No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20081004

nord e sinistra 1


Ho trovato piuttosto interessante, utile per una cosiddetta "riflessione a sinistra", questa coppia di articoli su Internazionale di un paio di settimane fa.


SVEZIA

La mia sindrome di Stoccolma

Negli anni settanta la Svezia era un paese ricco ed efficiente, ma anche molto deprimente. Il giornalista inglese Andrew Brown racconta com’è cambiato il paradiso della socialdemocrazia
ANDREW BROWN, PROSPECT, GRAN BRETAGNA.


Tra gli anni sessanta e gli anni ottanta, il mondo guardava alla Svezia come a un paese socialista capace di funzionare. Moderazione, uguaglianza, benessere: la società svedese sembrava avere la formula magica per un futuro migliore. Nel 1977 mi sono trasferito a Stoccolma con mia moglie
Anita, che è svedese. E ho avuto per anni una vita apparentemente ideale: ho cresciuto un figlio, ho lavorato in una piccola industria, ho vissuto in una casa moderna ed efficiente e sono diventato pescatore. È stata però un’esperienza molto frustrante. All’inizio degli anni ottanta la Svezia e il mio matrimonio sono entrati in crisi. Il primo ministro Olof Palme è stato ucciso a Stoccolma e l’economia del paese ha cominciato a traballare. Attraverso le crepe dell’utopia sociale emergeva un’immagine ben diversa della Svezia: un paese disilluso, nervoso, avido, improvvisamente
incerto sulla sua identità e sul suo posto nel mondo. Oggi, a vent’anni di distanza, sono tornato in Svezia. L’ho percorsa in lungo e in largo e ho riflettuto sulle mie esperienze in un paese che ho amato, odiato e ricominciato ad amare.

Comunisti e milionari

Quando arrivai qui la prima volta, i romanzi di Maj Sjöwall e di Per Wahlöö, che hanno per protagonista il detective Martin Beck, mi insegnarono molto sul conto del mio nuovo paese, svelandomi il vero volto dell’ortodossia socialdemocratica. Agli occhi di un inglese, la cosa più
strana della Svezia era il suo conformismo: tutti sapevano sempre cosa fosse giusto e opportuno. I gialli di Sjöwall e Wahlöö servivano a farmi capire cosa pensavano davvero gli svedesi.
Nei loro libri non tutti i cattivi sono miliardari, ma in compenso non c’è neanche un ricco che non sia un assassino. E la ricchezza finisce per corrompere non solo chi ha molti soldi ma anche la
gente comune, che rischia di essere avvelenata dal benessere. Probabilmente il pessimismo di questa coppia di scrittori era dovuto a una sorta di disperazione ideologica che negli anni settanta era molto diffusa tra le persone di sinistra: chi avrebbe avuto voglia di fare la rivoluzione ora che tutti i lavoratori avevano un appartamento comodo e ben arredato? L’unica cosa da fare era mostrare una società disperata e infelice, come quella raccontata nei loro ultimi romanzi. “Il
cosiddetto stato sociale produce persone ammalate, povere e sole, che sopravvivono mangiando cibo per cani e sono abbandonate in case che sembrano topaie senza nessuno che si occupi di loro”. Queste parole sono state scritte pensando a uno dei paesi più ricchi del mondo, che aveva vissuto in pace per centocinquant’anni, era nel bel mezzo di una crescita economica senza precedenti e aveva appena costruito un milione di nuovi alloggi per i suoi cittadini. Negli ultimi anni altri scrittori hanno ripreso questa visione apocalittica del paese, senza però mai uguagliare Sjöwall e Wahlöö nel loro furioso riiuto di ammettere che la vita in Svezia era perfettamente tollerabile. D’altra parte, una certa ambivalenza nei confronti del progresso era largamente
condivisa. Il benessere della Svezia socialdemocratica sembrava essere stato raggiunto a spese di ogni senso di umanità. Mentre il paese diventava più ricco, tutto ciò che era vecchio, fatto di legno e un po’ cadente veniva ricostruito in cemento armato: era molto più pratico e più igienico. Ma anche spaventosamente deprimente.
Questo processo raggiunse l’apice nel 1967, quando il paese adottò la guida a destra per volere dell’allora ministro dei trasporti e futuro premier Olof Palme, leader dei socialdemocratici svedesi per diciassette anni, fino alla sua morte nel 1986. Palme era popolarissimo e amatocon un fervore quasi religioso. Gli svedesi che lo odiavano (e ce n’erano!) avevano qualcosa dell’audacia un po’ folle degli adolescenti che hanno appena scoperto l’ateismo e decidono di sfidare Dio. Per gli svedesi ogni gesto di Olof Palme sembrava avere un’importanza universale. Palme era l’incarnazione dell’internazionalismo di sinistra. Agli occhi di tanti svedesi, però, era anche il simbolo dell’arroganza dell’establishment. I socialdemocratici volevano rifondare la società svedese. Ereditarono una società povera e patriarcale e la trasformarono in una società ricca, femminista e ferocemente ugualitaria. Sembrava che avessero abolito le ingiustizie e la guerra.
Di certo hanno fatto piazza pulita della scuola di classe e di un certo linguaggio formale. Quando andarono al potere, lo svedese era una lingua straordinariamente ricca di sfumature gerarchiche,
che prevedeva spesso l’uso del “lei”. Pochi anni dopo tutti si davano del tu. Nel 1968, quando era ministro dell’istruzione, Palme partecipò a diversi cortei contro la guerra in Vietnam. In un certo senso la sua posizione era contraddittoria: non si faceva illusioni sul comunismo, a cui si era opposto in dalla giovinezza, e idealizzava gli Stati Uniti, dove aveva studiato da giovane e che aveva attraversato in autostop con pochi dollari in tasca. Fu proprio quell’esperienza a fare di lui un socialista. Ma il suo amore per l’America non scomparve mai. Si può quasi affermare che l’obiettivo politico di Palme sia stato evitare che gli svedesi sperimentassero sulla propria pelle la combinazione, tutta americana, di povertà e ottimismo. Un compito riuscito così bene che alla sua morte in Svezia non c’erano poveri e non c’era ottimismo.


continua

1 commento:

Anonimo ha detto...

partento dal presupposto che la socialdemocrazia non è mai stata perfetta e che mai lo sarà.mi chiedo se abbia mai provato brown a vivere in italia,il paese democratico, meno democratico dell'occidente.penso proprio di no!

per il resto mi limito a rispettare la sua analisi acuta e intelliggente sui buoni propositi e cattivi(ma fino a un certo punto)esiti della socialdemocrazia svedese,che personalmente penso debba essere ancora oggi,malgrado i tanti errori,un esempio da non trascurare se si vuole davvero cambiare(o almeno provarci)una società troppo impaurita,piena di se, e scarsamente autocritica come la nostra.

la sua analisi mi fà riflettere,e già questo basterebbe per definirla un'ottima analisi.

punkow