Dexter - di James Manos, Jr. - Stagione 8 (12 episodi; Showtime) - 2013
Qualche mese dopo la conclusione della stagione precedente, e quindi dopo l'uccisione di LaGuerta, Debra, attanagliata, annientata, distrutta dai sensi di colpa, ha lasciato il lavoro in polizia per un apparentemente meno impegnativo impiego presso un'agenzia di investigazioni privata. Senza freni, si immedesima nei personaggi delle sue infiltrazioni in ambienti malavitosi, eccede con alcol e droghe, la sua vita è ormai destabilizzata e si rifiuta di avere contatti con il fratello. Vista la sua rinuncia, Batista rientrato dal pensionamento assume il grado di tenente. Quinn ha una relazione con Jamie, e i due vogliono tenere Batista all'oscuro.
Dexter, pur andando avanti con la sua vita "normale", rimpiange Hannah ma è preoccupato per Debra. Seppure la sorella non voglia avere contatti con lui, Dexter la controlla, e si accorge che è in pericolo.
Ma nel frattempo, c'è anche il lavoro, e la Miami Metro è alle prese con un nuovo serial killer, detto il brain surgeon (il "chirurgo del cervello"). Il vice capo Matthews, durante un briefing, presenta al resto dello staff la dottoressa Evelyn Vogel, esperta in psicopatologie e studiosa di assassini seriali, che supporterà appunto la Miami Metro Homicide in questo caso; la Vogel si dimostra immediatamente molto interessata alla figura di Dexter, rivelandosi inaspettatamente...
Possiamo dirlo in maniera molto diretta: la stagione finale di Dexter (ma pare non sia ancora detta l'ultima parola) è stata una delusione colossale, ed ha mostrato momenti che hanno sfiorato il ridicolo. Come forse ricorderete, sono uno di quelli che, nonostante vistosi difetti, avevo apprezzato le passate stagioni, sottotono rispetto alle prime, ma sempre più che decenti. A questo giro, però, non posso davvero esimermi dal gridare alla "cagata pazzesca". Una fine ingloriosa per un serial che era sempre riuscito a non sbragare per ben sette stagioni. Accadimenti ingiustificabili, comportamenti dei protagonisti inconcepibili, storylines minori assolutamente prive di qualsiasi interesse, e per la prima volta anche un cast che si era sempre dimostrato all'altezza, in evidentissima difficoltà. Mai visto un Michael C. Hall (Dexter) così poco convincente, ma la delusione forse più cocente è stata una Charlotte Rampling, un'attrice che ho sempre ammirato, perfino in film indecenti (per non parlare di quelli più belli e intensi, lei sempre così brava), relegata in un ruolo che parte in maniera interessante e poi si sviluppa in maniera goffa per finire nel ridicolo più completo, assolutamente in difficoltà.
Nel disastro totale, si salva Jennifer Carpenter (Debra), anche se pure il suo personaggio diventa una macchietta, in questa, lo ripeto, deludente stagione finale.
Peccato.
No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.
20131031
20131030
ordinary days
Confesso che la tentazione di intitolare il post come la famosissima canzone di Lou Reed era forte, ma non sarebbe stata corretta, in fondo. Andiamo al punto.
Stancato da un raffreddore che già da domenica sentivo arrivare, lunedì tento di portare in fondo una delle mie giornate tipo: sveglia alle 4,00 per fare colazione, torno a letto un altro paio d'ore, barba e capelli, borsa per la piscina e per il lavoro, e via verso la piscina (12 km circa dal paesello), appunto. 7,30-8,00 a dorso. Indietro verso il lavoro (al paesello): la giornata passa tra due riunioni in cui si illustrano i futuri cambiamenti ai miei collaboratori. Già dalle facce, dagli atteggiamenti, dalle domande, si intuiscono quali saranno le risposte, cosa mi debbo aspettare. A pranzo torno a casa, ma mi fermo in farmacia per comprare qualcosa per il raffreddore che si fa sempre più fastidioso. Attraverso lo stabilimento per accordi per l'indomani sera, e dalle 18,00 alle 19,00 ho il corso di francese. Attraverso di nuovo lo stabilimento per recarmi al paese accanto al paesello (5 km) per l'ora di ginnastica posturale, anche detta "da vecchi", dalle 19,30 alle 20,30. Mentre vado, mi arriva un sms dal cantante della mia ex band, Lenostrescimmie. "Stasera Lenostrescimmie? La sala prove c'è". E' già da un po' di tempo che siamo tutti d'accordo per riunirci e vedere cosa ne esce. La prima volta avevo un impegno. Stasera sarò sfinito, ma non posso essere io per la seconda volta a dare buca: rispondo positivamente. 21,30. Finita la ginnastica, doccia, corsa a casa, mangio qualcosa al volo. Alle 21,35 sono sul posto, dalla parte opposta del paesello. Tra l'altro, mi sovviene che nel post di ieri, quello dedicato ai miei colleghi "milanesi", ho usato una frase che è molto simile ad un testo de Lenostrescimmie. C'è Filo, il cantante. Arrivano gli altri due, Lore, bassista, France, chitarra. Saluti, convenevoli. Tutto tranquillo. Un po' di tempo per sistemare basso e chitarra, io con la batteria, che era già sul posto, sono pronto. E' una batteria montata per un mancino, inizialmente ho la tentazione di suonarla così, poi mi dico di metterci impegno e giro i pezzi quanto basta per suonare in maniera decente. Si parte verso le 22,00, e ne escono fuori 3 ore di jam session che mi viene da definire stoner rock. I vecchi pezzi sono solo accennati, giusto quanto basta per ricordarsi quanto dovevamo ai Soundgarden. Le cover non sono ammesse, anche se a me non dispiacerebbe: solo un accenno a Slaves And Bulldozers, che con l'incoscienza dei fan eseguivamo perfino dal vivo. Si trova un ritmo, un riff, un giro, e si va avanti per decine di minuti, come i Pink Floyd di Live at Pompei. Si, chiaro, mica a quei livelli, era per dire. Si finisce all'1,00 di notte. Ho le mani piene di vesciche, ma, anche se nessuno vuole dirlo apertamente, se non per scherzo, tutti e quattro sappiamo che lo rifaremo. Senza impegno, ma con mucho gusto.
Non vi ho detto una cosa. Sapete da quanto non suonavamo insieme? Più o meno vent'anni. Avete letto bene: 20.
Decido, prima di spegnere la luce e di rimettere le sveglie, di prendermela comoda il martedì: salto la piscina, sveglia alle 8,00, colazione e abluzioni, poi a lavoro. Riunione dalle 9,30 fino al pomeriggio inoltrato, e, come nei giorni scorsi, un caldo micidiale. L'Actigrip fa il suo effetto, e il raffreddore è quasi sotto controllo. Esco verso le 17,30, un rapido passaggio a casa, e poi via verso Livorno: stasera cena da un amico, ex collega, ex maestro (lavorativamente parlando), e poi insieme al cinema, ancora musica, ancora a proposito dei tempi andati. In programma c'è Metallica: Through the Never 3D.
La sequenza è curiosa: i Metallica (altro collegamento, con Lou Reed), come ricorderete dalla saga Io e i Metallica, pubblicata anni fa qui su questo blog (e, a dirla tutta, ancora da concludere), sono stati una band che ho molto amato, e pure tentato di emulare, prima dell'esperienza de Lenostrescimmie. Visti molte volte in concerto, dopo il Black Album secondo me sono finiti.
Infatti, il film, diretto dal poco conosciuto regista Nimròd Antal, losangelino di origini ungheresi, con piglio dinamico e muscolare, tenta di andare oltre alle classiche riprese di un unico concerto, inframezzando uno straccio di storia che vede protagonista Trip, un roadie degli stessi Metallica; il concerto però c'è, più o meno dall'inizio alla fine, e dimostra che i pezzi da ReLoad (Fuel, The Memory Remains) e da Death Magnetic (Cyanide), così come quelli da Load e St. Anger, seppur non presenti (fortunatamente!) nel film, sembrano frutto di una cover band, rispetto a roba a dir poco monumentale come Ride the Lightning, Creeping Death, One, Master of Puppets, Orion, ...And Justice for All, Battery o l'apoteosi di Hit the Lights, che riporta tutti indietro fino a Kill 'em All (1983, e scusate tanto), eseguite in ottime versioni.
Divertente, comunque, anche se la storia, in effetti, non c'è. Strombazzata, tra l'altro c'era a disposizione un ottimo attor giovane, quel Dane DeHaan che qua avevamo apprezzato fin dai suoi esordi in In Treatment, nei panni di Trip, ma in effetti funge solo da "ponte" tra un'esecuzione e l'altra. Lars Ulrich sempre al limite dell'insopportabile, con quel suo continuo alzarsi dalla batteria, e quel suo stile che pare improvvisato (e nel quale mi riconosco, paradossalmente: eppure lui sicuramente i suoi passaggi li prova, eppure, riescono sempre a sembrare improvvisati), e quelle rifiniture mancanti, Robert Trujillo che, se ancora ce ne fosse stato bisogno, si candida al premio di Tamarro del millennio.
Però ci voleva. Il film, non Trujillo.
Stancato da un raffreddore che già da domenica sentivo arrivare, lunedì tento di portare in fondo una delle mie giornate tipo: sveglia alle 4,00 per fare colazione, torno a letto un altro paio d'ore, barba e capelli, borsa per la piscina e per il lavoro, e via verso la piscina (12 km circa dal paesello), appunto. 7,30-8,00 a dorso. Indietro verso il lavoro (al paesello): la giornata passa tra due riunioni in cui si illustrano i futuri cambiamenti ai miei collaboratori. Già dalle facce, dagli atteggiamenti, dalle domande, si intuiscono quali saranno le risposte, cosa mi debbo aspettare. A pranzo torno a casa, ma mi fermo in farmacia per comprare qualcosa per il raffreddore che si fa sempre più fastidioso. Attraverso lo stabilimento per accordi per l'indomani sera, e dalle 18,00 alle 19,00 ho il corso di francese. Attraverso di nuovo lo stabilimento per recarmi al paese accanto al paesello (5 km) per l'ora di ginnastica posturale, anche detta "da vecchi", dalle 19,30 alle 20,30. Mentre vado, mi arriva un sms dal cantante della mia ex band, Lenostrescimmie. "Stasera Lenostrescimmie? La sala prove c'è". E' già da un po' di tempo che siamo tutti d'accordo per riunirci e vedere cosa ne esce. La prima volta avevo un impegno. Stasera sarò sfinito, ma non posso essere io per la seconda volta a dare buca: rispondo positivamente. 21,30. Finita la ginnastica, doccia, corsa a casa, mangio qualcosa al volo. Alle 21,35 sono sul posto, dalla parte opposta del paesello. Tra l'altro, mi sovviene che nel post di ieri, quello dedicato ai miei colleghi "milanesi", ho usato una frase che è molto simile ad un testo de Lenostrescimmie. C'è Filo, il cantante. Arrivano gli altri due, Lore, bassista, France, chitarra. Saluti, convenevoli. Tutto tranquillo. Un po' di tempo per sistemare basso e chitarra, io con la batteria, che era già sul posto, sono pronto. E' una batteria montata per un mancino, inizialmente ho la tentazione di suonarla così, poi mi dico di metterci impegno e giro i pezzi quanto basta per suonare in maniera decente. Si parte verso le 22,00, e ne escono fuori 3 ore di jam session che mi viene da definire stoner rock. I vecchi pezzi sono solo accennati, giusto quanto basta per ricordarsi quanto dovevamo ai Soundgarden. Le cover non sono ammesse, anche se a me non dispiacerebbe: solo un accenno a Slaves And Bulldozers, che con l'incoscienza dei fan eseguivamo perfino dal vivo. Si trova un ritmo, un riff, un giro, e si va avanti per decine di minuti, come i Pink Floyd di Live at Pompei. Si, chiaro, mica a quei livelli, era per dire. Si finisce all'1,00 di notte. Ho le mani piene di vesciche, ma, anche se nessuno vuole dirlo apertamente, se non per scherzo, tutti e quattro sappiamo che lo rifaremo. Senza impegno, ma con mucho gusto.
