No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.
20140531
20140530
The Secret Life of Walter Mitty
I sogni segreti di Walter Mitty - di Ben Stiller (2013)
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Walter Mitty è una brava persona. Educato, silenzioso, umile, si prende cura dell'anziana madre e della sorella aspirante attrice; lavora da anni nell'archivio dei negativi della famosissima rivista Life. Tutti lo considerano un grigio topo d'archivio, una persona priva di aspirazioni e sogni, tutti escluso il grande fotografo Sean O'Connell, probabilmente il più pagato e ambito, che considera Walter l'unico in grado di cogliere davvero appieno il senso delle sue foto: è a lui che spesso si affida per la scelta dei negativi da trasformare in copertine.
Walter sta cercando la sua anima gemella, con una scelta quantomeno particolare: si iscrive ad un sito di incontri online, ma è convinto che la sua "altra metà" sia la collega Cheryl Melhoff, con la quale a lavoro fatica a parlare.
Un mattino che pare come tutti gli altri, Walter incontra un giovane particolarmente arrogante in ascensore. Scoprirà poco dopo che si tratta proprio di Ted, il manager incaricato della ristrutturazione aziendale, che porterà al licenziamento di molte persone: la rivista cesserà di uscire in edicola, e passerà alla sola edizione online. Ted vuole che l'ultimo numero prima dei licenziamenti sia memorabile, e venendo a sapere dell'ultima comunicazione di O'Connell, si convince che la foto numero 25 del rullino da lui inviato a Walter, che il fotografo descrive come eccezionale, deve essere quella che andrà in copertina. Ma la foto, misteriosamente, non si trova.
Dunque, probabilmente mi dilungherò a proposito di cose che poco c'entrano col film in questione. Cercherò di andare per ordine, ma non prometto niente.
A differenza di chi, come sapete, rispetto, a me questo film non è piaciuto, seppure, naturalmente, anch'io mi sia commosso, ma si sa, che io son proprio facile facile da commuovere, basta una scheda su un calciatore che viene dalla middle-class. Sarà perché non ho visto il primo film basato sul libro omonimo scritto da James Thurber nel '39 (Sogni proibiti del 1947), sarà che (e badate che lo dico senza voler fare lo sborone) molti dei miei sogni li ho realizzati (non tutti, come Mitty nel film, effettivamente), forse perché sogno in maniera razionale (il che, mi rendo conto, è una contraddizione in termini, ma son convinto che tutto è colpa del mio essere inconsciamente democristiano), insomma, a me I sogni segreti di Walter Mitty è parso una sorta di spottone per qualche agenzia di viaggio, senza un reale scopo che non fosse quello di realizzare un film da famiglie, buonista fino al midollo, con quella specie di rivincita di pseudo-sinistra che dimostra che quelli licenziati sono i buoni (epperò li han mandati a casa). Naturalmente, fotografia spettacolare, e luoghi da vedere. Sean Penn (Sean O'Connell) sembra quasi prendersi in giro da solo nella parte.
A questo punto, apro una parentesi. Scendo nel particolare e nel privato (il mio, che diamine), raccontandovi che ho visto questo film in aereo, mentre andavo a Dubai, in aprile. L'ho scelto perché era l'unico film che mi pareva degno di nota a parte quelli tra i candidati all'Oscar (che ho qui, tutti insieme, in attesa di trovare il tempo); però la tentazione era quella di mettersi a vedere Broadchurch, che figurava, l'intera serie, tra le opzioni. Visto il film, infatti, mi son messo sotto con la serie, e l'ho portata a termine col volo di ritorno.
Ecco: è vero che quel che mi manca, ultimamente, è il tempo: avrete notato che l'ultima recensione cinematografica risale al mese di febbraio. Però, sinceramente, tra I sogni segreti di Walter Mitty e Broadchurch, tanto per mettere a confronto due cose probabilmente imparagonabili ma che mi son state messe davanti dal caso, è decisamente meglio Broadchurch. Anche per chi ama il cinema. Magari approfondirò il concetto più avanti.
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Walter Mitty è una brava persona. Educato, silenzioso, umile, si prende cura dell'anziana madre e della sorella aspirante attrice; lavora da anni nell'archivio dei negativi della famosissima rivista Life. Tutti lo considerano un grigio topo d'archivio, una persona priva di aspirazioni e sogni, tutti escluso il grande fotografo Sean O'Connell, probabilmente il più pagato e ambito, che considera Walter l'unico in grado di cogliere davvero appieno il senso delle sue foto: è a lui che spesso si affida per la scelta dei negativi da trasformare in copertine.
Walter sta cercando la sua anima gemella, con una scelta quantomeno particolare: si iscrive ad un sito di incontri online, ma è convinto che la sua "altra metà" sia la collega Cheryl Melhoff, con la quale a lavoro fatica a parlare.
Un mattino che pare come tutti gli altri, Walter incontra un giovane particolarmente arrogante in ascensore. Scoprirà poco dopo che si tratta proprio di Ted, il manager incaricato della ristrutturazione aziendale, che porterà al licenziamento di molte persone: la rivista cesserà di uscire in edicola, e passerà alla sola edizione online. Ted vuole che l'ultimo numero prima dei licenziamenti sia memorabile, e venendo a sapere dell'ultima comunicazione di O'Connell, si convince che la foto numero 25 del rullino da lui inviato a Walter, che il fotografo descrive come eccezionale, deve essere quella che andrà in copertina. Ma la foto, misteriosamente, non si trova.
Dunque, probabilmente mi dilungherò a proposito di cose che poco c'entrano col film in questione. Cercherò di andare per ordine, ma non prometto niente.
A differenza di chi, come sapete, rispetto, a me questo film non è piaciuto, seppure, naturalmente, anch'io mi sia commosso, ma si sa, che io son proprio facile facile da commuovere, basta una scheda su un calciatore che viene dalla middle-class. Sarà perché non ho visto il primo film basato sul libro omonimo scritto da James Thurber nel '39 (Sogni proibiti del 1947), sarà che (e badate che lo dico senza voler fare lo sborone) molti dei miei sogni li ho realizzati (non tutti, come Mitty nel film, effettivamente), forse perché sogno in maniera razionale (il che, mi rendo conto, è una contraddizione in termini, ma son convinto che tutto è colpa del mio essere inconsciamente democristiano), insomma, a me I sogni segreti di Walter Mitty è parso una sorta di spottone per qualche agenzia di viaggio, senza un reale scopo che non fosse quello di realizzare un film da famiglie, buonista fino al midollo, con quella specie di rivincita di pseudo-sinistra che dimostra che quelli licenziati sono i buoni (epperò li han mandati a casa). Naturalmente, fotografia spettacolare, e luoghi da vedere. Sean Penn (Sean O'Connell) sembra quasi prendersi in giro da solo nella parte.
A questo punto, apro una parentesi. Scendo nel particolare e nel privato (il mio, che diamine), raccontandovi che ho visto questo film in aereo, mentre andavo a Dubai, in aprile. L'ho scelto perché era l'unico film che mi pareva degno di nota a parte quelli tra i candidati all'Oscar (che ho qui, tutti insieme, in attesa di trovare il tempo); però la tentazione era quella di mettersi a vedere Broadchurch, che figurava, l'intera serie, tra le opzioni. Visto il film, infatti, mi son messo sotto con la serie, e l'ho portata a termine col volo di ritorno.
Ecco: è vero che quel che mi manca, ultimamente, è il tempo: avrete notato che l'ultima recensione cinematografica risale al mese di febbraio. Però, sinceramente, tra I sogni segreti di Walter Mitty e Broadchurch, tanto per mettere a confronto due cose probabilmente imparagonabili ma che mi son state messe davanti dal caso, è decisamente meglio Broadchurch. Anche per chi ama il cinema. Magari approfondirò il concetto più avanti.
20140529
Still I Rise
Ieri è morta Maya Angelou. Grazie a Ben Harper che l'ha fatta conoscere ad un ignorantone come me.
Still I Rise - Maya Angelou
You may write me down in history
With your bitter, twisted lies,
You may tread me in the very dirt
But still, like dust, I'll rise.
Does my sassiness upset you?
Why are you beset with gloom?
'Cause I walk like I've got oil wells
Pumping in my living room.
Just like moons and like suns,
With the certainty of tides,
Just like hopes springing high,
Still I'll rise.
Did you want to see me broken?
Bowed head and lowered eyes?
Shoulders falling down like teardrops.
Weakened by my soulful cries.
Does my haughtiness offend you?
Don't you take it awful hard
'Cause I laugh like I've got gold mines
Diggin' in my own back yard.
You may shoot me with your words,
You may cut me with your eyes,
You may kill me with your hatefulness,
But still, like air, I'll rise.
Does my sexiness upset you?
Does it come as a surprise
That I dance like I've got diamonds
At the meeting of my thighs?
Out of the huts of history's shame
I rise
Up from a past that's rooted in pain
I rise
I'm a black ocean, leaping and wide,
Welling and swelling I bear in the tide.
Leaving behind nights of terror and fear
I rise
Into a daybreak that's wondrously clear
I rise
Bringing the gifts that my ancestors gave,
I am the dream and the hope of the slave.
I rise
I rise
I rise.
Traduzione di Aries
Ancora mi sollevo
Still I Rise - Maya Angelou
You may write me down in history
With your bitter, twisted lies,
You may tread me in the very dirt
But still, like dust, I'll rise.
Does my sassiness upset you?
Why are you beset with gloom?
'Cause I walk like I've got oil wells
Pumping in my living room.
Just like moons and like suns,
With the certainty of tides,
Just like hopes springing high,
Still I'll rise.
Did you want to see me broken?
Bowed head and lowered eyes?
Shoulders falling down like teardrops.
Weakened by my soulful cries.
Does my haughtiness offend you?
Don't you take it awful hard
'Cause I laugh like I've got gold mines
Diggin' in my own back yard.
You may shoot me with your words,
You may cut me with your eyes,
You may kill me with your hatefulness,
But still, like air, I'll rise.
