No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20100430

eliocentrici


Elio E Le Storie Tese, 16 marzo 2010, Rosignano Solvay (LI), Teatro Solvay

Anche il paesello, nel suo piccolo, a volte stupisce. Ecco gli Elii in concerto, sul palco che ha visto scorrere molto teatro nazionale (e, a volte, anche internazionale), ma pure manifestazioni insulse, riunioni sindacali, e perfino spettacolini spinti, nel corso degli anni. Riflessione amara, il teatro adesso è in vendita, e chissà chi sarà interessato a comprarlo. Potrei continuare, ma toglierei spazio ad una band che ha fatto la storia della musica italiana negli ultimi anni. Pensate, la formazione risale al 1980, e il primo disco, Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu, è del 1989.
Il tempo, a volte, è se non ingrato, maligno. Il tempo ci ha abituato a dare per scontato questo gruppo di fenomeni, che riesce a suonare di tutto, e contemporaneamente a far divertire da matti, con un'ironia a tratti surreale, ma mai stupida, proprio mai. Anzi.

Gli EELST si presentano a Rosignano in formazione tipo, Elio, Faso, Cesareo, Rocco, Meyer, Jantoman, con ovviamente la presenza di Mangoni ed il supporto di Paola Folli come corista (alla quale si perdona pure una clamorosa stecca su Plafone, perchè Antonella Ruggiero, believe it or not, è unica). Il tema conduttore della serata, lo stesso in tutto il tour a supporto della raccolta Gattini, è quello della crisi. Non quella economica, bensì quella che occorre ad ogni grande band che si rispetti. Elio quindi introduce l'argomento dicendo che loro, accorgendosi di non averla mai avuta, sono entrati in crisi (e sono andati in India, ecco perchè sono vestiti un po' da hippies), e si sono resi conto che è solo grazie a Mangoni che hanno tirato avanti tutti questi anni, per cui Mangoni è chiamato a fare tutto quel che gli pare. Ecco che ogni intermezzo termina con Mangoni che suggerisce "fate quella che fa..." senza farsi capire, e via con un altro pezzo. Impagabili, sciorinano oltre due ore di musica ormai storica, e non starò certo qui a citarvi i loro pezzi. Sappiate solo che, oltre ad esecuzioni corali pressoché perfette, verso la fine escono e rientrano in versione acustica per una medley percussioni, corde e fiati, come sulla spiaggia, lunga oltre un quarto d'ora, di ulteriori loro pezzi insieme a Don't Stop 'Til You Get Enough (con tanto di Mangoni travestito da Michael Jackson che fa il moonwalking).
Citazioni a non finire, molte delle quali chissà colte da quanti, premiazioni per il campione di melodica a tubo corrugato per Rocco, con tanto di esibizione a latere con elicotterino radiocomandato danzante sulle sue note, battute e controbattute, e un pubblico da tutto esaurito totalmente coinvolto ma, lasciatemelo dire, non si capisce mai se davvero conscio di quanto stia accadendo. Ho visto persone ridere quando si supponeva non dovessero, solo perchè si intuisce che gli EELST "fanno ridere". Gli Elii tra l'altro, secondo me sono talmente intelligenti che sanno benissimo che una loro fetta di pubblico piuttosto grande, non li comprende fino in fondo, e si divertono ugualmente.
La loro forza, oltre quella per la quale anche "a filo gas" rilasciano una prova super come in questa occasione, è anche questa.
E noi, forse, non ci rendiamo conto che fortuna abbiamo, in Italia, ad "avere" una band del genere.
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L'homme qui plantait des arbres


L’uomo che piantava gli alberi – di Jean Giono

Bisogna pensare, ogni tanto, che continuano ad esserci un sacco di persone che non leggono libri, per svariati motivi. Per quelli che, magari, non leggono perchè inizialmente spaventati dalla lunghezza di alcuni tomi, questo è uno di quei libercoli molto adatti al caso.
Tralasciando di parlare diffusamente dell’autore (sicuramente troverete note esaurienti su di lui, secondo quale edizione del libro recupererete), anche se personaggio affascinante e interessante, diamo solo alcune dritte sulla brevissima storia: durante un’escursione per evadere dallo stress di tutti i giorni, il narratore si imbatte in un contadino che gli da’ ospitalità senza batter ciglio. Scopre poi, che il paziente contadino, si diletta a piantare alberi, in quella terra poco ospitale e brulla; ma non qualche albero, bensì decine di migliaia. L’uomo, in alcune decine di anni, riesce a cambiare il volto della zona dove vive, solo col suo lavoro e la sua costanza. Prosa asciutta, contenuti assolutamente attuali e in anticipo di decenni sui temi attualmente in voga (il libro è del 1953). Commovente e istruttivo.

il candidato


The Manchurian Candidate - di Jonathan Demme 2004


Giudizio sintetico: si può vedere

Giudizio vernacolare: so' uscito cor mar di testa


Il maggiore dell'esercito USA Ben (Bennett) Marco è un uomo solo, e soffre della "sindrome del Golfo"; un sergente della sua squadra in Kuwait, Raymond Shaw, già senatore, è candidato come vicepresidente USA, e rischia di diventarlo, visto che il suo partito è dato in testa nei sondaggi; il senatore fu decorato come eroe in Kuwait, e salvò la vita a tutta la squadra; i sintomi di questa sindrome però, sono strani, e i componenti della squadra stanno morendo in circostanze poco chiare. Il maggiore Marco, paranoico o no, si insospettisce, vista anche l'improvvisa ascesa politica di Shaw, imbrigliato da sempre dalla madre Eleanor, anche lei senatrice.


Demme è bravo, non si può negare e si vede anche in questo film, in pratica un remake di "Va e uccidi" (1962, di John Frankenheimer, con Frank Sinatra; il titolo originale era "The Manchurian Candidate"), ma il film risulta pesante.

Buone le intuizioni di non individuare il partito, segno dell'appiattimento della politica verso un ipotetico centro, e di dipingere la necessità di sicurezza dei cittadini statunitensi (sembra che la necessità sia solo loro), soprattutto nei discorsi dei candidati, come un'ossessione; insopportabile la contortezza della trama, ridondanti i temi (manipolazione dei cervelli, giochi politici, ingerenza delle multinazionali in ogni campo, paura del terrorismo come già detto) che, inevitabilmente, tendono a sovrapporsi e a castrare i tentativi di approfondimento.

Brutto e prevedibile il finale, eccessivamente indulgente con il patriottismo USA.

Washington (Denzel) quasi oscurato dall'ottima prova di Schreiber (bella la scena dell'ultimo faccia a faccia) e della Streep; menzione speciale per gli occhi, davvero difficili da descrivere, di Vera Farmiga, già vista tra l'altro in "Dust".

20100429

vulcani


Alessio mentre guarda su youtube una colata vulcanica. Poco prima, quando gli avevo citato il magma, mi aveva redarguito "guarda che lo so cos'è il magma eh!".

T.


The Sopranos - di David Chase - Serie completa (6 stagioni; Home Box Office per HBO) - 1999/2007


Anche questa serie, avendogli dato degli sguardi fugaci, non mi convinceva. Sto imparando a non fidarmi del mio intuito per quanto riguarda le serie tv. Come ogni buon cronista, ho atteso pazientemente il momento giusto, e negli ultimi mesi ho cominciato dal principio ed ho visto l'intera serie, quando possibile in lingua originale. Considerata una pietra miliare, almeno a livello televisivo, devo dire che lo è giustamente.

L'intuizione di Chase, che di vero cognome fa De Cesare, supportato come sempre da molti altri sceneggiatori ma soprattutto da Matthew Weiner (lo ritroveremo con Mad Men), parte da Terapia e pallottole (il film, Analyze This in originale), e cioè boss mafioso in analisi, e sviluppa l'idea costruendo attorno al protagonista, Tony Soprano, interpretato da un monumentale, in tutti i sensi ma soprattutto in quello recitativo, James Gandolfini, una famiglia, anzi due: quella vera e propria, una moglie, due figli adolescenti, uno zio al quale "scippa" il "trono", una madre con cui ha da sempre un rapporto a dir poco conflittuale, due sorelle talmente diverse da indurre il sospetto che non siano vere sorelle (ma a dire la verità non lo alimenta), e quella della cosca mafiosa alla quale appartiene da sempre, visto che il padre era già a suo tempo parte della stessa.

Lo sfondo è il New Jersey, e New York è vicinissima, così come molto vicina è l'altra "famiglia", quella che "gestisce" il territorio della Grande Mela. Potete solo provare ad immaginarvi la quantità di personaggi che vengono sviluppati, e sviluppati molto bene, in questa magnifica serie. 86 episodi, divisi in 6 stagioni (le prime 5 da 13, l'ultima divisa in due tronconi, il primo da 12 e il secondo da 9), che dipingono un vero arcobaleno di sfumature, parlando di personaggi e delle loro psicologie, che creano un linguaggio, che hanno generato un merchandising importante e molte, molte polemiche, che sono arrivate fino in Italia (tra chi condannava la serie perchè faceva di tutti gli italo-americani stereotipi negativi - tra questi pure Gianfranco Fini -, e chi invece la vedeva come un'allegoria e un modo brillante per scandagliare la realtà americana, tra l'altro, a cavallo dell'11 settembre 2001, "variazione" molto importante con la quale gli sceneggiatori hanno dovuto confrontarsi, risolvendola a mio parere in maniera degna e interessante).
Il personaggio principe, Anthony Soprano detto Tony e pure T. e basta, è talmente umano, seppure spietato, da generare nello spettatore veri e propri sensi di colpa, quando si lascia trasportare dall'empatia per il personaggio mirabilmente interpretato da Gandolfini, e dopo due secondi uccide qualcuno a commette uno scempio unico.
Le dinamiche etiche e non solo, sono talmente tante che a volte si fa fatica a tenere il conto.
La fotografia tende quasi sempre a sfumature autunnali. La regia, affidata come accade sempre nei serial a vari registi, tra i quali Rodrigo Garcia e Steve Buscemi (che ha pure una parte da componente della famiglia), non solo diligente, ma con belle trovate e inquadrature coraggiose.
La prova complessiva del cast è superba, con alcune comparsate curiose e inaspettate (ne dico solo un paio che mi hanno davvero sorpreso, David Lee Roth nei panni di se stesso, accanito giocatore di poker che racconta di come è riuscito a farsi detrarre dalle tasse le spese per i preservativi, e Gina Lynn, famosa attrice porno statunitense nei panni di una delle tante spogliarelliste/lap dancer del Bada Bing!, il locale di strip gestito dalla famiglia). Se di Gandolfini ho già detto (ma non si finirebbe mai di osannarlo per questa sua prova), lasciatemi citare il personaggio di Silvio Dante, braccio destro fedele, "consiglieri" di Tony, interpretato nientemeno che da Steven Van Zandt (c'è pure sua moglie che fa...sua moglie!), il Little Steven della E Street Band di Springsteen, che regala anch'esso una prova strepitosa, con una mimica facciale indimenticabile (e varie imitazioni di Al Pacino).
Colonna sonora super, con presenza di lirica italiana in minima parte, ma soprattutto di grande rock americano. Finale aperto con un "gancio" che lascia a bocca aperta.
Un serial che lascia davvero il segno. Da non perdere.


