interessi di Berlusconi in Finmeccanica (ma non escludiamo che ne escano in seguito), finalmente un commento disinteressato sulla giustizia, da parte sua.

Ogni altro commento è superfluo. Ogni persona che ha una testa ed è in grado di articolare un ragionamento, anche semplice, capisce che due affermazioni di questo tenore sono, usando un francesismo, stronzate.

divertimento


Funstyle - Liz Phair (2010)

Devo purtroppo concordare con la stragrande maggioranza della critica: il sesto disco della statunitense, uscito in luglio, fa piuttosto schifo. Ed è un peccato.
Eternamente sospesa tra l'alt-rock di qualità, e la versione sboccata di Sheryl Crow, dotata di classe innata (You Should Know Me) e del dono del songwriting, la Phair dà sempre e costantemente l'impressione di prendere per il culo l'universo: ascoltare U Hate It o Smoke per credere. Ecco che giustamente, uno ascolta Satisfied, e, come si chiede correttamente Douglas Wolk di Pitchfork, "è Liz Phair che sta suonando una power ballad alla Bryan Adams, condita pure da un testo infarcito di clichés, oppure è Liz Phair che sta facendo la parodia di una power ballad?".
Insomma, sembra quasi un disco fatto per puro divertimento, e per ricevere recensioni negative da ogni dove. Liz Phair che fa un bhangra-rap (Bollywood)? Un classico I don't give a fuck. Potrebbe essere.

freaks on the road



Carnivàle - di Daniel Knauf - Stagioni 1 e 2 (12 episodi ciascuna; HBO) - 2003/2005





Cinema compreso, mi pare di poter dire che Carnivàle sia la cosa più dark dai tempi di Twin Peaks, dove per dark si intende un'atmosfera vicina al misticismo biblico alla Nick Cave. Stiamo parlando di una serie non molto conosciuta, che nelle intenzioni del creatore doveva svilupparsi su 3 cicli di 2 stagioni cadauna, quindi in definitiva di 6 stagioni: è arrivata solo a due, e aggiungerei purtroppo, perchè vi assicuro che è veramente appassionante. Siamo dalle parti di un Von Trier meno ironico, con questo serial, che, ambientato nei primi anni '30 nella provincia profonda e agricola degli USA, periodo della Grande Depressione e del Dust Bowl (entrambe gli accadimenti, in un certo senso, sono protagonisti della serie), mette in scena la più classica delle lotte tra il bene e il male, costruendo il tutto con due racconti paralleli, da una parte l'orfano Benjamin "Ben" Hawkins, raccolto dai membri del Carnivàle non per caso, che scopre di aver ereditato dal padre, conosciuto di sfuggita, a differenza della madre, un "dono" che gli permette di guarire le persone da ogni male, e di decidere sulla vita o sulla morte, ma solo a certe condizioni, dall'altra Padre Justin Crowe (brother Justin, nell'originale), prete metodista in apparenza devoto, in realtà erede anch'egli di un dono di natura opposta.


Quando la madre muore, per quella che a tutti, spettatore compreso, pare una coincidenza buffa, il Carnivàle (in inglese il carnival è un po' il nostro Luna Park) passa in prossimità della casa e del terreno degli Hawkins, a Milfay, Oklahoma. Il Carnivàle è uno show itinerante come tanti altri, con la donna barbuta, l'omone forzuto, le gemelle siamesi, la veggente, nani e ballerine, e la ruota panoramica. Già questo è un tributo al culto del mitico Freaks, il film di Tod Browning del 1932 (e devo dire che le assonanze non si esauriscono con la presenza di alcuni freaks), ed infonde immediatamente una certa aura di interesse, divertimento e simpatia all'allegra (ma non troppo) comitiva, e quindi alla visione. Non finisce qui: chi decide il circuito da seguire è il nano Samson, che risulta essere una sorta di gestore. Samson però prende ordini da un personaggio misterioso, che non esce mai dalla sua roulotte (e si vedrà molto in avanti nel corso della serie, anche se si scoprirà che...), tanto che qualcuno arriva a non credere che esista.


Le similitudini con Twin Peaks, oltre al fatto che Samson è interpretato dalla figura naturalmente evocativa di Michael J. Anderson (lo stesso nano che in Twin Peaks interpretava The Man from Another Place), non finiscono qui. Il mistero ammanta tutta la serie, le rivelazioni avvengono poco a poco, e l'elemento onirico è utilizzato a piene mani. La struttura è piena di allegorie e riferimenti mitologico/biblici (chi ne avesse voglia si può leggere l'esauriente scheda Wikipedia, sezione Mythology of Carnivàle), avvincenti, coinvolgenti, che rendono ogni passaggio teso. L'ambientazione è particolarissima, il vento e la polvere, come detto in apertura, contrassegnano e scandiscono il tutto, gli attori e le attrici che fanno parte del Carnivàle, continuamente sporchi e scarmigliati, sono l'esatto opposto della quotidianità della casa sempre impeccabile di Padre Justin e della sorella Iris. Così come dev'essere, del resto.


Cast indovinato, interpretazioni ragguardevoli, regie indiscutibili. Tra le facce già viste, oltre a Michael J. Anderson, Nick Stahl (Terminator 3, La sottile linea rossa) è Ben Hawkins, il fulcro della storia, e se la cava alla grande, Adrienne Barbeau (The Love Boat), anziana ma conturbante quanto basta, è Ruthie, Clea DuVall (Ragazze interrotte, 21 Grammi), bellezza strana, personaggio enigmatico e combattuto è Sofie, Carla Gallo (Californication), mento prominente come la DuVall, fisico da top-model, sguardo da bambina è Libby, bravi pure Tim DeKay (Tell Me You Love Me), faccia, come gli autori cercavano nel casting, da vero giocatore di baseball degli anni '30, che è Jonesy, Diane Salinger muta, catatonica ed inquietante nei panni di Apollonia (la madre di Sofie), Patrick Bauchau è Lodz, altro personaggio chiave, John Savage (Il Padrino III) è Scudder, che invece è un po' il "fulcro retroattivo" della storia; mi spiace non citare anche Debra Christofferson (Lila), Cynthia Ettinger (Rita Sue), Toby Huss (Stumpy) che è uno di quelli che mi ha più impressionato, Amy Madigan (Iris Crowe), John Carroll Lynch (Varlyn Stroud), Robert Knepper (Tommy Dolan).
La palma dell'interpretazione più sconvolgente, però, va di diritto a Clancy Brown, nei panni di Brother Justin, un caratterista con una carriera forzata nei panni del villain, e addirittura nei videogiochi, con una voce sconvolgentemente profonda (parte della sua carriera, infatti, si basa anche su questa; è per questo che dovreste vedere la serie in lingua originale). Perfetto nei panni dell'antagonista, in bilico tra il bene e il male.

Leggendo quali potevano essere le trame delle eventuali stagioni seguenti, si potrebbe anche sospettare che l'appeal sarebbe scemato, ma è indubbio che con queste due andate in onda si possa certamente parlare di una delle cose più interessanti che la televisione abbia proposto negli ultimi tempi. Buona visione.

20101127

ten


10 - Linea 77 (2010)

Ennesimo disco dei torinesi, uscito in aprile, che nonostante tutto mi pare proseguire il loro cammino onesto, seppure mi diano l'impressione di essere sempre un po' "in ritardo", rispetto a quello che accade nella musica a livello mondiale. Potrebbe essere un'impressione personale, ma non so se c'era proprio bisogno di andare in California e farsi produrre da Toby Wright, per fare un disco così. O forse si.
Ad ogni modo, il disco suona bene, si sente che i particolari sono curati ed i pezzi sono il frutto di una buona dose di lavoro. I testi sono molto attuali (Aspettando Meteoriti è il mio preferito), anche se, mettendo insieme quel che ho detto prima con questo tema, il disco suona talmente americano, che l'italiano sembra, in diversi momenti, sposarsi poco bene con il resto. E' una sensazione un po' difficoltosa da spiegare, ma chissà che non sia la stessa che proverete all'ascolto.
Riassunto finale: disco di lusso per il metal italiano, disco mediocre nel panorama metal mondiale.

