No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20071216

usato


Che fine fanno i "nostri" vestiti usati? Un articolo di D (Repubblica) indaga.


55 Kg pret-à-porter

MITUMBA Sono i pacchi di abiti usati che dal Primo mondo vanno al Terzo. Con un peso stabilito. E percorsi discutibili

di Alessandra Iadicicco

Cinquantacinque kg prêt-à-porter. Ma è diverso da quello che sembra. Non è il peso ideale di un'indossatrice pronta a sfilare. È la misura esatta, la taglia perfetta, il peso limite dei vestiti che saranno sì portati, e perfino con manovre spettacolari: messi in equilibrio, dentro grossi pacchi, sulla testa degli africani - o africane - addetti al trasporto dei capi di seconda mano inviati a tonnellate dai Paesi ricchi e ridistribuiti, di 55 kg in 55 kg: di più neanche il portatore più abile e forte potrebbe reggerne, in tutto il Continente Nero. Capito di che cosa stiamo parlando?Ma è diverso da quello che sembra.I segreti di questo giro - grandioso, perché il suo raggio tocca tutti i punti del globo: i mittenti Europa e Usa, i destinatari africani, l'Oriente eurasiatico ed estremo che puntano a entrare nel quadrante o a regolarne con calcolato tempismo le lancette. Ed è prodigioso: per i miracoli e le sorprese che la pratica del riciclo può produrre, si scoprono solo avvicinandosi alle suddette confezioni. Per guardare quel che ci sta dentro e quel che ci sta dietro. In lingua swahili le chiamano mitumba. Che vuol dire semplicemente, se preferite maliziosamente, "balle". La prima è che gli indumenti del Primo mondo, passati di seconda mano nel Terzo, apparterrebbero a dead white men. Un nero vivo e vegeto non riesce infatti a concepire come qualcuno possa disfarsi di ciò che è ancora utilizzabile. Utile, necessario, prezioso anzi: se si considera che il 90 per cento degli africani si porta addosso vestiti "ereditati" grazie a questi "lasciti". Rassicurati nei timori di approfittare di un gesto ritenuto scandaloso da quella luttuosa dichiarazione di provenienza.I presunti firmatari del testamento, invece, prendano l'espressione per una formula di scaramanzia: il buon auspicio di una rinascita a ogni ricambio del guardaroba. La piccola pietosa bugia, mirata a scongiurare manie e sventare superstizioni è solo il più innocuo degli equivoci. Perché diciamolo insomma, e senza correre il rischio di ripeterci: non si tratta di donazioni. I bianchi, vivi o morti che siano, questi abiti agli africani non li regalano. A dispetto di tutte le buone intenzioni e di scaramantiche formulazioni, glieli vendono. A che titolo e a quale costo si scopre solo sciogliendo - come enigmi - le balle dei mitumba. Recano etichette enigmatiche, criptiche sigle cifrate le spedizioni imballate giunte dal Nord America e dall'Occidente europeo in una ventina di punti di raccolta sparsi nel continente africano. ASM, MCS, NYR, BRA. Che, abbinati al cartellino di un prezzo al chilo, perdono la magia dei codici misteriosi e acquistano il valore - espresso in euro - di acronimi di facile interpretazione. Il sacco con l'African Summer Mix contiene i "vestimenti leggeri" per l'estate: top, T-shirt, canottiere e camiciole vendute a 50 centesimi al chilo e gettonatissime sulle spiagge di Monrovia e di Freetown. Più care le Men Cotton Shirts: selezionate in base alla fattura e ai tessuti naturali, costano 2,20 euro al kg. Con 1,80 le signore possono portarsi a casa un buon volume di impalpabili Nylon Rubbished, ovvero sottovesti sintetiche. Ma sono pronte a sborsare fino a 4 euro al kg - la cifra più alta registrata in questi stock - per avere uno solo dei bustini, corsetti o reggipetti (bra è appunto il diminutivo di brassière) che, tagliati su curve e misure individuali, sono ambiti come pezzi unici. Anche agli sprovvisti del talento per l'enigmistica decifrazione parlano da sole le diciture.CAP dei cappelli parasole (3 euro al kg), BELT per le cinture in pelle (oggetti di un