No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20101217

Khamosh Pani


Acque silenziose – di Sabiha Sumar 2005


Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Giudizio vernacolare: 'nteressante


Pakistan, 1977, il generale Zia Ul-Haq si impossessa del potere con un colpo di stato militare, arresta Alì Bhutto, poi lo impicca, impone una severa versione della legge islamica. Starà al potere molti anni. Su questo sfondo politico-sociale, in un piccolo villaggio pakistano vicino al confine con l’odiata India e la regione del Punjab, regione dove vivono i Sikh esiliati dopo la tremenda guerra di religione del 1947, ma che fino ad allora vivevano insieme ai musulmani, si svolge la vicenda che ha per protagonisti Ayesha e suo figlio Saleem. Dopo la morte del marito, Ayesha dedica tutto il suo amore al figlio, che cresce gentile, romantico e con la passione del flauto. La donna custodisce però un segreto: è l’unica donna del villaggio che non va al pozzo a prendere l’acqua. Le gentili vicine se ne incaricano per lei. Sulla scia della crescente tensione socio-politica della nazione, arrivano al villaggio, durante una festa di matrimonio, due attivisti di una associazione fondamentalista islamica, ed iniziano a far proseliti all’inizio tra l’indifferenza generale, in seguito in mezzo agli anziani sempre più preoccupati. L’arrivo di un gruppo di Sikh in pellegrinaggio per rivedere i luoghi nativi dalla vicina India alza ancor di più la temperatura. Saleem, all’inizio distante, per mezzo dell’insistenza di un amico si avvicina al gruppo, diventando in poco tempo uno dei più accesi militanti. Inizia a trattare male la madre e la fidanzata Zoubia, fino al punto di lasciarla in malo modo, rompendo un amore che sembrava immenso. Le sorprese non sono finite: l’insistenza di uno dei Sikh rivela il mistero che Ayesha custodiva da 30 anni, il figlio non lo sopporta. Neanche il gesto estremo della donna riporterà Saleem sulla strada della ragionevolezza.


Sabiha Sumar è una documentarista pakistana di 45 anni, e questo suo primo film ha vinto nel 2003 il Pardo d’oro a Locarno come miglior film, e il Pardo per la miglior attrice protagonista a Kirron Kher (Ayesha). In Italia, ovviamente, la distribuzione l’ha massacrato, rendendolo praticamente invisibile.

Il film dal punto di vista tecnico non è eccelso; se si escludono la fotografia, non male, e l’abilità di alcuni campi lunghi, aiutati, in questo genere di filmografie, sempre dai paesaggi stessi, la sceneggiatura è piuttosto schematica, e la fluidità del tutto ne risente. Ci sono alcuni momenti gustosi, che saranno apprezzati da chi, per esempio, ha un minimo di dimestichezza con il cinema di Bollywood, che alleggeriscono la pesantezza (intesa in senso “serio”) della storia, mentre, proprio per la staticità del film, che risulta piuttosto ingessato, le prove di tutto il cast sono da rimarcare in positivo. La cosa che però rende questo film da vedere, è la storia che racconta. Ci offre uno spaccato storico doppio, anzi, triplo se consideriamo l’epilogo contemporaneo, che dura quanto basta per farci capire come si vive adesso in Pakistan, e ci fa comprendere, anche se sommariamente, la tremenda storia che questo popolo ha dovuto sopportare; sopra tutto ciò, si staglia una storia-pretesto (anche se vera) che, attualissima, ci fa ancora una volta urlare di rabbia contro il trattamento riservato, dai regimi dove la religione diventa stato, alle donne. Senza contare i brividi che corrono dietro la schiena dello spettatore mentre si vedono i giovani che, lentamente ma inesorabilmente, si avvicinano alla Jihad. Alcune cose rimarranno a noi incomprensibili (solo leggendo un’intervista alla regista scopro che, ancora oggi, i muri delle scuole femminili in Pakistan, sono più alti di quelli delle scuole maschili), ma questo è cinema didattico, pur se non eccelso, che vale la pena vedere.

Fosse solo per quella frase che la regista fa pronunciare alla protagonista: “Non è che perché prego che ho smesso di pensare”.

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