Non vi ho detto una cosa. Sapete da quanto non suonavamo insieme? Più o meno vent'anni. Avete letto bene: 20.
Decido, prima di spegnere la luce e di rimettere le sveglie, di prendermela comoda il martedì: salto la piscina, sveglia alle 8,00, colazione e abluzioni, poi a lavoro. Riunione dalle 9,30 fino al pomeriggio inoltrato, e, come nei giorni scorsi, un caldo micidiale. L'Actigrip fa il suo effetto, e il raffreddore è quasi sotto controllo. Esco verso le 17,30, un rapido passaggio a casa, e poi via verso Livorno: stasera cena da un amico, ex collega, ex maestro (lavorativamente parlando), e poi insieme al cinema, ancora musica, ancora a proposito dei tempi andati. In programma c'è Metallica: Through the Never 3D.
La sequenza è curiosa: i Metallica (altro collegamento, con Lou Reed), come ricorderete dalla saga Io e i Metallica, pubblicata anni fa qui su questo blog (e, a dirla tutta, ancora da concludere), sono stati una band che ho molto amato, e pure tentato di emulare, prima dell'esperienza de Lenostrescimmie. Visti molte volte in concerto, dopo il Black Album secondo me sono finiti.
Infatti, il film, diretto dal poco conosciuto regista Nimròd Antal, losangelino di origini ungheresi, con piglio dinamico e muscolare, tenta di andare oltre alle classiche riprese di un unico concerto, inframezzando uno straccio di storia che vede protagonista Trip, un roadie degli stessi Metallica; il concerto però c'è, più o meno dall'inizio alla fine, e dimostra che i pezzi da ReLoad (Fuel, The Memory Remains) e da Death Magnetic (Cyanide), così come quelli da Load e St. Anger, seppur non presenti (fortunatamente!) nel film, sembrano frutto di una cover band, rispetto a roba a dir poco monumentale come Ride the Lightning, Creeping Death, One, Master of Puppets, Orion, ...And Justice for All, Battery o l'apoteosi di Hit the Lights, che riporta tutti indietro fino a Kill 'em All (1983, e scusate tanto), eseguite in ottime versioni.
Divertente, comunque, anche se la storia, in effetti, non c'è. Strombazzata, tra l'altro c'era a disposizione un ottimo attor giovane, quel Dane DeHaan che qua avevamo apprezzato fin dai suoi esordi in In Treatment, nei panni di Trip, ma in effetti funge solo da "ponte" tra un'esecuzione e l'altra. Lars Ulrich sempre al limite dell'insopportabile, con quel suo continuo alzarsi dalla batteria, e quel suo stile che pare improvvisato (e nel quale mi riconosco, paradossalmente: eppure lui sicuramente i suoi passaggi li prova, eppure, riescono sempre a sembrare improvvisati), e quelle rifiniture mancanti, Robert Trujillo che, se ancora ce ne fosse stato bisogno, si candida al premio di Tamarro del millennio.
Però ci voleva. Il film, non Trujillo.
20131029
pride without prejudice
Parti per il nord la domenica subito dopo una partita del Livorno che ti fa arrabbiare, torni il venerdì seguente per l'ora di cena e trovi il frigo come l'hai lasciato: con l'eco dentro. Guardi il paesello dal finestrino e niente sembra cambiato, ma per te son cambiate un po' di cose. E' cominciata una grande sfida lavorativa, e speri di esserne all'altezza.
Smettendo di parlare di me in seconda persona che fa brutto (sarebbe peggio in terza), sono stato una settimana a lavorare vicino a Milano, alla direzione nazionale della società per cui lavoro da 24 anni. Non era la prima volta che ci andavo, ma è stata la prima per un periodo di tempo così lungo. In 24 anni sono cambiate tante cose: acquisizioni, dismissioni, colleghi in pensione, la prima volta che sono stato alla direzione la sede era a Milano, in centro, per dire, vicino alla sede del Milan, in un palazzo prestigioso e probabilmente di grande valore. Adesso, al secondo cambio di sede, l'agglomerato di palazzine è in mezzo alla campagna, quella campagna padana con strade strette mutuate da vecchi percorsi contadini ed enormi centri commerciali che spuntano in mezzo al nulla.
Ho colto l'occasione per vedere amiche e amici che abitano e lavorano a Milano. Ma oggi non voglio parlare di loro.
Ho rivisto colleghe e colleghi che non vedevo da quasi vent'anni, e che ovviamente non si ricordavano di me. Ma soprattutto, ho condiviso una settimana con colleghe e colleghi con i quali lavoro da un po' di anni. Ed è stato bello, mettendo da parte una sana preoccupazione per la nuova "sfida" di cui sopra.
Nonostante i tempi facciano assomigliare i lavoratori un po' ai calciatori, per dire che non ci sono più le "bandiere", che iniziano a lavorare per una società e vanno in pensione dopo aver dedicato la propria vita professionale proprio a quella società, con le dovute differenze, il fatto di trovare tanta simpatia e calore anche in un ambiente che non è quello dove lavoro di solito, stimola il mio orgoglio di dipendente; vi ho già detto mille volte che la società per cui lavoro è la stessa per cui hanno lavorato, negli anni, mio nonno, mia nonna, mia zia e mio padre, e sarò patetico ma anche se spesso mi sembra che mi (e ci) tratti male sento di doverle qualcosa.
Ciò non toglie che, se da una parte mi sento stimolato da queste nuove responsabilità che mi stanno arrivando addosso, al tempo stesso mi sento molto dispiaciuto per il fatto che questa cosa derivi da una serie di cambiamenti che porteranno ad un rimescolamento che, diciamocela tutta, eliminerà alcuni posti di lavoro, nell'ambito di una sorta di battaglia per la sopravvivenza sul mercato.
Son cose difficili da spiegare a parole, così come son difficili da vivere. Però, una cosa la voglio scrivere qui, per farla sapere alle donne e agli uomini che mi hanno "accolto" e accompagnato, e che mi accompagneranno ancora in un futuro prossimo, la scorsa settimana.
Grazie per esserci, e per tutto quello che avete fatto e abbiamo condiviso fino ad oggi, e che spero condivideremo ancora per il periodo che ci rimane prima della pensione. Grazie per i sorrisi, per le code in mensa, per i caffè della macchinetta e per le colazioni al bar, per le chiacchiere mai banali e per sopportarmi così come sono, sfacciato e poco elegante ma, almeno spero, sempre sincero. Grazie per non portare nessun rancore, perché con molte di voi, negli anni, ho fatto grandi litigate. Grazie anche a chi conosco meno, ma si è dimostrato ugualmente amabile. A tutte e tutti voi un abbraccio che spero di darvi personalmente a breve.
Grazie perché so che mi perdonerete per il fatto che il pensiero finale lo voglio dedicare ad una persona in particolare.
E sto parlando di te, amico che conosco da poco ma che mi sembra di conoscere da tutta la vita, di te che insieme a me, nelle pause, hai creato i Luca & Paolo (Camerà Caffé) versione Ringo Boys. Se c'è una cosa che rimprovero alla società per la quale sono tanto orgoglioso di lavorare, è quella di lasciarti andare. Per quanto possa sembrarti sdolcinato, banale e quasi gay, quando non lavoreremo più per la stessa società ti porterò lo stesso con me. Sperando che le nostre strade si incrocino di nuovo.
Come dici tu, bella fratello.
Smettendo di parlare di me in seconda persona che fa brutto (sarebbe peggio in terza), sono stato una settimana a lavorare vicino a Milano, alla direzione nazionale della società per cui lavoro da 24 anni. Non era la prima volta che ci andavo, ma è stata la prima per un periodo di tempo così lungo. In 24 anni sono cambiate tante cose: acquisizioni, dismissioni, colleghi in pensione, la prima volta che sono stato alla direzione la sede era a Milano, in centro, per dire, vicino alla sede del Milan, in un palazzo prestigioso e probabilmente di grande valore. Adesso, al secondo cambio di sede, l'agglomerato di palazzine è in mezzo alla campagna, quella campagna padana con strade strette mutuate da vecchi percorsi contadini ed enormi centri commerciali che spuntano in mezzo al nulla.
Ho colto l'occasione per vedere amiche e amici che abitano e lavorano a Milano. Ma oggi non voglio parlare di loro.
Ho rivisto colleghe e colleghi che non vedevo da quasi vent'anni, e che ovviamente non si ricordavano di me. Ma soprattutto, ho condiviso una settimana con colleghe e colleghi con i quali lavoro da un po' di anni. Ed è stato bello, mettendo da parte una sana preoccupazione per la nuova "sfida" di cui sopra.
Nonostante i tempi facciano assomigliare i lavoratori un po' ai calciatori, per dire che non ci sono più le "bandiere", che iniziano a lavorare per una società e vanno in pensione dopo aver dedicato la propria vita professionale proprio a quella società, con le dovute differenze, il fatto di trovare tanta simpatia e calore anche in un ambiente che non è quello dove lavoro di solito, stimola il mio orgoglio di dipendente; vi ho già detto mille volte che la società per cui lavoro è la stessa per cui hanno lavorato, negli anni, mio nonno, mia nonna, mia zia e mio padre, e sarò patetico ma anche se spesso mi sembra che mi (e ci) tratti male sento di doverle qualcosa.
Ciò non toglie che, se da una parte mi sento stimolato da queste nuove responsabilità che mi stanno arrivando addosso, al tempo stesso mi sento molto dispiaciuto per il fatto che questa cosa derivi da una serie di cambiamenti che porteranno ad un rimescolamento che, diciamocela tutta, eliminerà alcuni posti di lavoro, nell'ambito di una sorta di battaglia per la sopravvivenza sul mercato.
Son cose difficili da spiegare a parole, così come son difficili da vivere. Però, una cosa la voglio scrivere qui, per farla sapere alle donne e agli uomini che mi hanno "accolto" e accompagnato, e che mi accompagneranno ancora in un futuro prossimo, la scorsa settimana.
Grazie per esserci, e per tutto quello che avete fatto e abbiamo condiviso fino ad oggi, e che spero condivideremo ancora per il periodo che ci rimane prima della pensione. Grazie per i sorrisi, per le code in mensa, per i caffè della macchinetta e per le colazioni al bar, per le chiacchiere mai banali e per sopportarmi così come sono, sfacciato e poco elegante ma, almeno spero, sempre sincero. Grazie per non portare nessun rancore, perché con molte di voi, negli anni, ho fatto grandi litigate. Grazie anche a chi conosco meno, ma si è dimostrato ugualmente amabile. A tutte e tutti voi un abbraccio che spero di darvi personalmente a breve.