60


Studio 60 On The Sunset Strip - di Aaron Sorkin - Stagione 1 (22 episodi; NBC) - 2006/2007

Per chi fosse rimasto colpito dalla dinamicità dei dialoghi di The Social Network, vedersi questa serie, purtroppo durata solo una stagione, può essere interessante. Aaron Sorkin ha scritto pure le prime quattro stagioni di The West Wing, e per il cinema Il Presidente - Una storia d'amore, La guerra di Charlie Wilson e Codice d'onore (basato su una sua commedia teatrale), più altre cose per il teatro.
La serie tratta di uno show televisivo statunitense, vagamente ispirato al Saturday Night Live, che va in onda da anni su un immaginario canale tv, la NBS; sketch graffianti e sarcastici, condite da un telegiornale ironico, ogni volta presentato da un ospite famoso, e con intermezzi musicali spesso affidati ad altrettanti ospiti musicali famosi. Nel momento in cui la presidenza della programmazione di intrattenimento viene affidata ad una giovane e rampante, ma molto umana, manager, Jordan McDeere (interpretata da Amanda Peet), lo show principe della rete, appunto Studio 60, subisce una sorta di trauma. Wes Mendell, il creatore dello show, viene licenziato da Jack Rudolph, il chairman della rete, a causa di una sua invettiva in diretta, dopo che gli è stato imposto di tagliare uno sketch. In emergenza, c'è da ridare una leadership allo show, e Jordan, insistendo con Jack, offre il posto a Matt Albie (interpretato da Matthew Perry, l'indimenticabile Chandler Bing di Friends) e Danny Tripp (Bradley Whitford, The West Wing), rispettivamente scrittore e produttore, connubio inscindibile, momentaneamente invischiati in vicende varie, che non permettono loro di realizzare un film. I due facevano parte dello staff di Studio 60 fino a pochi anni prima, ma erano stati fatti fuori. Dopo qualche tentennamento, dovuto soprattutto al passato proprio in quello show, accettano.

La serie è più che godibile. Perennemente in bilico tra visione critica dello star-system e del mondo della televisione, critica sociale e romanticherie, senza dimenticare problematiche di razzismo e droga, non è certamente una serie di puro e semplice divertimento: chiede attenzione, soprattutto, naturalmente, ai dialoghi, scoppiettanti e a raffica, fatti di ironia tagliente a 360 gradi, e specchio adrenalinico di una lavorazione di quel tipo. Un po' ripetitiva e a volte pesantuccia la storia tira-e-molla tra Matt e Harriet (Sarah Paulson), una delle stelle dello show ed ex fidanzata di Matt, ma necessaria proprio per come è stato costruito il personaggio di Harriet, per niente secondario, che incarna una cristiana devota (più o meno), che però si trova a lavorare in tv e nel cinema, per cui sottoposta a continue difficili scelte, tra le quali le schermaglie con Matt.
Potrebbe piacervi.

20101126

sorellanza mondiale


Sisterworld - Liars (2010)

Vi dico subito che il mio rapporto con i newyorkesi trapiantati a Berlino, non è dei migliori. Mi è capitato di vederli dal vivo e non li ho proprio retti, andandomene ben prima della chiusura, nonostante sappia benissimo che in molti amano i loro live show. Il loro Drum's Not Dead, da molti considerato una pietra miliare, non sono proprio riuscito a capirlo.
Ponendomi davanti a questo ultimo lavoro, uscito nei primi mesi del 2010, che consta di un artwork molto ricercato ed accattivante, ho dovuto tornarci sopra molte volte, per cercare di raccapezzarmici. Indice quantomeno di un lavoro complesso, strutturato, o almeno complicato per le mie orecchie.
Si scomodano sempre paragoni altisonanti, e non ne cercherò altri. La musica dei Liars è pazza, asimmetrica, ingloba moltissime influenze, dal noise al punk, i tre infarciscono i pezzi, spesso tesi e densi di un'atmosfera vagamente drammatica, comunque mai rilassante e accomodante, di spunti elettronici, di fiati, carillon, di chitarre ora pulite ora distorte in maniera minimale e sporca, creando un effetto lisergico che, ne sono sicuro, per alcuni ascoltatori può risultare catartico. Tra la selvaggia apertura di Scissor (che si alterna con un paio di parti rallentate, quasi da celebrazione religiosa) e la conclusiva nenia di Too Much, Too Much, si attraversa un universo malato e decadente: quello dei Liars, appunto, che cattura, e che di certo lascia in testa una sensazione di stordimento. Di certo, tra i pezzi dei Liars, e di questo loro quinto lavoro Sisterworld, non troverete pezzi da canticchiare sotto la doccia.

l'erba in tour


Weeds - di Jenji Kohan - Stagione 6 (13 episodi; Showtime) - 2010

La prima notizia è che Weeds non si ferma alla sesta stagione: per la prossima estate è già schedulata la settima. Che, però, dice il creatore Kohan, potrebbe essere l'ultima e durante la quale Nancy potrebbe morire. La qual cosa mi sembrerebbe quella più credibile di tutta la serie.
Detto questo, la sesta stagione mi ha decisamente preso più della scorsa, la quinta. La famiglia Botwin and friends fuggono dopo il fattaccio che chiude la stagione precedente. Un serial on the road, dove l'umorismo (anche e soprattutto macabro) sovrasta il thriller.
Ci sono diversi momenti spassosi, e alcuni episodi sono davvero travolgenti. Meno tempo per la vena comica del personaggio di Doug, largo spazio come sempre a quello di Andy, si fa sentire quello del giovanissimo Shane, personaggio che avrebbe potuto diventare davvero interessante (se però ci rimane un'altra stagione sola, questo non sarà possibile).
Guest star per questa stagione: Linda Hamilton, Peter Stormare e Richard Dreyfuss. Divertenti tutti e tre. Interessante poteva essere l'irruzione sulla scena del reporter Vaughan Coleman, che pone la domanda che un po' tutti avremmo voluto porre a Nancy: perchè. Semplice da porre, evidentemente complicata da argomentare, risposta che in effetti non arriva. E forse non arriverà mai.
Notevole anche la "sorpresa" riservata a Silas. E le scarpe di Guillermo? Priceless.

20101125

le luci della felicità


Per ora noi la chiameremo felicità - Le luci della centrale elettrica (2010)

Diciamocelo: era prevedibile, che già al secondo disco, Le luci della centrale elettrica aka Vasco Brondi, mostrasse la corda. E' naturale che sembri tutto già sentito. Lo stile è quello, già sviscerato perchè era qualcosa, all'esordio, di strano e di mai (o quasi mai) sentito. La musica è ripetitiva, lo era già con le Canzoni da spiaggia deturpata, che pure mi era piaciuto molto, e che aveva un senso, perchè erano poco più di un tappeto ai testi caotici, ermetici e surreali-ma-non-troppo.
Certo, qualcosa si muove. Accenni di un cantato leggermente diverso in alcuni passaggi (I nostri corpi celesti, Una guerra fredda), arricchimenti armonici, tramite elettronica ed archi, alle musiche; ma è davvero poca cosa per registrare un progresso, una variazione, un arricchimento.
Il disco lascia poco, molto, molto meno del precedente. Il prossimo ci dirà se Brondi è stato una meteora, oppure no.

bored to death, cut, mad and lonely


Bored To Death - di Jonathan Ames - Stagione 2 (8 episodi; HBO) - 2010

Jonathan Ames, il protagonista della serie, non il creatore, nella seconda stagione, oltre che scrivere per la rivista dell'amico/mentore/padre sostituto George Christopher, e fare l'investigatore privato senza licenza, comincia ad insegnare scrittura creativa per un corso serale.
Detto questo, mi fa piacere essere stato buon profeta quando parlai della prima stagione: le potenzialità c'erano, ed effettivamente questa seconda stagione è stata scoppiettante e divertentissima. Un fuoco di fila di situazione grottesche e di battute molto divertenti; l'alchimia tra Jonathan, George e Ray, interpretati rispettivamente da Jason Schwartzman, Ted Danson e Zach Galifianakis, è riuscitissima. Inutile aggiungere che le interpretazioni vanno di pari passo. C'è da dire che Schwartzman, in definitiva, fa la spalla sia a Danson che al sempre più travolgente Galifianakis, che effettivamente sta diventando il valore aggiunto di Bored To Death. Molto divertente anche la rivalità tra Jonathan e Louis Green (John Hodgman).
Spassoso.
HBO conferma che nel 2011 ci sarà la terza stagione.

