Tom Waits, Milano, 19 luglio 2008, Teatro degli Arcimboldi
Forse era estate. Ero a dormire a casa di un amichetto, probabilmente era il 1982, o qualcosa del genere. Il fratello più grande del mio amico, gran chiacchierone ma appassionato di musica come me, in qualche maniera, mi parla di un certo Tom Waits. Io ascoltavo rock, più che altro, e canzonette per esposizione. Non ho più smesso di amarlo, Tom, e di ringraziarlo, il fratello del mio amico.
Qualche giorno fa parlo con mia sorella, poco appassionata di musica. Le dico che sabato 19 non potrò tenere mio nipote, suo figlio. Mi domanda perchè, le rispondo che vado a vedere Tom Waits. Mi domanda chi è. Le rispondo che siccome l'ho già visto nel 1999, da domenica prossima quando mi presenterò a qualcuno non dirò il mio nome, bensì "salve, io ho visto due volte Tom Waits".
Ancora non sto bene, ma l'appuntamento è irrinunciabile. C'è l'amico Fabio da Roma per un viaggio in auto a Milano che, ci rifletto adesso, era un po' che non facevo; negli ultimi anni sono sempre andato in treno, e tornare ad andarci in macchina mi fa tornare anche giovane.
Bella giornata, e la tentacolare metropoli ci accoglie spoglia, soprattutto dal traffico, la zona universitaria che accoglie il teatro è perfino carina. C'è un altro amico, Marcello, che è qui con i genitori: una cosa spiazzante ed esaltante al tempo stesso. Per usare un luogo comune, potenza della musica.
Il pubblico italiano è tendente al fighetto finto casual, ma c'è un'imponente presenza di stranieri, alcuni disciplinati (quelli che, quando la zelante hostess degli Arcimboldi li prega di andare a bere la birra fuori dalla zona poltroncine si alzano e ci vanno), altri meno (il tedesco dietro di noi che ci urla nelle orecchie tutto il concerto). Il teatro, che non avevo mai visto, bello, imponente e moderno. La resa sonora sarà infatti fantastica, nonostante i volumi contenuti. Personaggi pubblici presenti, anche se i più si saranno fatti le prime due sere (Tom ha suonato qui pure giovedì e venerdì, stasera è sabato); avvistato Roy Paci, mentre 3 file dietro a noi c'è Paolo Liguori, cosa questa che mi fa immediatamente venire uno sfogo sulla pelle.
Il palco è come te lo aspetti: semibuio, con un palchetto polveroso per lui, gli strumenti tutti intorno, sul soffitto grammofoni e cianfrusaglie varie. Si fa attendere, si comincia che sono quasi le 22,00, ma il pubblico gli perdona tutto, e lo accoglie con un calore debordante. Ecco l'uomo, il barbone, l'alcolizzato (ex), il peccatore, Bukowski in musica, il cantante dalla voce di carta vetrata, il cantore dei perdenti, delle pene d'amore affogate nel bicchiere, il padre di tutti i tipi da bancone. Una marionetta di carne redenta (dalla moglie, finalmente una che fa del bene agli artisti...sto pensando a Ben Harper e Chris Cornell, due sicuramente qualche gradino sotto a Waits, ma completamente rovinati artisticamente da nuove relazioni) e dinoccolata. Il molleggiato d'America, potremmo osare, anche se di spessore infinitamente più grande di quello italiano, se permettete.
E' l'accoppiata Lucinda con Ain't Goin' Down To The Well da Brawlers, il disco numero 1 del mastodontico Orphans, ad aprire le danze. Il pubblico ammutolisce, attonito e stordito, e anch'io, nonostante il precedente del 1999, rimango basito e rapito dal vortice catarroso della voce di Waits. La polvere che si alza dal suo palchetto quando sbatte il tempo con gli stivali è un classico.
Da sinistra a destra, Casey Waits, il figlio grande (a Firenze nel 1999 entrò sul palco 14enne per suonare Big In Japan, adesso è titolare), alla batteria, Seth Ford-Young al basso/contrabbasso, Omar Torrez alla chitarra, Patrick Warren alle tastiere, Vincent Henry ai fiati. C'è anche Sullivan Waits, il figlio di mezzo, che entra per 3-4 pezzi, suona il clarinetto o le congas.
