No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20140624

Hell is an Understatement (2)

continua da ieri

L'incidente a Boy Rabe

Il 24 marzo sono andato con il fotografo Michael Christopher Brown a Boy Rabe, una roccaforte degli anti-balaka, la milizia cristiana che è diventata il gruppo armato più temuto nella capitale. Il nome deriva dai riti d’iniziazione a cui si sottopongono i suoi giovani combattenti per diventare immuni dalle pallottole dei kalashnikov e dai machete (balaka in sango, la lingua più parlata nella Repubblica Centrafricana). Gli anti-balaka sono nati come forze di autodifesa nelle campagne e tra le comunità cristiane di Bangui, ma da quando hanno avuto la meglio sulle milizie musulmane saccheggiano le case di civili terrorizzati senza fare distinzioni di etnia o religione. Incontrare gli anti-balaka sul loro territorio significa finire in balìa di adolescenti armati fino ai denti e spesso ubriachi, perciò convinti di essere invulnerabili. Mentre ci avviciniamo in auto al quartiere di Boy Rabe, il tassista rallenta fino a procedere a passo d’uomo, spiegando che lungo la strada possono esserci dei posti di blocco nascosti. Cerchiamo indizi della presenza di anti-balaka pronti a spuntare da dietro un edificio per derubarci o ucciderci. Proseguendo, la strada diventa silenziosa e il caos dei taxi collettivi e dei motorini lascia il posto a un deserto inquietante. Incontriamo un posto di blocco. Quando scendiamo dall’auto, alcuni ragazzi ci circondano. Indossano vestiti logori e sporchi, e dei talismani – amuleti e sacchetti di pelle pieni di erbe. Le loro armi sono sporche e rovinate. Il più piccolo avrà una decina d’anni, il più grande sedici al massimo. Hanno a disposizione almeno tre Ak-47, due pistole, due spade, e una falce storta e spuntata. Devono aver spaventato il nostro autista perché, prima ancora di riuscire a mettere a fuoco la situazione, l’auto è già scomparsa in fondo alla strada. Tra di loro i ragazzini parlano in sango, ma quando tiro fuori il blocco di appunti e comincio a fare domande in un francese stentato almeno per un attimo sembrano ascoltarmi. “Siamo giornalisti”, dico. “Vogliamo conoscere la storia della gente di Boy Rabe e parlare con il vostro capo”. I ragazzini si limitano ad ammiccare, inché uno dichiara: “Non c’è nessun capo”. Queste parole ci danno un certo sollievo: se parlano, probabilmente non hanno ancora deciso di ucciderci. Ma mentre scambiamo queste poche battute, il ragazzino con in mano la falce comincia a correre avanti e indietro lungo la strada. A una ventina di metri di distanza, da dietro una recinzione sbuca un adulto. Avrà poco più di trent’anni e indossa una maglietta blu pulita. Dev’essere il capo che i ragazzini sostengono di non avere. Appena arriva si mette a gridare, e i bambini insieme a lui. Le prime parole che riusciamo a distinguere sono: “Via da qui”. Alziamo le mani per mostrare che non siamo pericolosi. Cerco di spiegargli che vorrei intervistarlo, ma lui comincia subito a sbraitare: “Niente interviste”. E di nuovo: “Via da qui”. Ci piomba addosso e spintona Michael per strappargli la macchina fotografica. Poi ci caccia urlando. Non ci mettiamo a correre e non ci voltiamo indietro, per paura che un’occhiata o una fuga precipitosa possano essere viste come un gesto aggressivo o un indizio di colpevolezza. Qualunque cosa può essere interpretata come una provocazione. La stradina di terra battuta che porta al viale principale si estende per altri duecento metri, ma sembra molto più lunga. Non c’è nessuno per strada e se l’uomo decidesse che è meglio ucciderci, nessuno vedrebbe niente. I nostri cadaveri, insolitamente pallidi, probabilmente verrebbero trovati il pomeriggio successivo in una catasta lungo l’avenue de France.  

continua venerdì 27 giugno

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