20101124

qualche guaio


Some Kind Of Trouble - James Blunt (2010)

Ebbene si, i più attenti se lo ricorderanno, in passato ho apprezzato entrambe i dischi precedenti di Blunt, nonostante la scontatezza e la prevedibilità della sua musica e dei suoi testi. Per cui attendevo (anche) questo suo nuovo lavoro. E' evidente che i limiti succitati, al terzo "passo", vengono al pettine. Poco da fare.
Disco direi imbarazzante, che non riesce a pungere, a toccare, a divertire, o a coinvolgere, neppure superficialmente, nemmeno nel singolo scelto come apripista.

la domestica


Affetti & dispetti (La Nana) - di Sebastiàn Silva (2010)

Giudizio sintetico: da vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: il lavoro nobilita...com'era?

Santiago del Cile. Raquel è a servizio come tuttofare in una casa dei Valdés, una famiglia benestante, da 23 anni. Ha cresciuto tre figli, Camila, la più grande, adesso adolescente, che comincia a scontrarsi col carattere di Raquel, e due maschietti un po' più piccoli. Non torna mai a casa da sua madre, con la quale intercambia solo brevi e sporadiche telefonate, esce pochissimo, si comporta ormai come se fosse una di famiglia. In casa le vogliono bene, e le perdonano qualche comportamento non proprio lineare. Ma Raquel è stanca e stressata, ha continui mal di testa squassanti, assume troppi medicinali, fin dal mattino presto. Se ne accorgono tutti, e, non avendo problemi di soldi, decidono di affiancarle un'altra nana (domestica), per farla lavorare meno. Raquel interpreta questa decisione come un segnale di ostilità, un qualcosa che minaccia la sua totale appartenenza a quella famiglia, nonostante lei sia sempre la nana, e non una familiare, e in maniera decisa e perfino scriteriata, decide di boicottare la prima collega, una ragazzina peruviana, con la quale ha vita facile, e poi la seconda, una donna non più giovane raccomandata ai Valdés dalla nonna, cambiando leggermente metodo ma raggiungendo ugualmente l'obiettivo: se ne va anche lei. Nel frattempo, la situazione di salute di Raquel peggiora.
Ecco che, durante alcuni giorni di convalescenza di Raquel, dopo uno svenimento, arriva Lucy. Lucy cambia le carte in tavola, col suo atteggiamento positivo, gentile, comprensivo e complice, ma soprattutto, l'atteggiamento di una persona che non vive per lavorare, anche se il suo lavoro lo svolge come si deve.

Secondo lungometraggio per il giovane regista cileno, film che ha vinto molti premi in giro per il mondo (anche a Torino), La nana, tradotto disastrosamente in Italia con un tristissimo Affetti & dispetti, è un film semplice e minimale, ma diretto, divertente e al tempo stesso crudele in alcuni passaggi, ma con un bel "percorso" di re-umanizzazione della protagonista, inizialmente lobotomizzata dal lavoro ma soprattutto dall'assenza di un qualcosa di proprio, e dalla proiezione di un'immaginaria appartenenza alla famiglia per la quale lavora.
La tecnica è, appunto, minimale, le riprese e i movimenti di macchina poveri ed essenziali, la fotografia dimessa, ma la resa è prepotente, le interpretazioni ottimali, lo schema semplice (nella prima parte si arriva a temere una tragedia, nella seconda si segue la tenera riscoperta di una se stessa anestetizzata, da parte della protagonista) ma di un certo effetto.
L'interpretazione di Raquel da parte di Catalina Saavedra è in un certo senso anticonvenzionale, ma di grande rilevanza. Grande realismo anche da parte del resto del cast.
Film interessante.

20101123

spirale d'ombra


Spiral Shadow - Kylesa (2010)

Posso affermare senza timore di essere smentito che i Kylesa sono una delle cose che suonano più nuove, nell'ambito metal. Vengono dalla Georgia (USA), ed hanno una line-up strana: due chitarre, un basso e due batterie, i due chitarristi cantano a turno. Ad una delle due chitarre c'è una donna, Laura Pleasants, che è pure l'unica a non arrivare dalla Georgia.
Suono massiccio, quindi, ma riflessi di una quantità enorme di influenze. Un elegante (credetemi, è proprio elegante) mix tra punk, stoner, sludge, psichedelia, belle parti melodiche, struttura dei pezzi articolata, in questo disco addirittura si colgono perfino riff soundgardeniani, uso di fuzz, ed echi dei migliori Jane's Addiction, o della loro versione heavy metal, gli Warrior Soul (Drop Out), senza escludere parti sorprendenti, a partire dall'introduzione dell'opener Tired Climb, un tappeto di drumming tribale (doppio), con arpeggi decisamente da alternative rock, che sfociano in un riff sabbathiano. Una roba davvero piena di idee, ma non per questo di difficile ascolto: godetevi l'assolo space posto in mezzo a Cheating Synergy, che si intervalla ad un riff di puro granito. Imperdibile pure il pezzo di chiusura Dust, probabilmente la canzone più bella del disco, realmente superba, ma è nella sua interezza questo disco è decisamente uno dei migliori ascoltati in questo 2010.

black sheep


La pecora nera - di Ascanio Celestini (2010)

Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: boia vanto 'iacchera celestini

Nicola è nato a Roma nei "favolosi anni '60", una Roma di periferia ancora semi-contadina. Lo cresce la nonna, soprattutto, una nonna che possiede un pollaio e che offre a tutti uova talmente fresche che "puzzano ancora del culo della gallina". La madre è in manicomio, il padre fa il pastore con i due fratelli molto più grandi di Nicola. A scuola va male, è troppo distratto, vive in un mondo tutto suo. Poi, succede qualcosa.
Lo ritroviamo una trentina d'anni dopo, proprio nel manicomio dove stava sua madre, e la nonna lo accompagnava, offrendo le uova alle suore. Ogni giorno va al supermercato a fare la spesa con la suora che gestisce il manicomio, e l'amico Nicola, che è proprio matto...

Celestini debutta al cinema con un'opera che ha già portato a teatro e che è diventata un libro. La struttura è evidentemente teatrale, e quindi poco cinematografica: tutta la storia è sorretta da una sorta di monologo del personaggio protagonista, naturalmente interpretato da Celestini, che appesantisce il tutto, soprattutto perchè lo stile di Celestini, per chi non lo conoscesse, è fatto da raffiche di parole e un uso reiterato dei tormentoni. Mai troppo stupidi (anzi), sia chiaro.
Metteteci inoltre un'ambientazione in maggioranza in interni, piuttosto claustrofobici, una fotografia non brutta, ma senza dubbio deprimente, e un uso piuttosto intenso dei flashback, per spiegare, a cerchi concentrici, cosa è accaduto in quei trent'anni da una parte, e cosa sta accadendo adesso al protagonista, e vi renderete conto subito che il film non è di quelli godibili e scorrevoli.
Nonostante ciò, mi sento di dire che La pecora nera è un lavoro ammirevole. Perchè la struttura, di cui sopra, che porta pian piano alla conclusione, è ben congegnata, e perchè tutto il film è costellato da un umorismo amaro ma (ovviamente) divertente, e non mancano i momenti di pura poesia. Senza parlare della riflessione sulla malattia mentale, e su come veniva trattata prima della Legge Basaglia.
A parte Celestini, che la maggior parte di voi conosce, ed è, in questo film, com'è in televisione o a teatro, ottime le prove di Giorgio Tirabassi (l'amico del protagonista) e di una Maya Sansa (Marinella) un po' inedita, che recitando senza il vincolo della dizione controllata risulta diversa dal solito. Curiosità: nei panni del padre del protagonista c'è Nicola Rignanese, già partner di Antonio Albanese (il figlio di Perego; "Emergency, by Gino Strada"), ed in quelli della suora di colore c'è Igiaba Scego, scrittrice italiana di origine somala, della quale ho pubblicato anche alcuni articoli, e che scrive anche per Internazionale.

