continua da venerdì 18 aprile
Ad Abu Dhabi le due attrazioni principali sono la spiaggia (insostenibile per il caldo infernale e i grattacieli intorno) e la gigantesca moschea Sheikh Zayed, appena costruita. Camminiamo a piedi scalzi sul marmo intarsiato e attraversiamo il tappeto più grande del mondo, sovrastati dai candelieri più pacchiani del pianeta. Lo spazio è stato pensato per accogliere 40mila fedeli, anche se stamattina ce n’è solo una: una donna in burqa su mezzo ettaro di tappeto. Immagino che sia raccolta in preghiera, ma avvicinandomi scopro che sta guardando l’iPhone. La sera mi metto in cerca del ristorante dell’albergo ma dopo venti minuti persi a girare per interminabili corridoi mi imbatto in una galleria chiamata World Luxury Expo, dove un uomo in vestaglia bianca gira le manopole di un biliardino d’oro con diamanti incastonati e una donna costringe un adolescente sovrappeso a provare una giacca di tweed rosa. “Ah, casa dolce casa”, dice una delle mie nuove amiche quando risaliamo sull’aereo il giorno seguente. Lo steward ci saluta come se ci conoscessimo da una vita, e in questo mondo alieno mi scopro confortata dal fatto che si ricorda che mi piace bere la Diet Coke senza bicchiere direttamente dalla lattina gelata. In basso, la sabbia gialla si trasforma lentamente in un collage di terreni agricoli che da novemila metri di altezza sembrano identici a quelli del Kent. All’atterraggio siamo colpiti da un inconfondibile odore di uomini e animali. Superati i controlli immigrazione delle autorità indiane saliamo su un autobus che avanza lentamente girando intorno alle vacche sdraiate lungo la strada. C’è spazzatura dappertutto. Il mio umore migliora. Al crepuscolo arriviamo a Udaipur. Il City Palace, vecchio di 450 anni, cadente e vagamente ammuffito nell’aria umida, rende ancora più romantici i vetri di cristallo, le piastrelle a mosaico, le incisioni, i dipinti e le immagini dei raja che hanno vissuto qui negli ultimi quattro secoli. Dall’altra parte del lago c’è un altro bellissimo palazzo. È stato costruito tre anni fa dalla Oberoi hotels per ospitare chiunque sia abbastanza ricco da potersi permettere un soggiorno tra le sue mura. Per fortuna è il nostro caso. Dopo una lunga dormita in una stanza talmente incantevole che vorrei non lasciarla più, faccio un’altra scoperta. Ci sono quattro ore e mezza di fuso orario rispetto a Londra ma non sento l’effetto del jet lag perché abbiamo fatto tappe graduali. Ci spostiamo in un albergo ancora più sfarzoso, l’Oberoi Armavilas di Agra. Dalla mia stanza si vede un’elegante piscina che cede il passo agli alberi e poi, ancora più in là, il Taj Mahal. Non tradisce mai, dicono tutti, preparando adeguatamente il terreno. Il giorno dopo arriviamo all’alba – dopo aver fatto i 200 metri che ci separano dall’albergo in una macchina di quelle usate nei campi da golf – e il sole splende rosa sulla cupola bianca, mentre il palazzo galleggia tra l’acqua e il cielo, a ricordare che la simmetria è la cosa più bella del mondo.
Il lusso non stanca
Mentre lascio l’aeroporto di Agra e mi preparo per il sesto paese in dieci giorni, mi sento un po’ truffata. Non ho visto molto dell’India. Guardo con un vago senso di risentimento il meraviglioso paesaggio delle montagne verdi e scure del Laos che si stende ai miei piedi. Luang Prabang è una deliziosa cittadina piena di incantevoli palazzi coloniali francesi, ci sono templi a volontà e apprezzo il buon gusto dell’hotel La Residence, con le sue piante tropicali e la infinity pool che si perde nel vuoto. Ma con la vista del Taj Mahal ancora negli occhi non riesco a godermela fino in fondo. La mattina dopo ci rivediamo alle 5.30 per un rituale di Luang Prabang. Ogni giorno metà della popolazione femminile si alza alle quattro per cucinare il riso e servirlo alle centinaia di monaci in tunica arancione che camminano per la città all’alba. Fortunatamente l’albergo ha cucinato per noi. Mi piazzo davanti a un tappetino con una vaporiera di bambù e ogni volta che passa un monaco, guardando dritto davanti a sé con aria impassibile, gli verso una manciata di riso nel secchiello di alluminio. Mi sento inspiegabilmente commossa. Molti sono più giovani del mio figlio più piccolo, che fra una decina di ore verserà del latte sui cereali in una cucina di Islington. Alla fine della giornata si presentano in albergo una decina di anziani laotiani per una cerimonia e dei canti. Ci regalano una composizione stranamente rigida di calendule arancioni. Ci legano al polso dei grossi cordoncini bianchi che dovremo tenere per tre giorni altrimenti succederà qualcosa di brutto, anche se non ci spiegano che cosa. La mattina seguente, per la prima volta ci sono le nuvole a rovinare il panorama, perciò non ho idea di cosa ci sia sotto di me nel breve spostamento dal Laos al Vietnam. Neanche all’atterraggio ho le idee più chiare. Non riesco più a godermi niente: né le otto portate preparate per il pranzo nel porto commerciale quattrocentesco di Hoi An né il vecchio ponte giapponese che ci descrivono come un gioiello. Solo quando arriviamo all’hotel Sun Peninsula, un vistosissimo palazzone bianco, nero e rosso che da solo occupa un’intera baia, mi riprendo un po’. Alla fine non è vero che gli alberghi di lusso diventano stucchevoli, specialmente quando ti portano su una teleferica a forma di barca ricoperta di frangipani e ti scaricano su una spiaggia privata sul mar Cinese meridionale. La triste verità è che le attrazioni mi stancano molto più delle lenzuola e dei camerieri che mi preparano uova strapazzate a colazione. La sera mi siedo sulla spiaggia con i miei nuovi amici e mi gusto una bella razza con la sabbia tra le dita, rinfrancata e pronta a nuove avventure. Ho ancora il cordoncino avvolto al polso perciò uno del gruppo, un ex chirurgo, me lo taglia. È a questo punto che la mia fortuna (e la mia vacanza) finisce. La mattina seguente gli altri proseguono per Lombok, Ayers Rock e Sydney, mentre io devo tornare a casa. Saluto i miei nuovi amici con grande rimpianto, che aumenta quando mi ritrovo sola con le valigie e il passaporto all’aeroporto di Da Nang. Anche la Malaysia Airlines, che pure mi ha promosso in business class, mi sembra impersonale e stancante. Attraversare di notte mezzo mondo con la prospettiva di arrivare a casa con il jet-lag e la nausea non è il massimo quando si viaggia. Com’è andata?, mi chiede al telefono la mia amica. Stupendo, rispondo. Hmm, dice lei. Davvero?
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