the marble quilt


La trapunta di marmo – di David Leavitt


La trapunta di marmo, titolo suggestivo e anche un po’ macabro, è il titolo di questa raccolta di racconti di David Leavitt. Non ci è dato sapere se sono, come capita spesso, racconti di ‘’epoche’’ parecchio differenti. Rimane il fatto che, nonostante rimanga indiscutibile la capacità di scrittura di Leavitt, l’americano appare in parabola discendente. Per chi non lo conosce, Leavitt è, se mi si passa il termine, il ‘’cantore’’ della gaytudine; i suoi romanzi parlano sempre di amori e personaggi gay, come lui, del resto, e quindi anche i suoi racconti brevi.
Una certa angoscia di fondo (la malattia, il contagio) pervade i racconti, non male l’idea di ‘’La scena del contagio’’, dove si intrecciano personaggi contemporanei con altri ‘’storici’’; in altri racconti (‘’La trapunta di marmo’’, ‘’Attraversando il San Gottardo’’) lo scrittore sfoggia inoltre una invidiabile conoscenza dell’Italia (ha vissuto qui per molti anni), come in altri suoi libri.
Può servire a chi non conosce l’autore, per avvicinarsi alla sua scrittura; per gli appassionati, un divertissement in attesa del nuovo libro, sperando in un qualcosa che riesca a far vibrare le corde dei sentimenti, come ha saputo fare in passato.

We Don't Live Here Anymore


I giochi dei grandi - di John Curran 2005


Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: la cena de' becchi


Hank ed Edith, Jack e Terry: due belle coppie con splendidi bambini, belle case, gli uomini entrambi professori; i quattro sono molto amici, si frequentano continuamente. Vivono in USA, in provincia. Come David Lynch insegna però, la provincia americana nasconde le sue problematiche. Hank scrive, ma riceve solo rifiuti, e ogni tanto si concede delle scappatelle; Edith ne è al corrente. Terry è disordinata, instabile, ed è sull'orlo della depressione, convinta che Jack non la ami come dovrebbe. Ed infatti, è così. Jack ama Edith, ricambiato. I due hanno una relazione intensa, a quanto pare all'insaputa dei rispettivi coniugi. La tensione però aumenta vertiginosamente, soprattutto in casa di Jack e Terry, ci si mettono anche problemi finanziari di mezzo. Terry esasperata, prima di scoprire con chi va a letto il marito, si fa ''consolare'' da Hank, che non si tira certo indietro. Le cose si fanno sempre più complicate.


Un film impegnativo, girato con abbastanza spavalderia, qualche soluzione registica interessante, ma anche con alternanza di inquadrature, forse per movimentare situazioni piuttosto statiche e qualche dialogo poco brillante (ma, del resto, non è così facile parlare di adulterio; chi paragona questo film al brillante ''Closer'' e ne mette in luce la differenza, soprattutto nella ''spavalderia'' dei dialoghi, forse dimentica questo piccolo particolare), forse per uscire dalla spirale claustrofobica delle due coppie. Interni, esterni, dialoghi serrati e silenzi, pensieri fuori campo, sovrapposizioni temporali, campi lunghi panoramici e primi piani insistiti. Sceneggiatura complessa ma sensata, con occhio vigile sulla imprevedibilità dei sentimenti e soprattutto sulla differenza di reazione da un individuo all'altro davanti al tradimento. Potrebbe in sostanza essere una pièce teatrale, ma c'è un valore aggiunto cinematografico. Attori sufficientemente intensi, in ordine di bravura direi il bel tenebroso Mark Ruffalo (Jack), la bella Naomi Watts (Edith), l'affascinante becchino di Six Feet Under, Peter Krause (Hank), ancora un po' a disagio col cinema, la signora Ben Harper, Laura Dern (Terry), finalmente in un ruolo ampio in un buon film, e che nonostante tutto appare la meno convincente. Sconsigliato a chi esce spesso in doppia coppia o agli adulteri di professione, consigliato a chi si sente la verità in tasca in fatto di comportamenti nella vita di coppia.

20100428

glasses


Volevo farvi vedere la mia nuova montatura. Non dite niente sul modello, lo so che è bello in modo assurdo.

un giorno in pretura

oggi, per la prima volta in vita mia, sono andato in tribunale a deporre.
seduto lì,
sulla sedia del testimone,
un occhio al giudice,
un occhio al pm,
le toghe degli avvocati,
il microfono acceso,
la legge è uguale per tutti.

pulizie particolari


Sunshine Cleaning - di Christine Jeffs 2010

Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: la vita è fatta di 'ose semprici

Rose e Norah Lorkowski sono due sorelle thirty-something diversissime tra di loro, ma ugualmente irrisolte e, peggio ancora, sono loro per prime che hanno la sensazione di non aver risolto niente in vita loro. Rose pratica in solitudine l'autoconvincimento, mentre Norah finge di fregarsene di tutto.
Entrambe, in tenera età, hanno visto il corpo senza vita della madre, suicidatasi nella vasca da bagno tagliandosi le vene, e sono state cresciute dal padre Joe, che adesso è un pensionato che tenta di sbarcare il lunario inventandosi affari fantasiosi ma spesso impraticabili. Rose fa la donna delle pulizie, mentre a scuola era la capo-cheerleader, e il quarterback, Mac, della squadra di football ha sposato un'altra, mettendoci su famiglia; adesso fa il poliziotto, si vede di nascosto con Rose, che chissà cosa spera da lui, con l'aggravante che Rose è pure madre di Oscar, otto anni, qualche problema d'adattamento a scuola, forse figlio proprio di Mac.
Norah vive ancora col padre, e non riesce a tenersi un lavoro, neppure da cameriera.
Frustrata dal ritrovarsi davanti una vecchia compagna di scuola, sposata e con una casa grande dieci volte la sua, proprio mentre la sta pulendo, Rose decide di dare ascolto a Mac, che le suggerisce di buttarsi nel campo delle pulizie di scene del crimine: tolti gli eventuali corpi, rimangono i fluidi corporali da pulire, e si fanno i soldi, perchè non è propriamente il lavoro che tutti sognano. Coinvolge anche Norah, mettendo su appunto la Sunshine Cleaning, e le cose cominciano a girare bene per le due sorelline. Finchè, galeotto l'incontro con l'ex compagna di scuola che l'aveva invitata al suo baby-shower....

Ve lo dico subito: mi è piaciuto questo "piccolo" film indipendente, che in Italia esce due anni dopo la presentazione al Sundance. Che, intendiamoci, non è un capolavoro e nemmeno una pietra miliare, ma un film delicato, dall'inconfondibile tocco femminile (della regista ma anche delle due protagoniste), che senza drammatizzare troppo, e senza neppure ricercare spasmodicamente l'happy end, diverte, commuove, e fa lievemente riflettere sul senso della vita e pure su quello della morte. Scritto dalla debuttante Megan Holley, il film ha davvero in tocco vellutato, ma senza fare sconti: si apre con un tizio che entra in un negozio di armi con una cartuccia in tasca, si finge interessato ad un fucile, il gestore glielo fa imbracciare e poi va verso un altro cliente, il tizio si gira, infila la cartuccia nell'arma, si punta la canna al mento e si spara. Per dire. Eppure, la storia va avanti alla ricerca di un futuro migliore, e alla fine ci si accorge che la felicità è dietro l'angolo: basta darsi una mano l'un l'altro. Sarà che più vedo sullo schermo Amy Adams (Rose), più me ne innamoro, sarà che (non solo) per la presenza di Alan Arkin (Joe Lorkowski) Sunshine (altro indizio) Cleaning mi ha ricordato vagamente Little Miss Sunshine, sarà per la scelta di caratteristi giovani ma sempre convincenti (Steve Zahn - Mac -, Mary Lynn Rajskub - Lynn -, Clifton Collins Jr. - Winston -, quest'ultimo in una parte molto molto bella), sarà che avendo visto Wolfman dopo The Young Victoria aspettavo una parte che riabilitasse ai miei occhi Emily Blunt, qui più che convincente, fatto sta che, per una serata senza impegno, vi consiglio questo Sunshine Cleaning, non fosse altro che per ricordarvi che la vita, alla fine, è bella. Ed è inutile inseguire quello che gli altri vorrebbero da noi: dobbiamo cercare quello che vogliamo noi.
Del resto, la salvezza si cela dietro l'angolo.

coraggio


No Guts, No Glory - Airbourne (2010)


Guardate la copertina di questo disco. Chi vi ricorda? Dai che ce la potete fare. Vi do un aiutino: Australia. Avete indovinato: gli AC/DC. Anche gli Airbourne sono australiani, e indovinate ancora: suonano come una cover band degli AC/DC che prova a fare musica originale. Questo è il loro secondo disco, che segue Runnin' Wild del 2007.