20101122

ricordi chi sei?


Korn III Remember Who You Are - Korn (2010)

C'è chi si chiede se valga la pena scrivere più di un paio di righe per commentare dischi di una band bollita da anni. Lo trovo giusto. I Korn, persi pezzi importantissimi per strada, e persa anche quella carica distruttiva/angosciante e malata che li ha fatti scrivere pagine importantissime del nu metal con i primissimi dischi, al nono disco (ma lo sono già da parecchi dischi addietro) sono ormai la cover band di se stessi. Non sono i primi, non saranno gli ultimi.
Purtroppo, non c'è niente altro da aggiungere.

l'assassino che è in me


The Killer Inside Me - di Michael Winterbottom (2010)

Giudizio sintetico: da vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: uni sta tanto bene lulì

Annni '50. Il Vice Sceriffo Lou Ford mantiene l'ordine in una cittadina di provincia del profondo Texas. Persona apparentemente tranquilla e riflessiva, è in realtà una persona terribilmente pericolosa.

Mi fermo qui con l'accenno di trama, perchè anche l'effetto sorpresa, seppure lo spettatore non si aspetti certo un film romantico con tale titolo, è importante.
Tratto da L'assassino che è in me, libro del 1952 di Jim Thompson, dal quale era già stato tratto un omonimo lavoro nel 1976 (diretto da Burt Kennedy), l'ennesimo lavoro del prolifico inglese, dai risultati alterni, amato ed odiato allo stesso modo, è un film che sicuramente scontenterà chi si aspetta, vista la storia, qualcosa alla Tarantino. E, badate bene, già dalla sua presentazione, ha subito pesantissime critiche, soprattutto per la ferocia di almeno un paio di scene di violenza perpetrate sulle due attrici principali. Quindi, non siamo certo davanti ad un prodotto edulcorato in qualche maniera, anzi.
Altra cosa che mi ha colpito parecchio, è stato leggere recensioni durissime, argomentate spesso con teorie opposte. C'è evidentemente qualcosa che non va.
Il contrasto è alla base di questo film. I titoli di testa farebbero pensare a qualcosa di tarantiniano, mentre poi ci si trova di fronte ad un monologo interiore del protagonista. Se si escludono appunto le scene citate poc'anzi, e qualcosa d'altro, il film è lento, pulito fin nella fotografia, supportato da una colonna sonora che quasi anestetizza l'atmosfera, ma la rende molto più vicina a come si pretendeva la realtà di quei luoghi in quei tempi. Un po' come la musica che ascolta Lou Ford, i libri che legge, rispetto alle sue reali azioni.
Direi che il senso è già tutto qui. E non è poco: certo, è destabilizzante. Mi pare palese l'intenzione di Winterbottom.
Mi è parsa decisamente convincente la prova di Affleck (Casey) nei panni di Lou Ford, che riesce perfino a modulare in maniera corretta la sua vocina da eunuco (sforzo che, ne sono quasi sicuro, sarà distrutto con il doppiaggio italiano), mentre encomiabili nella loro mediocrità risultano Jessica Alba (Joyce), talmente carina da risultare innanzitutto poco credibile nei panni della prostituta, ma al tempo stesso talmente carina da rendere ancor più impressionante una delle due scene di estrema violenza citate in apertura (dove, provo a fare un giro di parole per non dire troppo, viene letteralmente trasfigurata), e Kate Hudson (Amy), che ce la mette tutta, ma ci rimane il dubbio che con altre due attrici, di una caratura superiore, il tutto avrebbe assunto una dimensione più grande.
Un film che non liquiderei superficialmente.

20101121

surfando il vuoto


Surfing The Void - Klaxons (2010)

Secondo disco per i londinesi dopo il debutto del 2007 Myths Of The Near Future. Catalogati (anche) alla voce synth rock, forniscono una ulteriore prova della derivazione del più classico brit rock miscelata appunto con un'elettronica poco invadente, appena protagonista.
I pezzi sono quasi tutti discreti, il songwriting c'è, ma non è di quelli killer, anche se bisogna ammettere che l'incrocio tra le chitarre sferraglianti (ma non in primissimo piano) ed il loro uso dosatissimo di elettronica, aiutata dal basso molto compresso, dalla batteria usata spesso in maniera tribal-percussiva, e dai filtri per le voci, genera un'atmosfera vagamente doomsdayana, o quantomeno post-atomica.
Non mi ha sconvolto più di tanto, ma avranno un loro pubblico.

rete sociale


The Social Network - di David Fincher (2010)

Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: pare un firme d'azzione e 'nvece so' sempre rinchiusi in quarche stanza

La nascita di Facebook, il social network che ha sconvolto gli ultimi 7 anni della rete (e no) e le relazioni sociali (di tutti), e le battaglie legali che sono seguite a quel momento, alla sua crescita inarrestabile, al giro vorticoso di denaro che ha generato. Al centro di tutto questo, "il più giovane miliardario del mondo" (Forbes), Mark Zuckerberg, nerd, genietto informatico dall'intuizione più che brillante.

Inaspettatamente, un film davvero eccitante. Inaspettatamente fino ad un certo punto. Basato sul libro Miliardari per caso - L'invenzione di Facebook: una storia di soldi, sesso, genio e tradimento, di Ben Mezrich, sceneggiato da Aaron Sorkin, uno dei migliori scrittori di dialoghi che si aggira ultimamente nel campo cinematografico statunitense (ha un cameo nel film), aveva il problema di essere troppo parlato e troppo lungo. Pare che Fincher, regista che ultimamente aveva lasciato un po' interdetti, ma al quale dobbiamo film come Seven, The Game e Fight Club, abbia risolto il problema facendo leggere i dialoghi tutti d'un fiato, cronometrando il tutto. Il risultato stava dentro le due ore, e lui si è regolato così: ha costruito il film sui dialoghi, rendendolo quasi un film d'azione, nonostante ci sia una sola vera scena in esterno. Questa è la prima magia di questo The Social Network. Non tarderete ad accorgervene: i dialoghi cominciano ancora prima delle immagini. E' un dialogo tra Erica e Mark, ed è sia l'elemento scatenante del genio, sia un primo ma già approfondito profilo psicologico del protagonista Zuckerberg, tracciato proprio dalla (ex?) fidanzata. Dopo quello, un diluvio di intuizioni, algoritmi al servizio dell'informatica, idee rubate, migliorate, modificate, party, scambi di informazioni, discussioni pre-processuali tra accusati, accusatori, avvocati, assistenti. Un ritmo forsennato, una storia complessa ma non impossibile da seguire (certo, dovrete prestare una certa attenzione), avvincente nonostante i bene informati sappiano già come va a finire, che ti tiene inchiodato per poi, dopo, darti spunti di riflessione non stupide. Ottima l'intuizione di intervallare i piani temporali, soprattutto quando i vari protagonisti rispondono alle domande degli avvocati, e il regista (o lo sceneggiatore, o tutti e due insieme, questo non è dato sapere) trasforma le risposte nell'azione avvenuta tempo prima, ricostruendo così, vagamente alla 21 Grammi, la storia un po' alla volta.
La regia giocoforza si basa tutta su campi e controcampi, e si "sfoga" nella scena della gara di canottaggio (l'unica esterna citata prima); il montaggio è fondamentale, la fotografia spesso è cupa o comunque tende allo scuro, ovviamente con tutti quegli interni, la musica, curata da Trent Reznor, usata con dovizia incalzante.
Gli attori sono ben diretti, anche quelli non protagonisti, e il lavoro di Jesse Eisenberg (Mark Zuckerberg), Andrew Garfield (Eduardo Saverin), Armie Hammer (i due gemelli Winklevoss), è ottimo. Un gradino sotto Justin Timberlake (Sean Parker, il creatore di Napster, pensate un po' il paradosso di questa interpretazione), che però non se la cava male.
Per finire, spunti di riflessione. Esilarante, ma tristemente attuale, la scena in cui Christy si arrabbia con Eduardo perchè non ha cambiato lo status (da single a fidanzato) sul suo profilo. Curiosamente però, le due battute che rimarranno, una a futura memoria, l'altra come summa del film, le dice Marylin, un'assistente dello studio che difende Zuckerberg, mentre parla con lui.
La prima, mentre Mark le dice che sta controllando come va (Facebook) in Bosnia, lei risponde "Bosnia. Non hanno le strade, ma hanno Facebook". L'altra, non ve la rivelo, ma fate attenzione: è l'ultima battuta del film. E, ellitticamente, fa il paio col dialogo iniziale, descrivendo alla perfezione il genio protagonista.
Film indovinato, che conferma regista e sceneggiatore come due eccellenze nei loro campi.