Grazie perché so che mi perdonerete per il fatto che il pensiero finale lo voglio dedicare ad una persona in particolare.
E sto parlando di te, amico che conosco da poco ma che mi sembra di conoscere da tutta la vita, di te che insieme a me, nelle pause, hai creato i Luca & Paolo (Camerà Caffé) versione Ringo Boys. Se c'è una cosa che rimprovero alla società per la quale sono tanto orgoglioso di lavorare, è quella di lasciarti andare. Per quanto possa sembrarti sdolcinato, banale e quasi gay, quando non lavoreremo più per la stessa società ti porterò lo stesso con me. Sperando che le nostre strade si incrocino di nuovo.
Come dici tu, bella fratello.
20131028
The Trouble with Islam
Quando abbiamo smesso di pensare? - di Irshad Manji (2004)
Sottotitolo: Un'islamica di fronte ai problemi dell'Islam
Se fossi cresciuta in un paese islamico, probabilmente sarei diventata un'atea convinta. Se invece ho capito perché non volevo rinunciare all'Islam, è stato grazie al fatto di vivere in questa parte del mondo, dove posso pensare, discutere e approfondire qualunque argomento. Dopo tanto esplorare, la mia interpretazione personale del Corano mi riconduce invariabilmente a tre messaggi. Primo: soltanto Dio conosce appieno la verità delle cose. Secondo: soltanto Dio può punire i miscredenti, il che quadra, visto che solo Lui conosce l'essenza della vera fede. (E, visti e considerati i molti salti d'umore del Corano, ci vuole davvero l'Onnipotente per capire come tenere insieme tutto.) E' giusto che gli uomini stigmatizzino le pratiche corrotte, ma più di così non possiamo fare per favorire la fede. Terzo: l'umiltà che ne consegue ci rende liberi di riflettere sulla volontà di Dio, senza doverci attenere a una linea imposta. Ricordate la seconda sura del Corano? "Non vi sia costrizione nella Fede." E: "Voi avete la vostra religione, io la mia" riecheggia un altro verso nella sura CIX. In mezzo c'è questo: "Se a Dio fosse piaciuto, avrebbe fatto di voi un unico popolo. Invece ha fatto altrimenti". Ditemi se non è vero.
Questo libro è uno di quelli che mi ha tenuto compagnia durante il mio viaggetto in Macedonia. L'unico, dei tre, che ho impiegato qualche giorno a leggere, un po' perché non è un romanzo, un po' perché mi metteva talmente di buon umore, che volevo durasse in eterno. La prima volta che ho saputo dell'esistenza di un personaggio come Irshad Manji ve ne parlai subito. Appena terminato di vedere quel programma, andai su amazon e misi nella wishlist questo libro, purtroppo l'unico di questa autrice tradotto in italiano (almeno, per il momento). La lettura di questo The Trouble with Islam (in originale) non mi ha affatto deluso, anzi, come vi dicevo, mi ha messo di buon umore. Semplicemente perché mette allegria e felicità addosso il sapere che esistono persone così intelligenti e di buon senso, e che riescano, in qualche modo, a comunicare un messaggio positivo con un piglio così baldanzoso e fiero.
Impostato come una lettera aperta alle sorelle e ai fratelli musulmani, questo libro parla anche della storia personale della Manji, nata un Uganda e da lì sradicata, come molte altre famiglie musulmane asiatiche, dal dittatore Amin (si, quello de L'ultimo re di Scozia), cresce a Richmond, vicino a Vancouver (British Columbia) in Canada dall'età di quattro anni. E' evidentemente, una bambina che non si accontenta del "si fa così e basta", perché, in pratica, è tutta la vita che cerca risposte. Figlia di un padre autoritario e di una madre accondiscendente, si laurea alla British Columbia in legge, lavora in ambito parlamentare e poi si lancia nel giornalismo anche televisivo. Nonostante tutti i suoi dubbi sull'Islam, di cui odia gli atteggiamenti oltranzisti di quello che definisce "l'Islam del deserto" (su tutti quello dell'Arabia Saudita, che impedisce moltissime cose alle donne) e soprattutto, l'atteggiamento generale verso la donna, non lo abbandona mai, lo studia, ci riflette. Lesbica, felicemente accompagnata, tutt'oggi si definisce una refusenik dell'Islam. Ma il libro non si esaurisce con aneddoti sulla vita dell'autrice, tutt'altro. Con una prosa incalzante, scoppiettante, ironica e alla mano, si legge, come detto, che è un piacere, e sembra di avere l'autrice lì, accanto, che si inalbera per quelle che ritiene profonde ingiustizie e distorsioni di un messaggio universale, quello della religione, e insiste sul fatto che le tre religioni monoteistiche sono tutte figlie dello stesso messaggio, e condividono spesso gli stessi profeti. Dura e al tempo stesso lucidissima la parte che riguarda Israele e Palestina, con racconti di viaggio e incontri importanti, questo libro mi ha, come dire, ridato speranza in un mondo migliore, fatto di persone ragionevoli e open minded.
Così si chiude il libro, nei ringraziamenti:
Desidero infine ringraziare mia madre, per essersi fatta coraggio e non avermi mai chiesto di rinunciare all'impresa, pur essendo lei una musulmana osservante. Ciò che ha fatto è stato però esortarmi a non far arrabbiare il Signore. Un giorno, al funerale di un parente, mi pregò di andare a salutare il suo imam, giunto apposta in aereo per officiare il rito funebre. Gli tesi la mano e lui non solo rifiutò di stringermela, ma finse addirittura di non vederla. Io gli chiesi perché, e lui tirò in ballo "le regole". Allora gli suggerii che un atteggiamento umano dovrebbe valere più di qualunque regola e, dinanzi alla mia risposta, mia madre mi sussurrò preoccupata: "Non essere villana!". Cara mamma, ammesso che io sia stata villana anche nelle pagine di questo libro, e solo tu lo puoi stabilire, ti chiedo solo una cosa: non confondere, ti prego, l'ira di un imam con l'ira del Signore.
Raccomandato.
Sottotitolo: Un'islamica di fronte ai problemi dell'Islam
Se fossi cresciuta in un paese islamico, probabilmente sarei diventata un'atea convinta. Se invece ho capito perché non volevo rinunciare all'Islam, è stato grazie al fatto di vivere in questa parte del mondo, dove posso pensare, discutere e approfondire qualunque argomento. Dopo tanto esplorare, la mia interpretazione personale del Corano mi riconduce invariabilmente a tre messaggi. Primo: soltanto Dio conosce appieno la verità delle cose. Secondo: soltanto Dio può punire i miscredenti, il che quadra, visto che solo Lui conosce l'essenza della vera fede. (E, visti e considerati i molti salti d'umore del Corano, ci vuole davvero l'Onnipotente per capire come tenere insieme tutto.) E' giusto che gli uomini stigmatizzino le pratiche corrotte, ma più di così non possiamo fare per favorire la fede. Terzo: l'umiltà che ne consegue ci rende liberi di riflettere sulla volontà di Dio, senza doverci attenere a una linea imposta. Ricordate la seconda sura del Corano? "Non vi sia costrizione nella Fede." E: "Voi avete la vostra religione, io la mia" riecheggia un altro verso nella sura CIX. In mezzo c'è questo: "Se a Dio fosse piaciuto, avrebbe fatto di voi un unico popolo. Invece ha fatto altrimenti". Ditemi se non è vero.
Questo libro è uno di quelli che mi ha tenuto compagnia durante il mio viaggetto in Macedonia. L'unico, dei tre, che ho impiegato qualche giorno a leggere, un po' perché non è un romanzo, un po' perché mi metteva talmente di buon umore, che volevo durasse in eterno. La prima volta che ho saputo dell'esistenza di un personaggio come Irshad Manji ve ne parlai subito. Appena terminato di vedere quel programma, andai su amazon e misi nella wishlist questo libro, purtroppo l'unico di questa autrice tradotto in italiano (almeno, per il momento). La lettura di questo The Trouble with Islam (in originale) non mi ha affatto deluso, anzi, come vi dicevo, mi ha messo di buon umore. Semplicemente perché mette allegria e felicità addosso il sapere che esistono persone così intelligenti e di buon senso, e che riescano, in qualche modo, a comunicare un messaggio positivo con un piglio così baldanzoso e fiero.
Impostato come una lettera aperta alle sorelle e ai fratelli musulmani, questo libro parla anche della storia personale della Manji, nata un Uganda e da lì sradicata, come molte altre famiglie musulmane asiatiche, dal dittatore Amin (si, quello de L'ultimo re di Scozia), cresce a Richmond, vicino a Vancouver (British Columbia) in Canada dall'età di quattro anni. E' evidentemente, una bambina che non si accontenta del "si fa così e basta", perché, in pratica, è tutta la vita che cerca risposte. Figlia di un padre autoritario e di una madre accondiscendente, si laurea alla British Columbia in legge, lavora in ambito parlamentare e poi si lancia nel giornalismo anche televisivo. Nonostante tutti i suoi dubbi sull'Islam, di cui odia gli atteggiamenti oltranzisti di quello che definisce "l'Islam del deserto" (su tutti quello dell'Arabia Saudita, che impedisce moltissime cose alle donne) e soprattutto, l'atteggiamento generale verso la donna, non lo abbandona mai, lo studia, ci riflette. Lesbica, felicemente accompagnata, tutt'oggi si definisce una refusenik dell'Islam. Ma il libro non si esaurisce con aneddoti sulla vita dell'autrice, tutt'altro. Con una prosa incalzante, scoppiettante, ironica e alla mano, si legge, come detto, che è un piacere, e sembra di avere l'autrice lì, accanto, che si inalbera per quelle che ritiene profonde ingiustizie e distorsioni di un messaggio universale, quello della religione, e insiste sul fatto che le tre religioni monoteistiche sono tutte figlie dello stesso messaggio, e condividono spesso gli stessi profeti. Dura e al tempo stesso lucidissima la parte che riguarda Israele e Palestina, con racconti di viaggio e incontri importanti, questo libro mi ha, come dire, ridato speranza in un mondo migliore, fatto di persone ragionevoli e open minded.
Così si chiude il libro, nei ringraziamenti:
Desidero infine ringraziare mia madre, per essersi fatta coraggio e non avermi mai chiesto di rinunciare all'impresa, pur essendo lei una musulmana osservante. Ciò che ha fatto è stato però esortarmi a non far arrabbiare il Signore. Un giorno, al funerale di un parente, mi pregò di andare a salutare il suo imam, giunto apposta in aereo per officiare il rito funebre. Gli tesi la mano e lui non solo rifiutò di stringermela, ma finse addirittura di non vederla. Io gli chiesi perché, e lui tirò in ballo "le regole". Allora gli suggerii che un atteggiamento umano dovrebbe valere più di qualunque regola e, dinanzi alla mia risposta, mia madre mi sussurrò preoccupata: "Non essere villana!". Cara mamma, ammesso che io sia stata villana anche nelle pagine di questo libro, e solo tu lo puoi stabilire, ti chiedo solo una cosa: non confondere, ti prego, l'ira di un imam con l'ira del Signore.
Raccomandato.