Originalità zero. Piacere nell'ascolto massimo.

Rock and roll.

bellezza


Marlene Kuntz, 22/7/2005, Larciano (PT), Parco Berlinguer, Birrando 2005

Metti che un venerdì sera salta la rituale pizza con gli amici storici, causa impegni vari. Metti che l’occasione è perfetta per passare una serata con un altro amico che non vedi da qualche settimana, che ti deve dire quale nome ha scelto per suo figlio che nascerà in dicembre, con il quale condividi una gran passione per i MK; anzi, diciamola tutta, è grazie alla sua insistenza che hai messo a fuoco la validità di questa band, quando ancora se la filavano in pochi. Metti che i MK suonino in un paesino dal quale non sei mai passato, ma che si trova si e no a 80 chilometri da casa tua.
Cosa fai, vai alla cacciuccata sotto casa tua, contando che sei vegetariano?
La seconda che hai detto.
Larciano, tra Montecatini Terme, Pistoia, Empoli e Fucecchio. Poche case (più di quante me ne apettassi) e una impensabile difficoltà a trovare il parco dove si svolge la locale festa della birra. Ingresso a 10 euro, palco decente, un paio di centinaia di persone a stare larghi e le bancarelle a 10 metri. Cristiano Godano che ti passa accanto e metti a fuoco che ha le spalle molto più larghe di quanto pensavi.
Un impianto non troppo buono, un suono con pochi bassi, la batteria che suona troppo secca, volumi contenuti, però chiarezza nella voce. Ti domandi perchè suonino in queste situazioni. Poi, alle 22,30, abbandoni le domande e ti metti a guardare e ad ascoltare.
Aprono con Bellezza, vagamente ritoccata, la voce di Cristiano è già in palla, diavolo d’un Godano. Ti aspetti una scaletta identica a quella di Firenze due mesi fa. E invece.
Canzone di domani, che si lega a Primo Maggio, riarrangiatissima e apprezzabile. Si continua senza stop con 1°2°3° e il finale è già caos sonico organizzato. Un attimo di pausa e parte Festa mesta. Cristiano ringrazia a profusione. Amen ci accarezza come la brezza che, nel frattempo, si è alzata. Il solitario e A fior di pelle, cattiva. E questa…si, è Nuotando nell’aria. Boato, piccolo, ma boato. Godimento. A ruota Ineluttabile. Chi mi conosce, sa che sono steso. E poi? E poi il buio. L’intro di piano si allunga, prima di Schiele, lei, me, suggestiva, senza basso e batteria. Cristiano introduce ‘’un amico da Los Angeles, Josh’’. Pare abbia suonato con PJ Harvey, mi dirà un’amica poi, di certo è amico di Ellis, si parlano all’orecchio sul palco. Cenere, una versione maestosa di Sonica, e L’inganno con coda umoristica sono i tre pezzi col chitarrista aggiunto, e sono tre bombe di rumore. Cristiano saluta.
Non ci sono grossi sussulti tra il pubblico, ma tornano comunque. E Cristiano ‘’recita’’ Grazie. Te l’ho gia’ detto che sei un poeta, vero Godano? Seguono A chi succhia e Mondo cattivo, la cui prima parte è riarrangiata e non suona benissimo, ma si rifà col finale. Sembra finita, ma rientrano ancora insieme a Josh, per la chiusura con Ape regina, e il finale è uno sferragliar sontuoso di feedback. Mezzanotte e mezzo.
La risposta alla mia domanda sul perchè i MK suonino in certe situazioni ce l’ho. Il concerto è finito e mi rendo conto che col mio amico, in fatto di MK, quello che dice uno, l’altro lo sta pensando. Cerco e trovo lo stand dei dolci e mi mangio un bombolone alla crema, anzi due, e mentre li ordino riconoscono che vengo da Livorno dalla elle di bomboLone. Perchè proprio un bombolone alla crema? Che domande! Noi cerchiamo la bellezza ovunque!

20100427

celda 211


Cella 211 - di Daniel Monzón 2010


Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Giudizio vernacolare: chiamatile ghigne


Juan è un giovane assunto come guardia carceraria in Spagna (si suppone a Siviglia). Timido e diligente, si presenta un giorno prima per prendere conoscenza e dimostrare buona volontà. Alcuni colleghi gli fanno fare un giro conoscitivo, e già da subito si evincono alcuni problemi, quali lo stato della struttura: Juan infatti rimane leggermente ferito dal crollo di un pezzo di soffitto. I due colleghi lo soccorrono e lo adagiano in una cella vuota: la 211, dove pochi giorni prima si è suicidato un galeotto. Sfortunatamente, in quel momento Malamadre, uno dei detenuti del settore FIES (generalizzando, detenuti con alle spalle crimini violenti, organizzazioni criminali o terroristiche, banda armata, ex secondini o forze di polizia, appartenenti a gruppi violenti in genere), sta mettendo in atto l'inizio di una rivolta, facendo fuori un secondino.

Al momento dell'invasione dei detenuti, i due colleghi di Juan sono costretti a lasciarlo svenuto nella cella 211; al suo risveglio, Juan per evitare di soccombere è costretto a fingere di essere un detenuto appena rinchiuso per omicidio. Così facendo, e dimostrandosi scaltro, entrerà nelle grazie di Malamadre.

Ma non sarà una passeggiata. Anzi.


Buon film, vibrante e valido socio-politicamente, accostato dalla critica (che lo ha esaltato un po' troppo, a mio giudizio) a Il profeta, ma che si differenzia abbastanza dal film francese: meno introspettivo Celda 211 (l'originale in castigliano), più di denuncia nell'immediato. Non esente da difetti, però. Il ritmo non è il massimo, e i flashback di Juan che ricorda la sua vita con Elena appesantiscono non poco il tutto. La macchina da presa è diligente, la fotografia più che sufficiente, il cast spagnolo ben allestito, anche se non concordo con il premio Goya al miglior attore rivelazione per Alberto Ammann (Juan), che non mi ha convinto quanto il resto del cast.

Gli altri invece sono certezze. Divertente leggere in giro che c'è chi "scopre" attori quali Luis Tosar (Malamadre, qui davvero strepitoso), Antonio Resines (Utrilla) o Carlos Bardem (Apache), solo adesso.

Tratto dal romanzo omonimo di Francisco Pérez Gandul, sceneggiato dallo stesso regista e adattato da Jorge Guerricaechevarría (uno degli sceneggiatori spagnoli più importanti ed attivi), nonostante i difetti è un film che solleva molte questioni, non solo spagnole.

vuoto


We Are The Void - Dark Tranquillity (2010)


Nono album di studio per la band svedese, uno dei capisaldi del death metal versante meno estremo. Dopo aver ascoltato più volte il disco, ho capito perchè non li avevo mai ascoltati, e perchè il genere specifico non mi abbia mai attirato. La loro musica non è brutta, ma piena di stereotipi. Nel metal è facile caderci.

Altalena di tempi veloci e cadenzati, strofa/ritornello, assolone di chitarra, cantato growl. Il tutto ben fatto, sia chiaro. Una sequela di pezzi molto ma molto simili tra di loro. Nonostante tutto, il genere ha uno zoccolo duro di fans, e, alla fine, è giusto così.

love and music


Arezzo Wave Love Festival, giorni 15, 16 e 17/7/2005, Arezzo

Quest’anno, nonostante le polemiche in città infurino da almeno tre anni, Arezzo Wave si allarga, e passa a sei giorni di durata, con un sacco di manifestazioni collaterali che vanno molto al di là della musica, tutte interessanti. Il vostro cronista preferito ha deciso di compiere uno sforzo decisamente superiore alle sue possibilità (soprattutto fisiche), facendosi quasi tre giorni pieni della kermesse aretina.

Come sempre, vorrei partire da alcune considerazioni generali sull’atmosfera e sull’accoglienza da parte della città. Rimanendo tre giorni, ho avuto modo di constatare la gentilezza degli aretini, in particolar modo degli esercenti (a parte l’edicolante che mi ha rifilato la versione del Corriere dello Sport nazionale dicendomi che non ne esisteva una toscana…non avevo voglia di litigare). E poi un sacco di cose, particolari, che ti colpiscono e non ti lasciano. Ho visto un uomo con la famiglia aggirarsi per la tribuna dello stadio con un cuscino sotto braccio. Ho visto gruppi di ragazzi che si erano portati le mozzarelle e il mais in scatola per mangiare risparmiando. Ho visto la security, ribattezzata con una grande idea ‘’friend’’, passare tranquillamente tra la gente, scambiando bicchieri di plastica con bottiglie di vetro per evitare che il vetro rimanesse in giro. Ho visto mamme col passeggino, ho visto coppie anzianissime, almeno 70 anni, sedersi nello stadio e osservare ed ascoltare gli One Dimensional Man. Ho visto un sacco di giovanissimi che erano lì anche a prescindere dalla scaletta musicale, solo per il gusto dell’evento e di esserci. Ho visto dei baristi darmi da bere a credito perchè non avevano il resto, sulla fiducia.
Penso che tutto questo sia molto bello; se ci mettiamo anche la musica diventa eccezionale.

Venerdì 15
La delusione di essere arrivato tardi per Chimenti (era allo psycho stage) mi fa perdere pure il primo gruppo che si esibisce sul main stage, i Substance-M. Scoprirò la sera seguente che l’inizio dei concerti allo stadio è stato anticipato alle 19,00, anziché, come annunciato, alle 19,30. Però arrivo per i 127, una band di Teheran. Questo dovrebbe bastare, e infatti è così. Il cantante è stonato, e tutti insieme mi ricordano vagamente i Leningrad Cowboys.

A seguire i francesi (con elementi inglesi però) Le Peuple De L’Herbe, hip hop dal sapore europeo, fatto discretamente, buono per ballare.

Cibelle, che di cognome fa Cavalli, viene dal Brasile, è anche carina, ha una discreta voce, ma più che trip-hop fa sleep-hop. La presentano come una bomba, ma mi renderò conto che spesso è per dovere di ospitalità.