20101120

assumere la posizione d'urto


Assume Crash Position - Konono N°1 (2010)

Per chi vuole andare oltre ai Tinariwen, o Amadou & Mariam, ecco i congolesi di Kinshasa Konono N°1, abbreviazione del nome completo che sarebbe L'orchestre folklorique T.P. Konono N°1 de Mingiedi, al sesto disco e con già all'attivo collaborazioni di tutto rispetto con musicisti a noi più noti (Bjork, Herbie Hancock).
Se vi fosse capitato di vedere uno qualsiasi degli splendidi film a disegni animati di Michel Ocelot (Kirikù e la strega Karabà, e altri), potrebbe farsene un'idea, anche se i Konono non sono presenti nelle colonne sonore (dove invece trovate Manu Dibango e Youssou N'Dour), ma ci sono prepotenti le tipiche percussioni africane e l'uso del likembé elettrico, che genera il suono tipico.
Musica ripetitiva ma viva, ossessiva ma allegra. Per chi pensa che l'Africa sia il Waka Waka.

pachiderma


Mammuth - di Benoit Delépine & Gustave Kervern (2010)

Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: si vede che ha fatto la recrame della pastasciutta vai..

Provincia francese. Serge Pilardosse ha lavorato gli ultimi 10 anni in uno stabilimento di insaccati, non facendo mai un giorno d'assenza. E' enorme, pachidermico, ed è detto Mammuth non solo per la sua stazza, ma anche perchè la sua passione giovanile era una moto, una Munch Mammut, ma buono fino all'inverosimile. Se la prende solo un poco con gli oggetti. Certo, non è quello che si direbbe un'aquila: molti sostengono che è stupido.
Arriva il giorno della pensione, e Serge si accorge che gli mancano delle dichiarazioni che valgano come contributi per avere diritto ai soldi della pensione, e sono riferiti a lavori saltuari che ha fatto anni prima. Serge è inoltre inadatto, o quantomeno incapace di oziare, e per i primi giorni si aggira per casa e per il paese come un felino in gabbia, più che come un pachiderma. Vista la situazione finanziaria, la moglie Catherine, donna spiccia che però vuole un gran bene al marito, lo spinge ad inforcare di nuovo la moto, per andare a cercare i suoi vecchi datori di lavoro, e rimettere insieme il suo passato, per godere finalmente di una rendita senza dover più faticare.
Mammuth troverà molto di più.

Diciamolo subito: non mi aspettavo un film del genere dai registi di Louise + Michel, e a questo Mammuth manca qualcosa per divenire immediatamente un culto come il precedente, ma se non siete spettatori che cercano cose prevedibili, di certo non rimarrete delusi. Mammuth è ovviamente una sorta di on the road con una serie impressionante di scene madri assurde ma esilaranti, guidate dall'umorismo, come ebbi già a dire, vagamente alla Monthy Python dei due francesi (Kervern è nato alle Mauritius, per essere precisissimi), che nonostante il finale buonista, riesce a conservare una certa cattiveria e una sfacciataggine non comune (si veda, su tutte, la scena del reincontro di Serge col cugino Pierre, interpretato da Albert Delpy - il padre di Julie -, semplicemente fantastica). Metafore continue, distribuite a piene mani, in ogni momento del film, una scelta di fotografia completamente perdente (gli esperti dicono si tratti di un Super 16 mm reversibile, vi accorgerete che è strano, ma non mettetevi ad urlare "fuocoooooo", vi ho avvertito), Mammuth sembra un'agrodolce riflessione su un mondo che non ci piace, ma che dobbiamo imparare ad accettare.
Attori lasciati liberi di improvvisare, il cast è ovviamente dominato da un enorme (in tutti i sensi) Depardieu (se avrete la pazienza di aspettare la fine dei titoli di coda vi accorgerete inoltre che i due registi hanno dedicato il film ad un certo Guillaume), che nonostante le extension risulta meno ridicolo di quanto avreste potuto supporre, e rilascia una prova probabilmente indimenticabile, poi ci sono la sempre divertente e brava Yolande Moreau (Catherine), una inquietante Isabelle Adjani (l'ex fidanzata di Serge), bellissima nella sua plastificata eterna giovinezza, che viene fatta recitare con lo sguardo fisso nel vuoto, la sorpresa Miss Ming (Solange) che recita in pratica se stessa, artista francese poliedrica, attiva anche musicalmente con lo pseudonimo di Candy Rainbow, e una sempre irresistibilmente bella Anna Mouglalis (la truffatrice con le stampelle). Mi ha colpito pure la piccolissima ma deliziosa parte di Catherine Hosmalin, che è Danièle, la collega con la quale Catherine parte all'inseguimento della truffatrice.
Io dico che non dovreste perdervelo. E non stupitevi se, verso la fine, vi ritroverete un groppo alla gola. C'est la vie.

20101119

il dilemma del critico

cosa ci sia aspetta da un gruppo rock?
è una bella domanda!
è una domanda alla quale si risponde solitamente a posteriori.
quando ci va bene e il disco ci piace, ci si aspettava la bellezza e la grandiosità, la musicalità e le melodie accattivanti , l'energia, il genio o forse solo la leggerezza o forse non ci si aspettava nulla per questo ci piace.
quando non ci piace ci si aspettava, chissà perché, tutto. il cambiamento, il più rock, il più pop, meno violini, l'arrangiamento più facile, non essere così paraculo, l'evoluzione non come gli acdc che fanno lo stesso disco da 30 anni, la voce diversa, la batteria troppo davanti, il disco della conferma, il pezzo che spacca.

nonostante questo.
il disco nuovo di sufjan stevens è bellissimo.
si intitola the age of adz.

questo è il testo di
i walked


Lover, will you look at me now?
I’m already dead to you,
But, I’m inclined to explain what I could not before
Whatever you didn’t do, what you couldn’t say
I am sorry the worst has arrived,
For I deserve more,
For, at least, I deserve the respect of a kiss goodbye

And tell me, do you think of me now,
As I think of you?
For I could not have shaken the touch of your breath on my arm.
For it has stayed in me, as an epithet,
I am sorry the worst has arrived,
For I’m on the floor,
In the room where we made it that last touch of the night

I walked, ’cause you walked,
And I won’t probably get very far,
Sensation to what you said,
That I’m not about to expect something more.
I would not have run off,
That I could bear that it’s me, it’s my fault
I should not,
Be so lost,
But I’ve got nothing left to love.

Another,
Will you look from me now,
I’m already dead,
But I’ve come to explain why I left such a mess on the floor,
For when you went away, I went crazy
I was wild with the breast of a dog
I ran through the night,
With a knife in my chest with the lust of your loveless life

I walked, ’cause you walked,
And I won’t probably get very far,
Sensation to what you said,
That I’m not about to expect something more.
I would not have run off,
That I could bear that it’s me, it’s my fault
I should not,
Be so lost,
But I’ve got nothing left to love.