20131027
Macedonia - Settembre 2013 (11)
Guardando la cartina, mi viene un'idea. Passo largo rispetto a Stip, e invece di puntare a nord (non ve l'avevo detto, ma la destinazione di stasera è Veles, dove ho prenotato l'ultima notte macedone, una comoda trentina di chilometri dall'aeroporto), torno verso sud. Ho notato una strada che potrebbe essere interessante. Quindi direzione sud, poi, al bivio che indica Leskovica, prendo quella strada, che alla fine riporta a Negotino. Al bivio, l'imponente asta con relativa bandiera macedone che ho usato anche per aprire questi resoconti. Qui un altro scatto.
Come spesso accade qui, subito dopo Leskovica la strada diventa una strada di montagna, ma in ottimo stato e, come prevedevo, frequentata pochissimo. Si sale per passare quest'altra piccola catena montuosa, e poi si scende nuovamente. Inutile dirvi che, complice la giornata, il panorama più si sale e più è mozzafiato. Quando ormai siamo di nuovo in pianura, si incontra il villaggio minuscolo di Pepelishte, si passa il fiume Vardar (non so perché 'sto nome mi fa venire a mente l'Islanda), e siamo a Negotino. Una delle ragioni per cui ho voluto fare questa deviazione è che volevo percorrere qualche chilometro in più dell'autostrada intitolata al mio omonimo conteso tra Grecia e Macedonia (oltre al nome stesso di Macedonia, come abbiamo già rilevato; storia buffa, se ci pensate: nacque in quella che era considerata la Grecia, nella regione chiamata Macedonia). Mi piace, mi piace davvero. Quindi non entro in Negotino bensì entro in autostrada direttamente in un'area di servizio (della Makpetrol, se v'interessa).
Siccome s'è fatta una certa, come si dice nella nostra, di capitale, e siccome disto a occhio e croce una settantina di chilometri dall'aeroporto, faccio l'ultimo rifornimento di dizel, e mi mangio un panino mentre alla tv passa un inchiesta sulle tifoserie della ex Jugoslavia. Mi bevo un caffè annacquato, esco e saluto, e mi siedo sotto un ombrellone con tavolo e sedie vista autostrada (vedi foto sopra) a fumarmi una meritata sigaretta (vedi foto sotto): fondamentalmente, è un po' la fine del viaggio conoscitivo, adesso c'è solo da percorrere questa quarantina di chilometri per Veles, indovinare l'uscita giusta, trovare l'albergo prenotato, mangiare qualcosa più tardi, dormire il sonno dei giusti, e domattina andare all'aeroporto. Non so come spiegarlo, ma insomma, viaggiando da solo questi momenti li ritengo, probabilmente senza nessun motivo, importanti. Voglio dire, quelli in cui, usando un luogo comune, si tirano le somme. Intendiamoci: mica ho fatto la trasvolata di un oceano con un aliante o il giro del mondo in 80 giorni eh. Sono uno che si accontenta di poco, in fondo. Come che sia, relax.
Via con l'autostrada (автопат Александар Македонски), che non so, ha qualcosa che mi ipnotizza. Mi ritrovo a progettare modifiche al progetto di compiere un circolo che parte da Constanza in Romania e che attraversi una prima volta la Bulgaria, che arrivi in Grecia poi risalga attraverso Macedonia e Serbia per rientrare in Bulgaria, poi ancora in Romania dalla parte della Transilvania, poi la tagli per orizzontale e si diriga verso Moldova e faccia toccata e fuga ad Odessa in Ucraina, per poi tornare a Constanza, pur di ripercorrere questo tratto di autostrada. Mi rendo conto di non essere normale, ma ci sono abituato. Mi scorrono lateralmente Stobi, Gradsko, Vinicani, Nogaevci, il Vardar scorre ora da una parte, ora dall'altra, e quando si intravede Dolno Kalaslari vedo l'uscita per Veles. Ma non mi convince, non mi pare quella giusta. Vedo la cittadina scorrermi sulla sinistra, e proprio quando sembra "scemare", ecco l'uscita Veles West. Io l'avrei chiamata Veles Nord, ma fa lo stesso: mi sa che è questa. Ho studiato le indicazioni e mi sono stampato una mappa da google maps, ma quando sono sulla strada giusta l'albergo è più difficile del previsto da trovare, me lo aspettavo più vicino. Alla fine comunque arrivo. Mi installo, finisco anche il terzo ed ultimo libro che mi ero portato, guardo un po' di tele (la scelta di canali naturalmente scende man mano che scende la categoria e il prezzo; l'eccezione è stato l'albergo di ieri vicino a Kavadarci, si vedevano, male, due canali entrambi tedeschi ed entrambi trasmettevano schifezze inguardabili), scendo al ristorante dell'albergo per cena. Faccio due chiacchiere col giovane cameriere, che mi dice che il padre lavora in Italia, a Piacenza, e il discorso si sposta sul calcio, mi dice che prima o poi vuole andare in Argentina. Sbaglio ad ordinare, pensavo di aver ordinato una grigliata (skara)e invece mi arriva, se non mi sbaglio, una ciotola di ceramica di selsko meso, un piatto di cui avevo letto sulla Lonely, ma che non avevo il coraggio di chiedere perché avevo paura mi avrebbe fatto schifo. E invece, pensate un po', è delizioso. Un pochettino pesante, ma delizioso (non ce la faccio a terminarlo, come mi è sempre accaduto in questa settimana). Esco e mi fumo una sigaretta; il cameriere si unisce, chiedendomi addirittura il permesso di farmi compagnia. Arrivano dei suoi amici, e quello che scende dall'auto mi saluta con una formale stretta di mano, biascicando qualcosa di realmente incomprensibile. Poi il cameriere appassionato di calcio (tra l'altro, mentre cenavo mi sono ricordato che non ho saputo il risultato della partita interna del Livorno, che mi sono perso ieri sera, essendo qui, e lui mi ha cercato il risultato su internet col suo telefono... ecco a cosa servono davvero gli smartphone) si congeda per del lavoro da fare. Auguro ai due la buonanotte in macedone (dobra noch, che in realtà si scrive con, al finale, una K accentata, che evidentemente si pronuncia dolce), e cerco di dormire.
Naturalmente mi sveglio prestissimo, nonostante non abbia dormito granché, ma le ore passate sdraiato sono state molte, come sempre del resto, visto che da un po' di tempo, ho deciso di fare in viaggio la stessa cosa che faccio a casa, e cioè non uscire la sera. Scendo per la colazione, e purtroppo devo dire che mi tocca il peggior caffè mai assaggiato da lungo tempo a questa parte, unito alla colazione più rachitica possibile. Raccolgo le mie cose, saluto il proprietario e faccio wave goodbye al cameriere che vedo da lontano. Nei 30 chilometri che separano Veles dall'aeroporto di Skopje, che, ricordiamolo, è intitolato allo stesso personaggio storico a cui è intitolata l'autostrada, questa stessa si divide, le carreggiate si allontanano fino a perdersi tra di loro (un po' come la Serravalle, avete presente?); poi si riuniscono, e insomma per non menarvela troppo arrivo all'aeroporto con un anticipo dei miei. Parcheggio, mi dirigo al banco dell'AVIS, trovo lo stesso operatore che mi ha consegnato l'auto una settimana prima, esce con me per l'ispezione, tutto ok, qualche domanda sul mio soggiorno, e poi mi metto ad ingannare il tempo dentro e fuori dall'aeroporto. L'unica cosa che posso dirvi, se mai vi capitasse di andare a Skopje o di ripartire da questo aeroporto, è che per una strana legge che esiste in Macedonia, se non ho capito male, anche se hai fatto il check in on line devi comunque passare dal desk del check in per farti vidimare lo stampato, altrimenti non ti lasciano entrare nell'area delle partenze e del controllo bagagli e passaporti. Paese che vai...
Si torna da dove ero partito, e poi verso casa. Felice dell'esperienza. Vi lascio un'istantanea, senza troppo senso, dell'esterno dell'aeroporto. Alla prossima.
Come spesso accade qui, subito dopo Leskovica la strada diventa una strada di montagna, ma in ottimo stato e, come prevedevo, frequentata pochissimo. Si sale per passare quest'altra piccola catena montuosa, e poi si scende nuovamente. Inutile dirvi che, complice la giornata, il panorama più si sale e più è mozzafiato. Quando ormai siamo di nuovo in pianura, si incontra il villaggio minuscolo di Pepelishte, si passa il fiume Vardar (non so perché 'sto nome mi fa venire a mente l'Islanda), e siamo a Negotino. Una delle ragioni per cui ho voluto fare questa deviazione è che volevo percorrere qualche chilometro in più dell'autostrada intitolata al mio omonimo conteso tra Grecia e Macedonia (oltre al nome stesso di Macedonia, come abbiamo già rilevato; storia buffa, se ci pensate: nacque in quella che era considerata la Grecia, nella regione chiamata Macedonia). Mi piace, mi piace davvero. Quindi non entro in Negotino bensì entro in autostrada direttamente in un'area di servizio (della Makpetrol, se v'interessa).
Siccome s'è fatta una certa, come si dice nella nostra, di capitale, e siccome disto a occhio e croce una settantina di chilometri dall'aeroporto, faccio l'ultimo rifornimento di dizel, e mi mangio un panino mentre alla tv passa un inchiesta sulle tifoserie della ex Jugoslavia. Mi bevo un caffè annacquato, esco e saluto, e mi siedo sotto un ombrellone con tavolo e sedie vista autostrada (vedi foto sopra) a fumarmi una meritata sigaretta (vedi foto sotto): fondamentalmente, è un po' la fine del viaggio conoscitivo, adesso c'è solo da percorrere questa quarantina di chilometri per Veles, indovinare l'uscita giusta, trovare l'albergo prenotato, mangiare qualcosa più tardi, dormire il sonno dei giusti, e domattina andare all'aeroporto. Non so come spiegarlo, ma insomma, viaggiando da solo questi momenti li ritengo, probabilmente senza nessun motivo, importanti. Voglio dire, quelli in cui, usando un luogo comune, si tirano le somme. Intendiamoci: mica ho fatto la trasvolata di un oceano con un aliante o il giro del mondo in 80 giorni eh. Sono uno che si accontenta di poco, in fondo. Come che sia, relax.