Cala il buio, e arrivano i Soulwax, dal Belgio. Su cd non mi hanno convinto ancora, e invece da questa sera mi considero loro fan. Un set infuocato, devastante, rovinandovi la sopresa vi dico già da adesso che risultano vincitori della mia personalissima classifica di questi tre giorni di Arezzo Wave. Cantano un pezzo con la tastierista/cantante degli LCD, e chiudono il set con la cover di Allen’s Wrench dei Kyuss, impressionandomi davvero molto. Sono tutto quello che i Subsonica non possono essere e non saranno mai, hanno quello che manca ai Chemical Brothers per entrare nel cuore dei rockers.
Difficile suonare e risultare interessanti dopo un set del genere. E purtroppo tocca ai The Kills, una di quelle band a mio parere davvero troppo sopravvalutata. Si sente che hanno scritto canzoni più accattivanti col nuovo disco, lei è carina e sensuale, voce sexy e movenze adatte, ma dopo un po’ non se ne può più.
Chiudono la serata gli LCD Soundsystem, e, sempre a parer mio, anche questa è una band sopravvalutata. Grande hype, ma in definitiva sono i Talking Heads remixati. Se non sbaglio, infatti, nella scaletta c’è pure una cover dei TH.
La serata per molti continua all’electro wave. Io non ho il fisico. A domani. Dal mio albergo si sente tump-tump ma mi addormento ugualmente.

Sabato 16
Mi perdo gli Eterea: dai, troppo presto!

Arrivo allo wake up stage mentre suona Mauro Petri e la sua band. Reggae pugliese. Mentre finisce il set, vado a fare colazione.

Torno ed è la volta di Rodolfo Montuoso e la sua band. Una specie di La Crus con influenze etniche, ma la voce proprio non va.

Si va verso mezzogiorno con i Poa che sfoggiano un grunge style decente; Stone Temple Pilots, Alice In Chains, Soundgarden si sentono. Sono poco mobili sul palco.

Il clou della mattinata sono gli Offlaga Disco Pax di Reggio Emilia. Se ne fa un gran parlare, in effetti il loro esordio ‘’Socialismo Tascabile (Prove tecniche di trasmissione)’’ è un disco ben fatto e molto divertente, con un retrogusto amaro. Snocciolano Kappler, mentre Max, il cantante (forse sarebbe meglio definirlo lo speaker), distribuisce volantini, Cinnamon mentre dona chewingum, Tono metallico standard, Enver (‘’un brano sul fattore C’’),Piccola Pietroburgo (‘’voi potete anche chiamarla Piccola Leningrado’’), Tatranky (lancia confezioni, appunto, di wafer Tatranky. Un loro amico, alla mia domanda ‘’Ma mica li lancia sempre, sennò gli tocca andare a Praga ogni poco a ricomprarli’’ risponde ‘’Li lancia sempre, ma non pensavano di suonare così tanto in giro. Ha degli amici che vanno a Praga e glieli portano, ma sta pensando di cominciare a comprarli su internet’’), e chiudono con Robespierre. Che dire, è il gruppo del momento, inutile girarci intorno. Arezzo Wave non ha colto l'attimo, in questo caso. Meritavano il main stage. Mi sono, come si dice da noi, ‘’sciagattato’’ dalle risate, ed ho molto apprezzato il set. Bravi.

Si riprende dopo pranzo, alle 14,45 in punto, con i Planet Brain, dopo che il DJ ha passato i Kula Shaker, e sembra quasi una premonizione. Ricordano loro, e anche i Muse, i Placebo e, in qualche modo, i Pearl Jam.

Dopo, un set per il quale sono molto curioso. Miss Violetta Beauregarde, sola con un campionatore, strilla nel microfono per i suoi 20 minuti. Sarò onesto: la sua musica non mi piace, ma devo ammettere che è la cosa più punk che ho sentito negli ultimi anni. Davvero punk. Elettronico, s’intende, ma punk.

Esperienza strana, ascoltarla incastrata tra la band precedente e i seguenti Thepublic: ancora Muse, Placebo, un po' di punk rock felice. Il DJ appena finiscono il loro set mette i Placebo e io e uno sconosciuto con il quale avevo scambiato dei pareri proprio su questo, ci guardiamo sconvolti: ma allora lo fa apposta!

Inversione di scaletta in dirittura d’arrivo: sale sul palco Ali De Siati. Ex VJ di MTV, ex cantante dei Foghenaist, è pugliese ma vive a Londra da 10 anni e, diciamolo, per questo se la tira un bel po’. Non è così che si fa, Ali. Ce lo fa proprio pesare. Suona un rock acustico che al massimo ricorda Meredith Brooks (e infatti apre con un pezzo che dice un milione di volte ‘’I’m a bitch’’).

L’inversione di scaletta (meno male) è stata fatta per lasciare per ultimi i Marta sui tubi. Li avevo visti oltre un anno e mezzo fa, e da allora hanno fatto strada. Mi erano piaciuti allora, adesso di più. Sono divertenti, etnici, romantici italiani (citano Nico Fidenco e la sua Legata a un granello di sabbia splendidamente), sono progressive, sono esageratamente tecnici. Sono in tre. Voce, chitarra acustica e cori, batteria. Sono il futuro. Intanto, sono le 18, e si va allo stadio.

Aprono i Dead Models, autori di 15 minuti di rock energico, arrabbiato e urlato.

Dopo di loro gli Yumi Yumi dal giappone, e vorremmo essere altrove. Si capisce che, come dirà poi la cantante/chitarrista all’insopportabile Mixo (meno male che quest’anno gli hanno affiancato la Maugeri) nelle interviste post concerto, la loro influenza principale sono i Ramones, ma il risultato è un punk rock leggerissimo e, per di più, con la drum machine.

Va un po’ meglio con i brasiliani Instituto, un collettivo etno-rap colorato e urlante.

Mentre cala il sole ecco Vic Thrill & The Saturn Missile. A parte il fatto che vanno ormai di moda le band duo più drum machine e/o campionatore, possiamo dire che Vic è un personaggio simpatico, e che la loro musica sembra un po’ quella dei Blues Explosion mixata con quella di Rocky Roberts. Lui si definisce surf music elettronica, e ci può stare. Cita Talking Heads e Aphex Twin, ci sta meno, ma in effetti la loro musica è un bel minestrone.
Il set seguente è quello di Rebekka Bakken. Presentata come una voce straordinaria dalla Norvegia eccetera eccetera, mi aspetto chissà cosa, e mi ritrovo a chiedere a me stesso cosa ci faccia la nuova Celine Dion sul palco di Arezzo Wave. Non mi rispondo e vado avanti, mi consola il fatto che Rebekka è una sventola da paura, anche se una norvegese col cappello e gli stivali da cowboy doveva insospettirmi appena arrivata sul palco.

Adesso ci sono i Negramaro, che sono proprio come me li aspettavo. Bravini, ruffiani quanto basta, un po’ più ruvidi che su disco, abbastanza rock per poter stare su un palco così, col cantante che tiene bene il palco e la gente che canta le canzoni a memoria. Diciamo che è colpa mia se non mi piacciono tanto dai.

Chiude la serata Antony And The Johnsons. Quello che dovevo dire su di lui, l’ho già detto in occasione del concerto di Sarzana, Questa sera posso aggiungere che una buona parte del pubblico non lo capisce proprio, ma gli aficionados che stanno vicino al palco (ci sono anch'io, per la cronaca) rendono meno timido Antony, che scherza e interagisce di più, ringrazia per ‘’il lavoro fatto’’ sulla ‘’sperimentale’’ Dust And Water, e ci chiama amici. Toccante anche stasera, anche se ovviamente un grande palco e un grande spazio come uno stadio non sono la sua dimensione ideale. In effetti, ad essere onesti gli spettatori non sono moltissimi. L’importante è la diversità, e qui ci sta bene. A domani.

Domenica 17
Oggi solo main stage. E’ il Tora! Tora!

Si comincia con i Vina3, buona intensità per i 15 minuti di rito dell’opener.

Si va avanti con i Franklin Delano, molto psichedelici.

Inversione di scaletta, gli Après La Classe suonano prima. Continuano a non piacermi, e non so che farci. Hanno un buon seguito, ma di questa roba ne sentiamo in quantità, e suona spesso tutta uguale. La ‘’punkchanka’’. Mah.

Suonano dopo di loro, ma in scaletta erano prima, i Perturbazione. Ecco, diciamo che riescono nell’impresa di far sembrare i Negramaro un gruppo metal. Comparsata di Paolo Benvegnù alla chitarra su un pezzo. Il cantante scende tra il pubblico per l’ultima canzone. I suoi monologhi sono curiosi e divertenti. Ma la sostanza è leggerissima.

Discorso totalmente diverso con gli One Dimensional Man. Son rocciosi, e continuano a ricordarmi i Primus meno sofisticati. Le chiacchere del cantante sono puro cabaret nonsense. A parte i discorsi, spaccano.

Giuliano Palma & The Bluebeaters aprono con See You Tonite di Gene Simmons e per un vecchio Kissomane è una delizia. Son bravi si, tutti quanti si muovono, tutti quanti apprezzano. Però, Giuliano, perchè cazzo non stai più con i Casino Royale? C’è anche Bunna, e fa piacere. Stop.

Il set seguente è dei Song With Other Strangers. Hugo Race, John Parish, Marta Collica, Cesare Basile, Jean Marc Butty, Stef Kamil Carlens, Giorgia Poli e l’apparizione di Manuel Agnelli (per Tutto fa un po’ male e i restanti pezzi dopo). Tanto di cappello a chi è riuscito a dare vita ad una cosa del genere, roba che di solito accade all’estero, bei pezzi, rarefatti, scambi di strumenti, ma tensione che cala un po’ ovunque, e l’ora che si fa tarda, aspettando gli headliner.