Does my sexiness upset you?
Does it come as a surprise
That I dance like I've got diamonds
At the meeting of my thighs?
Out of the huts of history's shame
I rise
Up from a past that's rooted in pain
I rise
I'm a black ocean, leaping and wide,
Welling and swelling I bear in the tide.
Leaving behind nights of terror and fear
I rise
Into a daybreak that's wondrously clear
I rise
Bringing the gifts that my ancestors gave,
I am the dream and the hope of the slave.
I rise
I rise
I rise.
Traduzione di Aries
Ancora mi sollevo
Puoi svalutarmi nella storia
Con le tue amare, contorte bugie;
Puoi schiacciarmi a fondo nello sporco
Ma ancora, come la polvere, mi solleverò
Con le tue amare, contorte bugie;
Puoi schiacciarmi a fondo nello sporco
Ma ancora, come la polvere, mi solleverò
La mia presunzione ti infastidisce?
Perché sei così coperto di oscurità?
Perché io cammino come se avessi pozzi di petrolio
Che pompano nel mio soggiorno
Perché sei così coperto di oscurità?
Perché io cammino come se avessi pozzi di petrolio
Che pompano nel mio soggiorno
Proprio come le lune e come i soli,
Con la certezza delle maree,
Proprio come le speranze che si librano alte,
Ancora mi solleverò
Con la certezza delle maree,
Proprio come le speranze che si librano alte,
Ancora mi solleverò
Volevi vedermi distrutta?
Testa china ed occhi bassi?
Con le spalle che cadono come lacrime,
Indebolita dai miei pianti di dolore?
Testa china ed occhi bassi?
Con le spalle che cadono come lacrime,
Indebolita dai miei pianti di dolore?
La mia arroganza ti offende?
Non prenderla troppo male
Perché io rido come se avessi miniere d’oro
Scavate nel mio giardino
Non prenderla troppo male
Perché io rido come se avessi miniere d’oro
Scavate nel mio giardino
Puoi spararmi con le tue parole,
Puoi tagliarmi coi tuoi occhi,
Puoi uccidermi con il tuo odio,
Ma ancora, come l’aria, mi solleverò.
Puoi tagliarmi coi tuoi occhi,
Puoi uccidermi con il tuo odio,
Ma ancora, come l’aria, mi solleverò.
La mia sensualità ti disturba?
Ti giunge come una sorpresa
Che io balli come se avessi diamanti
Al congiungersi delle mie cosce?
Ti giunge come una sorpresa
Che io balli come se avessi diamanti
Al congiungersi delle mie cosce?
Fuori dalle capanne della vergogna della storia
Io mi sollevo
In alto, da un passato che ha radici nel dolore
Io mi sollevo
Io sono un oceano nero, agitato ed ampio,
Sgorgando e crescendo io genero nella marea.
Io mi sollevo
In alto, da un passato che ha radici nel dolore
Io mi sollevo
Io sono un oceano nero, agitato ed ampio,
Sgorgando e crescendo io genero nella marea.
Lasciando dietro notti di terrore e paura
Io mi sollevo
In un nuovo giorno che è meravigliosamente limpido
Io mi sollevo
Portando i doni giunti dai miei antenati,
Io sono il sogno e la speranza dello schiavo.
Io mi sollevo
Io mi sollevo
Io mi sollevo
Io mi sollevo
In un nuovo giorno che è meravigliosamente limpido
Io mi sollevo
Portando i doni giunti dai miei antenati,
Io sono il sogno e la speranza dello schiavo.
Io mi sollevo
Io mi sollevo
Io mi sollevo
20140528
siamo lì?
Are We There - Sharon Van Etten (2014)
Potrei aprire questa recensione con un mucchio di luoghi comuni. Potrei parlarvi di altri dischi, probabilmente più "importanti", usciti ultimamente. Invece, vi voglio parlare di questa ragazza del New Jersey, che ho conosciuto musicalmente solo con questo suo quarto disco. Può essere pure vero, come tendono a dire molti maschi maschilisti, che le donne parlano troppo. Ma quando invece cantano così, non è mai troppo. Non è jazz, non è propriamente folk anche se in molti la incasellano così, è stata in tour con The National, Neko Case, Beirut, St. Vincent e, ultimamente, con Nick Cave & The Bad Seeds (apparendo anche come backing vocals per Nick ed i suoi in alcuni live). La sua voce è potente, estesa, incisiva, con un timbro particolare e con una tecnica che mi pare davvero notevole, ma la cosa non finisce qui, perché Sharon scrive testi e musica, e solo da questo disco, senza aver (ancora) ascoltato i precedenti, vi posso assicurare che non proprio tutti, ma diversi pezzi sono belli, addirittura bellissimi, nelle sue interpretazioni senza dubbio sentite e piene di un trasporto che genera empatia nell'ascoltatore. La Van Etten è capace di creare armonie sia con pezzi rarefatti, piano e voce (I Know), sia arricchendoli via via con batteria, tastiere, fino a chitarre elettriche rock (You Know Me Well). Ogni volta, riesce a toccare le corde del cuore, parlando di cose terrene, fino ad essere sfacciata e perfino sboccata ("I wash your dishes, but I shit in your bathroom" canta in Every Time the Sun Comes Up).
Come ho avuto spesso l'occasione di dire, per altre musiciste e performer, questo è materiale da maneggiare con cura, soprattutto per maschietti bisognosi d'affetto.
PS la foto di copertina è a dir poco eccezionale
Potrei aprire questa recensione con un mucchio di luoghi comuni. Potrei parlarvi di altri dischi, probabilmente più "importanti", usciti ultimamente. Invece, vi voglio parlare di questa ragazza del New Jersey, che ho conosciuto musicalmente solo con questo suo quarto disco. Può essere pure vero, come tendono a dire molti maschi maschilisti, che le donne parlano troppo. Ma quando invece cantano così, non è mai troppo. Non è jazz, non è propriamente folk anche se in molti la incasellano così, è stata in tour con The National, Neko Case, Beirut, St. Vincent e, ultimamente, con Nick Cave & The Bad Seeds (apparendo anche come backing vocals per Nick ed i suoi in alcuni live). La sua voce è potente, estesa, incisiva, con un timbro particolare e con una tecnica che mi pare davvero notevole, ma la cosa non finisce qui, perché Sharon scrive testi e musica, e solo da questo disco, senza aver (ancora) ascoltato i precedenti, vi posso assicurare che non proprio tutti, ma diversi pezzi sono belli, addirittura bellissimi, nelle sue interpretazioni senza dubbio sentite e piene di un trasporto che genera empatia nell'ascoltatore. La Van Etten è capace di creare armonie sia con pezzi rarefatti, piano e voce (I Know), sia arricchendoli via via con batteria, tastiere, fino a chitarre elettriche rock (You Know Me Well). Ogni volta, riesce a toccare le corde del cuore, parlando di cose terrene, fino ad essere sfacciata e perfino sboccata ("I wash your dishes, but I shit in your bathroom" canta in Every Time the Sun Comes Up).
Come ho avuto spesso l'occasione di dire, per altre musiciste e performer, questo è materiale da maneggiare con cura, soprattutto per maschietti bisognosi d'affetto.
PS la foto di copertina è a dir poco eccezionale
20140527
by all means necessary
House of Cards - di Beau Willimon - Stagione 2 (13 episodi; Netflix) - 2014
Frank Underwood è stato appena nominato Vice Presidente degli Stati Uniti d'America. Se credete che questo sia da lui considerato un punto d'arrivo, vi sbagliate di grosso.
Il fido Doug mette in guardia Frank: alcuni giornalisti stanno scavando sulla morte di Peter Russo. Frank capisce al volo: bisogna "sistemare" ogni possibile collegamento tra lui e quella morte. Bisogna in qualche modo mettere a tacere Zoe. Doug, nel frattempo, si occuperà di Rachel.
Sul lato più squisitamente politico, Frank non è che se ne stia con le mani in mano: mentre i due pretendenti più politicamente pesanti cominciano le schermaglie per succedere a Frank come capo della maggioranza, la volpe Underwood sceglie un terzo incomodo: si chiama Jaqueline "Jackie" Sharp, è una donna ex militare, eroe di guerra, giovane, piacente, e abbastanza senza scrupoli (seppure per arrivare ai livelli di Frank debba ancora mangiare tanta "minestra"). La indottrina, capisce che si può fidare, e quindi dà il via alle danze, lasciando che gli altri due candidati si sbranino tra di loro, mentre lui lavora sottotraccia per raccogliere voti a favore di Jackie.
E Claire? Cosa sta facendo la gelida Claire? La bionda deve occuparsi della sua ex pupilla Gillian Cole, che la sta citando in giudizio. Prova a risolvere la cosa alla Underwood: minacciandola, ma facendole un'offerta che non potrà rifiutare.
A proposito di chi magari avesse pensato che Underwood avrebbe considerato la vicepresidenza un punto di arrivo, ecco, vorrei ribadire che chi si è stupito nel vedere il finto suicidio di Peter Russo inscenato da Frank nel finale della prima stagione, probabilmente non aveva ben capito da quali parti stiamo qua. Del resto, basta dare un'occhiata ai vari poster promozionali della serie: mani e spille insanguinate e riferimenti a stelle e strisce ovunque.
Frank Underwood, alla conclusione ci siamo arrivati da un po', è il demonio. E' una persona assetata di potere, non di sangue: il sangue è solo un mezzo (vedi il titolo del post). Non è interessato neppure ai soldi, tanto quelli ne aveva anche prima, e magari, arrivato in cima, può pure fare qualcosa di buono per il suo Paese. L'importante è che ci sia lui al potere, lui a manovrare i fili, che sia lui il burattinaio.
House of Cards, alla seconda stagione, si conferma un monolite televisivo degno della massima attenzione. Si vola altissimi dietro le quinte della politica, macchiandola appunto di noir (o forse sarebbe il caso di dire red), con macchinazioni sofisticatissime e sempre sul filo del rasoio, con dialoghi serrati e talmente complessi da richiedere spesso un secondo ascolto.