I walk, ’cause you walk,
I walk, ’cause you walk,
I walk, ’cause you walk,
I walked, ’cause you walked,
Yes, I walked, ’cause you walked.
Yes, I walked, ’cause you walked.
Yes, I walked, ’cause you were mine.

blues del fiume Harlem


Harlem River Blues - Justin Townes Earle (2010)

Ebbene si, sembra proprio di farlo apposta per incuriosire l'amico Monty. E invece sto solo andando in ordine alfabetico, salvo poi tornare indietro per qualcosa di nuovo. Terzo disco (più l'EP di debutto Yuma del 2007) per il figlio di Steve (Earle), ragazzone ex tossico non ancora trentenne, autore di un'americana influenzata (anche) dal bluegrass, tutto sommato piuttosto classica, al quale però non mancano i buoni pezzi. Disco spesso languido e malinconico, voce all'altezza.
Rogers Park, come altre cose, sa di Springsteen a pacchi, ma è obbligatorio commuoversi.

il centurione


Centurion - di Neil Marshall

Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: ir gradiatore due la vendetta?

Nell'anno 117 D.C., l'Impero Romano si estendeva dall'Africa al Nord Europa, e dalla Spagna fino al Mar Nero. Le Legioni romane incontravano però molte difficoltà a debellare la resistenza nel nord della Britannia, e gli indigeni chiamati Pitti si rivelarono difficilissimi da affrontare. La Nona Legione, che si era particolarmente distinta in passato nelle varie campagne di conquista, si trovava vicino al fronte a quel tempo, dopo di che se ne persero le tracce. Il regista inglese ce ne dà una spiegazione possibile.
Il centurione Quintus Dias, unico sopravvissuto ad un assalto dei Pitti, fugge verso le linee romane, e viene salvato appena in tempo dalla Nona. Il Generale che la comanda, Titus Flavius Virilus, lo accoglie e lo ingloba, certo che gli tornerà utile: il Governatore Agricola gli chiede di annientare i Pitti e il loro re Gorlacon, con l'ausilio di Etain, un'indigena muta che collabora con i Romani ed ha un fiuto da lupo.
Non sarà così semplice.

Il sostenutissimo Marshall si lancia in una sfida a Il Gladiatore di Ridley Scott, e se dal punto di vista prettamente tecnico rilascia un lavoro decisamente adrenalinico e valido, ne esce con le ossa rotte dal punto di vista dell'empatia del protagonista, e del coinvolgimento dello spettatore rispetto alla storia. Una generosissima prova del sempre bravo Michael Fassbender, decisamente l'attore più in vista per quanto riguarda l'Inghilterra (ultimamente in Fish Tank, Hunger, ma pure in Bastardi senza gloria, 300, e potrei continuare), non basta. Gradita pure la presenza di Dominic West (Titus) direttamente da The Wire, della bellissima Olga Kurylenko, che nei panni di Etain, quindi di una muta, riesce a fare la sua figura, come pure della poco conosciuta Imogen Poots nei panni di Arianne.
Marshall è coinvolgente nei combattimenti splatter, dove abbonda, per la gioia di chi si sfoga con la violenza finta, con gli zampilli di sangue, efficace con le panoramiche aeree (un po' troppe a dire il vero), aiutato in questo dagli splendidi panorami delle Highland scozzesi, assolute protagoniste di questo film insieme alle armature e alle spade, sceglie una bella fotografia virata verso toni scuri del verde delle foreste, che fanno da contrasto al bianco delle cime innevate, ma il film, che può anche essere letto metaforicamente e attualizzato con le "campagne" di pace in Iraq e Afghanistan, risulta alla fine piuttosto debole.
Certo che, dopo la "lezione" di Mel Gibson, parlo de La Passione di Cristo e Apocalypto, sentire i centurioni che parlano in un inglese (con l'accento inglese) per di più sboccato, lascia subito perplessi. Le parti in cui i Pitti parlano tra loro sono recitate in una lingua che non conosco, suppongo sia gaelico, anche se non sarebbe correttissimo, pare. Non sono ancora riuscito a capire se ci sia una data di uscita al cinema in Italia, o se il film uscirà direttamente sul mercato home video.

20101118

valle di fumo


Valley Of Smoke - Intronaut (2010)

Terzo full length per i losangelini dalla poderosa padronanza tecnica, che alternano cantati growl a quelli clean, che sempre con basi ritmiche chiaramente ispirate al jazz, innestano robusti riff prog-metal ad arpeggi suggestivi, costruendo lunghe suite post metal. Possono piacere a chi ha già nostalgia degli Isis, e perfino ai Tool maniaci, sempre che sopportino il growling.
Sulla lunga distanza, rispetto ai dischi precedenti, le basi jazzy paiono leggermente ripetitive, ma a chi ci si imbatte per la prima volta potrebbero interessare e affascinare.

the kids are all right


I ragazzi stanno bene - di Lisa Cholodenko (2010)

Giudizio sintetico: da vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: popo' d'attrighio

Los Angeles, Jules e Nic sono una coppia lesbica felicemente convivente da circa 20 anni. Nic è dottore, impiego fisso, mentre Jules ha il pollice verde ma un po' perchè evidentemente ha le idee meno chiare, un po' perchè c'era la sicurezza dell'impiego di Nic, ha meno successo nel lavoro: sta tentando di mettere in piedi una piccola impresa di architettura di spazi verdi, e la prima discussione che vediamo in ordine cronologico è sul fatto che, per cominciare, abbia comprato un pick-up, prima di avere dei clienti.
Jules e Nic hanno due figli, splendidi. La maggiore, Joni, ha 18 anni ed è in procinto di andare al college, avendo terminato la high school col massimo dei voti. Laser, il minore, ha 15 anni, non gli piace molto la scuola ma non è meno capace, ed ha un amico, Clay, skater e perditempo, che soprattutto Nic non vede di buon occhio. Ognuna delle due ha concepito uno dei due figli, con sperma preso da una banca del seme, dello stesso donatore.
E' una famiglia come tante. Alti e bassi, discussioni, litigi, preoccupazioni, difficoltà nel gestire l'adolescenza dei figli da una parte, e la ripetitività di un rapporto di coppia dall'altra.
A sconvolgere il tutto, l'insistenza, da parte di Laser, di conoscere il proprio padre biologico. Laser, per le leggi e per la politica statunitense, non può, avendo 15 anni, e si affida alla sorella maggiore Joni, che dopo qualche riluttanza, accetta. La banca del seme li mette in contatto, e i due ragazzi, all'insaputa delle madri, organizzano l'incontro. Il loro padre biologico è Paul, un thirty-something che ha una piccola azienda di coltivazioni bio, con annesso ristorante chic finto povero. Non ha una relazione fissa, ma ha una scopamica nella collaboratrice (al ristorante) Tanya, che diventa addirittura gelosa quando vede che un'altra collaboratrice (alle coltivazioni), Brooke, prova a flirtare con Paul. E' un tipo che all'apparenza è superficiale, abbastanza pieno di sé, ama le moto ed il buon vivere, senza troppe complicazioni intellettuali. Rimane spiazzato dalla richiesta di Joni e Laser, ma li incontra di buon grado, e tutti e tre decidono di continuare a vedersi.

Della Cholodenko ricordavo con interesse il suo Laurel Canyon di qualche anno fa, e devo dire che dopo i primi rumors su questo suo nuovo lavoro, una spruzzata di trama e qualche cenno sugli attori, ho cercato di vederlo assolutamente appena possibile, visto che, nonostante il clamore della sua presentazione alla Festa del Cinema di Roma, con annessa polemica da parte di Julianne Moore sull'omofobia del nostro attuale Primo Ministro, o magari proprio per quello, non esiste ancora una data di distribuzione italiana.
Si riconoscono in The Kids Are All Right tutti i temi che interessano la regista losangelina: sessualità in ogni sua sfumatura, problematiche dell'approccio liberal (nell'accezione statunitense) all'educazione dei figli, amore per la sua città, riflessioni sul tradimento, e perchè no, grande amore per la musica (che si evince fin dal titolo, naturalmente).
Senza troppi intellettualismi, e con un cast eccellente diretto in maniera impeccabile, il film è godibile e diretto al punto. Per niente didascalico, invita delicatamente alla riflessione, ed ha l'enorme pregio di affrontare la famiglia gay con assoluta naturalezza.
Già detto del cast, come spesso mi piace fare, vorrei puntare l'attenzione su un paio di punti "alternativi" ai soliti giudizi sulla Moore o sulla Bening, ottime e sempre belle in maniere differenti, o alla puntualità di Ruffalo, sempre attento e camaleontico all'occorrenza. La bellezza mozzafiato di Yaya DaCosta (Tanya), e la certezza che questo film avvicinerà alla consacrazione una stella: Mia Wasikowska, australiana di 21 anni appena, che molti ricorderanno per Alice In Wonderland, e che i più attenti avranno amato nella prima stagione di In Treatment nella parte (anche lì, stupenda) di Sophie. Anche in questo film è spontanea, semplice, bella e fragile. Straordinaria.