Afterhours, proprio loro. Rischio di sovraesposizione a livello italiano, a meno che tu non sia un die-hard fan. Si apre un po’ a sorpresa, con Down On The Street degli Stooges, pezzo che ultimamente fanno nei bis (da qui la sopresa), poi si va avanti con pezzi dall’ultimo disco. I suoni sono ottimi, e i pezzi dal nuovo, stranamente, sono riarrangiati, alcuni addirittura stravolti. Rendono bene, benissimo, ma mi rendo conto finalmente che sono leggeri. E dire che c’è ancora chi non digerisce ‘’Non e’ per sempre’’. Manuel stecca clamorosamente per due volte su Ballata per la mia piccola iena. Più che stecche vere e proprie, sono sbagli di impostazione del tono su alcune variazioni. Succede. Non a tutti, ma succede. Per il resto però, mi sembra in palla, e come sempre non si risparmia proprio, specialmente con la voce. Certo che, perdonatemi alcune considerazioni, è un personaggio quantomeno curioso Manuel Agnelli; ma si, parliamone, in fondo gli Afterhours sono lui. Si lamenta per la troppa luce sul palco, e poi ha l’asta del microfono luminosa, sembra un neon. Questo è un vezzo paragonabile all’asta disegnata da Giger di Johnatan Davis dei Korn! ‘’Rinnega’’ ‘’Non e’ per sempre’’ (ancora una volta nessun pezzo), e poi esegue Non sono immaginario acustica, in versione accendino (passati i tempi in cui gli sentii dire ‘’Se qualcuno alza l’accendino scendo e glielo infilo su per il culo’’, concerto a Firenze, Anfiteatro de Le Cascine, alcuni anni addietro). Si scusa per i problemi di voce, mettendoci dentro la fatica di organizzare il Tora! Tora! (ma….oggi non è all’interno di un festival oliatissimo?), evidentemente si è reso conto di quello che ha fatto su Ballata, prima di cantare benissimo Sui giovani d’oggi ci scatarro su (che, come sempre, mi manda al manicomio, sia per il concetto che per l’esecuzione); ma questa cosa la mette sul ridere, e poi, verso la fine del set (non per essere cattivi, ma è forse il momento più bello), lascia il microfono a Dario per fargli cantare Dea coadiuvato ai cori da Andrea (mi viene in mente quando, ad un centro punto della carriera, James Hetfield, dal vivo, cominciò a far cantare Seek And Destroy e Whiplash a Jason Newsted, perdonate i ricordi da metallaro); a seguire, Manuel riprende saldamente il microfono per una splendida versione di Strategie. Si chiude con un unico bis, una Bye Bye Bombay non particolarmente brillante nell’esecuzione e nell’arrangiamento.
In definitiva, gli Afterhours volano alto. E Arezzo Wave Love Festival finisce anche per quest’anno piuttosto gloriosamente.

Al 2006 e grazie di tutto.

20100426

complimenti


Congratulations - MGMT (2010)


Ho una teoria, che è supportata da diversi elementi tangibili. I MGMT farebbero molto meglio a fare semplicemente gli autori. I loro pezzi sono molto più belli quando sono reintepretati da altri artisti. Tutta questa "furia" di inserire elementi elettronici low-fi, tastierine giocattolo e suoni elementari, coretti da asilo, può risultare simpatico certo, ma alla lunga indebolisce il prodotto finale. I pezzi potenzialmente ci sono: la conclusiva title track, la ballata dall'inizio semi-country Siberian Breaks, ma che poi si trasforma in una sorta di suite lounge moderna, il singolo Flash Delirium, sono ottimi pezzi, che finiranno coverizzati da artisti anch'essi alla moda come quelli del precedente, il secondo Oracular Spectacular, e finiranno vivendo di vita propria. Qui, su questo disco, si fanno apprezzare, ma potrebbero rendere meglio.

Si fa un gran parlare del fatto che i MGMT stessi avrebbero tentato di fare un disco brutto per uscire dall'hype che li circonda: la cosa non mi convince (tra l'altro, il disco non è brutto). Se così fosse, potrebbero semplicemente adottare la tattica che ho suggerito io ad inizio recensione!

just want you around


Lauryn Hill, 14/7/2005, Lucca, Summer Festival, Piazza Napoleone

Lauryn Hill, Lauretta Collina, Collina, arbitro di Viareggio, Viareggio provincia di Lucca, Lucca, piazza Napoleone. Abbinamenti mentali per passare il tempo. Il tempo che, da brava star capricciosa, Lauryn ci fa aspettare, in ritardo di un’ora sull’orario previsto del concerto.
La cosa, associata con le dicerie e le leggende che si raccontano su di lei, rende il tutto preoccupante. Donna forte ma lunatica, volubile ma potenzialmente artista immensa.
Quattro anni fa a Pisa, stupì tutti con un concerto acustico e minimale, preludio del suo secondo disco solista, quell’MTV Unplugged 2.0 controverso, sembrato quasi un braccio di ferro (vinto da Lauryn) con la casa discografica, costretta a pubblicare un doppio live pieno zeppo di inediti, ma soprattutto pieno di errori e chiacchere, chiacchere dove la signora Marley si mette a nudo, racconta le ragioni del suo cambiamento, e addirittura piange durante un pezzo. Bello, per carità, ma per quanto ti possa piacere, nove tracce (tra ‘’interludes’’, intro e outro) che non sono canzoni possono anche risultare ridondanti.
Adesso, nessun disco in uscita, eccola qui: 13 (almeno, questi sono quelli che sono riuscito a contare) musicisti e 3 coriste, un suono anche troppo pieno, un palco grondante persone. Alle 22,30 salgono tutti sul palco, mentre lei, che da lontano sembra fare un gesto dove pare dire che lei non salirà su quello scivolo di legno, passa da un altro accesso. Però adesso c’è, è lì, non potrà andarsene facilmente: c’è una piazza intera (oddio, non che fosse stipata sia chiaro) che smania per ‘’abbracciarla’’. Pettinatura afro, gonna lunga, giubbino beige. A vederla da vicino, e dagli schermi che la riprendono spesso in primissimo piano, è bella di una bellezza quasi innaturale. Sembra una barbie nera. Nonostante l’altezza (scarsa) cammina a testa alta, spavalda. E attacca Doo Woop (That Thing), carica e groovy. Il suono, come già detto, è pieno e, in qualche momento, sovrasta la voce; forse è anche voluto. Per i primi tre pezzi c’è qualche piccolissima sbavatura, la voce evidentemente non è ancora calda. Durante l’apertura si riconosce un inserto di 1Thing, la hit pop-soul del momento, di Amerie, poi si passa subito ad un pezzo nuovo, suonato anche da Lauryn con la chitarra acustica; sa di flamenco in salsa funky, e ci piace. Poi è la volta di Lost Ones, e nell’inserto ci pare di riconoscere In Da Club di 50cent.
Ma è su The Miseducation Of Lauryn Hill che la voce carbura finalmente in pieno, e il risultato non può che essere una splendida versione di una canzone già bella di per sé. Segue Just Want You Around dal live citato poc’anzi, molto funky, che parte con uno ‘’scat’’ di Lauryn. A proposito di Marley, ecco To Zion con dentro Iron, Lion, Zion dello zio Bob. Fa caldissimo.
Si vira in chiave soul (un passo più in là dell’ormai comune r’n’b), ed ecco The Sweetest Thing, la ghost track di ‘’Miseducation’’, ancora più calda. Si torna hip-hop con Final Hour; Lauryn guida la band con piglio autoritario, detta i tempi, lancia occhiate di fuoco. Si muove hip-hop, non certo con eleganza. Ma questo è il suo stile, prendere o lasciare. La piazza balla, e chi non è nelle prime file balla in piedi sulle poltroncine.
Un attimo di respiro, imbraccia la chitarra di nuovo, ed è un altro inedito: Sacred Love (sembra si chiami così), intensa, passionale col cuore in mano. Sembra di risentire i momenti toccanti del live di MTV, solo che qui c’è lei, ed è davanti ai nostri occhi. Che voce ha questa donna. Un potenziale immenso, mi ripeto.
Arriva il momento Fugees: Ready Or Not, bella versione, corposa, How Many Mics e Fu-gee-la. Tutti che si muovono.
E’ ancora la volta di un momento acustico. La bella ex-Fugees imbraccia l’acustica, ferma i battimani del pubblico in delirio, chiede silenzio. Ben Harper, IMPARA!!
E’ Just Like Water, splendida, sincopata, un crescendo quando entra la band, un finale quasi gospel. Segue Damnable Heresies, altro inedito rap, Ex-Factor che, riarrangiata nelle parti vocali e con inserimenti reggae è da urlo.
Il pubblico, ormai conquistato, si beve in fretta lo ex smash-hit Killing Me Softly, che invece è debole, levigato, troppo pop: la cosa peggiore della serata.
Everything Is Everything fa tornare alta la qualità dell’aria, e conclude la serata, se va male (e con Lauryn Hill, si sa, ci sono buone probabilità). Invece, forse un miracolo, nonostante sia mezzanotte e ci siano regole piuttosto rigide, il pubblico si sgola e l’ugola d’oro si muove a compassione. Torna per una versione tiratissima e funk di Freedom Time.

Rilassati Lauryn, prendila con calma, fai come vuoi: ma dacci un altro disco. Si ha la sensazione che questa donna possa mischiare funky, r’n’b, soul, folk, hip-hop senza rivali, si ha la certezza che la sua voce sia qualcosa di decisamente superiore. Per questo abbiamo bisogno che trovi la serenità per dedicarsi ancora a sfornare musica.
Ti aspettiamo presto Lauryn, non farci stare in ansia come stasera.

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the ghost writer


L'uomo nell'ombra - di Roman Polanski 2010

Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: ma l'hanno girato alle spiagge bianche?

