No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20071216

lingue


Ancora da D La Repubblica delle donne, due articoli interessanti sull'evoluzione e sull'uso delle lingue.


Se dico "Te quiero" non posso non sentirci dentro i miei 14 anni, il luogo, il ragazzo a cui MI DICHIARAVO. Ma se sul palcoscenico di un teatro dico "Ti voglio (bene)"

di Maria Pilar Perez Aspa*

Nella mia lingua adulta che è ormai l'italiano, quelle diventano parole bianche su cui scrivere, con le quali mi sento libera di giocare. Bianche, non vuote, perché non sono cariche di pregiudizi, ricordi, riferimenti. Non ho mai voluto fare "l'attrice spagnola in Italia", ma ho preferito mettermi alla prova su tutti i testi e, una volta superato lo scoglio linguistico, ho scoperto quanta ricchezza e libertà ci siano in questa mia diversità. Nelle Troiane, per esempio, si dice: "Non più gioia, non più terra, non più città". Ecco, città è per me il luogo universale, il posto in cui tornare; se lo dico in spagnolo, ciudad, acquista un significato più domestico, penso - che so - ai cartelli stradali di Saragozza che invitano a tenere pulito intorno. Perché una lingua è suono, significato. E soprattutto misura: quella che acquisti con gli anni, che all'inizio non sai dosare. Le parolacce e i vezzeggiativi sono i migliori esempi: sapere quali usare, quando e con chi. Se parli male una lingua, ti senti impoverita, hai un capitale di concetti e sfumature che non sai come spendere. Ti scopri incerta e traballante.Quando arrivai in Italia a 22 anni mi ritrovai a dover eseguire un doppio salto mortale: usare una lingua nuova non solo per vivere, ma per lavorare, fare l'attrice. Una lingua molto diversa, più musicale e gestuale, fatta per il canto, mentre lo spagnolo è grave, rimanda a una cultura asciutta, a un senso del tragico più sobrio. Frequentare due lingue mi ha fatto capire quanto, nel mio lavoro, devo cercare il senso profondo del testo. Rintracciare il filo che l'autore ha tessuto con l'idea e che poi ha subito un percorso, attraverso la traduzione, l'interpretazione, l'idea del regista. Rispetto del testo, dunque, relazione con chi lavori e con te stesso: non ti puoi permettere di fare in fretta, di prendere un testo e fidarti della prima impressione. Quella è sempre sbagliata: il viaggio dentro la parola non finisce mai, pronunci per venti repliche una frase e, all'improvviso, ti si apre, ti si illumina. Finalmente respiri con il testo ed è la cosa più bella. Quando salgo sul palcoscenico, cerco di restare ancorata a me stessa e tenere presente quale filo mi lega a quel personaggio. Più lungo sarà, più interessante sarà il mio viaggio, e la ricerca dentro me stessa, più riuscirò ad aprire dei mondi per chi sta in platea. Se un insetto può diventare foglia agli occhi di chi guarda restando insetto, l'attore può diventare re, bambino, tavolo, senza ingannare nessuno. E io, come l'insetto, resto me stessa, usando una lingua che è diventata mia, nella quale ormai penso, scrivo, rifletto. Lo spagnolo mi sorprende ogni tanto, magari all'improvviso, quando ho davanti un bambino: è la lingua materna che si prende la sua rivincita.

*attrice, nata a Saragoza, in Italia da 14 anni. Co-fondatrice della compagnia teatrale Atir, ha vinto nel 2005 il premio Virginia Reiter per l'interpretazione di Andromaca nelle Troiane


I SPEAK HINGLISH
INDIANO+INGLESE è la formula linguistica del futuro, e non solo nel subcontinente di Mumbai e New Delhi

