No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20101212

islanda lug/ago 2010 - 17



Addio a Hveragerdi - Penisola di Reykjanes - Ritorno a Keflavìk - Il gran finale

La sveglia avviene con molta calma, come dovrebbe essere sempre, la colazione è "chiacchierata" e rilassata. Bagagli fatti, e si salda il conto. Sorrisi e saluti, complimenti alla guesthouse, e mentre saliamo in macchina mi accorgo che la signora-che-cade-sempre-dalle-nuvole ci ha fatto lo sconto perchè siamo rimasti tre notti, ma ci ha fatto pagare la prima notte, che noi avevamo già pagato appena arrivati. Rientriamo, spieghiamo, e la faccia della signora assume un'espressione indescrivibile. A volte, l'onestà delle persone, o di un popolo, si misura pure dalle espressioni facciali (ci fosse stato il dottor Cal Lightman avremmo potuto discuterne a lungo...). Si scusa circa un miliardo di volte, e ci ritorna il dovuto. Succede.
Visto che dalle carte e dalla guida, la strada che porta a Grindavìk lungo la costa sud della penisola di Reykjanes non è propriamente un'autostrada, puntiamo di nuovo sulla capitale, per poi oltrepassarla, e poi prendere la 43, che lambisce anche la stra-famosa Blue Lagoon.
L'atmosfera è ampiamente rilassata, il cielo è islandese: non c'è un sole prepotente, non sembra voglia piovere. Saliamo su un altipiano a ridosso di Hveragerdi e come al solito, sembra di vedere un paesaggio lunare. Sulla destra un'impianto di geotermia, fumacchi che si levano dal suolo un po' dappertutto, sulla sinistra la penisola che andremo a circumnavigare, se così si può dire.
Vegetazione zero.
Accarezziamo la capitale dalla tangenziale: tutto il mondo è paese. Grandi magazzini e supermercati disseminati un po' ovunque. Poco traffico. Prendiamo la 41, che va verso l'aeroporto internazionale di Keflavìk. Dopo che il paesaggio ha assunto panoramiche più "terrestri" nei dintorni di Reykjavìk, intendo con una parvenza di vegetazione, e naturalmente molti parchi, visibili anche da lontano, si passa ad un panorama decisamente vulcanico. Aggressivamente vulcanico, direi: la tonalità è scura, e i massi di lava raffreddata chissà da quanti anni, decenni, secoli o millenni, sempre più grandi. La strada è piuttosto sgombra, adesso abbiamo il mare sulla nostra destra, viaggiando verso la punta della penisola. All'incrocio con la 43, prendiamo verso Grindavìk. Adesso siamo completamente in mezzo alla lava. Paesaggio assurdo. Inizia a piovere leggerissimamente. Ci fermiamo in un punto dove ci sono grotte in mezzo ai blocchi di lava, o buchi enormi, dove la gente scende per farcisi fotografare. La Blue Lagoon è vicinissima a Grindavìk, che è sulla costa opposta della penisola. Ci passiamo accanto, è come ci immaginavamo. In mezzo a questo panorama incredibile, il parcheggio già abbastanza pieno di mattina, bus compresi, strutture alberghiere ai margini. Passiamo oltre, che non ci va di metterci in costume. Arriviamo a Grindavìk, e giriamo per le strade del villaggio deserte. Piccolo porto industriale, tutto ordinato, poca gente in giro. Non dimentichiamoci che è domenica mattina. Andiamo oltre, e cominciamo a costeggiare la coste della penisola, girando in senso orario. Non ci sono insediamenti abitativi, ma le coste a volte addolciscono il panorama brullo e vulcanico, anche se la roccia domina, insieme ad almeno uno stabilimento geotermico. Uccelli ovunque, e un vento che la fa da padrone. Pare che Eastwood da queste parti abbia "ricostruito" Iwo Jima per Flag Of Our Fathers. L'attrazione, parola grossa, principale su questo tratto di costa, è il ponte tra le due placche tettoniche continentali, la nord americana e l'europea. Come si vede dalle foto, un ponte vero su un canalone. Sabbia e sassi tutto intorno, niente di sconvolgente da vedere, ma la sensazione vaga di trovarsi in un punto importante: pare che il movimento sia costante e inesorabile.
Dopo aver oltrepassato il piccolissimo villaggio di Hafnìr, le carte non sono chiare: pare che per continuare a costeggiare la parte superiore della penisola, si debba necessariamente passare da Keflavìk, e invece in realtà non è così. Proseguiamo costeggiando scogliere basse e battute dal vento, vedendo chiaramente l'aeroporto internazionale sulla nostra sinistra, finché arriviamo ad un altro villaggio chiamato Sandgerdi. Qui, veramente, gli uccelli la fanno da padrone, e accostiamo per fotografarne alcuni, impegnati a nutrire un piccolo. Bisogna davvero stare attenti a non farne fuori alcuni con il parabrezza. Rispetto all'altra "protuberanza" della penisola, questa pare leggermente più verde, vegetazione bassa, naturalmente, ma esistente. Ovviamente,
anche Sandgerdi ha il suo campo da golf.
Proseguiamo fino alla punta estrema. La strada ci porta a Gardur, dove tra le altre cose costeggiamo il piccolo, ma verde e ordinato, stadio (sono tutti piccoli!), ed arriviamo fino a Gardskagaviti, dove ci sono ben due fari. Calma piatta sul mare, un mare grigio e apparentemente a perdita d'occhio, vista privilegiata sull'altra penisola, quella di Snaefellsnes.