Un ghost writer di professione viene ingaggiato per ri-scrivere la biografia dell'ex Primo Ministro britannico, Adam Lang, in una sorta d'isolamento (ci sono donna di servizio, uomo tuttofare, guardie del corpo varie, segretaria/amante e segretarie della segretaria, e la moglie) su un'isola nel nord degli States (parrebbe Marta's Vineyard) non sappiamo quanto volontario; viene pure pagato un botto. Perchè? Il precedente ghost writer incaricato è morto sull'isola in circostanze ancora da chiarire, e la suddetta biografia vale potenzialmente tanto.
Molto presto, anzi, prima ancora che il nuovo ghost abbia il tempo di fare le valigie, cominciano gli accadimenti strani: viene derubato di un manoscritto che gli ha dato Sidney Kroll, l'avvocato dell'ex Primo Ministro, durante la riunione nella quale è stato scelto, e convinto ad accettare il lavoro. E ancora non è niente: appena mette piede sull'isola, un tourbillon di eventi e situazioni sempre più strane e sospette lo accompagnano nel suo lavoro. Lang è messo sotto processo dal Tribunale Internazionale dell'Aja per crimini di guerra, lui è costretto a lasciare l'alberghetto dove soggiornava per stabilirsi nella villa/bunker dove alloggia Lang e la sua corte, e in quel momento le dinamiche si complicano ancor di più, se possibile.

Accolto da una pioggia quasi unanime di consensi e di esagerazioni (mi è costato fatica trovare un parere contrario su questo film, e una buona parte delle critiche usa la parola capolavoro spesso), ho trovato le critiche positive davvero esagerate. Stavo per scrivere che Polanski non mi è mai piaciuto, ma in effetti non è vero: se penso solo a Rosemary's Baby e Il Pianista, e li confronto a questo The Ghost Writer (in originale), la cosa mi sembra impari. Diciamo, meglio, che trovo la vena hitchcockiana di Polanski troppo osannata. Ma a molti piace.
L'influenza, addirittura la continua citazione cercata e voluta, nei confronti del Maestro, è palese fin quasi dall'inizio, anche solo per la scelta delle musiche; il problema, a mio giudizio, è che l'inserimento quasi forzoso di elementi di attualità, similitudini con personaggi reali (il film è tratto dall'omonimo libro di Robert Harris, che ha contribuito all'adattamento, e lo stesso Harris è un ghost writer, ed è stato proprio il ghost di Tony Blair, personaggio reale che somiglia in maniera quasi imbarazzante ad Adam Lang), uniti a situazioni poco verosimili e un po' da commedia degli equivoci più che da thriller, il tono spesso canzonatorio che il regista imprime alla storia, non giova all'atmosfera. Quando alla fine "stringe" e spinge, virando verso il dramma vero, non è più credibile.
Altro mio pensiero controcorrente, rispetto alle moltissime critiche positive che mi è capitato di leggere, la scelta e la direzione degli attori. Ho trovato il cast poco indovinato, con un Ewan McGregor (il "nuovo" ghost writer) sempre più spento, ed un Pierce Brosnan (Adam Lang) troppo gigione (non bastano le ultime sue scene per "riscattare" una prova complessivamente mediocre), oltre ad una Kim Cattrall (la segretaria/amante Amelia Bly) a tratti irriconoscibile e francamente poco comprensibile. Non sono sufficienti un sempre bravo Tom Wilkinson (Paul Emmett), un bel cameo di un James Belushi calvo (John Maddox), e una sempre più convincente Olivia Williams (Ruth Lang), che di recente avevamo apprezzato in una piccola parte in An Education.

20100425

finally


Finalmente, dopo mesi di pioggia e sofferenza meteorologica......it's infradito's time!
E voi che seguite fassbinder sapete che questo è un evento importante, nell'economia psicologica annuale.

sergent pepper


Who Killed Sgt. Pepper ? - The Brian Jonestown Massacre (2010)


Nel loro nuovo disco, i BJM sembrano un po' una cover band dei Chemical Brothers migliori. Provate ad esempio ad ascoltare Feel It (Of Course We Fucking Do). Ma, visto da dove vengono, e cioè in pratica dalla mente "malata" di Anton Newcomb, e dall'attraversamento di moltissimi generi musicali, tutti conditi dall'uso di droghe e da una forte tendenza alla psichedelia, quel che ne esce è un qualcosa che li potrebbe anche avvicinare ad un suono e una resa alla Aphex Twin, o, quando spingono un po' di più sul pedale del rock, alla Nine Inch Nails (The Heavy Knife), quantomeno sempre parlando di questo disco.

Un disco elettronico di classe.

people ain't no good


Nick Cave, 7/7/2005, Modena, Parco Novi Sad


Sui manifesti c’è scritto: Nick Cave solo performance. E uno dice ‘’Vado. Farà un concerto acustico. Chissà che figata’’. Poi arrivi, maledici ticketone e la mafia che ormai impera sui concerti italiani (ovviamente c’erano anche i biglietti da 22 euro, ma trovavi solo quelli da 44 in prevendita), osservi il posto, elegante, figo, sponsorizzato dalla Guru, ti aspetti da un momento all’altro di vedere qualche modella, ti godi un pezzo di pizza di 2 centimetri quadrati più una birra a soli 7 euro, poi prendi posto, ti dici che tutto sommato è andata bene, il tuo posto è vicino mentre quelli da 22 sono fuori dal tendone e se piove si bagnano, dai un’occhiata al palco e vedi batteria, ampli, un piano a coda, e pensi ‘’Ma allora non sarà solo’’.

Poi, alle 21,40 circa, entrano sul palco Jim Sclavunos (batteria), Martyn P.Casey (basso), Warren Ellis (violino, chitarra) e King Ink, attaccano una roboante versione di West Country Girl, ti giri verso il tuo amico e dici: “ACUSTICO UNA SEGA!!’’ usando un francesismo, e già torni di buonumore.
Riflessioni notturne, mentre torni e ormai la macchina ha il pilota automatico. Se qualcuno ti domandasse come è possibile tutto questo, come potresti spiegare?
Come giustificare che poco distante da te un apparente ragioniere calvo, con camicia stirata, ha quasi disintegrato una seggiolina sbattendola sul pavimento in parquet chiedendo un ulteriore bis, coprendosi poi di ridicolo cantando a squarciagola Lucy mentre Nick la stava interpretando sommessamente?
Come interpretare la tua vicina, ragazza reggiana carina, probabilmente segretaria, all’apparenza seria ma gioviale, bella montatura da vista, che urlava ‘’BONO’’ ad un signore ultracinquantenne che, se anche tu fossi obiettivo, diresti che sarebbe l’ora si tagliasse i capelli, e invece convieni col tuo amico sul fatto che, ne ha pochi, ma li porta con stile, dimenticandoti che se li tinge palesemente?
Misteri del carisma, diavolo e acqua santa incarnati in quest’uomo che riesce a tenere in pugno il pubblico anche non dicendo niente, o peggio, tentando di dire qualcosa e poi rinunciandoci.
La serata prosegue con Abattoir Blues, Red Right Hand, The Ship Song (che meraviglia!), una versione asimmetrica di Wonderful Life, The Weeping Song, Babe, You Turn Me On dedicata alla moglie (mi sono domandato ‘’quale?’’ lo ammetto…anzi l’ho detto ad alta voce), con annesso discorsetto sui bambini e su quello che fanno dentro ai pannolini, Cannibal’s Hymns, una bella versione di Rock Of Gibraltar, dedicata ad Antonio, un protagonista dello show, che dalla prima fila ha chiesto Tupelo praticamente dall’inizio, Messiah Ward, Henry Lee, una The Mercy Seat in versione ‘’da camera’’, una indemoniata Hiding All Away, un pezzo che ti fa riflettere sul fatto che l’ultimo disco sia ‘’rilassato’’ (vedi commento iniziale sul presunto concerto acustico), God Is In The House, dove il pubblico canta trasformandosi quasi in un coro gospel (e pensare che Nick Cave non è nemmeno nero), fino a Tupelo, per accontentare finalmente Antonio.
Versioni rivedute, corrette, diversificate, ritoccate, ma soprattutto, versioni suonate da quattro musicisti che si divertono, padroni degli strumenti, sempre al limite dello sbaglio. Ellis, credetemi, non fa rimpiangere Blixa. E’ un’altra cosa, d’accordo. Salta, gode, suona il violino come una chitarra, lo violenta, sputa in giro, sorride quando lo acclamano. Casey è quasi impassibile, ma sembra un metronomo rockabilly. Sclavunos ha uno stile inguardabile dietro le pelli, consuma una bacchetta a pezzo, sembra sempre in ritardo ma non lo è mai, efficace e pesantissimo, anche con le spazzole.
Tornano per un bis, e che bis. The Lyre Of Orpheus, Nobody’s Baby Now, poi il violino di Ellis introduce una versione folk-rock di Stagger Lee, e poi la mazzata finale di Jack The Ripper.
Ma non è finita. Ancora un bis, ed è People Ain’t No Good a cominciare questo blocco davvero toccante. Poi tocca a Lucy, godimento puro. Chiude The Loom Of The Land, e Nick salta la prima strofa dal ridere. Stasera ha alternato alla grande musica anche momenti di puro cabaret, sempre nel suo stile. Intramontabile.

Chiosa: penso per un attimo di farmi allungare quei tre capelli rimasti, per assomigliare a lui. Non ci riuscirei. C’è un sacco di gente in giro che prova a diventare qualcuno in campo musicale, ma il carisma non si vende al mercato.

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okuribito


Departures - di Yôjirô Takita 2010 (uscita italiana)


Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Giudizio vernacolare: firme da toccatura di 'ollioni fissa


Daigo è un giovane violoncellista di un'orchestra, sposato con Mika, mogliettina soave e devota. Un bel giorno, dopo tanti sacrifici fatti per acquistare il violoncello dei suoi sogni, l'orchestra dove suona si scioglie. Deluso, oltre che senza lavoro, decide di tornare al paese natale, una cittadina piccola ai margini della campagna. Mika lo segue senza battere ciglio.