20101117

riscatto nazionale


National Ransom - Elvis Costello (2010)


Ho il massimo rispetto per Costello, pur non essendone un conoscitore "approfondito" ed esperto. Ho il massimo rispetto per lui soprattutto da quando ha sposato Diana Krall. Scherzo.

E' un grande. Fa un po' quel che vuole, e la storia degli ultimi 30 anni è costellata di sue grandi canzoni. Dal vivo è divertente, spassoso, trascinante, ha influenzato molta più gente di quanto si pensi. Il suo ennesimo disco, uscito in ottobre, suonato con i The Imposters e i The Sugarcanes, con partecipazioni di Marc Ribot, Buddy Miller, Vince Gill e Leon Russel, prodotto da T Bone Burnett, è un guazzabuglio meraviglioso di influenze che viaggiano a 360 gradi attraverso la musica moderna. E' praticamente impossibile da catalogare.

stanno tutti bene


Stanno tutti bene - Everybody's Fine - di Kirk Jones (2010)


Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)

Giudizio vernacolare: anche vesto mi par d'avello già visto


Suburbia ordinata statunitense. Frank Goode ha ricoperto per una vita i cavi telefonici di pvc (quindi avrà vita breve), adesso è in pensione e, come (purtroppo) spesso succede, è rimasto vedovo da pochi mesi. Non ha ancora cancellato la segreteria telefonica dove è la voce dell'amata moglie Jean che risponde. I quattro figli vivono lontano, sparsi nell'immensa distesa degli Stati Uniti d'America. Vorrebbe vederli, invitandoli da lui, visto che è anziano e un po' malandato, e decide per un barbecue, ma uno alla volta, come in uno stillicidio, i ragazzi e le ragazze disdicono, chi con una scusa, chi con un'altra. Frank è deciso a riannodare il legame, che sente gli è sempre sfuggito: era Jean infatti che parlava con i figli, che conosceva le loro storie, le loro insicurezze, i loro segreti. Nonostante il suo medico si opponga, Frank parte per un on the road attraverso gli States, tra treni e autobus, per andare lui da loro. Staranno tutti bene?


Remake hollywoodiano di Stanno tutti bene di Tornatore, fatto da un regista inglese che si è fatto le ossa con i commercial, dopo di che con un film divertente e apprezzabile quale Svegliati Ned, e uno da bambini come Tata Matilda. C'è da dire che dopo queste premesse, considerando che il film di Tornatore era si, anche divertente, ma pure e soprattutto molto malinconico (e pieno di riferimenti precisi ai cambiamenti, ai vizi e debolezze degli italiani), c'era da attendersi un disastro. Invece il film è tutto sommato innocuo, ma non rivoltante.

Innocuo e pure piuttosto prevedibile. No, sarebbe troppo facile dire che è prevedibile perchè la storia ricalca abbastanza fedelmente l'originale, ma è prevedibile perfino nelle sue variazioni. Quando Frank arriva da Rosie a Las Vegas, e vediamo apparire Katherine Moennig nei panni di Jilly, cioè la Shane di L World, con un bambino in braccio, cosa pensate? Ecco, esatto, proprio quello.

E' anche abbastanza fastidioso vedere un tale spreco di talento. Sto parlando ovviamente solo di Sam Rockwell, nei panni di Robert, perchè De Niro ormai è abbonato a ruoli piuttosto insulsi, mentre Drew Barrymore e Kate Beckinsale sono tutto fuorchè grandi attrici.

Alla fine ci si commuove pure, sia chiaro. Anche perchè tra poco è Natale.

20101116

colpo di tosse


Ritual Abuse - Cough (2010)


Terzetto proveniente da Richmond, Virgina, i Cough sono il frutto di uno sludge-doom metal che può avere conseguenze deleterie per l'ascoltatore impreparato. Cinque tracce lunghissime, dove i Black Sabbath si fondono con i Melvins, passando per i Saint Vitus e tutta una serie di influenze di questo campo, filtrate dal black metal nord europeo. Metteteci dentro una spiccata propensione al ripetersi ossessivo, e quindi quasi psichedelico, dei riff, e naturalmente una passione malsana per gli assoli col wah-wah, un cantato che si ispira direttamente alla Linda Blair de L'esorcista, ed ecco fatto.

Non stupisce leggere, in una loro intervista, che apprezzino gli italici Ufomammut.

noi


Noi credevamo - di Mario Martone (2010)


Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)

Giudizio vernacolare: un c'è da stupizzi se siamo 'osì oggi...


La difficile strada verso l'unità d'Italia, raccontata con l'espediente narrativo dell'affiliazione alla Giovine Italia di tre giovani del Cilento, Salvatore, Angelo e Domenico, di diverse estrazioni sociali, stufi della monarchia borbonica. Due di loro attraverseranno il 1800, e sfioreranno i personaggi che si citano sempre nei libri di storia a tale proposito.


Martone prende come base l'omonimo libro di Anna Banti, e, aiutato nella stesura della sceneggiatura da Giancarlo De Cataldo, affronta l'argomento dell'unificazione dal basso, cercando di mettere in luce alcuni episodi oscuri o trascurati dalla storia. Il film è senza dubbio interessante, il taglio televisivo, ma buono (anche la durata: oltre 200 minuti nella versione presentata a Venezia, poco meno di 3 ore in quella uscita nei cinema venerdì scorso), gli interpreti abbastanza all'altezza, anche se alla fine c'è poca empatia, poco coinvolgimento, nei confronti dei protagonisti: curioso, se si pensa che si parla del nostro paese, della sua nascita, in un certo senso.

Ma forse è proprio questo il punto, e non escluderei sia un problema soggettivo. E' però indubbio, che il film è attualissimo, e probabilmente non c'era bisogno di alcune puntualizzazioni immaginifiche di Martone (lo scheletro di cemento armato in Calabria, verso la fine del film), per capire due cose fondamentali.

La prima è che non siamo cambiati molto, e che una vera unità è ancora lontana. La seconda è che siamo sempre stati un popolo di banderuole, in maggioranza, abituato ad essere sottomesso.

Sono interessanti le posizioni aspramente critiche verso Mazzini, lo struggimento dello stesso per le vittime degli scontri, gli atteggiamenti "terroristici" di alcuni sostenitori dell'unità italiana (come uno dei protagonisti, Angelo), e a chi rivolgevano le loro "attenzioni", la figura affascinante di Cristina Trivulzio di Belgiojoso.

Un film che da italiani è bene vedere, anche se contiene, a livello tecnico e formale, tutti i difetti del cinema nostrano.

20101115

l'orizzonte


There Is A Hell, Believe I've Seen It. There Is A Heaven, Let's Keep It A Secret - Bring Me The Horizon (2010)


Terzo disco per la band di Sheffield; come capita spesso, leggo recensioni in cui si parla di spaventose contaminazioni del metalcore con l'elettronica, di riferimenti a band che, all'ascolto, non esistono, mentre si potrebbe liquidare il tutto dicendo semplicemente che gli inglesi sono la risposta della perfida Albione agli statunitensi Underoath. Sarà magari poco rispettoso, ma così è.

Con questo, lungi da me dire e sostenere che questo There Is A Hell eccetera è un brutto disco. Anzi. Più lo ascolto, più mi piace. Quello che amo definire screamo metal è un genere che mi piace molto; le band che fanno riferimento a questo tipo di musica hanno sempre uno spiccato senso della melodia, che unito ad una potenza di fuoco ragguardevole, creano un mix che rilascia piacere e rabbia al tempo stesso, per cui pollice su per i Bring Me The Horizon.