Way Down In The Hole torna indietro di 21 anni, a Frank's Wild Years ed è sempreverde (4 versioni differenti - The Blind Boys Of Alabama, Neville Brothers, DoMaJe e Steve Earle - più la sua, aprono le 5 serie di The Wire, un serial poliziesco HBO dal buon successo di pubblico all over the world), ma il terzetto che arriva dopo stende: Fallin' Down, bellissima, All The World Is Green, stupenda, I'll Shoot The Moon, struggente. '88, 2002 e '93, i decenni scorrono ma la poesia sporca di Tom non tramonta. Mi torna in mente la cassettina originale di Closing Time e mi sento in pace con me stesso.
God's Away On Business è spassosa e dissacrante, poi per Cold Cold Ground Tom imbraccia la chitarra, mentre per Eyeball Kid prende il megafono; divertente l'introduzione dove Tom, supportato dalla band, "palleggia" col suo occhio destro. La band è minimale, così come il drumming di Casey, ma cambia registro con estrema facilità. Torrez non è Ribot, ma dice la sua.
Jesus Gonna Be Here è ruvida. Tom si siede al piano e racconta la prima storiella della serata (anche se già al secondo-terzo pezzo aveva già dato dimostrazione di tempismo comico inarrivabile, rispondendo con un "ok baby" ad uno dei tanti urli provenienti dalla platea); parla di bagagli smarriti, shopping a Milano, e di un fantomatico posto fuori città dove puoi trovare qualsiasi cosa, appunto, va smarrita nei viaggi aerei, dopo di che attacca On The Nickel. Altra storiella su "paese che vai, leggi che trovi" (niente a che vedere con le toghe rosse, solo aneddoti nonsense e divertentissimi), e poi, dice lui, a richiesta Tom Traubert's Blues. Potrei andarmene mentre canta (e canto) to go waltzing Matilda, waltzing Matilda ma rimango.
House Where Nobody Lives e la splendida Innocent When You Dream, durante la quale fa cantare tutto il teatro (mi vengono i brividi a ripensarci...it's such a sad old feeling, the fields are soft and green, it's memories that I'm stealing, but you're innocent...when you dream...when you dream you are innocent when you dream), sono le ultime al piano per il momento, Tom torna sul palchetto per una movimentata Lie To Me, poi viene la salsa di Hoist That Rag, con il figlio Sullivan alle congas. Prende la chitarra elettrica per Bottom Of The World, torna al piano, racconta una storiella su caramelle e spiritualità, e introduce Chocolate Jesus come "una canzone adatta per la messa della domenica mattina".
Travolgente l'avvicinamento alla pausa. La medley tra Rain Dogs e Russian Dance fa impallidire la balcanicità di Kusturica e dei Gogol Bordello, Dirt In The Ground è cavernosa e Make It Rain fa piovere davvero, anche se sono solo coriandoli dall'alto (forse anche un pochino in ritardo, visto che pareva quasi implorarli ad un certo punto). Ma sono gli applausi e le richieste di bis indiavolate che piovono appena Waits e la band lasciano il palco per la pausa, meritata.
Il finale è da incorniciare. Jockey Full Of Bourbon diventa un cha cha cha (e Capossela si inchina), Hang Down Your Head (una delle mie preferite) è esaltante, l'ultima è Goin' Out West piena di stop e con Tom ancora con la chitarra elettrica imbracciata. E' quasi mezzanotte, può bastare. Saluta tutti e per un momento sembra che gli si stacchino le mani dai polsi, tanto sono grandi e ondeggianti.
Mi rimane negli occhi Tom Waits con la bombetta fatta di specchi come le palle da discoteca, non ricordo su quale pezzo, ed esco dagli Arcimboldi con un sorriso ebete stampato sul viso. Torno a casa con 150 euro in meno, ma con una serata da tramandare ai posteri.