La casa di famiglia, lasciatagli dalla madre, mentre del padre, che abbandonò la famiglia quando lui era piccolissimo, Daigo non riesce a ricordare nemmeno i tratti del volto, è piccola ma accogliente, benché piena di ricordi.

Mentre cerca tra le offerte di lavoro, si imbatte in un annuncio che parla di partenze, e che sembra quello di un'agenzia di viaggi. Nessuna esperienza richieste, per cui Daigo si presenta prontamente. Non è propriamente quello che pensava: si tratta di una specie di impresa di pompe funebri, ma con il "valore aggiunto" della pratica del Nokanshi, una pratica giapponese che, a grandi linee, consiste nella pulizia del corpo del defunto in maniera rituale, nella vestizione e nel trucco del volto, il tutto davanti alla famiglia e agli invitati alla veglia. Il proprietario vuole "formare" un successore, ed ha proprio bisogno di una persona senza esperienza, disposta ad apprendere silenziosamente una tradizione che, tutto sommato, fa pure guadagnare molto bene.

Daigo è inizialmente scioccato e prova repulsione e nausea, ma spinto all'inizio soprattutto dal bisogno, accetta, si fa convincere dal proprietario, una persona di pochissime parole, ma molto pragmatico, e dalla segretaria, donna gentile e affabile. I problemi vengono dall'esterno: qualche vecchio conoscente, quando viene a sapere del suo nuovo impiego, comincia a trattarlo male, e la moglie Mika, quieta e remissiva fino a quel punto, gli impone un aut aut. O lascia il lavoro, oppure lei torna da sua madre, a Tokio. Daigo, fino a quel punto uomo apparentemente incapace di prendere decisioni forti, non lascia il lavoro.


Stranezze della distribuzione italiana, il film vincitore dell'Oscar come miglior film di lingua non inglese dell'anno passato, esce adesso, un Oscar dopo. La critica specializzata si sbizzarrisce immediatamente con paragoni e stroncature varie. Questo Okuribito, che esce col titolo inglese, non è un assoluto capolavoro, ed è pure un film con il difetto di un'eccessiva lunghezza, ma trovo sia un buon film che, prendendo a pretesto la morte, ci parla in fondo della vita.
Con un incedere tipicamente asiatico, ma con dei tempi comici molto ben sviluppati, con recitazioni giuste per il film, Departures ci racconta di una presa di coscienza, di come anche una persona insicura di sé, col morale sotto i tacchi e con l'autostima a pezzi, incontrando le persone giuste possa imparare ad apprezzare la vita per quello che è, e perfino ad affrontare le ferite più profonde dell'anima. E Masahiro Motoki, il protagonista che interpreta Daigo Kobayashi, è perfetto per la parte senza né annoiare, né andare sopra le righe.
Fotografia vagamente crepuscolare, che rende un po' claustrofobico il paesino dove Daigo ricostruisce la sua esistenza, campi lunghi e panoramiche che ci mostrano un Giappone meno conosciuto, ma non meno affascinante, che si alternano a primi piani sui protagonisti sempre in bilico tra commedia e dramma. Un film dalla leggerezza unica e dal tocco sapiente.

20100424

עג'מי‎


Ajami - di Scandar Copti e Yaron Shani 2009


Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)

Giudizio vernacolare: è brutto dillo ma noi un ci si dovrebbe lamentà


Ajami, grande sobborgo dell'area metropolitana Tel Aviv/Jaffa. Qui convivono, in che maniera lo vedrete nel film, arabi, ebrei e perchè no, cristiani. Qui, ad Ajami, si intrecciano quattro storie. Quella di Omar, arabo, narrata attraverso gli occhi e i disegni del fratello più piccolo, la cui famiglia è minacciata da un altro clan, a causa di una sparatoria e il conseguente ferimento di un appartenente al suddetto clan da parte di un loro zio; Omar chiede aiuto, per trattare un accomodamento, al padre di Hadir, la ragazza che ama, di famiglia cristiana, che lo aiuta ma che ovviamente si opporrebbe ad un eventuale storia tra i due. Per il padre di Hadir lavora Malek, un rifugiato palestinese che si trova illegalmente ad Ajami per pagare le cure ospedaliere della madre gravemente malata. Un altro loro comune amico palestinese, Binj, è fidanzato con un'ebrea che vuole sposare. Poi c'è Dando, un poliziotto ebreo sconvolto dalla sparizione del fratello minore. Il film è diviso in capitoli, e parte con l'uccisione, per sbaglio, di un amico della famiglia di Omar, davanti alla loro casa, per la faida spiegata prima.


Definito il Gomorra palestinese, ed avvicinato pure a City Of God, come pure ai primi film di Pasolini (ma la più centrata mi pare la definizione di Owen Gleiberman su Entertainment Weekly che parla di un "Amores Perros israeliano incrociato con City Of God"), Ajami è un film di speranza (la speranza della convivenza pacifica per tutti) molto violento, che non fa sconti, messo in piedi da una coppia di registi (uno dei quali appare anche nei panni di Binj) assortita: Shani è israeliano mentre Copti è un cittadino palestinese di Israele, nato e cresciuto a Jaffa.

Gli attori sono in buona parte non professionisti, ma questo non ne inficia la riuscita, anzi. Il film ha come unico difetto una durata sostenuta (poco meno di due ore e mezzo), ma ha dalla sua una sceneggiatura solida per una trama complessa ma avvincente, che riesce ad immergere lo spettatore nella realtà caotica, complicata, rabbiosa, confusionaria, trasgressiva, mafiosa, miserabile, arcaica, e chi più ne ha più ne metta, dei territori medio-orientali e del loro calderone pieno di questa mescolanza etnico-religiosa. Non senza un tocco di poesia.


Speriamo solo che un giorno il film sia distribuito anche in Italia: come forse ricorderete, era nella cinquina dei nominati all'Oscar 2010 come miglior film in lingua non inglese (è, infatti, recitato in arabo ed ebraico).

invenzioni


Our Inventions - Lali Puna (2010)


Continuo a pensare che i tedeschi Lali Puna siano poco più che un gruppo di (bella) musica per colonne sonore. Da sottofondo, più o meno. Ben fatta (rarefatta), ma piuttosto monotona e monocorde, senza grandissime intuizioni.

Il nuovo disco mi dà la netta impressione di essere un solo, lungo pezzo indietronic o come lo si voglia chiamare, piuttosto noioso e senza scossoni.

la fatina rossa e le mutandine arancioni


Tori Amos + Tom McRae, 6/7/2005, Sesto Fiorentino, Villa Solaria


Chissà se c’era ansia da prestazione nella mia ottica; può darsi. Tori Amos è un’artista che ammiro da sempre, ma per una ragione o per l’altra l’avevo sempre "persa" in concerto.
Una ventina di giorni dopo Costello, siamo di nuovo nello splendido parco di Villa Solaria a Sesto Fiorentino. Continuo a pensare che sia un bel posto per un pic-nic, e non per un concerto.
Apre con una mezz’ora quieta Tom McRae, è sempre giorno, si fa apprezzare anche se non c’è ancora l’atmosfera da concerto. Presenta un paio di pezzi che, dice, parlano di morte, e cita ovviamente Bush.
Poco dopo le 22 la fatina rossa arriva con la sua consueta leggiadria sul palco, un palco forse troppo grande per lei da sola, anche se le faranno compagnia un piano, un hammond, un wurlitzer e un organo. Gli strumenti sono piazzati strategicamente, in modo che, addirittura, Tori possa suonare alcune canzoni suonando due tastiere contemporaneamente.
Parte, al piano, con un estratto dal nuovo ‘’The Beekeeper’’, Original Sinsuality, canzone che dà il titolo al tour; approfitto dell’occasione per dire che ho trovato il nuovo album non all’altezza con le vecchie produzioni. Prosegue con un pezzo datato, Past The Mission, che suona appunto con piano e hammond (una manina per ognuno), poi ancora un pezzo nuovo al piano, Cars And Guitars, che dal vivo non è niente male. Parte un discorsetto a proposito di quanto sia bello suonare in mezzo a madre natura, poi ripiega sul fatto che, però, i bagni chimici non sono il massimo. Dice che, allora, preferisce farla dietro il cespuglio, e (giocando sulla parola bush) che preferisce fare pipì dietro il ‘’bush’’, al ‘’bush’’ presidente.
Piuttosto bella, brava, simpatica. Tra l’altro, osservando attentamente il pubblico, mi rendo conto che sia un’icona gay. Ne prendo atto con simpatia, aggiungendolo allo stupore di vedere al banchetto del merchandising le mutande arancioni (a 20 euro, aggiungerei).
Passa al wurlitzer e suona Crazy da ‘’Scarlet’s Walk’’, per Little Earthquakes torna al piano, si sdoppia ancora (piano/hammond) per Jamaica Inn. In effetti, i pezzi dell’ultimo beneficiano del trattamento solitario e intimista usato dal vivo, anche se la distanza ‘’globale’’ da alcuni pezzi straordinari del passato rimane.
Si arriva probabilmente al momento culminante del concerto. Una splendida versione (al wurlitzer) di Cool On Your Island, davvero tra i migliori momenti dello show, per passare al ‘’piano bar time’’, come lo chiama lei, dove ogni sera interpreta due cover. Questa sera tocca prima a Like A Prayer di Madonna, e devo dire che mi vengono i brividi; dopo viene Running To Stand Still degli U2. Una regina nelle cover, come del resto già dimostrato con ‘’Strange Little Girls".
Avanti con Barons Of Suburbia (piano e hammond), Seaside, The Power Of Orange Knickers senza Damien Rice ma ugualmente di qualità. Virginia e The Beekeeper, suonata all’organo, affascinante in questa versione, chiudono la prima parte del concerto.