Via con l'autostrada (автопат Александар Македонски), che non so, ha qualcosa che mi ipnotizza. Mi ritrovo a progettare modifiche al progetto di compiere un circolo che parte da Constanza in Romania e che attraversi una prima volta la Bulgaria, che arrivi in Grecia poi risalga attraverso Macedonia e Serbia per rientrare in Bulgaria, poi ancora in Romania dalla parte della Transilvania, poi la tagli per orizzontale e si diriga verso Moldova e faccia toccata e fuga ad Odessa in Ucraina, per poi tornare a Constanza, pur di ripercorrere questo tratto di autostrada. Mi rendo conto di non essere normale, ma ci sono abituato. Mi scorrono lateralmente Stobi, Gradsko, Vinicani, Nogaevci, il Vardar scorre ora da una parte, ora dall'altra, e quando si intravede Dolno Kalaslari vedo l'uscita per Veles. Ma non mi convince, non mi pare quella giusta. Vedo la cittadina scorrermi sulla sinistra, e proprio quando sembra "scemare", ecco l'uscita Veles West. Io l'avrei chiamata Veles Nord, ma fa lo stesso: mi sa che è questa. Ho studiato le indicazioni e mi sono stampato una mappa da google maps, ma quando sono sulla strada giusta l'albergo è più difficile del previsto da trovare, me lo aspettavo più vicino. Alla fine comunque arrivo. Mi installo, finisco anche il terzo ed ultimo libro che mi ero portato, guardo un po' di tele (la scelta di canali naturalmente scende man mano che scende la categoria e il prezzo; l'eccezione è stato l'albergo di ieri vicino a Kavadarci, si vedevano, male, due canali entrambi tedeschi ed entrambi trasmettevano schifezze inguardabili), scendo al ristorante dell'albergo per cena. Faccio due chiacchiere col giovane cameriere, che mi dice che il padre lavora in Italia, a Piacenza, e il discorso si sposta sul calcio, mi dice che prima o poi vuole andare in Argentina. Sbaglio ad ordinare, pensavo di aver ordinato una grigliata (skara)e invece mi arriva, se non mi sbaglio, una ciotola di ceramica di selsko meso, un piatto di cui avevo letto sulla Lonely, ma che non avevo il coraggio di chiedere perché avevo paura mi avrebbe fatto schifo. E invece, pensate un po', è delizioso. Un pochettino pesante, ma delizioso (non ce la faccio a terminarlo, come mi è sempre accaduto in questa settimana). Esco e mi fumo una sigaretta; il cameriere si unisce, chiedendomi addirittura il permesso di farmi compagnia. Arrivano dei suoi amici, e quello che scende dall'auto mi saluta con una formale stretta di mano, biascicando qualcosa di realmente incomprensibile. Poi il cameriere appassionato di calcio (tra l'altro, mentre cenavo mi sono ricordato che non ho saputo il risultato della partita interna del Livorno, che mi sono perso ieri sera, essendo qui, e lui mi ha cercato il risultato su internet col suo telefono... ecco a cosa servono davvero gli smartphone) si congeda per del lavoro da fare. Auguro ai due la buonanotte in macedone (dobra noch, che in realtà si scrive con, al finale, una K accentata, che evidentemente si pronuncia dolce), e cerco di dormire.
Naturalmente mi sveglio prestissimo, nonostante non abbia dormito granché, ma le ore passate sdraiato sono state molte, come sempre del resto, visto che da un po' di tempo, ho deciso di fare in viaggio la stessa cosa che faccio a casa, e cioè non uscire la sera. Scendo per la colazione, e purtroppo devo dire che mi tocca il peggior caffè mai assaggiato da lungo tempo a questa parte, unito alla colazione più rachitica possibile. Raccolgo le mie cose, saluto il proprietario e faccio wave goodbye al cameriere che vedo da lontano. Nei 30 chilometri che separano Veles dall'aeroporto di Skopje, che, ricordiamolo, è intitolato allo stesso personaggio storico a cui è intitolata l'autostrada, questa stessa si divide, le carreggiate si allontanano fino a perdersi tra di loro (un po' come la Serravalle, avete presente?); poi si riuniscono, e insomma per non menarvela troppo arrivo all'aeroporto con un anticipo dei miei. Parcheggio, mi dirigo al banco dell'AVIS, trovo lo stesso operatore che mi ha consegnato l'auto una settimana prima, esce con me per l'ispezione, tutto ok, qualche domanda sul mio soggiorno, e poi mi metto ad ingannare il tempo dentro e fuori dall'aeroporto. L'unica cosa che posso dirvi, se mai vi capitasse di andare a Skopje o di ripartire da questo aeroporto, è che per una strana legge che esiste in Macedonia, se non ho capito male, anche se hai fatto il check in on line devi comunque passare dal desk del check in per farti vidimare lo stampato, altrimenti non ti lasciano entrare nell'area delle partenze e del controllo bagagli e passaporti. Paese che vai...
Si torna da dove ero partito, e poi verso casa. Felice dell'esperienza. Vi lascio un'istantanea, senza troppo senso, dell'esterno dell'aeroporto. Alla prossima.
20131026
20131025
saluto al re
Hail to the King - Avenged Sevenfold (2013)
A posteriori, mi son detto che un motivo perché non avessi mai ascoltato un intero disco dei californiani Avenged Sevenfold in tutti questi anni, ci doveva essere. Anche l'amico Monty, che spesso mi segnala cose degne, stavolta ha ammesso di aver commesso un errore. Hail to the King è un disco metal che fa più sorridere che storcere la bocca, da tanto è ridicolo, non originale, tronfio, tanto da far pensare più volte ad uno scherzo. Diciamo pure che gli AS sono la dimostrazione del fatto che essere bravi, o forse addirittura ottimi musicisti, non trasforma automaticamente due chitarristi, un bassista, un batterista ed un cantante in una buona band. E attenzione, neppure la passione, il fatto di amare alla follia le grandi band metal del passato recente fa si che tu possa scrivere qualunque cosa e dargli un senso.
Hail to the King è, a parte il disco più eterogeneo che abbia ascoltato negli ultimi anni, un accozzaglia di pezzi che sembrano cover mascherate di grandi gruppi rock e metal. L'apoteosi è, senza dubbio, This Means War, praticamente Sad But True dei 'Tallica sotto mentite spoglie, una traccia 4 che, se fino a quel punto, avendo iniziato dalla traccia 1, si poteva appunto pensare ad uno scherzo, toglie ogni dubbio: gli AS non hanno la più pallida idea di come scrivere una canzone originale. Mi è venuto il sospetto che non ci provino nemmeno. Pensate che il cantante dei Machine Head, Robb Flynn, ha perculato gli AS affermando che Hail to the King non era altro che un album di cover: è stato l'unico che ha avuto il coraggio di dire la verità.
Potrei mettermi qui a raccontarvi a cosa somiglia quel pezzo e cosa ricorda quell'altro, ma sarebbe una perdita di tempo mia e vostra. State alla larga da questo pessimo disco.
A posteriori, mi son detto che un motivo perché non avessi mai ascoltato un intero disco dei californiani Avenged Sevenfold in tutti questi anni, ci doveva essere. Anche l'amico Monty, che spesso mi segnala cose degne, stavolta ha ammesso di aver commesso un errore. Hail to the King è un disco metal che fa più sorridere che storcere la bocca, da tanto è ridicolo, non originale, tronfio, tanto da far pensare più volte ad uno scherzo. Diciamo pure che gli AS sono la dimostrazione del fatto che essere bravi, o forse addirittura ottimi musicisti, non trasforma automaticamente due chitarristi, un bassista, un batterista ed un cantante in una buona band. E attenzione, neppure la passione, il fatto di amare alla follia le grandi band metal del passato recente fa si che tu possa scrivere qualunque cosa e dargli un senso.
Hail to the King è, a parte il disco più eterogeneo che abbia ascoltato negli ultimi anni, un accozzaglia di pezzi che sembrano cover mascherate di grandi gruppi rock e metal. L'apoteosi è, senza dubbio, This Means War, praticamente Sad But True dei 'Tallica sotto mentite spoglie, una traccia 4 che, se fino a quel punto, avendo iniziato dalla traccia 1, si poteva appunto pensare ad uno scherzo, toglie ogni dubbio: gli AS non hanno la più pallida idea di come scrivere una canzone originale. Mi è venuto il sospetto che non ci provino nemmeno. Pensate che il cantante dei Machine Head, Robb Flynn, ha perculato gli AS affermando che Hail to the King non era altro che un album di cover: è stato l'unico che ha avuto il coraggio di dire la verità.
Potrei mettermi qui a raccontarvi a cosa somiglia quel pezzo e cosa ricorda quell'altro, ma sarebbe una perdita di tempo mia e vostra. State alla larga da questo pessimo disco.
20131024
Macedonia - Settembre 2013 (10)
La giornata comincia così
tenendo conto che avevo già spolverato un cappuccino, due fette di un dolce al cioccolato buonissimo, il bicchiere di succo di nonsocosa, mezza mela, qualche chicco d'uva sia bianca che nera, una fetta di pane con marmellata. Ho la netta sensazione di essere l'unico ospite dell'albergo. Ultima annotazione, il cameriere di stamattina, diverso da quello di ieri pomeriggio e da quello di ieri sera, è decisamente il più professionale e l'unico che parla inglese con una certa padronanza. Risalgo in camera per i bagagli, pago e parto. Stavolta attraverso Kavadarci, una cittadina che appare ridente, poi devio verso Negotino, ripercorrendo la strada di ieri. Imbocco nuovamente l'autostrada, direzione sud. Esco per una digressione a Demir Kapija, dove viene segnalata una bella gola. In effetti, attraverso il paesino (neppure 5000 abitanti), finiscono le case, un paio di capannoni, la strada da asfaltata diventa sterrata, e si comincia a vedere qualcosa. Da una parte il fiume, in mezzo la ferrovia, la strada imbocca una galleria di roccia accanto a quella, di cemento, per i binari. Si vede l'autostrada. Ovviamente, nessuno in vista, a parte gli operai che lavorano sull'autostrada stessa, lontani qualche centinaio di metri in linea d'aria.
Riprendo l'autostrada e continuo verso sud, in pratica verso il confine con la Grecia. Nei pressi di Udovo esco e prendo per Strumica. Siamo ai limiti della zona del vino, panorama ancora pianeggiante. Un passo indietro doveroso: ho l'ultimo giorno intero da passare in Macedonia, il volo di rientro è domani nel primissimo pomeriggio, e non essendoci niente di particolarmente interessante da vedere in questa zona centro-orientale, ho deciso di fare un lungo giro semplicemente per "vedere" più paesaggio possibile, arrivando quasi al confine con la Bulgaria. E quindi, Josifovo, Pirava, Valandovo, Rabrovo, ancora siamo in una zona pianeggiante e prettamente agricola, con Kosturino si inizia a salire leggermente, arrivo a Strumica, la oltrepasso, Dabilje, Petralinci, Hamzali, strade dritte e lunghe, carretti trainati da muli e lavoro dei campi, la strada ricomincia a salire e a curvarsi in tornanti, diventa sempre più spettacolare anche perché guardandosi indietro si vede tutta l'enorme vallata che ci si lascia alle spalle, sempre più vicini alla Bulgaria, Suvi Laki, si sale, poi nuovamente in piano, lambisco Berovo e me la lascio sulla destra, Smojmirovo, Machevo, Budinarci, Mitrasinci, Laki, baite e villaggi spersi nel nulla, ambiente verde tipo questo, seppure inondato di luce.
Si scende nuovamente. Passo Vinica e mi preparo a fare una foto del cartello della prossima cittadina, che attraverso e trovo brulicante di studenti. Non scrivo il nome, lascio che lo leggiate dalla foto, sicuramente qualche fan di Vinicio Capossela capirà il perché.