Da qui a Keflavìk, il passo è breve (e c'è un altro campo di golf in mezzo). Vi dirò che, in verità, Keflavìk, assieme a Njardvìk e ad Hafnir, sono considerate un tutt'uno, col nome di Reykjanesbaer. E' ancora presto per presentarci al B&B dove abbiamo dormito appena arrivati, ormai due settimane fa, e dove abbiamo prenotato anche questa prossima notte, e facciamo un giro per la cittadina, che pare stanca. Pare tutto chiuso, e la fame comincia a farsi sentire. Ancora una volta, ci ricordiamo che è domenica mattina, e giriamo alla ricerca di un posto dove cibarci. Ecco un Subway, e vai di panino con tutto. Da Subway, qualcuno già lo saprà, sei libero di "comporti" il panino a piacimento, e puoi/devi anche scegliere il tipo di pane con cui farlo. Non avendone idea, uno dei tre locals entrati dopo di noi mi dà un consiglio. Lo seguo e ringrazio, sembra simpatico. Mangiamo, passeggiamo vicino al mare, fumiamo una sigaretta, ci guardiamo attorno. Sembra che la notte passata in quei paraggi ci sia stato parecchio movimento. Andiamo al B&B, portiamo i bagagli in camera, apprezzandole di nuovo, sono enormi in effetti, prenotiamo il bus per
l'aeroporto, per il giorno seguente. A quel punto, non ci resta che consegnare l'auto. Non sono ancora le 17, avremmo tempo fino alle 19, ma fa niente, davvero. Andiamo all'aeroporto e, ricordandoci le indicazioni che ci avevano dato al momento della consegna, arriviamo nel luogo prestabilito. L'addetto all'ufficio chiama il ragazzo incaricato della verifica, che mette in moto, dà un'occhiata e mi strizza l'occhio, tutto a posto. Ci dà uno strappo all'aeroporto, sono si e no 200 metri, ma accettiamo. Avendolo sentito parlare con un collega in una lingua che non pareva decisamente islandese, la mia compagna di viaggio chiede di dove è, e lui risponde che è polacco. Snocciolo le mie due parole che conosco in polacco, e lui mi precede su una, che vi ometto per decenza. Salutiamo. Facciamo un giro stanco dell'aeroporto, che non offre chissà che cosa, e ci sediamo al bar per caffè, cappuccino, qualcosa del genere, tutto buono. Ci rilassiamo mentre guardando fuori, ci rendiamo conto che la giornata si è fatta decisamente bella. Ci assale un'idea veramente malsana: tornare al B&B a piedi. Siamo purtroppo entrambe d'accordo, e partiamo a spron battuto. Lungo il percorso, apprezziamo l'auto incidentata (espediente usato anche nel nord Italia, vengo a sapere dopo, e non solo) che invita a guidare con prudenza, e sento crescermi un paio di verruche: ho le converse basse ai piedi. Ma non desistiamo.
Apprezziamo pure il fatto che all'ingresso del
"quartiere", dove è ubicato il B&B, che altro non era se non la vecchia base militare USA (anche l'aeroporto faceva parte della base, e in effetti il nostro percorso non fa altro che girare intorno al suo perimetro), c'è ancora la torretta del check in e le sbarre. Ci impieghiamo un'ora e 45
minuti, sono intorno ai 7 chilometri. Facciamo la doccia in fretta, ed andiamo a cena nell'unico posto raggiungibile a piedi senza sforzo: una pizzeria indicataci da uno del B&B nel palazzone proprio dietro a quello dove alloggiamo (vedi foto dei palazzoni). Mentre aspettiamo e mentre mangiamo ci facciamo grasse risate, soprattutto a proposito dello
stordimento di alcune cameriere, ma non solo. Notiamo che il tasso di obesità, anche tra le donne, qui è molto più alto che nel resto dell'Islanda: che sia un'eredità statunitense? Chi lo sa. L'apoteosi però, è quando dalla porta d'ingresso vediamo entrare i tre locals che erano
dietro a noi a pranzo: quello del consiglio sul pane mi saluta calorosamente. Ci viene il sospetto che non sia il solo posto raggiungibile a piedi dal B&B, bensì l'unico posto per mangiare aperto di domenica sera. Rimarremo con il dubbio.
Rientriamo dopo abbondanti libagioni. Siamo stanchissimi, ma non rinunciamo a leggere ancora un po' della nostra storia d'Islanda, e a commentarla con qualche riflessione.
Mi prendo un attimo per riassumere: a noi ha fatto ridere questo riferimento continuo alla "lotta" per l'indipendenza dalla Danimarca, che è stato fatto senza mai imbracciare le armi, tanto che il
sospirato distacco fu dichiarato mentre il re (di Danimarca) era stato imprigionato dai tedeschi (durante la Seconda Guerra Mondiale). Ma, in effetti, c'è poco da ridere: non sono molto più "degni" di rispetto loro, i pacifici islandesi, confrontati a noi o ad altri, la cui storia è piena di guerre, rivolte, morti, soprusi? Che poi, il pacifismo sia sempre un'utopia (in realtà, l'Islanda ha un accordo di difesa con gli USA, e durante la Seconda Guerra Mondiale fu "difeso", o meglio "occupato" per motivi difensivi, prima dagli inglesi, poi dagli statunitensi, che dettero il cambio ai primi), è naturale, ma credo sia il caso di rifletterci sopra.
Detto ciò, arriviamo al giorno della partenza. Colazione al B&B, bus per l'aeroporto, attesa, check in, controlli, shopping dell'ultim'ora. Poi, ognuno sul suo aereo, il "mio" che ritarda perchè non parte un motore, sms da un aereo all'altro, ritorno in Italia, l'impatto con il buio dopo due settimane di luce.
E un'altra esperienza indimenticabile, di quelle che crescono man mano che si allontanano nel tempo.
Alla prossima.

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