Versioni forse un po’ troppo allungate, il pathos che probabilmente svanisce all’aria aperta. Anche le scelte della scaletta non risultano ottimali, anche se so che cambia spessissimo. Non sono molto convinto dal concerto.
Tori torna sul palco saltellando e ringraziando, si siede al piano e propone una corposa versione di Purple People come primo bis.
Ancora un bis, dove troviamo Toast e, a seguire, Yes, Anastasia. Scompare come un folletto, con quel sorriso dolce di chi ha trovato la felicità dopo tanto soffrire.
Ha voce da vendere la ragazza, e una buona dose di classe. Ha pure suonato due ore piene, però questa sera avevo messo in preventivo di emozionarmi di più.
Una buona scusa per tornare a rivedere un suo concerto.
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20100423

la strada sbagliata


Breaking Bad - di Vince Gilligan - Stagioni 1 e 2 (Sony Picture Television per AMC) - 2008/2009


Altra serie statunitense piuttosto premiata, Breaking Bad ha uno spunto simile a quello di Weeds. Walter White è un cinquantenne insegnante di chimica nella High School di Albuquerque, New Mexico, ma in passato è stato un eccellente ricercatore chimico dall'intuizione brillante. Questo ha permesso di fondare la Gray Matter, insieme a due compagni di studi, Elliott Schwartz e Gretchen, che all'epoca era la fidanzata di Walter ed in seguito è diventata la moglie di Elliott. La rottura tra Walter e Gretchen sembra sia dovuta a Walter, ma il tutto è avvolto nella nebbia, compreso il perchè Walter, nonostante sia il più intelligente dei tre, sia finito a fare l'insegnante.

Walter è sposato con Skyler, 40enne che vende cose su ebay e aspirante scrittrice; ha lasciato il suo lavoro di contabile alla Beneke a causa delle avances fattele dal figlio del proprietario, Ted. E' incinta di una bambina, quando la serie inizia. Walter e Skyler hanno già un figlio, Walter Jr., adolescente, che ha sofferto di paralisi cerebrale infantile, cosa che lo limita esclusivamente nei movimenti e nel modo di parlare.

A Walter viene diagnosticato un cancro al polmone allo stadio avanzato, con un paio d'anni di aspettativa di vita. Dopo un iniziale smarrimento, grazie al fatto che il cognato Hank, marito di Marie, la sorella di Skyler, è un agente della DEA e lo porta a seguire un'azione di smantellamento di un laboratorio illegale di metanfetamine, decide di sfruttare la sua conoscenza della chimica "cucinando" chili e chili di cristalli di droga e facendosi aiutare a smerciarla da Jesse, un ex allievo. L'obiettivo è, visto che la sua assicurazione non copre neppure le spese della chemioterapia, alla quale infatti Walter inizialmente non si vuole sottoporre, accumulare un bel gruzzolo da lasciare alla famiglia, nel momento della sua morte.


La serie è interessante nelle intenzioni, ma piuttosto lenta a mettersi in moto. La prima stagione, composta da sette episodi (che inizialmente dovevano essere nove), non è così scorrevole. Il ritmo è lento, e i personaggi simpatici ma il meccanismo non oliatissimo. Nella seconda stagione l'inserimento di alcuni personaggi marginali, ma che danno un altro tipo di scorrimento al tutto, le cose migliorano; tale stagione consta di 13 episodi, e sta già andando in onda, negli USA, la terza.

Fotografia luminosa, che rende giustizia ad un luogo così particolare come il sud "centrale" degli USA, fino al confine col Messico, tempi lunghi e dilatati, quel che rende molto interessante la serie sono il tema etico (se il fine giustifichi i mezzi), quello della lotta alla droga, come pure la denuncia sociale, attualissima, sulla sanità statunitense.

Interessante la prova del protagonista, Bryan Cranston (Walter White), attore e doppiatore, spassoso il personaggio dell'avvocato Saul Goodman, interpretato da uno scoppiettante Bob Odenkirk, introdotto nella seconda stagione. Tutti gli attori, comunque, sono convincenti, e altrettanto, tutti i personaggi ben caratterizzati. Trovate di sceneggiatura spesso molto fantasiose (e a volte un po' difficili da digerire), ma simpatiche.

flip


Flippaut Festival, 1/2 giugno 2003, Bologna, Arena Parco Nord

Persi gli OVERHEAD a causa della piscina dell'ottimo campeggio città di Bologna, ci sorbiamo dopo le 15,30 di un pomeriggio caldissimo gli ATHLETE, che non ci forniscono altro che una clonazione sbiadita dei Coldplay.

Dopo una mezz'oretta scarsa, sale sul palco EVAN DANDO con un compare, entrambi con una chitarra acustica, e cercano di rinverdire (invano) i fasti di Simon & Garfunkel. Meglio su disco.

Avanti con i TURIN BRAKES, che invece riescono a catturare un minimo l'attenzione proponendo almeno una via di mezzo tra i 2 gruppi precedenti con un pizzico di personalità in più.

Le note più dolenti arrivano con i pompatissimi DANDY WARHOLS; non c'è maniera per loro di rendere un minimo del loro suono (passabile su disco) decente dal vivo. Scarsi scarsi scarsi, e per giunta noiosissimi.

Ancora è giorno, e sale sul palco SKIN. Sarebbe il caso di dire finalmente un concerto; Skin è sempre rabbiosa dal vivo, ma onestamente, il pubblico si scalda (si fa per dire, vista la temperatura media fino a che il sole sta su) solo ai pezzi dei compianti Skunk Anansie. Senza infamia e senza lode, a parte, appunto, le riproposizioni degli Skunk, riservate nel finale.

Addirittura in anticipo sui tempi di scaletta, sale sul palco, come suo solito in punta di piedi, Ben Harper e i suoi semi-rinnovati Innocent Criminals.

Trepidanti nelle loro aspettative i fans di vecchia e vecchissima data, si dividono sui giudizi dei pezzi che aprono il concerto. Apre una discutibile (a mio modesto parere) versione reggae della "denuncia" di "Excuse Me Mr.", e segue ancora una rilettura reggae di "I Shall Not Walk Alone", già migliore, ma l'aleggiato "trip" reggae incuriosisce i più (e fa tremare il "recensore"; come ha detto un amico, c'è chi lo suona meglio il reggae). Seguono i primi estratti dal nuovo album, non i migliori, "Brown Eyed Blues" e "Temporary Remedy", ma si respira aria già sentita, e non per questo peggiore."Ground On Down" e, a seguire, "Welcome To The Cruel World" aprono le porte ad un concerto almeno sui livelli conosciuti in passato, se non migliore. I classici si susseguono, il californiano si siede, scambia un toccante "chiarimento" col pubblico, e gli occhi si inumidiscono pian piano. Una strepitosa "Sexual Healing" lascia calmo nella tomba Marvin Gaye; la particolare scelta di suonare di seguito i 2 singoli del nuovo album ("Diamonds On The Inside" e "With My Own Two Hands", mixata superbamente con "War" di Bob Marley) segnala che l'artista continua a seguire scelte personali e mai smaccatamente commerciali (i singoli nuovi sono sempre distribuiti "ad arte" negli show "normali"). L'inno legalizzatore di "Burn One Down" introduce alla prima pausa, i cuori battono forte quando Harper rientra da solo e sciorina "Walk Away" fugando ormai qualsiasi dubbio, sciogliendo i più duri (di cuore) e ammutolendo, come solo lui sa fare, gli abbondanti 10mila dell'Arena Parco Nord."Waiting On An Angel" alla Al Green, "When It's Good" e poi la presentazione del suo particolare strumento a percussione per l'africaneggiante "Blessed To Be A Witness" portano ad un altro breve stop. Al rientro, una versione leggermente più rock di "Amen Omen" porta dritto alla superba conclusione con la medley tra le poetico/politiche (nonché canzoni "manifesto") "Like A King" e "I'll Rise", cantanta tutta col pungo del "black power" levato in alto, così come i cuori del pubblico che lo imita in un ideale marcia da fermo.

2 ore e mezzo che lasciano con la voglia di vederne ancora e ancora e ancora.

Il secondo giorno, dedicato a sonorità più "dure", è aperto dai CURSIVE che non impressionano granchè, posizionandosi in un limbo emo-core ancora da definire dal vivo;

seguono gli HELL IS FOR HEROES che si piazzano agli stessi livelli virando verso il nu-metal.

I THE KILLS giocano a fare i White Stripes con basi di drumming campionate, ma annoiano.

Arrivano poi i famigerati TURBONEGRO e deludono non poco, col loro gay-glam-rock sentito però mille e mille volte; la presenza scenica è lasciata tutta al cantante che ci prova come può (e non ci riesce).

Anche il secondo giorno ha il suo gruppo "pompatissimo" dalla stampa tutta, sono i WHITE STRIPES, che a livello musicale racchiudono nella loro proposta oltre 30 anni di rock nelle sue mille sfaccettature solo con chitarra e batteria, ma su un palco così grande rendono poco in due. Da rivedere "nello stretto".

Il picco della serata si raggiunge con i QUEENS OF THE STONE AGE. Quasi punk, quasi rock, quasi stoner, entrano e spaccano per quasi un'ora e un quarto, inanellando tutti i loro pezzi migliori, introducendo senza introdurlo Mark Lanegan, che canta i suoi pezzi e se ne va tranquillo come è arrivato. Lasciano distrutti e, allo stesso tempo, deliziati.

Alle 22 arrivano gli AUDIOSLAVE, e le aspettative arrivano alla verifica. La "macchina infernale" della sezione ritmica funziona a dovere, Tom Morello dimostra di essere all'altezza pure sui pezzi più melodici unendo inventiva e gusto. La "stecca" della serata è Chris Cornell, che di stecche ne prende alcune, e alterna prestazioni grandiose a pezzi opachi. Probabilmente una serata o un periodo storto, per la grande, e mai dimenticata voce dei Soundgarden (e dei Temple Of The Dog). Un acquazzone alle 23,10 salva i 4 da critiche più forti, vista anche la durata minuscola dello show; fuori diversi pezzi dell'unico disco gridano vendetta, rimpiazzati da alcune cover (tra le quali "White Riot" dei Clash), ma dagli headliner di un festival da 32 euro più prevendita si deve pretendere di più.

Gli spettatori della seconda serata erano circa 15mila.