Il cast è davvero eccezionale, nella sua interezza, naturalmente con una coppia protagonista, Kevin Spacey (Frank) e Robin Wright (Claire), inappuntabile e spesso da applausi a scena aperta. Frank Underwood è un cattivo talmente senza scrupoli che riesce difficile, allo spettatore, essergli contro: non si riesce a capire se perché stimoli la parte malvagia di noi, oppure semplicemente perché è un personaggio disegnato (e interpretato) talmente bene che si ha paura che se tifiamo contro, egli possa materializzarsi e farci lo sgambetto mentre aspettiamo la metro.
La versione cattiva di West Wing, oppure la versione senza melassa di Scandal? Di certo una grande serie. A proposito di Scandal, con la serie di Shonda Rhimes House of Cards condivide sicuramente una cosa: la figura di un POTUS assolutamente insignificante e manipolabile in varie maniere. Di certo, dalla terza stagione in poi, in House of Cards non sarà più così...
Frank Underwood è stato appena nominato Vice Presidente degli Stati Uniti d'America. Se credete che questo sia da lui considerato un punto d'arrivo, vi sbagliate di grosso.
Il fido Doug mette in guardia Frank: alcuni giornalisti stanno scavando sulla morte di Peter Russo. Frank capisce al volo: bisogna "sistemare" ogni possibile collegamento tra lui e quella morte. Bisogna in qualche modo mettere a tacere Zoe. Doug, nel frattempo, si occuperà di Rachel.
Sul lato più squisitamente politico, Frank non è che se ne stia con le mani in mano: mentre i due pretendenti più politicamente pesanti cominciano le schermaglie per succedere a Frank come capo della maggioranza, la volpe Underwood sceglie un terzo incomodo: si chiama Jaqueline "Jackie" Sharp, è una donna ex militare, eroe di guerra, giovane, piacente, e abbastanza senza scrupoli (seppure per arrivare ai livelli di Frank debba ancora mangiare tanta "minestra"). La indottrina, capisce che si può fidare, e quindi dà il via alle danze, lasciando che gli altri due candidati si sbranino tra di loro, mentre lui lavora sottotraccia per raccogliere voti a favore di Jackie.
E Claire? Cosa sta facendo la gelida Claire? La bionda deve occuparsi della sua ex pupilla Gillian Cole, che la sta citando in giudizio. Prova a risolvere la cosa alla Underwood: minacciandola, ma facendole un'offerta che non potrà rifiutare.
A proposito di chi magari avesse pensato che Underwood avrebbe considerato la vicepresidenza un punto di arrivo, ecco, vorrei ribadire che chi si è stupito nel vedere il finto suicidio di Peter Russo inscenato da Frank nel finale della prima stagione, probabilmente non aveva ben capito da quali parti stiamo qua. Del resto, basta dare un'occhiata ai vari poster promozionali della serie: mani e spille insanguinate e riferimenti a stelle e strisce ovunque.
Frank Underwood, alla conclusione ci siamo arrivati da un po', è il demonio. E' una persona assetata di potere, non di sangue: il sangue è solo un mezzo (vedi il titolo del post). Non è interessato neppure ai soldi, tanto quelli ne aveva anche prima, e magari, arrivato in cima, può pure fare qualcosa di buono per il suo Paese. L'importante è che ci sia lui al potere, lui a manovrare i fili, che sia lui il burattinaio.
House of Cards, alla seconda stagione, si conferma un monolite televisivo degno della massima attenzione. Si vola altissimi dietro le quinte della politica, macchiandola appunto di noir (o forse sarebbe il caso di dire red), con macchinazioni sofisticatissime e sempre sul filo del rasoio, con dialoghi serrati e talmente complessi da richiedere spesso un secondo ascolto.
Il cast è davvero eccezionale, nella sua interezza, naturalmente con una coppia protagonista, Kevin Spacey (Frank) e Robin Wright (Claire), inappuntabile e spesso da applausi a scena aperta. Frank Underwood è un cattivo talmente senza scrupoli che riesce difficile, allo spettatore, essergli contro: non si riesce a capire se perché stimoli la parte malvagia di noi, oppure semplicemente perché è un personaggio disegnato (e interpretato) talmente bene che si ha paura che se tifiamo contro, egli possa materializzarsi e farci lo sgambetto mentre aspettiamo la metro.
La versione cattiva di West Wing, oppure la versione senza melassa di Scandal? Di certo una grande serie. A proposito di Scandal, con la serie di Shonda Rhimes House of Cards condivide sicuramente una cosa: la figura di un POTUS assolutamente insignificante e manipolabile in varie maniere. Di certo, dalla terza stagione in poi, in House of Cards non sarà più così...
20140526
apologia del tifo perdente
Chiacchiere da bar su un forum di amici mi hanno ispirato a scrivere questo post inutile, che riflette però il mio pensiero sul calcio in generale, e, pensate un po', uno dei valore che sto cercando, faticosamente, di trasmettere a mio nipote.
Sabato sera, come molto di voi sapranno, si è giocata la finale di Champions League di calcio; per la prima volta, se la giocavano due squadre della stessa città, Madrid: i colchoneros dell'Atletico Madrid e le merengues del Real Madrid. Normalmente non vedo così tante partite di calcio alla tv, ma per puro caso sabato passato avevo pure visto Barcellona-Atletico Madrid, l'ultima di Liga, finita in pareggio, risultato che ha consentito all'Atletico di vincere la Liga.
Il Real, per quanto lo invidi, non lo reggo; ragioni storiche, e finanche politiche (non che l'Atletico, finché ha avuto Jesús Gil come presidente, fosse esente da critiche; in realtà, anche le "influenze" politiche storiche sono oggetto di discussione in Spagna, ognuna delle due tifoserie accusa l'altra di essere stata favorita da Franco). E' stato facile, per me, mettermi davanti alla tele e schierarmi dalla parte dell'Atletico. Il "tifo istantaneo", la simpatia, esula dalla logica, travalica tutto: pensate che Diego Simeone, l'allenatore che ha portato fama, gioco, compattezza e titoli negli ultimi 3 anni all'Atletico, è si argentino (e per questo mi sta simpatico), ma ha giocato in gioventù nel Pisa, per cui non dovrebbe essere "tifabile" per me. In realtà, diciamocelo, l'Atletico era palesemente più debole, più "povero". Eppure.
Ero a cena da mia sorella, e la prima mezz'ora l'ho guardata con mio nipote: anche lui, prima che lo dichiarassi io, "stava" per l'Atletico (poi si è addormentato).
Beh, sembrava impossibile. Si inizia con un ulteriore infortunio del bomber Diego Costa, fuori dall'inizio il fenomeno turco Arda Turan per l'infortunio del sabato precedente, un Real praticamente al completo e che si leccava ancora le ferite per una Liga persa anche per colpa sua, eppure l'Atletico ribatteva colpo su colpo. E poi, all'improvviso, l'inaspettato accade: Casillas fa una delle sue inenarrabili cazzate (secondo me sono un po' troppe, ultimamente), e Diego Godín Leal, difensore uruguagio prestante ma certo non un fotomodello come il merengue Sergio Ramos, inzucca e insacca nonostante il disperato tentativo di recupero del povero Iker (Casillas). Siamo quasi alla fine del primo tempo. Ci si aspetta una reazione inarrestabile del Real. E invece il vantaggio di 1 a 0 per l'Atletico regge. Gli ultimi venti minuti sono a una porta sola. L'Atletico non ne ha più, si difende e basta, il Real attacca senza soluzione di continuità. Finisce il tempo regolamentare. L'arbitro assegna 5 minuti di recupero. Passa il primo. Niente. Passa il secondo. Niente. Si entra nel terzo. Fioccano i calci d'angolo. Ammucchiate davanti alla porta dell'Atletico. Godín si dimentica per un secondo Sergio Ramos, Ramos salta e insacca. Pareggio. Supplementari. Svanisce un sogno.
Com'è andata a finire, lo sapete quasi tutti. Nei supplementari l'Atletico crolla fisicamente e psicologicamente, la partita termina 4 a 1 per il Real, che vince così la sua decima Champions, ed entra nella storia. Chissà se la storia ricorderà questo Atletico Madrid.
Perché è importante vivere queste cose, che all'apparenza sembrano stupide, inutili, futili, perché, per me, è importante "passarle" a mio nipote? Perché, come ho sostenuto spesso qua su queste pagine virtuali, bisogna saper perdere. Bisogna capire che il calcio, come ogni sport, è un gioco. In un gioco, a parte quelli dove è previsto il pareggio, c'è qualcuno che vince, e quindi di conseguenza, c'è qualcuno che perde. La vittoria è dolce, esaltante, inebriante. La sconfitta è, ovviamente, amara, deprimente, destabilizzante perfino, se si è dato il massimo e si è dato l'anima oltre al fisico. E' importante saper vincere, rispettando l'avversario, così come è importante saper perdere, coscienti dei propri limiti e ammettendo la superiorità dell'avversario.
Sembrano concetti lapalissiani, scontati e ovvi. Secondo me, di questi tempi, bisognerebbe tenerli un po' più a mente.
Sabato sera, come molto di voi sapranno, si è giocata la finale di Champions League di calcio; per la prima volta, se la giocavano due squadre della stessa città, Madrid: i colchoneros dell'Atletico Madrid e le merengues del Real Madrid. Normalmente non vedo così tante partite di calcio alla tv, ma per puro caso sabato passato avevo pure visto Barcellona-Atletico Madrid, l'ultima di Liga, finita in pareggio, risultato che ha consentito all'Atletico di vincere la Liga.