culto vintage per i giapponesi, 90 centesimi al kg), SHOED, scarpe usate con un ottimo mercato nell'Europa dell'Est, e BIKINI che si vedono a occhio nudo attraverso la plastica trasparente delle confezioni, segnalate oltre che dal cartellino del prezzo (95 centesimi al kg), dalla raccomandazione di maneggiare con cura, evitando di comprimere per non danneggiare le coppe o logorare gli elastici dei costumi da bagno. Ma chiarite scritte e avvertenze sulle targhette, servono forse ancora altre spiegazioni. Hanno tutte le ragioni di pretenderne gli uomini che per buona - e non ultima! - volontà affidano alle associazioni benefiche - Caritas, Croce Rossa, parrocchia del quartiere - i propri capi smessi da destinare ai bisognosi dell'altro mondo. E scoprono invece di fornire merce davvero impagabile a un business internazionale di ragguardevoli proporzioni. La spiegazione più semplice è che nessuno fa niente per niente. Raccolta, selezione, trasporto e distribuzione di questo vestiario - corrispondente alla prima voce di importazione nell'economia africana e a una buona fettina di export - hanno un costo. La valutazione dei prezzi bassissimi di queste merci e del senso dell'intera operazione - commerciale, economica, geopolitica - è molto più complessa. Perché è vero che gli africani coinvolti, anche da soggetti attivi, nel commercio dei vestiti vi trovano un'occasione per lavorare e migliorare le proprie condizioni. Ma è anche vero che i prezzi stracciatissimi di capi di cui un occidentale ricco avrebbe fatto stracci, mettono fuori mercato le industrie del tessile e dell'abbigliamento locale. E basti dire che i cinesi, pur di entrare in questo giro di affari abbattendo la concorrenza con l'usato, hanno iniziato a produrre e distribuire capillarmente vestiti nuovi da spacciare come mitumba taroccati: a tutti gli effetti, "balle cinesi". Per evitare depressioni economiche, nefaste tendenze al ribasso, funeste tentazioni di truffa, molte associazioni europee hanno riorganizzato e diversamente orientato le proprie attività.Le britanniche TRAID (Textile Recycling and Internazional Development) e CICD (College for International Co-operation & Development) hanno chiuso localmente il ciclo dei vestiti in Africa per rivendere l'usato in Inghilterra e inviare i profitti così ricavati nel Terzo mondo. Idem il consorzio Prisma di Vicenza o l'associazione Recuperandia di Carpi, che hanno puntato tutto sull'educazione al riciclaggio degli italiani, sulla distribuzione ai nostri poveri degli abiti invernali (inservibili all'equatore) e sull'invio agli africani di sostegni pecuniari. L'internazionale Humana People to people, infine, raccoglie vestiti usati in tutto il mondo, ne rivende il 50 per cento in Africa, l'altra metà in Europa e impiega i guadagni per finanziare progetti di Child Aid, prevenzione di Hiv/Aids, rimboschimento delle foreste in Namibia. Chiaro, no?Perché lo sia il più possibile, perché ambiguità e malintesi di questi cicli e ricicli siano dissipati in nome della trasparenza, un contributo geniale l'ha dato il regista italiano Raffaele Brunetti che ha firmato il documentario Mitumba, The second Hand Road recentemente presentato a Doc 3 (Rai Tre) da Fabio Volo quale narrazione dell'odissea di una maglietta dalla Germania alla Tanzania. Il film, Globo d'Oro 2004-2005 come miglior documentario, fa luce su traffici non tanto torbidi quanto offuscati dal fatto che se n'è all'oscuro. Li mette in buona luce: "Sono favorevole", dichiara il suo autore, "all'idea di recuperare i materiali e di evitare così una distruzione che sarebbe antieconomica e anche inquinante". E sfata davvero - disfacendole - le balle dei mitumba. Conclude infatti Brunetti: "Certi meccanismi dovrebbero essere più chiari. È solo grazie alla mitumba che molti in Africa oggi hanno un abito. E il suo commercio dà lavoro a molte persone".

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