Continua da ieri
3. La sinistra non sa governare
Questo è un altro ritornello di moda. Prima ho parlato della Democrazia Cristiana come di una forza egemonica che è riuscita a governare il paese per più di quarant’anni senza ricorrere al presidenzialismo. L’Italia non ha avuto un generale de Gaulle. L’opposizione era molto forte, ma c’era una regola d’esclusione non scritta: il Partito Comunista non poteva governare il paese. Washington non lo avrebbe mai permesso. Il PCI ha amministrato molti comuni, è arrivato a governare delle regioni, ha creato una grande rete di cooperative e diretto politicamente la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL, il principale sindacato) e ha esercitato una grande influenza culturale per molti intellettuali, mostrando più flessibilità e duttilità di tutti gli altri partiti comunisti europei. È l’impronta lasciata da Antonio Gramsci, il più grande intellettuale marxista europeo degli anni venti e trenta, attento soprattutto alla lotta culturale. Gramsci morì nel 1934 dopo diversi anni di reclusione in un carcere fascista. Molti studiosi si sono chiesti quale sarebbe stata la sua opinione sull’Unione Sovietica se avesse vissuto in libertà. Non era uno stalinista. Gramsci ha lasciato un’impronta profonda, che va oltre la sinistra. È una figura nazionale. Ogni città di una certa importanza ha una strada intitolata a lui. Negli anni sessanta il PCI gestì perfino una galleria d’arte a Roma. Il cinema, la letteratura, il teatro, la pittura e il giornalismo in Italia hanno avuto una forte impronta di sinistra, che in buona parte dura ancora oggi. Anche il sindacalismo è stato molto forte. Lo è ancora oggi. La sinistra italiana non è stata affatto debole. Dotata di una grande capacità di stringere accordi, ha consolidato lo stato sociale, in una società fortemente ancorata alla famiglia e in cui, anche se moltissime persone hanno una casa di proprietà, non c’è stata una bolla immobiliare come quella spagnola. Attenzione ai dati: parliamo soprattutto di case già interamente pagate, e di tante seconde case, anche quelle pagate durante gli anni di maggiore benessere. Un paese con un basso indice di debiti ipotecari , un forte risparmio familiare (uno dei tassi di risparmio più alti d’Europa), preoccupazione per la vecchiaia e per il futuro dei figli. Un paese con servizi pubblici carenti, tanti precari, stipendi in discesa e un tasso di disoccupazione del 13 per cento. Il tutto distribuito in due scenari alquanto eterogenei: il nord, con uno dei redditi più alti d’Europa, e il sud, degradato e abituato all’assistenza dello stato. La Lombardia compete con la Baviera. L’amministrazione regionale siciliana ha un debito stratosferico. Da una parte, dunque, c’è una fetta di popolazione protetta (i dirigenti di aziende pubbliche, chi gode di diritti sindacali consolidati e chi trae vantaggio dal clientelismo politico), dall’altra sempre più persone che non hanno nessuna protezione (i piccoli imprenditori schiacciati dalla concorrenza asiatica, i commercianti che vendono meno, i lavoratori in nero, i contratti precari nell’amministrazione, i giovani senza prospettive, gli anziani che devono fare i conti con la crisi e le classi medie preoccupate per il futuro). Nord e sud: una distanza siderale fra Treviso, una delle città più ricche del paese, e Reggio Calabria. Distanza sociale, ma unità culturale. Una mitologia nazionale che per molti aspetti non funziona più, ma che resiste ancora. L’unificazione del 1861 fu legittimata dal basso. La sinistra, che difende con forza la costituzione del 1948, ha tutelato molti diritti, ha sicuramente creato un nuovo conservatorismo sociale e da anni gioca partite a scacchi molto complicate. Governare l’Italia non è facile: richiede una capacità di sintesi straordinaria. Matteo Renzi è la nuova espressione della sinistra italiana? Credo di no. Questa è una delle novità di Renzi: per la prima volta il Partito democratico (grande amalgama di ex comunisti, ex socialisti, ex democristiani che non hanno voluto seguire Berlusconi e persone che prima non facevano parte di nessun partito) non è controllato dai vecchi quadri dirigenti del PCI e della CGIL. Renzi non appartiene all’albero genealogico della sinistra italiana. Renzi ha sconfitto il PCI. È riuscito a ottenere delle primarie aperte per l’elezione del segretario del partito (praticamente non ci sono precedenti in Europa) e ha vinto. È il leader del PD perché l’hanno votato persone interessate al successo del suo progetto. Il sindaco di Firenze ha intuito la forza di uno slogan apparentemente semplice: “Vogliamo votare!”. Ha intuito con sufficiente anticipo il successo del “democratismo” in un’Europa in crisi. È questa la novità del sindaco di Firenze. “Democratismo”, decisionismo e ricambio generazionale.