Il Real, per quanto lo invidi, non lo reggo; ragioni storiche, e finanche politiche (non che l'Atletico, finché ha avuto Jesús Gil come presidente, fosse esente da critiche; in realtà, anche le "influenze" politiche storiche sono oggetto di discussione in Spagna, ognuna delle due tifoserie accusa l'altra di essere stata favorita da Franco). E' stato facile, per me, mettermi davanti alla tele e schierarmi dalla parte dell'Atletico. Il "tifo istantaneo", la simpatia, esula dalla logica, travalica tutto: pensate che Diego Simeone, l'allenatore che ha portato fama, gioco, compattezza e titoli negli ultimi 3 anni all'Atletico, è si argentino (e per questo mi sta simpatico), ma ha giocato in gioventù nel Pisa, per cui non dovrebbe essere "tifabile" per me. In realtà, diciamocelo, l'Atletico era palesemente più debole, più "povero". Eppure.
Ero a cena da mia sorella, e la prima mezz'ora l'ho guardata con mio nipote: anche lui, prima che lo dichiarassi io, "stava" per l'Atletico (poi si è addormentato).
Beh, sembrava impossibile. Si inizia con un ulteriore infortunio del bomber Diego Costa, fuori dall'inizio il fenomeno turco Arda Turan per l'infortunio del sabato precedente, un Real praticamente al completo e che si leccava ancora le ferite per una Liga persa anche per colpa sua, eppure l'Atletico ribatteva colpo su colpo. E poi, all'improvviso, l'inaspettato accade: Casillas fa una delle sue inenarrabili cazzate (secondo me sono un po' troppe, ultimamente), e Diego Godín Leal, difensore uruguagio prestante ma certo non un fotomodello come il merengue Sergio Ramos, inzucca e insacca nonostante il disperato tentativo di recupero del povero Iker (Casillas). Siamo quasi alla fine del primo tempo. Ci si aspetta una reazione inarrestabile del Real. E invece il vantaggio di 1 a 0 per l'Atletico regge. Gli ultimi venti minuti sono a una porta sola. L'Atletico non ne ha più, si difende e basta, il Real attacca senza soluzione di continuità. Finisce il tempo regolamentare. L'arbitro assegna 5 minuti di recupero. Passa il primo. Niente. Passa il secondo. Niente. Si entra nel terzo. Fioccano i calci d'angolo. Ammucchiate davanti alla porta dell'Atletico. Godín si dimentica per un secondo Sergio Ramos, Ramos salta e insacca. Pareggio. Supplementari. Svanisce un sogno.
Com'è andata a finire, lo sapete quasi tutti. Nei supplementari l'Atletico crolla fisicamente e psicologicamente, la partita termina 4 a 1 per il Real, che vince così la sua decima Champions, ed entra nella storia. Chissà se la storia ricorderà questo Atletico Madrid.
Perché è importante vivere queste cose, che all'apparenza sembrano stupide, inutili, futili, perché, per me, è importante "passarle" a mio nipote? Perché, come ho sostenuto spesso qua su queste pagine virtuali, bisogna saper perdere. Bisogna capire che il calcio, come ogni sport, è un gioco. In un gioco, a parte quelli dove è previsto il pareggio, c'è qualcuno che vince, e quindi di conseguenza, c'è qualcuno che perde. La vittoria è dolce, esaltante, inebriante. La sconfitta è, ovviamente, amara, deprimente, destabilizzante perfino, se si è dato il massimo e si è dato l'anima oltre al fisico. E' importante saper vincere, rispettando l'avversario, così come è importante saper perdere, coscienti dei propri limiti e ammettendo la superiorità dell'avversario.
Sembrano concetti lapalissiani, scontati e ovvi. Secondo me, di questi tempi, bisognerebbe tenerli un po' più a mente.
20140525
And the Cronuts
2 Broke Girls - di Michael Patrick King e Whitney Cummings - Stagione 3 (24 episodi; CBS) - 2013/2014
Dopo le varie e buffe disavventure di Max e Caroline, si è deciso di provare a far ripartire il negozio di cupcake nel retrobottega della tavola calda di Han, dove loro stesse lavorano la sera. Proprio in occasione della riapertura, una rock star inglese muore giusto di fronte alla finestra da dove loro servono i cupcake in strada, il che porta loro una inaspettata quanto redditizia celebrità di riflesso, e una clientela fatta da fan adoranti. Ma pure un conflitto con Han...
Prosegue spedita la comedy creata dalla strana coppia King/Cummings (un esperto sceneggiatore/regista/produttore gay e una ex modella divenuta una sboccata stand up comedian che si diverte soprattutto a parlare di sesso e generi), che sulla CBS segue How I Met Your Mother, conservando una invidiabile media di ascolti. In realtà, come vi ho già detto in occasione della recensione delle prime due stagioni, è una serie che fa sorridere in maniera piuttosto grezza, ma funziona, accontentandosi. Le prove delle due protagoniste, Kat Dennings (Max) e Beth Behrs (Caroline), rimangono discutibili (ma spesso mi rendo conto che per una comedy va più che bene), i comprimari funzionano a fasi alterne (ma devo dire che se non ci fosse Jonathan Kite nei panni del cuoco immigrato dall'Ucraina Oleg ogni tanto, ne sentirei la mancanza), spesso ci si basa sulle guest stars. Notevole in questa stagione Federico Dordei nei panni di Luis, il nuovo cameriere di giorno, gay e latino, ci sono anche Gilles Marini (Nicolas), l'ottima Mary Lynn Rajskub (Bebe; la stiamo vedendo in Californication 7), Eric André (Deke). Apparizione di Lindsay Lohan nei panni di una cliente.
Le love story delle due ragazze rimangono sospese, lasciandoci il dubbio di essere occasioni mancate; le evoluzioni non sono, alla fine, fondamentali in serie come queste. Ma c'è il rischio di annoiarsi.
Dopo le varie e buffe disavventure di Max e Caroline, si è deciso di provare a far ripartire il negozio di cupcake nel retrobottega della tavola calda di Han, dove loro stesse lavorano la sera. Proprio in occasione della riapertura, una rock star inglese muore giusto di fronte alla finestra da dove loro servono i cupcake in strada, il che porta loro una inaspettata quanto redditizia celebrità di riflesso, e una clientela fatta da fan adoranti. Ma pure un conflitto con Han...
Prosegue spedita la comedy creata dalla strana coppia King/Cummings (un esperto sceneggiatore/regista/produttore gay e una ex modella divenuta una sboccata stand up comedian che si diverte soprattutto a parlare di sesso e generi), che sulla CBS segue How I Met Your Mother, conservando una invidiabile media di ascolti. In realtà, come vi ho già detto in occasione della recensione delle prime due stagioni, è una serie che fa sorridere in maniera piuttosto grezza, ma funziona, accontentandosi. Le prove delle due protagoniste, Kat Dennings (Max) e Beth Behrs (Caroline), rimangono discutibili (ma spesso mi rendo conto che per una comedy va più che bene), i comprimari funzionano a fasi alterne (ma devo dire che se non ci fosse Jonathan Kite nei panni del cuoco immigrato dall'Ucraina Oleg ogni tanto, ne sentirei la mancanza), spesso ci si basa sulle guest stars. Notevole in questa stagione Federico Dordei nei panni di Luis, il nuovo cameriere di giorno, gay e latino, ci sono anche Gilles Marini (Nicolas), l'ottima Mary Lynn Rajskub (Bebe; la stiamo vedendo in Californication 7), Eric André (Deke). Apparizione di Lindsay Lohan nei panni di una cliente.
Le love story delle due ragazze rimangono sospese, lasciandoci il dubbio di essere occasioni mancate; le evoluzioni non sono, alla fine, fondamentali in serie come queste. Ma c'è il rischio di annoiarsi.
20140524
20140523
I8god
Eyehategod - Eyehategod (2014)
Quinto disco della band di New Orleans. Il primo, In the Name of Suffering, risale al 1992 (sono attivi dal 1988), ma il precedente a questo è del 2000 (Confederacy of Ruined Lives, e già dai titoli potete benissimo farvi un'idea delle loro liriche); nel frattempo, la morte del batterista Joey LaCaze (nel 2013, crisi respiratoria), l'arresto del singer Mike Williams, giusto poco dopo essere stato soccorso nel post-Katrina (by the way: la molla che mi ha spinto ad ascoltarli per la prima volta, molto in ritardo, è stata una loro t-shirt indossata da Chris Coy nei panni di L.P. Everett in Treme), il suo speriamo definitivo abbandono dell'eroina, l'aiuto dell'amico fraterno Phil Anselmo, la rinascita della band.
Band seminale, gli Eyehategod (nome a dir poco geniale) rilasciano in questo 2014, l'album che con un luogo comune possiamo senza dubbio definire "della maturità". Una carriola di pesantezza di classe ruvida, l'esatto mix che dosa Black Sabbath e l'hardcore nella sua interezza, che risente iperbolicamente e al tempo stesso del blues e dei Black Flag giù giù fino alle cose soliste di Henry Rollins, e che mostra da dove pescano i Converge per una parte della loro ispirazione.
Rabbia e furia iconoclasta, do it yourself e suoni volutamente "poveri" ma carichi, oserei dire saturi se non richiamasse più la fotografia che la musica. La protesta dei senza-voce insieme all'amarezza di chi sa di non avere nulla da perdere perché non ha nulla se non la musica. E quindi pesta, e pesta duramente.
Agli Eyehategod ci sono arrivato tardi e tramite la mia passione per le serie tv (come detto), ma forse sono arrivato giusto in tempo per il capolavoro. Vediamo chi saprà fare di meglio in ambito metal (sempre inteso nell'accezione più larga del termine) in quest'anno solare.
Quinto disco della band di New Orleans. Il primo, In the Name of Suffering, risale al 1992 (sono attivi dal 1988), ma il precedente a questo è del 2000 (Confederacy of Ruined Lives, e già dai titoli potete benissimo farvi un'idea delle loro liriche); nel frattempo, la morte del batterista Joey LaCaze (nel 2013, crisi respiratoria), l'arresto del singer Mike Williams, giusto poco dopo essere stato soccorso nel post-Katrina (by the way: la molla che mi ha spinto ad ascoltarli per la prima volta, molto in ritardo, è stata una loro t-shirt indossata da Chris Coy nei panni di L.P. Everett in Treme), il suo speriamo definitivo abbandono dell'eroina, l'aiuto dell'amico fraterno Phil Anselmo, la rinascita della band.