Punto verso Stip, e la strada ritrova la pianura.
tenendo conto che avevo già spolverato un cappuccino, due fette di un dolce al cioccolato buonissimo, il bicchiere di succo di nonsocosa, mezza mela, qualche chicco d'uva sia bianca che nera, una fetta di pane con marmellata. Ho la netta sensazione di essere l'unico ospite dell'albergo. Ultima annotazione, il cameriere di stamattina, diverso da quello di ieri pomeriggio e da quello di ieri sera, è decisamente il più professionale e l'unico che parla inglese con una certa padronanza. Risalgo in camera per i bagagli, pago e parto. Stavolta attraverso Kavadarci, una cittadina che appare ridente, poi devio verso Negotino, ripercorrendo la strada di ieri. Imbocco nuovamente l'autostrada, direzione sud. Esco per una digressione a Demir Kapija, dove viene segnalata una bella gola. In effetti, attraverso il paesino (neppure 5000 abitanti), finiscono le case, un paio di capannoni, la strada da asfaltata diventa sterrata, e si comincia a vedere qualcosa. Da una parte il fiume, in mezzo la ferrovia, la strada imbocca una galleria di roccia accanto a quella, di cemento, per i binari. Si vede l'autostrada. Ovviamente, nessuno in vista, a parte gli operai che lavorano sull'autostrada stessa, lontani qualche centinaio di metri in linea d'aria.
Riprendo l'autostrada e continuo verso sud, in pratica verso il confine con la Grecia. Nei pressi di Udovo esco e prendo per Strumica. Siamo ai limiti della zona del vino, panorama ancora pianeggiante. Un passo indietro doveroso: ho l'ultimo giorno intero da passare in Macedonia, il volo di rientro è domani nel primissimo pomeriggio, e non essendoci niente di particolarmente interessante da vedere in questa zona centro-orientale, ho deciso di fare un lungo giro semplicemente per "vedere" più paesaggio possibile, arrivando quasi al confine con la Bulgaria. E quindi, Josifovo, Pirava, Valandovo, Rabrovo, ancora siamo in una zona pianeggiante e prettamente agricola, con Kosturino si inizia a salire leggermente, arrivo a Strumica, la oltrepasso, Dabilje, Petralinci, Hamzali, strade dritte e lunghe, carretti trainati da muli e lavoro dei campi, la strada ricomincia a salire e a curvarsi in tornanti, diventa sempre più spettacolare anche perché guardandosi indietro si vede tutta l'enorme vallata che ci si lascia alle spalle, sempre più vicini alla Bulgaria, Suvi Laki, si sale, poi nuovamente in piano, lambisco Berovo e me la lascio sulla destra, Smojmirovo, Machevo, Budinarci, Mitrasinci, Laki, baite e villaggi spersi nel nulla, ambiente verde tipo questo, seppure inondato di luce.
Si scende nuovamente. Passo Vinica e mi preparo a fare una foto del cartello della prossima cittadina, che attraverso e trovo brulicante di studenti. Non scrivo il nome, lascio che lo leggiate dalla foto, sicuramente qualche fan di Vinicio Capossela capirà il perché.
Punto verso Stip, e la strada ritrova la pianura.
20131023
Macedonia - Settembre 2013 (9)
Sulle strade della Macedonia
Diciamolo: è dal momento in cui ho scattato questa foto
che volevo scrivere un titolo che avesse un'assonanza con quello della serie tv degli anni '70. Dopo aver ripercorso, in senso contrario, la strada che da Ohrid va Bitola, una prima parte quasi di montagna, una seconda ampia e con saliscendi tutto sommato dolci, dopo Bitola tutto diventa piatto e le montagne rimangono ai lati. La giornata è ancora una volta bellissima, calda, soleggiata senza una nuvola, e guidare per queste strade poco battute è facile e bello. Siamo al mercoledì mattina, sono passati ormai cinque giorni, le cose più belle sono andate, credo, tra due giorni tornerò in Italia, e, visto il percorso che ho deciso di seguire, è come se stessi tornando al punto di partenza, essendo "in parabola discendente". Non c'è tristezza bensì allegria, e il paesaggio aumenta il buonumore, come la musica nell'autoradio.
Come dite? La cena di ieri sera? Beh certo, so che devo raccontarvi qualcosa, ma volevo tenervi un po' sulla corda. E' andata bene. La ragazza è californiana di L.A., e la cosa che mi ricorderò sempre è che parlandoci per un paio d'ore, mi sono reso conto che le donne di L.A. parlano veramente così come vediamo nei film e nei telefilm, con quella stessa cadenza che fa sembrare ogni loro frase, anche affermativa, una domanda, non so se avete presente. Per averlo presente, guardatevi (The) Bling Ring rigorosamente in originale, ed ascoltate come parla Emma Watson nei panni di Nicki Moore: l'inglesina ex Hermione è spettacolare nel clonare l'accento losangelino. Carina, meno di trent'anni, era di passaggio dalla Grecia verso Tirana, da dove, l'indomani, avrebbe preso un aereo per l'Italia, dove si sarebbe incontrata di nuovo col suo boyfriend statunitense di origini italiane, per passare qualche giorno a Venezia, Firenze, Roma, Cinque Terre. Venivano entrambi da quasi quattro mesi in giro per il mondo, ed erano stati al matrimonio di una loro amica che si era sposata in Grecia. Lei voleva vedere la Macedonia, lui no, quindi si sono "divisi" per alcuni giorni. A lei, genitori di origine tedesca, era morto il padre pochi mesi prima; ereditata una casa assieme al fratello, l'avevano venduta facendo un po' di soldi, poi lei, stanca del suo lavoro, lo aveva lasciato e si era messa a girare un po' il mondo con il fidanzato, anche lui in "pausa". Al ritorno, sarebbero ripartiti insieme per costruirsi una nuova vita. Abbiamo parlato di tutto e di niente, ed è stata una serata piacevole. Al termine, un abbraccio e uno scambio di indirizzi email. Un'altra cosa che non dimenticherò facilmente, sarà la sua faccia quando mi ha chiesto "Why aren't you married?" e io le ho risposto "Actually? I don't know!".
Oggi, invece, siamo qui.
La strada scorre che è un piacere, come avrete capito, l'auto gira alla perfezione, l'umore è alto. E non è affatto finita. Passato Prilep, cittadina abbastanza grande dove, con una rapida occhiata, mi accorgo che anche qui i Rom vivono ai margini (insediamento lontanissimo dal centro, sulle pendici dei monti circostanti, in baracche al di là dell'autostrada), la strada cambia completamente e diventa si tutta curve, ma rimane per un primo tratto ampia. I panorami sono ancora una volta molto belli, è un piacere. Poi, altri chilometri dopo, si scende pian piano verso la zona vinicola, ci si avvicina a Kavadarci. Decido però di non puntare immediatamente lì, e di proseguire fino all'autostrada europea E75, che naturalmente qui in Macedonia è stata rinominata Autostrada Alessandro il Macedone, secondo me tanto per rompere i coglioni ai greci (la strada "arriva" dalla Serbia e prosegue per Atene ecc.), percorrerne un tratto breve verso sud per arrivare al sito archeologico di Stobi. E devo dire che ne è valsa la pena: molto meglio di Heraclea, vista ieri, il sito e gli scavi di Stobi si estendono per un tratto ampio, vicinissimo all'autostrada, e mostrano un insediamento veramente complesso. Pago l'ingresso ad una simpatica addetta che mi consegna un opuscolo/guida, chissà perché in francese, e seguo minuziosamente i percorsi indicati, ammirando l'immancabile anfiteatro, l'imponente basilica, le terme, le vie, le varie case. Allargo il giro seguendo le indicazioni per la "casa romana", e dopo un po' mi viene incontro una ragazza che poco prima avevo intravisto china su alcuni scavi; mi spiega che non c'è niente, andando avanti di lì, non prima di avermi domandato in quale lingua potevamo capirci (english!). Le spiego che stavo seguendo le indicazioni per la casa romana, e lei a sua volta mi spiega, molto cortesemente, che la casa non è "presentabile", una piena l'ha sommersa qualche tempo fa, e non ci sono i fondi per rimetterla in condizioni di essere visitata. Le riferisco la lamentela del custode di Heraclea, faccio un rapido paragone con i siti archeologici italiani, e le dico che questo sito è veramente bello, interessante, e ben tenuto. Lei ringrazia, ci salutiamo. Mentre torno verso l'uscita penso che avrei potuto invitare a cena anche lei e mi metto a ridere da solo. Incrocio un gruppo di visitatori che indossano degli ampi cappelli di paglia a falda larga, e gli rivolgo un "Very good idea" indicando i cappelli. Diciamo che sarà l'una, e il primo albero che riesco a vedere dista diverse centinaia di metri. Esco salutando la bigliettaia, e mi rimetto in auto.
Rientro in autostrada, direzione sud, dopo pochi chilometri esco a Negotino, la attraverso verso l'interno, la strada poi esce dalla cittadina abbastanza grande ed attraversa vigneti, si formano code dietro ai trattori. Arrivo a Kavadarci e cerco di capirci qualcosa; devo andare verso sud e trovare Vatasa, una periferia della stessa Kavadarci, e poi proseguire su una strada che va verso il nulla. E' lì che ho prenotato l'albergo. Mi perdo, infilandomi in una strada pavimentata come un marciapiede, chiedo dell'albergo a due muratori, poi a due ragazze che stanno stendendo un tappeto, ma è difficile quando non si ha una lingua di scambio, però alla fine ce la faccio. Riconosco l'albergo a malapena, dalle foto della facciata (non c'è un'insegna, solo una piccola targa illeggibile dalla strada). Il pomeriggio è iniziato da un po'. Mi installo, e mi ricordo di avere una certa fame. Sul retro dell'albergo c'è una piscinetta ma soprattutto una rumorosissima piccola cascata artificiale creata dal fiumiciattolo che scorre esattamente lì dietro, gente che beve e conversa. Mi siedo e ordino un quartino di vino locale e un formaggio ugualmente locale, che somiglia molto alla feta greca. Il vino lascia alquanto a desiderare, ma mangiucchio e sorseggio mentre termino il bel libro che ho iniziato venerdì sera poco dopo l'arrivo in Macedonia e ne inizio un altro. Alla fine del formaggio e del vino, mi rendo conto di essere abbastanza ubriaco, e fumarci una sigaretta rende il tutto alquanto più confuso. Mi ritiro nella mia stanza, continuo a leggere e sonnecchio fino all'ora che ritengo essere corretta per cenare; scendo e ai tavoli c'è solo una coppia che scopro essere personale dell'albergo. Ceno, tutto piuttosto buono, atmosfera silenziosa a parte la cascata, ringrazio e salgo di nuovo in camera, termino il libro iniziato nel pomeriggio, scopro che le camere sono un po' pretenziose, relativamente nuove ma hanno grossi difetti (allago il bagno facendo la doccia). Prendo la cartina e programmo il percorso di domani. Sogni d'oro.
Diciamolo: è dal momento in cui ho scattato questa foto
che volevo scrivere un titolo che avesse un'assonanza con quello della serie tv degli anni '70. Dopo aver ripercorso, in senso contrario, la strada che da Ohrid va Bitola, una prima parte quasi di montagna, una seconda ampia e con saliscendi tutto sommato dolci, dopo Bitola tutto diventa piatto e le montagne rimangono ai lati. La giornata è ancora una volta bellissima, calda, soleggiata senza una nuvola, e guidare per queste strade poco battute è facile e bello. Siamo al mercoledì mattina, sono passati ormai cinque giorni, le cose più belle sono andate, credo, tra due giorni tornerò in Italia, e, visto il percorso che ho deciso di seguire, è come se stessi tornando al punto di partenza, essendo "in parabola discendente". Non c'è tristezza bensì allegria, e il paesaggio aumenta il buonumore, come la musica nell'autoradio.