4. Gattopardo
Mi dispiace, non sono riuscito a evitarlo. Ogni volta che parliamo dell’Italia deve saltare fuori la celebre frase: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, dal Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (un romanzo straordinario, pubblicato postumo, che fu considerato decadente dalla critica di sinistra). Renzi si ispira a Tomasi di Lampedusa? Bisogna che tutto il linguaggio cambi se vogliamo che le strutture di fondo rimangano come sono? Sono due domande a cui si potrà rispondere solo in futuro. Le aspettative suscitate dal sindaco di Firenze e presidente del consiglio incaricato sono molte. Se si votasse oggi, in teoria Renzi vincerebbe le elezioni. Perché non forzare la mano e andare a nuove elezioni, invece di lanciarsi in questa brusca manovra di partito che lo fa apparire come un ambizioso politico di provincia? Perché non ha preferito entrare a Roma come un Cesare fedele alla democrazia, unto dal voto popolare, invece di far cadere il povero Enrico Letta, con un sordido stratagemma? Ecco una delle chiavi di lettura della situazione. La legge elettorale è profondamente sbagliata. Modificata da Silvio Berlusconi nel 2005 per bloccare il paese in caso di sconfitta del centrodestra, oggi non garantisce una maggioranza stabile. Un anno fa il PD ha ottenuto la maggioranza alla camera ma non al senato. Un risultato simile potrebbe ripetersi. Il primo passo di qualsiasi programma riformista in Italia passa necessariamente dal cambiamento della legge elettorale. Renzi ha fatto un accordo di massima con Berlusconi per approvare una nuova legge elettorale ispirata al modello spagnolo (liste chiuse, premio ai primi due partiti, penalizzazione di quelli piccoli), una riforma che andrebbe accompagnata da un forte ridimensionamento del senato. In poche parole, più potere per i due grandi partiti e più potere per il presidente del consiglio. Una correzione del dogma del 1948. Renzi ha “resuscitato” Berlusconi in un momento di grave difficoltà del centrodestra: il Cavaliere sta cercando di riportare a galla il suo primo partito, Forza Italia, e i suoi vecchi luogotenenti, guidati da Angelino Alfano, cercano di creare una nuova forza di centro. Complicato? Sì. Renzi ha abbozzato questo patto come segretario di partito, stando fuori dal governo. Era sicuro di poter controllare il processo senza essere al timone del consiglio dei ministri? Sicuramente no. Il controllo dei tempi è fondamentale in politica. Se avesse aspettato sarebbe rimasto intrappolato nel calendario. A maggio ci sono le elezioni europee e a giugno l’Italia guiderà il semestre europeo. Se Renzi avesse aspettato qualche settimana di più, Letta sarebbe entrato in una zona di sicurezza. Matteo Renzi ha consultato gli indovini dei mezzi di comunicazione (i moderni spin doctor) e forse ha parlato con lo spirito dei Medici, i signori di Firenze che amavano il potere. Forse ha sfogliato Il principe di Machiavelli. E alla fine ha pugnalato Letta, anche a rischio di apparire come un volgare Bruto. Il “democratista” Renzi arriva al potere con una rozza interpretazione del manuale Andreotti. Non è una bella immagine. Parlo di questa impressione con un amico di Firenze, M.V., grande conoscitore della politica italiana, e lui mi risponde: “Ti sbagli, Andreotti queste mosse le faceva con molto più stile”. Ha ragione il giovane romano Riccardo Pennisi, studioso di scienze politiche, quando dice che l’Italia ti fa sempre pensare. In questi giorni stiamo assistendo a un’interessante lezione di politica. Ecco cosa succede quando un partito di sinistra elegge il segretario con delle primarie aperte a tutti i cittadini. Renzi è lo Zapatero d’Italia? No, non credo. Zapatero apparteneva all’albero genealogico del Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE). Renzi non è figlio della sinistra storica. Renzi è il vessillo di una grande operazione per ammodernare l’apparato istituzionale italiano nel corso di una grave crisi economica e sociale, il cui segnale più forte è la recente decisione della Fiat di trasferire la sua sede legale nei Paesi Bassi e la residenza fiscale a Londra. Il futuro presidente del consiglio italiano mi ha fatto pensare in questi giorni a Jep Gambardella, il protagonista del film La grande bellezza. Renzi è estraneo al mondo politico romano. Viene dai boy scout e da Firenze, una provincia molto ricca. Roma cattura tutto, divora tutto, corrompe tutto. Zapatero si è allenato a Madrid per più di dieci anni prima di fare il grande salto. E ha frenato bruscamente nel maggio del 2010, quando da Bruxelles, Berlino e Washington gli hanno intimato l’alt per la crisi economica. Riuscirà l’ambizioso e audace Renzi a opporsi alle fauci romane?
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