Band seminale, gli Eyehategod (nome a dir poco geniale) rilasciano in questo 2014, l'album che con un luogo comune possiamo senza dubbio definire "della maturità". Una carriola di pesantezza di classe ruvida, l'esatto mix che dosa Black Sabbath e l'hardcore nella sua interezza, che risente iperbolicamente e al tempo stesso del blues e dei Black Flag giù giù fino alle cose soliste di Henry Rollins, e che mostra da dove pescano i Converge per una parte della loro ispirazione.
Rabbia e furia iconoclasta, do it yourself e suoni volutamente "poveri" ma carichi, oserei dire saturi se non richiamasse più la fotografia che la musica. La protesta dei senza-voce insieme all'amarezza di chi sa di non avere nulla da perdere perché non ha nulla se non la musica. E quindi pesta, e pesta duramente.
Agli Eyehategod ci sono arrivato tardi e tramite la mia passione per le serie tv (come detto), ma forse sono arrivato giusto in tempo per il capolavoro. Vediamo chi saprà fare di meglio in ambito metal (sempre inteso nell'accezione più larga del termine) in quest'anno solare.
20140522
Ritratto dell'Uruguay, il paese che sorprende il mondo (4)
continua da ieri
Qualche critica
Quindi l’Uruguay è un posto idilliaco? Ovviamente no. Le cartiere, per esempio, hanno causato problemi di deforestazione nel paese, che si presenta come una pianura leggermente ondulata, senza un solo rilievo. Per il programma di rimboschimento del 2 per cento del territorio sono stati usati soprattutto gli alberi di eucalipto, una specie odiata dagli ambientalisti perché richiede molta acqua, danneggia il terreno e minaccia la biodiversità. Un’altra grande iniziativa del governo Mujica, la miniera di ferro a cielo aperto del progetto Aratirí, ha attirato critiche e denunce per l’impatto negativo sull’ambiente. La popolarità del presidente è comunque buona: pochi dubitano che il Frente Amplio vincerà di nuovo le elezioni nel 2015. La sera, quando rientro in albergo, squilla il telefono. È l’ufficio della presidenza: mi spiegano che Mujica non si sente bene e deve annullare la visita ad Anchorena. Il cambiamento di programma ci obbliga a riorganizzare il viaggio. Diamo per scontato di non rivedere più il presidente e passiamo i giorni successivi a camminare per Montevideo, a conoscere il paese e a parlare con la gente. Un paese si conosce in molti modi, per esempio comprando le sigarette e leggendo le campagne antifumo sui pacchetti. Jordi Socías e io in Spagna non fumiamo, ma abbiamo la sciocca convinzione che all’estero un po’ di tabacco non ci faccia così male. Dopo aver fumato e visitato lo zoo, affittiamo un’auto per andare nell’entroterra: più di una volta le tempeste tropicali ci portano a un passo dal naufragio. L’entroterra dell’Uruguay è identico a se stesso, un terreno semipianeggiante dalle linee morbide che, se si guarda dal finestrino, dà la sensazione di trovarsi su una nave. Da una parte e dall’altra della strada sfilano campi coltivati a cereali come soia, mais e riso. Ogni tanto spunta una mandria di mucche o un gregge di pecore. Si possono percorrere decine di chilometri senza incontrare un altro essere umano, una casa, un paesino o una stazione di servizio. Vorremmo arrivare alla frontiera con il Brasile, ma non ne abbiamo il tempo. Le persone ci chiedono come ci è sembrato Pepe e noi rispondiamo rivolgendo a loro la stessa domanda. Capiamo che la percezione di Mujica all’estero non coincide perfettamente con quella degli uruguaiani (nessuno è profeta in patria). Con la cautela necessaria di fronte a qualsiasi generalizzazione, mi sembra che le classi medie e alte trattino Mujica con una certa condiscendenza: sono grate al presidente per aver fatto conoscere l’Uruguay nel mondo, ma trovano il suo stile di vita alquanto pittoresco. Le classi più ricche, insomma, non approvano del tutto il fatto che il presidente viva in modo semplice o appaia sulle tv di mezzo mondo con i pantaloni della tuta arrotolati fino al ginocchio (soffre di problemi di circolazione e tenere le gambe scoperte lo aiuta). Nessun uruguaiano nega, però, che durante il suo mandato il paese sia cambiato in meglio. Qualcuno critica la sua politica economica e gli rimprovera il fallimento della riforma dell’amministrazione e della scuola, promesse in campagna elettorale. C’è anche chi si lamenta della mancanza di sicurezza, anche se devo ammettere che in nessun momento del viaggio abbiamo corso qualche pericolo.
continua. poi.
Qualche critica
Quindi l’Uruguay è un posto idilliaco? Ovviamente no. Le cartiere, per esempio, hanno causato problemi di deforestazione nel paese, che si presenta come una pianura leggermente ondulata, senza un solo rilievo. Per il programma di rimboschimento del 2 per cento del territorio sono stati usati soprattutto gli alberi di eucalipto, una specie odiata dagli ambientalisti perché richiede molta acqua, danneggia il terreno e minaccia la biodiversità. Un’altra grande iniziativa del governo Mujica, la miniera di ferro a cielo aperto del progetto Aratirí, ha attirato critiche e denunce per l’impatto negativo sull’ambiente. La popolarità del presidente è comunque buona: pochi dubitano che il Frente Amplio vincerà di nuovo le elezioni nel 2015. La sera, quando rientro in albergo, squilla il telefono. È l’ufficio della presidenza: mi spiegano che Mujica non si sente bene e deve annullare la visita ad Anchorena. Il cambiamento di programma ci obbliga a riorganizzare il viaggio. Diamo per scontato di non rivedere più il presidente e passiamo i giorni successivi a camminare per Montevideo, a conoscere il paese e a parlare con la gente. Un paese si conosce in molti modi, per esempio comprando le sigarette e leggendo le campagne antifumo sui pacchetti. Jordi Socías e io in Spagna non fumiamo, ma abbiamo la sciocca convinzione che all’estero un po’ di tabacco non ci faccia così male. Dopo aver fumato e visitato lo zoo, affittiamo un’auto per andare nell’entroterra: più di una volta le tempeste tropicali ci portano a un passo dal naufragio. L’entroterra dell’Uruguay è identico a se stesso, un terreno semipianeggiante dalle linee morbide che, se si guarda dal finestrino, dà la sensazione di trovarsi su una nave. Da una parte e dall’altra della strada sfilano campi coltivati a cereali come soia, mais e riso. Ogni tanto spunta una mandria di mucche o un gregge di pecore. Si possono percorrere decine di chilometri senza incontrare un altro essere umano, una casa, un paesino o una stazione di servizio. Vorremmo arrivare alla frontiera con il Brasile, ma non ne abbiamo il tempo. Le persone ci chiedono come ci è sembrato Pepe e noi rispondiamo rivolgendo a loro la stessa domanda. Capiamo che la percezione di Mujica all’estero non coincide perfettamente con quella degli uruguaiani (nessuno è profeta in patria). Con la cautela necessaria di fronte a qualsiasi generalizzazione, mi sembra che le classi medie e alte trattino Mujica con una certa condiscendenza: sono grate al presidente per aver fatto conoscere l’Uruguay nel mondo, ma trovano il suo stile di vita alquanto pittoresco. Le classi più ricche, insomma, non approvano del tutto il fatto che il presidente viva in modo semplice o appaia sulle tv di mezzo mondo con i pantaloni della tuta arrotolati fino al ginocchio (soffre di problemi di circolazione e tenere le gambe scoperte lo aiuta). Nessun uruguaiano nega, però, che durante il suo mandato il paese sia cambiato in meglio. Qualcuno critica la sua politica economica e gli rimprovera il fallimento della riforma dell’amministrazione e della scuola, promesse in campagna elettorale. C’è anche chi si lamenta della mancanza di sicurezza, anche se devo ammettere che in nessun momento del viaggio abbiamo corso qualche pericolo.
continua. poi.
20140521
giulietta sprint
quanto ho goduto quest'anno con l'hellas verona.
un campionato sopra ogni aspettativa, da neopromossa dopo un decennio lontano dalla serie A.
inizio con vittoria sul milan in rimonta nella partita inaugurale del campionato, poi il pareggio rocambolesco contro la juve con gol all'ultimo minuto. e ancora tutto il resto...
nonostante la vendita a dicembre del predestinato jorginho per poter pagare gli stipendi, un campionato incredibile. il solito gioco d'attacco spinto con il 4-3-3 del mandorlo che ha portato tantissimi gol (62!!, il record fino ad ora era 44 in serie A!?), 16 vittorie (una in più rispetto all'anno dello scudetto!!) e anche bruttissime sconfitte. praticamente spettacolo assicurato ad ogni partita.
20 gol del redivivo luca toni (anche qui record superato di gol in seria A, 15 di nico penzo), sul quale non avrei scommesso un cent ad inizio campionato!
ma soprattutto,
la scoperta di un futuro campionissimo e già fuoriclasse, il migliore a detta di molti mai passato da verona dopo eljkaer:
juan iturbe (nella foto )
pagato niente e riscattato dal porto con il quale il verona si pagherà i prossimi 2/3 anni di vita, si sono già fatti vivi barcellona, real madrid, roma per mettegli le mani sopra.
e mi è piaciuta un sacco anche la nuova maglia blu scuro con la fascia gialla, sicuramente la più bella degli ultimi 20 anni!
olè olè!!
ps. mi dispiace invece che l'anno prossimo non ci sia il derby del blog e che sia rimasto il derby cittadino.
avrei veramente voluto il contrario!