L'assolo di chitarra di Blessed With A Curse, un pezzo dalla grande atmosfera e dall'impatto emotivo epico, per me, e per quanto può valere, è già leggenda.

I Am Love


Io sono l'amore - di Luca Guadagnino (2010)


Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)

Giudizio vernacolare: chi ha 'vaini la rimedia (sempre)


Milano, i Recchi sono una dinastia dell'altissima borghesia. Fabbrica tessile passata indenne attraverso il ventennio, riciclatasi per merito della scaltrezza del capostipite Edoardo, enorme fonte di ricchezza che si specchia nella villa di famiglia, così grande e così fredda, dove ogni occasione viene scandita da una cena dove si sprecano il personale di servitù e le maniere affettate. Il figlio di Edoardo, Tancredi, abita la suddetta villa, con la moglie russa Emma, e i tre figli Edoardo, Gianluca ed Elisabetta. Mentre Edoardo Sr. lascia l'azienda in mano a Tancredi e i figli maschi, Elisabetta va a studiare a Londra e scopre la sua sessualità, ed Edoardo Jr. si fidanza con Eva, e al tempo stesso casualmente presenta l'amico Antonio, cuoco geniale ma frustrato dal padre, amico col quale progetta di aprire un ristorante nella campagna montuosa sopra Sanremo.

Emma rimane colpita da Antonio, e viceversa...


Film ambizioso questo di Guadagnino, prodotto dalla Swinton, che ne è anche protagonista. Lavoro che sicuramente dividerà gli spettatori, e che non è di facile assimilazione. Per farla breve, è un film molto più di forma che di sostanza, che mostra una ottima mano del regista (le immagini, montate ad arte, e fotografate in maniera quasi decadente, di Milano sui titoli di testa, sono impressionanti e decisamente belle; ma confrontatele con quelle di Salvatores di Happy Family: quelle di Guadagnino sono volutamente più "ermetiche", di nicchia, con richiami a cinema decisamente più intellettuale), che però spesso esagera, rasentando il ridicolo (la scena d'amore bucolica, con stacchi continui tra i corpi di Emma ed Antonio e gli insetti nel mezzo alla natura). I suoi riferimenti sono appunto alti, molto alti (Visconti, Hitchcock), e si vede chiaramente che dietro c'è un lavoro anche di preparazione certosino e meticoloso, ma il risultato, a prescindere dal giudizio che si può dare sull'ennesima scarnificazione della vuotezza delle classi agiate, è assolutamente freddo, quando invece dovrebbe trasmettere un vortice di passione, così come quello nel quale precipita la protagonista, lasciata sola nella casa riempita solo dalla servitù, e compressa dentro a regole formali nelle quali sembra apparentemente trovarsi a suo agio.

Poi c'è il problema delle recitazioni troppo teatrali, che ingessano un po' il tutto (nonostante il cast lussuoso). Perfetta la messa in scena quando si vuole sottolineare i particolari, le tavole curate, la domestica che chiude accuratamente le tende per far riposare la signora, goffa quando c'è da dare un minimo d'azione (Edoardo che corre verso la sorella, ancora Edoardo al momento dell'incidente, ma perfino quando c'è un minimo di movimento, la festa in villa, solo per dirne una; paradossalmente, l'unica scena "di movimento" riuscita è quella chiaramente hitchcockiana di Emma che pedina Antonio a Sanremo). Ci sarebbe da dire poi delle musiche. Composte dall'acclamato John Adams (Shutter Island, L'ora di religione), accoppiate con la messa in scena di Guadagnino, risultano francamente insopportabili in più tratti.

La storia è esile, e alcune scelte risultano incomprensibili (la Swinton che recita in italiano ovviamente con accento inglese, è russa nella finzione...), come detto la mano è ottima e il lavoro è ambizioso, ma il risultato è freddo e poco coinvolgente. Sufficienza di stima.

20101114

italians


Certo che noi (scusate, ogni volta penso voi, poi mi ricordo che sono italiano anch'io) italiani siamo strani forte. Tralasciando il fatto che ci vantiamo di appartenere ad uno dei paesi che ha inventato la cultura, che trabocca d'arte, e poi siamo ignoranti come capre e del patrimonio artistico non c'interessa un cazzo, ci piace soprattutto la figa e soprattutto ci piace a chi piace la figa (mi son spiegato no?), le donne straniere son tutte zoccole però se lo sono anche le italiane non va bene, festeggiamo i 150 anni dell'Unità d'Italia quando in realtà questo paese non è mai stato unito, nemmeno quando qualche eroe e molti trafficoni tentavano di farla, questa unità (ho visto Noi credevamo, son preparato), eccetera.
Ci piace lo sport, soprattutto il calcio, ma diventiamo esperti di qualsiasi cosa quando in ballo c'è l'orgoglio nazionale.
Sto parlando al plurale, ma nella maggior parte dei casi io mi comporto al contrario. Detto questo, di qualche ora fa è l'ultimo corto circuito nazionale. Un partito politico chiede le dimissioni del presidente della Ferrari, perchè la squadra ha perso il mondiale piloti di Formula 1. Non è il primo caso. Qualcuno si ricorderà sempre di quando l'allora Primo Ministro (si, ancora lui), criticò l'allora Commissario Tecnico della Nazionale di calcio perchè a suo modo di vedere aveva sbagliato la tattica difensiva in una finale del Campionato Europeo (e l'allora CT si dimise; secondo voi se il CT della Nazionale di calcio di adesso criticasse l'operato del governo il Premier si dimetterebbe?).

Non so se ve ne rendete conto, ma tutto ciò è di un'assurdità che travalica il ridicolo. Il problema è che veramente, non ci rendiamo conto che siamo ridicoli, e di conseguenza non sappiamo perdere. A nulla. In nessuno sport.
Tra l'altro, per dire, a livello nazionale, se in caso contava il Mondiale Costruttori, assegnato domenica scorsa, perso anche quello dalla Ferrari. Oggi poteva vincere Alonso, che è spagnolo. Sempre per dire eh. Inoltre, che Montezemolo sia un perdente non è che si scopra adesso, ma questi magari son punti di vista.
Siamo (stesso discorso fatto prima) un popolo che fa dell'ipocrisia la sua arma migliore. La Ferrari ha sempre fatto gioco di squadra, fin dalla notte dei tempi, cosa che in realtà sarebbe proibita in Formula Uno. Sotto sotto, abbiamo pure preso per il culo molte delle altre scuderie che non facendolo, perdevano il Mondiale. Abbiamo eletto ad eroe nazionale un campione egocentrico e scorrettissimo da sempre (Michael Schumacher), tedesco. Uno che era (è) talmente prepotente che una volta (non correva ancora con la Ferrari), fu squalificato in gara (bandiera nera), non si fermò, vinse il Gran Premio e poi fece talmente casino che fu riabilitato e gli assegnarono la vittoria.

Ero un grande appassionato di Formula Uno. Schumacher e i comportamenti della Ferrari mi hanno fatto disamorare. Alonso mi è sempre stato simpatico. Oggi ho guardato il Gran Premio. C'era molto equilibrio, anche se con un circuito così e molto equilibrio ci si diverte poco. Vince quindi la strategia, in questi casi. Quando per anni la Ferrari ha vinto sui pit-stop e sulla strategia, tutti a lodarla. Oggi che, dopo un'impensabile rimonta nella seconda parte dell'anno Alonso aveva la possibilità di vincere il Mondiale (Piloti, lo ripeto: quello Costruttori lo aveva già vinto la Red Bull la scorsa settimana in Brasile; questo vorrà pur dire qualcosa no?), la Ferrari ha abboccato ad una strategia Red Bull che è parsa perfetta (e magari invece è stata un caso, chi lo sa). Probabilmente anche Alonso ha la sua parte di colpa, ma rimane un gran pilota.
Se gli altri sono stati più bravi, la cosa migliore da fare è ammettere la sconfitta, e pensare al prossimo anno. Normalmente. Nello spirito sportivo. In Italia no. Chiedersi perchè, ogni tanto, farebbe bene.