L’ospite inatteso – di Thomas McCarthy 2008
Giudizio sintetico: da non perdere
Walter Vale è un professore di mezz’età che abita ed insegna nel Connecticut, autore di qualche saggio sulla globalizzazione e sullo sviluppo dei paesi del Terzo Mondo. Ama la musica, ma non è capace di suonare nessuno strumento. Sua moglie, pianista di successo, è morta da circa 5 anni, e ha lasciato evidentemente in lui un vuoto incolmabile. Walter manda avanti stancamente la sua vita insegnando svogliatamente a studenti che non hanno voglia di ascoltarlo, prende lezioni di piano cambiando continuamente insegnanti perché evidentemente non è portato. Il suo ultimo saggio, che lui ha solo firmato, in realtà l’ha scritto la sua co-autrice, deve essere presentato a New York, ma la sua collaboratrice è incinta, e non può presenziare una conferenza durante la quale il saggio sarà pubblicizzato: il Preside della facoltà dove Walter insegna, decide che deve andare lui nella
Grande Mela. Walter a malincuore va, in effetti a NY possiede ancora un appartamento che non usa da anni. In questo appartamento, Walter troverà una sopresa; dopo aver “ricevuto” questa sorpresa, la sua vita cambierà.
Piccola parentesi iniziale: nonostante la crisi, i tempi che corrono, l’oscurantismo galoppante, devo riconoscere che i distributori italiani dimostrano di essere coraggiosi e al tempo stesso intelligenti. Distribuire un film così durante le feste di fine anno, vuol dire aver capito che c’è un pubblico che va al cinema tutto l’anno, un pubblico esigente che disdegna i
cine-panettoni e che va al cinema per pensare. Detto questo, un grazie di cuore alla neonata
Bolero Film distribuzioni, che manco a dirlo inizia la sua attività proprio con questo film.
Il secondo film di Tom McCarthy (una carriera da attore caratterista sia al cinema –
Good Night, And Good Luck, The Flag Of Our Fathers, Michael Clayton - che in tv – lo abbiamo visto nell’ultima stagione di
The Wire nei panni del meschino giornalista Scott Templeton -) è bellissimo. Nessun tentennamento.
Definirlo minimale è comodo, ma se si intende con questo aggettivo dire che è un film in cui la regia (alcune sequenze, soprattutto quelle dove il
djambé è protagonista, sono da ricordare) è delicata, funzionale ad una storia sussurrata, ma che ti colpisce durissimamente. E’ un film che rincuora sapere sia fatto, scritto e pensato da uno statunitense, perché ci fa capire che c’è ancora una speranza (magari quella che “predica” Obama). E’ un film che parte in punta di piedi, apparentemente senza sapere dove andare, e invece lo sa benissimo, un film che si insinua dentro lo spettatore inesorabilmente e profondamente, fino a torcergli le viscere fino a farlo lacrimare, se non sanguinare. Accarezzandolo.
Pur toccando vari temi attuali,
The Visitor (questo il titolo originale, e per una volta va detto che forse la traduzione italiana lo supera) riesce a risultare completo, forse perché il regista stesso dice che non è compito di un cineasta dare risposte, ma insinuare domande lo sia. E quindi eccoci davanti alla crisi di vuoto che una (molte, in verità) perdita provoca nell’essere umano, al problema dell’immigrazione, della famiglia allargata, dei preconcetti e, ultimo ma non meno importante, del dopo 11/9 e delle limitazioni delle libertà personali. Eccoci davanti a una società statunitense smarrita, impotente davanti agli eventi, ma al tempo stesso ancora capace di attrarre persone da ogni luogo, e di farle diventare parte integrante di essa nonostante la politica sembri opporglisi.
“Lì prima c’erano le Torri Gemelle…io non le ho mai viste ma Tarek si” dice Zainab, immigrata senegalese illegale, A Mouna, la madre di Tarek, e lo dice sentendosi ferita per questo. Ma lo dice come se lei stessa fosse statunitense. E uno dei tanti dialoghi di un film non parlatissimo, ma dove ogni frase è importante, così come le molte simbologie (la gita in traghetto verso Staten Island, con vista sulla Statua della Libertà e su Ellis Island ne è forse il culmine, ma ogni piccolo particolare, quelli attaccati ai muri soprattutto, fanno di questo film un piccolo gioiello prezioso).
Una fotografia non sfarzosa ma non per questo meno calda, dipingono una New York soprattutto marginale ma non ai margini, come non l’avevamo mai vista. La musica multietnica, così come la New York colorata ma non patinata che ci presenta la fotografia di cui sopra, che accompagna la storia come deve fare una colonna sonora presente ma non invadente.
La scelta del cast, però, è la dimostrazione di quanta sapienza ci sia in questo relativamente giovane e apparentemente non espertissimo regista. Richard Jenkins, nei panni di Walter, caratterista onnipresente in produzioni di qualità altissima, e indimenticabile Nathaniel Fisher in
Six Feet Under, è bravissimo e, permettetemelo, ci ricorda moltissimo il fantastico Bill Murray di
Lost In Translation; spettacolare nel descrivere la timidezza di una persona che ha perso tutto ma non pensa neppure per un momento di doversene andare. Senza più parole Hiam Abbass nei panni di Mouna, un’attrice capace di illuminare lo schermo ogni qualvolta appare. Bravi, ma ovviamente oscurati dai due esperti (e da premiare senza indugi) colleghi “anziani”, Haaz Sleiman (Tarek) e Danai Jekesai Gurira (Zainab), belli entrambi nella loro “africanità” distinta (eccezionale il commento di Mouna la prima volta che vede la fidanzata del figlio: “Ma è nera….molto nera….”).
Se siete, come chi vi scrive, di lacrima facile, preparate i fazzoletti: pur non scadendo mai nel pietismo facile o addirittura nel
melò, dopo una prima parte di preparazione e pure divertente, la seconda parte vi farà singhiozzare nel silenzio della sala, come se vi affondassero lentissimamente una lama in pancia.
L’equivalente di
Juno in quanto a delicatezza, trattando di temi attuali e pure scottanti, senza ogni dubbio uno dei migliori film visti in Italia nel 2008.
Correte al cinema prima che sparisca, e un sentito e caloroso grazie alle sale che hanno avuto il coraggio di proiettarlo.