Ritratto dell'Uruguay, il paese che sorprende il mondo (3)
continua da ieri
Nostalgici e malinconici
Torniamo in albergo contenti, lasciamo le nostre cose e usciamo a fare una passeggiata: è a questo punto che incontriamo il signore dall’aria benestante secondo il quale non dovremmo avvicinarci al mercato. Il giorno dopo, sempre con una pioggia e un vento tropicali, andiamo a trovare il Presidente nel suo ufficio e lo troviamo impegnato in una diretta radiofonica. Sta parlando dei fenomeni climatici estremi che in questi giorni hanno colpito l’Uruguay rovinando i raccolti, allagando diverse zone del paese e distruggendo le strade. Mujica parla della siccità, delle inondazioni e delle nevicate in luoghi impensabili e spiega che, per colpa del cambiamento climatico, è aumentato il livello del mare e alcune isole dei Caraibi in un giorno hanno perso uno o due punti del pil. Sostiene che abbiamo bisogno di politiche globali, ma il mondo oggi è preso da cose che considera più urgenti. Paragona il cambiamento climatico e le tempeste finanziarie, spiega che tra il 2001 e il 2002 in Uruguay un cataclisma economico ha portato il 40 per cento della popolazione sotto la soglia di povertà e la responsabilità è stata del sistema inanziario lasciato a se stesso. “Adesso nel nostro paese”, afferma Mujica, “potranno esserci dei temporali, ma non tempeste economiche, perché il sistema finanziario è sotto controllo”. Il presidente chiude la conversazione radiofonica e ci invita a sederci. L’ufficio, sei o sette volte più grande della sua casa, è luminoso, ha i soffitti alti, ma è un po’ impersonale. A proposito delle tempeste finanziarie di cui ha parlato alla radio, Mujica ricorda quella del 2002, all’epoca della crisi argentina. “Eravamo a terra”, racconta, “poi abbiamo deciso di mettere sotto controllo il sistema finanziario. Le banche straniere, come la spagnola Santander, sono presenti ovunque in Uruguay, ma non possono fare niente: le teniamo in pugno. Abbiamo alcune banche dello stato che sono di gran lunga più forti”. Su una prolunga del tavolo alla destra di Mujica sono esposti diversi oggetti, tra cui il modellino di un treno ad alta velocità. “Sono quasi tutti regali dei cinesi. Mi propongono una ferrovia e per convincermi mi portano un modellino come questo. Forte, vero?”. “Le hanno proposto di costruire una ferrovia?”. “Sì, più di una. Il paese è cresciuto e abbiamo un serio problema di trasporti. Dobbiamo risolverlo e faremo affari con i cinesi, che sanno costruire le ferrovie”. “I cinesi stanno comprando tutto”. “Ma noi non vendiamo le terre e ne venderemo sempre meno. Faremo attenzione alla terra e all’acqua, perché sono le materie prime più preziose. Questo è un paese piccolo, ma il 90 per cento del territorio è produttivo. Non si può vendere un pezzo di terra coltivabile come se niente fosse: non ne restano mica tanti nel mondo. La popolazione aumenta e vuole vivere sempre meglio, e oggi il settore alimentare, che era finito in secondo piano, è tornato alla ribalta”. Dopo aver visitato la Torre Ejecutiva salutiamo José Mujica dandoci appuntamento a sabato per andare ad Anchorena, la località del dipartimento di Colonia dove si trova la residenza estiva del presidente. L’Uruguay è un paese piccolo e le sue coste sono bagnate dall’oceano Atlantico e dal Río de la Plata. Confina a nord con il Brasile e a ovest con l’Argentina. Osservando la mappa del cono sud latinoamericano – dove per convenzione il nord sta sopra e il sud sotto – e considerando che la forza di gravità spinge verso il basso ciò che è in alto, l’Uruguay sembra spinto verso il mare da quei due giganti. Questa situazione a incastro provoca in alcuni uruguaiani delle convulsioni claustrofobiche che in parte spiegano la lunga storia di emigrazione del paese. È un posto da cui bisogna andare via, anche se negli ultimi anni sembra che sia diventato un paese dove tornare. L’Uruguay ha poco più di tre milioni di abitanti e la metà vive nella capitale, Montevideo. Forse perché sembra davvero incastrato tra l’Argentina, il Brasile e l’oceano, forse per le sue dimensioni, per il suo clima, perché è un paese formato quasi al 90 per cento da emigrati europei o forse per tutti questi fattori insieme, gli uruguaiani esagerano sempre verso il basso (così come gli argentini esagerano sempre verso l’alto). Se è vero, come recita un proverbio, che un argentino si suicida lanciandosi nel vuoto dall’alto del suo Io, saltando dal suo Io un uruguaiano si romperebbe a malapena una gamba. Insomma, l’Uruguay è un paese con una scarsa autostima. Sono solo luoghi comuni, penserete. È vero, ma sono così presenti nella vita quotidiana, nelle conversazioni e nelle letture degli uruguaiani che è importante prenderli sul serio. A volte sembra che l’unica ragione di esistere dell’Uruguay sia quella di fare da contrappunto all’Argentina. Non siamo qui per stabilire se il cantante e compositore Carlos Gardel fosse argentino o uruguaiano: pare che fosse uruguaiano, anche se prese la cittadinanza argentina nel 1923. Gli uruguaiani, insomma, sarebbero nostalgici, malinconici, addirittura tristi. L’Uruguay – e questo è un dato di fatto – ha il tasso di suicidi e di morti per tumore più alto dell’America Latina. Perché allora a dicembre del 2013 l’Economist l’ha scelto come paese dell’anno “per la sua ricetta della felicità umana”? I giornalisti del settimanale britannico hanno forse perso la ragione? Assolutamente no. E questo non perché negli ultimi tre anni il governo ha depenalizzato l’aborto, ha legalizzato i matrimoni omosessuali e la produzione, il possesso e la vendita di marijuana. Sono tutte riforme importanti, ma sono solo la punta dell’iceberg. I cambiamenti profondi, forse meno plateali, che hanno reso possibile tutto il resto, sono stati altri. Nel 2005, quando la coalizione di partiti di sinistra Frente amplio ha vinto le elezioni, l’Uruguay era in pieno declino per le conseguenze della crisi economica argentina del 2002 e le politiche neoliberiste dei governi passati. La disoccupazione era così alta che il 40 per cento della popolazione viveva sotto la soglia di povertà. Il salario reale era crollato, molti uruguaiani emigravano, l’inflazione aveva raggiunto livelli altissimi e il debito estero sembrava troppo grande per essere risanato. Nove anni dopo, la disoccupazione è scesa al 6,5 per cento e gli stipendi hanno di nuovo lo stesso potere d’acquisto degli anni precedenti alla crisi. Secondo uno studio della rivista Americas Quarterly, oggi l’Uruguay è in testa alla classifica d’inclusione sociale del continente americano, davanti al Cile e agli Stati Uniti. Il primo governo del Frente Amplio, guidato da Tabaré Vázquez (Presidente dal 2005 al 2010) e con José Mujica ministro per l’allevamento, l’agricoltura e la pesca, ha promosso a tempo di record una serie di piani di sviluppo che hanno creato occupazione. Ha garantito diritti che si erano persi durante l’epoca liberista, ha introdotto il salario minimo e condizioni d’impiego più dignitose, e ha approvato delle leggi importanti per la tutela del lavoro: oggi nei campi non si lavora più dall’alba al tramonto, ma per otto ore. Il governo ha fatto nuovi investimenti (in Uruguay ci sono le due cartiere più grandi del mondo, e il governo ha in progetto la terza). E mentre scrivo questo reportage, il paese sta firmando un accordo con una multinazionale per estrarre il ferro dalle miniere, che daranno un impiego a molte persone per quindici o vent’anni (progetto Aratirí). Nel 2009 José Mujica ha vinto le elezioni e ha mantenuto la linea economica del suo predecessore, puntando però su alcune questioni sociali. Con una parte dei profitti del Banco de la República, il presidente ha creato un fondo per inanziare iniziative comunitarie di economia sociale: lui la chiama “ricerca di modelli di sviluppo alternativi al capitalismo”. Sono cooperative o iniziative simili che devono rendere conto del loro andamento e sono sottoposte a rigidi controlli da parte di economisti ed esperti. In questi anni Mujica ha fatto molto anche per chi, nell’epoca di maggiore povertà, è andato a vivere nei dintorni della capitale. Ha approvato dei piani di emergenza per evitare che queste persone uscissero dal sistema, prima con interventi assistenziali, poi con programmi di costruzione partecipata di case, asili e ambulatori. Alcuni insediamenti abusivi sono stati legalizzati e oggi i loro abitanti hanno accesso ai servizi di prima necessità. Il tasso di disoccupazione, molto basso, ha contribuito al reinserimento sociale di questi gruppi, che in teoria erano condannati all’emarginazione. In Uruguay ci sono il salario minimo (360 euro), un sistema sanitario pubblico, un buon sistema pensionistico e l’analfabetismo è assente. Il 98 per cento della popolazione ha accesso all’acqua potabile e il 70 per cento ha un collegamento al sistema fognario. L’Uruguay è il principale esportatore di software dell’America Latina e si sta interessando alla biotecnologia perché è utile per il settore agricolo, zootecnico e alimentare. E, ciliegina sulla torta, il paese ha un Presidente che ha il coraggio di vivere come predica.