di Federico Rampini

Prima di ridicolizzare l'inglese in salsa francese dell'ispettore Clouzot (La pantera rosa), il grande attore inglese Peter Sellers si era esibito in una indimenticabile caricatura dell'accento indiano in Hollywood Party, gioiello di umorismo surreale degli anni Sessanta. Lo emulò per bravura linguistica un altro gigante del cinema britannico, Sir Alec Guinness, nella parte del vecchio indù in Passaggio in India. In America una giovane generazione di comici "standup" - noi diremmo da cabaret - imita l'accento dell'informatico di Bangalore, che al telefono ti assiste quando hai dei problemi con il computer. Il turista che viaggia in India sa che fra le prime emozioni dell'atterraggio a New Delhi o Mumbai c'è l'immersione sonora in un subcontinente asiatico dove la lingua inglese è di casa, ma anche troppo: avendo messo le radici in India da due secoli, è diventata un dialetto locale, con le sue regole e la sua sintassi. In quanto alla pronuncia, ci vuole un buon allenamento per imparare a decifrarla.In parte l'inglese degli indiani colti ha subito la sorte di quello parlato dagli australiani, dai neozelandesi, dai bianchi del Sudafrica: custodita con deferenza e rispetto, la lingua dei colonizzatori ha conservato a migliaia di chilometri di distanza delle forme di solennità e dei preziosismi che nella madrepatria sono scomparsi. Sicché per un inglese sentire un indiano erudito che parla la sua lingua è un po' come per noi rileggere Collodi o De Amicis. Vi si aggiunge il fatto che - a differenza di Stati Uniti, Canada o Australia - in India l'inglese deve convivere con una trentina di lingue locali, nobili e antichissime. Quando l'India ha deciso di integrarsi nell'economia globale, sono fiorite le scuole di "correzione dell'accento". Bisognava offrire un servizio impeccabile alle multinazionali americane che delocalizzavano i call center: catene alberghiere o compagnie aeree avevano bisogno di personale capace di gestire da Calcutta le prenotazioni per i clienti del Midwest e della North Carolina. Guai a spaventarli con pronunce esotiche. Generazioni di giovani indiani sono andati così a scuola di perfezionamento della dizione. Hanno perfino imparato a simulare le diverse inflessioni della West Coast americana, della East Coast, del Texas, a seconda del fuso orario da cui arrivavano le chiamate d'oltreoceano.Di recente, però, è iniziata un'inversione di tendenza. Lo Hinglish (da "hindi + english"), come l'hanno definito loro stessi con autoironia, si è affrancato dal suo complesso d'inferiorità. Ha acquistato schiere di ammiratori. Viene esibito con dignità e fierezza. Il fenomeno coincide con il boom economico e l'orgoglio nazionale della nuova India. Alcuni scrittori hanno avuto un ruolo di precursori. Salman Rushdie e Arundathi Roy cominciarono a spruzzare qui e là nei loro romanzi dei dialoghi in Hinglish verace, come lo si parla nelle migliori famiglie indiane, impastando disinvoltamente inglese accademico e vocaboli locali, in una gioiosa e divertente "masala" (mescolanza). Più di recente Vikram Chandra in Giochi sacri ha spinto il realismo linguistico vernacolare ancora più in là, con l'audacia di un Gadda o di un Camilleri.Dalla letteratura, la riscossa dello Hinglish si estende al cinema. Gli sceneggiatori di Bollywood ormai usano senza pudori il nuovo mix di inglese e hindi (o urdu per i personaggi musulmani), genuino e colorito. Lo stesso accade nella musica. Perfino gli elitari giornali in lingua inglese, come The Times of India, un tempo rigorosi come l'Accademia della Crusca, oggi si sono arresi alla contaminazione. Il linguista Vaishna Narang della Nehru University di New Delhi sostiene che "è scomparso lo snobismo di chi cercava di distinguersi dalle masse imparando la pronuncia di Oxford e Cambridge". La scrittrice Baljinder Mahal aggiunge che "nessuno più considera la produzione culturale indiana come di serie B". Bollywood ha ormai superato Hollywood per il volume della produzione cinematografica. Anche la letteratura e la musica indiane dilagano nel mondo intero. La corrispondente del New York Times da New Delhi, Amelia Gentleman, lancia una scommessa: lo Hinglish finirà per diventare l'inglese più parlato del pianeta. C'è un precedente ovvio. L'America, grazie alla sua potenza economica e alla produzione culturale di massa, ha imposto i suoi slang e i suoi accenti, e il baricentro del "global English" si è già allontanato dalle rive del Tamigi. Ora, scrive il New York Times, "ci sono più anglofoni nel subcontinente asiatico che nel Nordamerica e nel Regno Unito messi assieme; nel mondo prevalgono coloro che parlano l'inglese come una seconda lingua". L'economia globale è invasa da anglofoni che non hanno una goccia di sangue anglosassone nei loro alberi genealogici. Alleniamo i nostri orecchi a decriptare la dolce cantilena dello Hinglish.

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