Come dite? La cena di ieri sera? Beh certo, so che devo raccontarvi qualcosa, ma volevo tenervi un po' sulla corda. E' andata bene. La ragazza è californiana di L.A., e la cosa che mi ricorderò sempre è che parlandoci per un paio d'ore, mi sono reso conto che le donne di L.A. parlano veramente così come vediamo nei film e nei telefilm, con quella stessa cadenza che fa sembrare ogni loro frase, anche affermativa, una domanda, non so se avete presente. Per averlo presente, guardatevi (The) Bling Ring rigorosamente in originale, ed ascoltate come parla Emma Watson nei panni di Nicki Moore: l'inglesina ex Hermione è spettacolare nel clonare l'accento losangelino. Carina, meno di trent'anni, era di passaggio dalla Grecia verso Tirana, da dove, l'indomani, avrebbe preso un aereo per l'Italia, dove si sarebbe incontrata di nuovo col suo boyfriend statunitense di origini italiane, per passare qualche giorno a Venezia, Firenze, Roma, Cinque Terre. Venivano entrambi da quasi quattro mesi in giro per il mondo, ed erano stati al matrimonio di una loro amica che si era sposata in Grecia. Lei voleva vedere la Macedonia, lui no, quindi si sono "divisi" per alcuni giorni. A lei, genitori di origine tedesca, era morto il padre pochi mesi prima; ereditata una casa assieme al fratello, l'avevano venduta facendo un po' di soldi, poi lei, stanca del suo lavoro, lo aveva lasciato e si era messa a girare un po' il mondo con il fidanzato, anche lui in "pausa". Al ritorno, sarebbero ripartiti insieme per costruirsi una nuova vita. Abbiamo parlato di tutto e di niente, ed è stata una serata piacevole. Al termine, un abbraccio e uno scambio di indirizzi email. Un'altra cosa che non dimenticherò facilmente, sarà la sua faccia quando mi ha chiesto "Why aren't you married?" e io le ho risposto "Actually? I don't know!".
Oggi, invece, siamo qui.
La strada scorre che è un piacere, come avrete capito, l'auto gira alla perfezione, l'umore è alto. E non è affatto finita. Passato Prilep, cittadina abbastanza grande dove, con una rapida occhiata, mi accorgo che anche qui i Rom vivono ai margini (insediamento lontanissimo dal centro, sulle pendici dei monti circostanti, in baracche al di là dell'autostrada), la strada cambia completamente e diventa si tutta curve, ma rimane per un primo tratto ampia. I panorami sono ancora una volta molto belli, è un piacere. Poi, altri chilometri dopo, si scende pian piano verso la zona vinicola, ci si avvicina a Kavadarci. Decido però di non puntare immediatamente lì, e di proseguire fino all'autostrada europea E75, che naturalmente qui in Macedonia è stata rinominata Autostrada Alessandro il Macedone, secondo me tanto per rompere i coglioni ai greci (la strada "arriva" dalla Serbia e prosegue per Atene ecc.), percorrerne un tratto breve verso sud per arrivare al sito archeologico di Stobi. E devo dire che ne è valsa la pena: molto meglio di Heraclea, vista ieri, il sito e gli scavi di Stobi si estendono per un tratto ampio, vicinissimo all'autostrada, e mostrano un insediamento veramente complesso. Pago l'ingresso ad una simpatica addetta che mi consegna un opuscolo/guida, chissà perché in francese, e seguo minuziosamente i percorsi indicati, ammirando l'immancabile anfiteatro, l'imponente basilica, le terme, le vie, le varie case. Allargo il giro seguendo le indicazioni per la "casa romana", e dopo un po' mi viene incontro una ragazza che poco prima avevo intravisto china su alcuni scavi; mi spiega che non c'è niente, andando avanti di lì, non prima di avermi domandato in quale lingua potevamo capirci (english!). Le spiego che stavo seguendo le indicazioni per la casa romana, e lei a sua volta mi spiega, molto cortesemente, che la casa non è "presentabile", una piena l'ha sommersa qualche tempo fa, e non ci sono i fondi per rimetterla in condizioni di essere visitata. Le riferisco la lamentela del custode di Heraclea, faccio un rapido paragone con i siti archeologici italiani, e le dico che questo sito è veramente bello, interessante, e ben tenuto. Lei ringrazia, ci salutiamo. Mentre torno verso l'uscita penso che avrei potuto invitare a cena anche lei e mi metto a ridere da solo. Incrocio un gruppo di visitatori che indossano degli ampi cappelli di paglia a falda larga, e gli rivolgo un "Very good idea" indicando i cappelli. Diciamo che sarà l'una, e il primo albero che riesco a vedere dista diverse centinaia di metri. Esco salutando la bigliettaia, e mi rimetto in auto.
Rientro in autostrada, direzione sud, dopo pochi chilometri esco a Negotino, la attraverso verso l'interno, la strada poi esce dalla cittadina abbastanza grande ed attraversa vigneti, si formano code dietro ai trattori. Arrivo a Kavadarci e cerco di capirci qualcosa; devo andare verso sud e trovare Vatasa, una periferia della stessa Kavadarci, e poi proseguire su una strada che va verso il nulla. E' lì che ho prenotato l'albergo. Mi perdo, infilandomi in una strada pavimentata come un marciapiede, chiedo dell'albergo a due muratori, poi a due ragazze che stanno stendendo un tappeto, ma è difficile quando non si ha una lingua di scambio, però alla fine ce la faccio. Riconosco l'albergo a malapena, dalle foto della facciata (non c'è un'insegna, solo una piccola targa illeggibile dalla strada). Il pomeriggio è iniziato da un po'. Mi installo, e mi ricordo di avere una certa fame. Sul retro dell'albergo c'è una piscinetta ma soprattutto una rumorosissima piccola cascata artificiale creata dal fiumiciattolo che scorre esattamente lì dietro, gente che beve e conversa. Mi siedo e ordino un quartino di vino locale e un formaggio ugualmente locale, che somiglia molto alla feta greca. Il vino lascia alquanto a desiderare, ma mangiucchio e sorseggio mentre termino il bel libro che ho iniziato venerdì sera poco dopo l'arrivo in Macedonia e ne inizio un altro. Alla fine del formaggio e del vino, mi rendo conto di essere abbastanza ubriaco, e fumarci una sigaretta rende il tutto alquanto più confuso. Mi ritiro nella mia stanza, continuo a leggere e sonnecchio fino all'ora che ritengo essere corretta per cenare; scendo e ai tavoli c'è solo una coppia che scopro essere personale dell'albergo. Ceno, tutto piuttosto buono, atmosfera silenziosa a parte la cascata, ringrazio e salgo di nuovo in camera, termino il libro iniziato nel pomeriggio, scopro che le camere sono un po' pretenziose, relativamente nuove ma hanno grossi difetti (allago il bagno facendo la doccia). Prendo la cartina e programmo il percorso di domani. Sogni d'oro.
20131022
il mio dialogo cinematografico preferito di tutti i tempi
Charlie Kaufman: There was this time in high school. I was watching you out the library window. You were talking to Sarah Marsh.
Donald Kaufman: Oh, God. I was so in love with her.
Charlie Kaufman: I know. And you were flirting with her. And she was being really sweet to you.
Donald Kaufman: I remember that.
Charlie Kaufman: Then, when you walked away, she started making fun of you with Kim Canetti. And it was like they were laughing at *me*. You didn't know at all. You seemed so happy.
Donald Kaufman: I knew. I heard them.
Charlie Kaufman: How come you looked so happy?
Donald Kaufman: I loved Sarah, Charles. It was mine, that love. I owned it. Even Sarah didn't have the right to take it away. I can love whoever I want.
Charlie Kaufman: But she thought you were pathetic.
Donald Kaufman: That was her business, not mine. You are what you love, not what loves you. That's what I decided a long time ago.
Donald Kaufman: Whats up?
Charlie Kaufman: Thank you.
Donald Kaufman: For what?
https://www.youtube.com/watch?v=ZWWSoA1ds10
20131021
Macedonia - Settembre 2013 (8)
Finisco il frugale spuntino, e mi avvio verso l'acqua. La limpidezza è impressionante. Giudicate voi stessi.
Mi rimetto in auto, e torno indietro, riattraverso Stenje, ripasso il bivio dal quale sono arrivato, proseguo. Incontro Oteshevo, e fino a Sirhan è un piacere per gli occhi. Poi, la strada si allontana un poco dal lago. Shurlenci, Pokrvenik, Gorno Perovo, Drmeni, sono villaggi minuscoli di agricoltori, ma molte case sono nuove e ben tenute, probabilmente di villeggiatura. Un poco più grande è Carev Dvor, Gorna Bela Crkva sembra avere più tombe (il cimitero è giusto sulla strada) che abitanti, e dopo Kozjak ci si immette su una strada che potremmo definire un'autostrada. La imbocco, è ancora presto e voglio arrivare a Bitola, per poi tornare indietro e costeggiare il Prespa sul lato che ancora non ho visto. L'autostrada costeggia il Parco Nazionale Pelister, è bella larga, e ha dei bei saliscendi. Si viaggia tranquilli, e quando mi rendo conto che sono all'uscita per Bitola mi sembra troppo presto. Mi butto dentro la città cercando unicamente il luogo che voglio vedere. Quando vedo l'indicazione faccio un gesto di vittoria. Arrivare a Heraclea Lyncestis si rivela più facile del previsto. Piazzo la macchina nel parcheggio praticamente vuoto (c'è solo un autobus), e mi avvio verso l'entrata, soffermandomi e aspettando che qualcuno mi chieda di pagare il biglietto. Non arriva nessuno, ma dentro il "recinto" ci sono numerosi visitatori, in gruppo. Vado. Visito il piccolo museo, tenuto così così, che tra le altre cose contiene un plastico che raffigura l'intero scavo (trovate la foto più in basso). Esco e mi aggiro tra gli scavi, l'anfiteatro, i mosaici. Non è proprio in ottimo stato il tutto, ma fa comunque la sua figura. Il siparietto arriva quando sto quasi per andarmene. Un signore mi chiama e mi domanda se ho pagato il biglietto. Gli spiego che non l'ho pagato, ma non era mia intenzione, mi sono pure soffermato un po' all'ingresso. Capisco che è il custode, e lui a sua volta mi spiega che è da solo, ed era impegnato col gruppo che se ne sta andando con l'autobus che avevo visto nel parcheggio. Solidarizzo con lui estendendo esempi di sottodimensionamento del personale e della pochezza dei fondi per la cultura in Italia, e lui mi dice che lì è lo stesso. Concludiamo che è un'assurdità, che uno Stato non abbia i soldi per la cultura. Saluto e mi rimetto in auto.
Ripercorro Bitola e l'autostrada e torno verso il lago di Prespa. Mi godo ancora una volta la strada. Poi il bivio. Podmochani, Grnchari, e ad Asamati siamo di nuovo fronte lago. Qua si comincia a vedere che, durante la stagione, ci dev'essere un po' di gente. Proseguo costeggiando piacevoli spiaggette.
Pretor, Slivnica, poi la strada rientra verso l'interno (ma di poco). Krani, Shtrbovo, Nakolec, Ljubojno, Dolno Dupeni, che dovrebbe essere l'ultimo villaggio prima della Grecia. E, infatti, ad un certo punto la strada è sbarrata. Il cartello è il seguente.