continua domani
Nostalgici e malinconici
Torniamo in albergo contenti, lasciamo le nostre cose e usciamo a fare una passeggiata: è a questo punto che incontriamo il signore dall’aria benestante secondo il quale non dovremmo avvicinarci al mercato. Il giorno dopo, sempre con una pioggia e un vento tropicali, andiamo a trovare il Presidente nel suo ufficio e lo troviamo impegnato in una diretta radiofonica. Sta parlando dei fenomeni climatici estremi che in questi giorni hanno colpito l’Uruguay rovinando i raccolti, allagando diverse zone del paese e distruggendo le strade. Mujica parla della siccità, delle inondazioni e delle nevicate in luoghi impensabili e spiega che, per colpa del cambiamento climatico, è aumentato il livello del mare e alcune isole dei Caraibi in un giorno hanno perso uno o due punti del pil. Sostiene che abbiamo bisogno di politiche globali, ma il mondo oggi è preso da cose che considera più urgenti. Paragona il cambiamento climatico e le tempeste finanziarie, spiega che tra il 2001 e il 2002 in Uruguay un cataclisma economico ha portato il 40 per cento della popolazione sotto la soglia di povertà e la responsabilità è stata del sistema inanziario lasciato a se stesso. “Adesso nel nostro paese”, afferma Mujica, “potranno esserci dei temporali, ma non tempeste economiche, perché il sistema finanziario è sotto controllo”. Il presidente chiude la conversazione radiofonica e ci invita a sederci. L’ufficio, sei o sette volte più grande della sua casa, è luminoso, ha i soffitti alti, ma è un po’ impersonale. A proposito delle tempeste finanziarie di cui ha parlato alla radio, Mujica ricorda quella del 2002, all’epoca della crisi argentina. “Eravamo a terra”, racconta, “poi abbiamo deciso di mettere sotto controllo il sistema finanziario. Le banche straniere, come la spagnola Santander, sono presenti ovunque in Uruguay, ma non possono fare niente: le teniamo in pugno. Abbiamo alcune banche dello stato che sono di gran lunga più forti”. Su una prolunga del tavolo alla destra di Mujica sono esposti diversi oggetti, tra cui il modellino di un treno ad alta velocità. “Sono quasi tutti regali dei cinesi. Mi propongono una ferrovia e per convincermi mi portano un modellino come questo. Forte, vero?”. “Le hanno proposto di costruire una ferrovia?”. “Sì, più di una. Il paese è cresciuto e abbiamo un serio problema di trasporti. Dobbiamo risolverlo e faremo affari con i cinesi, che sanno costruire le ferrovie”. “I cinesi stanno comprando tutto”. “Ma noi non vendiamo le terre e ne venderemo sempre meno. Faremo attenzione alla terra e all’acqua, perché sono le materie prime più preziose. Questo è un paese piccolo, ma il 90 per cento del territorio è produttivo. Non si può vendere un pezzo di terra coltivabile come se niente fosse: non ne restano mica tanti nel mondo. La popolazione aumenta e vuole vivere sempre meglio, e oggi il settore alimentare, che era finito in secondo piano, è tornato alla ribalta”. Dopo aver visitato la Torre Ejecutiva salutiamo José Mujica dandoci appuntamento a sabato per andare ad Anchorena, la località del dipartimento di Colonia dove si trova la residenza estiva del presidente. L’Uruguay è un paese piccolo e le sue coste sono bagnate dall’oceano Atlantico e dal Río de la Plata. Confina a nord con il Brasile e a ovest con l’Argentina. Osservando la mappa del cono sud latinoamericano – dove per convenzione il nord sta sopra e il sud sotto – e considerando che la forza di gravità spinge verso il basso ciò che è in alto, l’Uruguay sembra spinto verso il mare da quei due giganti. Questa situazione a incastro provoca in alcuni uruguaiani delle convulsioni claustrofobiche che in parte spiegano la lunga storia di emigrazione del paese. È un posto da cui bisogna andare via, anche se negli ultimi anni sembra che sia diventato un paese dove tornare. L’Uruguay ha poco più di tre milioni di abitanti e la metà vive nella capitale, Montevideo. Forse perché sembra davvero incastrato tra l’Argentina, il Brasile e l’oceano, forse per le sue dimensioni, per il suo clima, perché è un paese formato quasi al 90 per cento da emigrati europei o forse per tutti questi fattori insieme, gli uruguaiani esagerano sempre verso il basso (così come gli argentini esagerano sempre verso l’alto). Se è vero, come recita un proverbio, che un argentino si suicida lanciandosi nel vuoto dall’alto del suo Io, saltando dal suo Io un uruguaiano si romperebbe a malapena una gamba. Insomma, l’Uruguay è un paese con una scarsa autostima. Sono solo luoghi comuni, penserete. È vero, ma sono così presenti nella vita quotidiana, nelle conversazioni e nelle letture degli uruguaiani che è importante prenderli sul serio. A volte sembra che l’unica ragione di esistere dell’Uruguay sia quella di fare da contrappunto all’Argentina. Non siamo qui per stabilire se il cantante e compositore Carlos Gardel fosse argentino o uruguaiano: pare che fosse uruguaiano, anche se prese la cittadinanza argentina nel 1923. Gli uruguaiani, insomma, sarebbero nostalgici, malinconici, addirittura tristi. L’Uruguay – e questo è un dato di fatto – ha il tasso di suicidi e di morti per tumore più alto dell’America Latina. Perché allora a dicembre del 2013 l’Economist l’ha scelto come paese dell’anno “per la sua ricetta della felicità umana”? I giornalisti del settimanale britannico hanno forse perso la ragione? Assolutamente no. E questo non perché negli ultimi tre anni il governo ha depenalizzato l’aborto, ha legalizzato i matrimoni omosessuali e la produzione, il possesso e la vendita di marijuana. Sono tutte riforme importanti, ma sono solo la punta dell’iceberg. I cambiamenti profondi, forse meno plateali, che hanno reso possibile tutto il resto, sono stati altri. Nel 2005, quando la coalizione di partiti di sinistra Frente amplio ha vinto le elezioni, l’Uruguay era in pieno declino per le conseguenze della crisi economica argentina del 2002 e le politiche neoliberiste dei governi passati. La disoccupazione era così alta che il 40 per cento della popolazione viveva sotto la soglia di povertà. Il salario reale era crollato, molti uruguaiani emigravano, l’inflazione aveva raggiunto livelli altissimi e il debito estero sembrava troppo grande per essere risanato. Nove anni dopo, la disoccupazione è scesa al 6,5 per cento e gli stipendi hanno di nuovo lo stesso potere d’acquisto degli anni precedenti alla crisi. Secondo uno studio della rivista Americas Quarterly, oggi l’Uruguay è in testa alla classifica d’inclusione sociale del continente americano, davanti al Cile e agli Stati Uniti. Il primo governo del Frente Amplio, guidato da Tabaré Vázquez (Presidente dal 2005 al 2010) e con José Mujica ministro per l’allevamento, l’agricoltura e la pesca, ha promosso a tempo di record una serie di piani di sviluppo che hanno creato occupazione. Ha garantito diritti che si erano persi durante l’epoca liberista, ha introdotto il salario minimo e condizioni d’impiego più dignitose, e ha approvato delle leggi importanti per la tutela del lavoro: oggi nei campi non si lavora più dall’alba al tramonto, ma per otto ore. Il governo ha fatto nuovi investimenti (in Uruguay ci sono le due cartiere più grandi del mondo, e il governo ha in progetto la terza). E mentre scrivo questo reportage, il paese sta firmando un accordo con una multinazionale per estrarre il ferro dalle miniere, che daranno un impiego a molte persone per quindici o vent’anni (progetto Aratirí). Nel 2009 José Mujica ha vinto le elezioni e ha mantenuto la linea economica del suo predecessore, puntando però su alcune questioni sociali. Con una parte dei profitti del Banco de la República, il presidente ha creato un fondo per inanziare iniziative comunitarie di economia sociale: lui la chiama “ricerca di modelli di sviluppo alternativi al capitalismo”. Sono cooperative o iniziative simili che devono rendere conto del loro andamento e sono sottoposte a rigidi controlli da parte di economisti ed esperti. In questi anni Mujica ha fatto molto anche per chi, nell’epoca di maggiore povertà, è andato a vivere nei dintorni della capitale. Ha approvato dei piani di emergenza per evitare che queste persone uscissero dal sistema, prima con interventi assistenziali, poi con programmi di costruzione partecipata di case, asili e ambulatori. Alcuni insediamenti abusivi sono stati legalizzati e oggi i loro abitanti hanno accesso ai servizi di prima necessità. Il tasso di disoccupazione, molto basso, ha contribuito al reinserimento sociale di questi gruppi, che in teoria erano condannati all’emarginazione. In Uruguay ci sono il salario minimo (360 euro), un sistema sanitario pubblico, un buon sistema pensionistico e l’analfabetismo è assente. Il 98 per cento della popolazione ha accesso all’acqua potabile e il 70 per cento ha un collegamento al sistema fognario. L’Uruguay è il principale esportatore di software dell’America Latina e si sta interessando alla biotecnologia perché è utile per il settore agricolo, zootecnico e alimentare. E, ciliegina sulla torta, il paese ha un Presidente che ha il coraggio di vivere come predica.