Tutto intorno, un paesaggio che si descrive con una certa difficoltà. Abeti, un grande specchio d'acqua cristallina, paesaggi con dolci montagne in non troppa lontananza, e un filo spinato che sembra una presa in giro.
Insomma, mamma mia che posto. Naturalmente, giro l'auto e torno indietro. Mi soffermo solo alla spiaggia di Dolno Dupeni, qualche decina di metri più in là, e anche questa c'è da dire che merita. Ci sono perfino tre persone che prendono il sole.
Odio ripetermi, ma più (ri)guardo queste foto, più ripenso a quei luoghi, più mi ricorre in mente la parola "incantevole". Insomma, la giornata, per me che in fondo mi accontento di poco, ha già regalato molto. Mi dirigo quindi verso Ohrid, stavolta passando da Resen, e poi Jankovec, Izbishta, Gorno Krushje, Openica, Kosel, Leskoec, lungo una strada più trafficata ma sempre discretamente di montagna. Arrivo a Ohrid a pomeriggio inoltrato, e straordinariamente, penso, trovo posto più o meno dove l'avevo trovato ieri. Comincio ad avere un certo languorino, e mangerei volentieri qualcosa. Mi siedo ad un caffé sulla piazza principale, il Millenium, ma non hanno né gelati né altro, e quindi mi accontento di un caffé e di fumarmi una sigaretta, rimirando la gioventù di quella che nel medioevo era conosciuta come la Gerusalemme slava, il suo meraviglioso lago e la statua di San Clemente.
Ma, un po' come i plot twist più sensazionali nelle sceneggiature scoppiettanti, questa giornata non ha ancora finito di stupire. Quando decido che è arrivata l'ora di andare a farsi una meritata doccia e un riposino prima di ingozzarsi di cose sconosciute al primo ristorante che capita (anzi, al Belvedere, consigliatomi da una delle signore dell'albergo), mi incammino verso l'albergo, ripensando ai luoghi visti e a cosa fare l'indomani. Immerso nei miei pensieri, non mi accorgo di chi sto incrociando, e proprio lei mi "sveglia" fermandomi e quasi strillando: la moretta di ieri. "Hey it's you, from yesterday!". Non l'avevo riconosciuta, ha i capelli sciolti, e sembra davvero contenta di vedermi. Ci raccontiamo brevemente cosa abbiamo fatto oggi, e alla fine le dico quello che avevo in mente da ieri: visto che viaggia da sola immagino non voglia rotture di scatole, ma se invece le facesse piacere, la invito a cena. Va bene, dice lei. Avendo capito che è statunitense, le dico che scelga lei l'ora, visto che so che loro negli USA cenano presto, e io non ho mangiato granché oggi. Alle 19 al ristorante dell'Hotel De Lago, proprio lì di fronte, dove lei ha appena preso un aperitivo. Ottimo, almeno si fanno due chiacchiere, e il mio inglese verrà messo ad una prova decisamente più dura, rispetto a quando scambio due parole con i macedoni.
20131020
Macedonia - Settembre 2013 (7)
Scendo lungo il sentiero alberato, sempre indicato dalla Lonely, non prima di aver comprato una bottiglia di voda (acqua) ad un chiosco fuori dalla fortezza. Dovrei arrivare alla chiesa di Sveti Pantelejmon, quella che ho fotografato prima dalle mura, il sentiero non è chiaro, ma incrocio ancora una volta la moretta che sta tornando indietro. Ci risalutiamo, le chiedo se c'è qualcosa da vedere, lei mi risponde "una chiesa, ingresso a pagamento". E piuttosto americana, nell'accento. Proseguo, e arrivo al sito di Plaosnik, che in pratica circonda la chiesa. Un cantiere a cielo aperto, mentre la chiesa è restaurata fin troppo bene. Interessante. Continuo a scendere, il promontorio alberato a picco sul mare e la bella giornata rendono il tutto bellissimo, ma mi accorgo che quel sentiero non porta da nessuna parte, se non in un posto appartato diciamo da innamorati. Torno sui miei passi, arrivo alla chiesa di Sveti Jovan Kaneo, giusto sopra la splendida spiaggia a ciottoli di Kaneo. C'è perfino un tizio che fa il bagno. Scendo lungo i vicoli della cittadina, e sbuco giusto dietro l'ennesima chiesa, quella di Sveta Sofija: francamente, ne ho abbastanza di chiese. Proseguo su ul Car Samoil, un po' la via principale della città vecchia, dove si trovano altre due chiese, Sveti Bogorodica Bolnicka e Sveti Nikola Bolnicki, poi mi immetto su ul Sveti Kliment Ohridski (cominciate a capire il macedone pure voi, vero?), la via dello struscio, torno indietro su Bulevar Makedonski Prosvetiteli, parallelo all'altra ma non pedonale, e mi fermo ad un minimarket perché penso di aver bisogno di comprare qualcosa, ma in realtà mica è vero, voglio solo dare un'occhiata. Prendo un pacco di fazzoletti umidificati, anche se devo dire che non è un impresa semplice distinguerli dagli assorbenti (con le scritte in macedone). Costeggio il lago, vicino alle imbarcazioni ci sono i cigni. Rientro in albergo, un po' di tele, una doccia, ed esco per la cena. Naturalmente, a letto presto, ma prima fumo una sigaretta sul terrazzino vista lago, lavo una maglia, un paio di calzini e una mutanda, guardo un po' di calcio e leggo un po'.
La mattina seguente dopo colazione (avanza una banana, un panino, due fette di formaggio e due di affettato, che mi preparo tipo lunch box, non si sa mai) vado a prendere l'auto e mi lancio nel giro del lago. Mi dirigo verso la frontiera albanese, stavolta dal lato opposto. Passo Sveti Stefan, Dolno Konjsko, Lagadin, Pescani (tutti piccoli villaggi sul lago, molto turistici), a Trpejca mi confondo un po', mi fermo davanti ad un cartello che ha una mappa del Parco Nazionale Galichica, e mentre son lì che lo consulto passa a piedi un signore anziano che mi chiede se sto cercando Sveti Naum (lo capisco dopo, ripensandoci) e mi fa segno di proseguire sempre dritto. Lo ringrazio, ma mi segno mentalmente che dopo poche centinaia di metri c'è il bivio che porta all'altro lago. La strada si inerpica, sale, poi scende di nuovo, arrivo a Ljubanishta, e dopo pochissimo trovo un bivio, da una parte si va in Albania, dall'altra al monastero.
Vado per il monastero di Sveti Naum, parcheggio, percorro a piedi una strada pedonale lungo la quale c'è molta attività: stanno aprendo tutte le bancarelle di souvenir, bibite, è ancora presto ma qui tra poco ci sarà tanta gente, mi sa. Lungo la strada, un ponticello e sulla sinistra un laghetto, sulla destra il lago. Un cartello dice che sono le sorgenti del Drini Nero. In pratica, le sorgenti del lago, che poi genera questo fiume. L'acqua, come quella del lago, è davvero impressionante da quanto è trasparente.
Arrivo all'ingresso di un fabbricato che dovrebbe essere il monastero, ma mi rendo conto che è un hotel, e fuori ci sono delle casse che buttano fuori dell'orrenda musica dance, o vagamente tale. Giro intorno alla costruzione, mentre mi rendo conto che in giro è pieno di pavoni.
Il monastero è tenuto benissimo, confinante con la tenuta c'è un avamposto militare, le indicazioni non sono chiare e rischio di entrarci. A parte l'avamposto, tutto molto turistico, però il luogo è spettacolare. Mi godo il panorama e la giornata, ancora una volta splendida, e qualche scoiattolo che scorrazza in giro.
Dai, non ve la prendete, non stava fermo un attimo. Torno indietro, mi rimetto in auto, e decido che, anche se la frontiera è vicina, non la passo: torno indietro fino al bivio, e dopo Ljubanishta, prima di Trpejca, inizio a salire verso l'altro lago. La strada è di quelle che incantano. Inutile dirvi che c'è davvero poco traffico. Qualche istantanea.
Tornanti, paesaggi di montagna, il picco, e poi, ad un certo punto...
si "scollina", ed ecco l'altro lago, il lago di Prespa, questo addirittura diviso tra Macedonia, Albania e Grecia. La giornata è appena cominciata, e c'è molto ancora da vedere.
La mattina seguente dopo colazione (avanza una banana, un panino, due fette di formaggio e due di affettato, che mi preparo tipo lunch box, non si sa mai) vado a prendere l'auto e mi lancio nel giro del lago. Mi dirigo verso la frontiera albanese, stavolta dal lato opposto. Passo Sveti Stefan, Dolno Konjsko, Lagadin, Pescani (tutti piccoli villaggi sul lago, molto turistici), a Trpejca mi confondo un po', mi fermo davanti ad un cartello che ha una mappa del Parco Nazionale Galichica, e mentre son lì che lo consulto passa a piedi un signore anziano che mi chiede se sto cercando Sveti Naum (lo capisco dopo, ripensandoci) e mi fa segno di proseguire sempre dritto. Lo ringrazio, ma mi segno mentalmente che dopo poche centinaia di metri c'è il bivio che porta all'altro lago. La strada si inerpica, sale, poi scende di nuovo, arrivo a Ljubanishta, e dopo pochissimo trovo un bivio, da una parte si va in Albania, dall'altra al monastero.
Vado per il monastero di Sveti Naum, parcheggio, percorro a piedi una strada pedonale lungo la quale c'è molta attività: stanno aprendo tutte le bancarelle di souvenir, bibite, è ancora presto ma qui tra poco ci sarà tanta gente, mi sa. Lungo la strada, un ponticello e sulla sinistra un laghetto, sulla destra il lago. Un cartello dice che sono le sorgenti del Drini Nero. In pratica, le sorgenti del lago, che poi genera questo fiume. L'acqua, come quella del lago, è davvero impressionante da quanto è trasparente.
Arrivo all'ingresso di un fabbricato che dovrebbe essere il monastero, ma mi rendo conto che è un hotel, e fuori ci sono delle casse che buttano fuori dell'orrenda musica dance, o vagamente tale. Giro intorno alla costruzione, mentre mi rendo conto che in giro è pieno di pavoni.
Il monastero è tenuto benissimo, confinante con la tenuta c'è un avamposto militare, le indicazioni non sono chiare e rischio di entrarci. A parte l'avamposto, tutto molto turistico, però il luogo è spettacolare. Mi godo il panorama e la giornata, ancora una volta splendida, e qualche scoiattolo che scorrazza in giro.
Dai, non ve la prendete, non stava fermo un attimo. Torno indietro, mi rimetto in auto, e decido che, anche se la frontiera è vicina, non la passo: torno indietro fino al bivio, e dopo Ljubanishta, prima di Trpejca, inizio a salire verso l'altro lago. La strada è di quelle che incantano. Inutile dirvi che c'è davvero poco traffico. Qualche istantanea.
Tornanti, paesaggi di montagna, il picco, e poi, ad un certo punto...
si "scollina", ed ecco l'altro lago, il lago di Prespa, questo addirittura diviso tra Macedonia, Albania e Grecia. La giornata è appena cominciata, e c'è molto ancora da vedere.
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