continua domani
20140520
Ritratto dell'Uruguay, il paese che sorprende il mondo (2)
continua da ieri
Dialogo con Pechino
Come racconta Walter Pernas in Comandante Facundo, quand’era in carcere l’attuale presidente dell’Uruguay ha mangiato carta igienica e sapone, oltre alle mosche attirate nella sua cella dall’odore degli escrementi. Ha bevuto la sua urina e ha dormito per anni su pavimenti di cemento in balia del freddo intollerabile e del caldo soffocante. Ha passato settimane o mesi senza vedere la luce del sole, ha parlato per anni solo con i topi e gli insetti che convivevano con lui o andavano a fargli visita in cella. In carcere ha perso la nozione dello spazio e del tempo, ha delirato, è dimagrito fino a poter contare tutte le sue ossa. A causa delle botte, delle ferite e della denutrizione ha sofferto di problemi ai reni e allo stomaco. Walter Pernas racconta che Mujica non riusciva a stare dritto quando camminava e che, nei momenti di maggior sofferenza fisica e psicologica, i militari portavano i loro figli in carcere per fargli vedere “la bestia” e insultarla. Lo spostavano da una prigione all’altra come un sacco di merce putrida, spingendolo senza tanti complimenti sul retro di un camion militare e facendolo scendere a calci. I carcerieri, che erano a conoscenza della sua diarrea cronica e dei suoi problemi urinari, ignoravano le suppliche di Mujica per farsi portare al gabinetto. Ma dopo anni, grazie alla sua tenacia e a quella della madre, era riuscito a ottenere il permesso per avere un orinale da cui non si separava mai e che, con il tempo, era diventato il simbolo di una vittoria morale sui suoi carcerieri. Quattro giorni dopo essere stato liberato, nel 1985, Mujica ha pronunciato un discorso in cui non c’era alcuna traccia di risentimento. La natura, ripete spesso, ci ha messo gli occhi davanti perché è in quella direzione che dobbiamo guardare. “Fuori, Manuela!”, grida di nuovo al cane con tre zampe. Manuela si fa da parte e noi entriamo in casa, dove c’è odore di umidità. “L’Uruguay sta diventando un paese tropicale”, afferma Mujica. “Non capisco come si faccia ancora a negare il cambiamento climatico”. Ci sediamo nel salotto vicino all’ingresso, che è anche la stanza da cui si accede al resto della casa (una camera, un bagno e una cucina: in tutto saranno quaranta, al massimo quarantacinque metri quadrati) e mi rendo conto con un brivido che Mujica si aspetta un’intervista tradizionale. Così, mi metto al lavoro. Alla prima domanda, il presidente risponde
che oggi chi governa non comanda niente. “E allora chi comanda?”, chiedo.“I grandi poteri finanziari. Non è più il cane a muovere la coda, ma la coda a muovere il cane”. “Parla di queste cose con i capi di stato o con i presidenti che incontra?”. “Sì”. “E loro cosa ne pensano?”. “Mi danno ragione, ma guardano dall’altra parte. S’illudono ancora di essere come i presidenti di una volta e non osano affrontare il nemico più forte. Fanno finta di niente, ma la verità è che siamo tutti dei fantocci”. “Come ha fatto a governare per cinque anni consapevole di questi limiti?”. “Questo è un piccolo paese molto speciale: più del 50 per cento dei movimenti bancari è nelle mani dello stato. Noi uruguaiani siamo cresciuti così: quando abbiamo un soldo andiamo a depositarlo al Banco de la República, che è la banca statale. Non perché ci trattino bene, anzi, manca solo che ci prendano a botte, ma noi ci fidiamo di quella banca. Le banche private sono deboli”. “Tutti i settori strategici dell’Uruguay sono nazionalizzati”. “È vero, ma non dia la colpa a me. Quando sono nato era già tutto così: è il risultato della storia”. Osservo Mujica e mi sembra uno che va e viene dentro di sé, come se avesse un retrobottega nella testa. Mi chiedo che tipo d’interesse possono suscitargli questi due spagnoli e se le sue risposte sono meccaniche quanto le mie domande. Mi spiega che l’Uruguay è un paese ricco che si è impoverito e si è lasciato andare intorno agli anni sessanta, dopo la vittoria contro il Brasile ai Mondiali del 1950, nello stadio Maracanã di Rio de Janeiro. “Cinquant’anni di nostalgia”, afferma Mujica. Poi continua: c’è troppa burocrazia, hanno sistemato davvero chiunque nell’apparato statale, c’era un teatro – il Solís – con un dipendente addetto ad alzare il sipario e un altro ad abbassarlo. La burocrazia statale è ancora un problema: i sindacati dei dipendenti pubblici, che sono potenti, gli hanno dato del filo da torcere. Serve pazienza, bisogna continuare a lottare e a seminare. Lui ha riflettuto molto, perché in prigione ha avuto tempo per pensare e ha capito che i cambiamenti avvengono lentamente. Fino a venti o trent’anni fa si poteva ancora discutere di guerre giuste e guerre ingiuste, e quelle giuste erano guerre di liberazione nazionale o di liberazione dei paesi oppressi, ma oggi è evidente che tutte le guerre servono solo a far soffrire i più deboli. Esistono problemi che nessun paese può risolvere da solo, e le strade sono due: o governiamo la globalizzazione o la globalizzazione ci governerà. La democrazia e il socialismo sono compatibili, a condizione che una non annienti l’altro. La cosa più importante che ha fatto da quando è presidente, sostiene Mujica, è lottare contro la povertà e l’indigenza, creando un clima di stabilità politica e di fiducia che ha attirato gli investimenti stranieri. Mujica ci chiede se vogliamo un whisky e poi spiega che l’unica strada è tornare all’economia produttiva, in cui l’Uruguay è forte perché ha un’ottima produzione di latticini, di carne e dei principali cereali. Il paese produce grano, soia e riso, esporta carne di manzo e pesce (in Uruguay se ne mangia pochissimo), ha un mare bellissimo, ma gli uruguaiani hanno vissuto dandogli le spalle pur essendo discendenti degli spagnoli. Mujica dice che parla molto con i cinesi, sono loro i principali clienti del paese, comprano tutta la soia e sono sempre più presenti: nelle campagne elettorali le bandierine sono tutte prodotte in Cina. Il problema dell’Europa è che l’economia produttiva è stata trascurata a favore della finanza: è questa la coda che muove il cane. Prima di arrivare, l’addetto stampa ci aveva avvisato che avevamo a disposizione un’ora e mezzo al massimo e anche a Jordi Socías serve un po’ di tempo per le foto. Con un gesto d’impotenza, spengo il registratore e dico a Mujica, al presidente dell’Uruguay, a Pepe, come lo chiamano gli uruguaiani: “Sa, il fatto è che non sono bravo con le interviste. So raccontare quello che mi succede. Se mi permettesse di fare colazione con lei domani e di accompagnarla al lavoro per vedere come si muove e quello che fa, sarebbe diverso”. Cala un po’ d’imbarazzo: Mujica e il suo addetto stampa non capiscono perché dall’altro capo del mondo abbiano spedito un giornalista che non sa fare un’intervista. A quel punto interviene Jordi Socías: “Millás vuole solo dire che è bravo a raccontare le storie”.
“Intanto beviamo qualcosa”, taglia corto il presidente. In cucina Mujica versa del whisky e Socías si mette al lavoro. Non ho la sensazione di essere in compagnia di un presidente o di un politico importante e mi torna in mente che quest’uomo devolve l’87 per cento del suo stipendio a un progetto di case per i poveri. Gli chiedo se gli resta abbastanza per vivere e lui risponde di sì: dopo aver contribuito alle spese del partito, a lui e alla moglie restano quarantamila pesos (duemila euro). Sua moglie è Lucía Topolansky, senatrice ed ex guerrigliera tupamara, anche lei detenuta durante la dittatura. Si erano conosciuti due mesi prima di essere arrestati e quando sono usciti, tredici anni dopo, sono andati a vivere insieme. Si sono sposati nel 2005 per avere tutti i documenti in regola, perché ormai hanno una certa età e non si può mai sapere. Li ha sposati un giudice proprio in questa cucina, da gente povera, ma molto pulita, “perché il vantaggio di avere una casa così piccola”, spiega Mujica, “è che tra me e mia moglie spazziamo e riordiniamo tutto in un lampo”. Di lampi ce ne sono anche fuori, e parecchi. Il Presidente della repubblica cede comunque alle preghiere del fotografo ed esce per farsi scattare qualche foto, perché dentro casa non c’è abbastanza luce. Per fortuna ha smesso di piovere. Quando rientra, Mujica ride di continuo, come se gli sembrassimo un po’ buffi. A un certo punto mi guarda e poi ci invita il giorno dopo a visitare la Torre Ejecutiva, in Plaza Independencia, dove si trova il suo ufficio. Accettiamo e gli assicuriamo che arriveremo puntuali alle undici. Poi Mujica sprofonda nel suo retrobottega e quando riappare ci chiede di accompagnarlo, il sabato seguente, ad Anchorena, la residenza estiva dei presidenti dell’Uruguay.
continua domani
Dialogo con Pechino
Come racconta Walter Pernas in Comandante Facundo, quand’era in carcere l’attuale presidente dell’Uruguay ha mangiato carta igienica e sapone, oltre alle mosche attirate nella sua cella dall’odore degli escrementi. Ha bevuto la sua urina e ha dormito per anni su pavimenti di cemento in balia del freddo intollerabile e del caldo soffocante. Ha passato settimane o mesi senza vedere la luce del sole, ha parlato per anni solo con i topi e gli insetti che convivevano con lui o andavano a fargli visita in cella. In carcere ha perso la nozione dello spazio e del tempo, ha delirato, è dimagrito fino a poter contare tutte le sue ossa. A causa delle botte, delle ferite e della denutrizione ha sofferto di problemi ai reni e allo stomaco. Walter Pernas racconta che Mujica non riusciva a stare dritto quando camminava e che, nei momenti di maggior sofferenza fisica e psicologica, i militari portavano i loro figli in carcere per fargli vedere “la bestia” e insultarla. Lo spostavano da una prigione all’altra come un sacco di merce putrida, spingendolo senza tanti complimenti sul retro di un camion militare e facendolo scendere a calci. I carcerieri, che erano a conoscenza della sua diarrea cronica e dei suoi problemi urinari, ignoravano le suppliche di Mujica per farsi portare al gabinetto. Ma dopo anni, grazie alla sua tenacia e a quella della madre, era riuscito a ottenere il permesso per avere un orinale da cui non si separava mai e che, con il tempo, era diventato il simbolo di una vittoria morale sui suoi carcerieri. Quattro giorni dopo essere stato liberato, nel 1985, Mujica ha pronunciato un discorso in cui non c’era alcuna traccia di risentimento. La natura, ripete spesso, ci ha messo gli occhi davanti perché è in quella direzione che dobbiamo guardare. “Fuori, Manuela!”, grida di nuovo al cane con tre zampe. Manuela si fa da parte e noi entriamo in casa, dove c’è odore di umidità. “L’Uruguay sta diventando un paese tropicale”, afferma Mujica. “Non capisco come si faccia ancora a negare il cambiamento climatico”. Ci sediamo nel salotto vicino all’ingresso, che è anche la stanza da cui si accede al resto della casa (una camera, un bagno e una cucina: in tutto saranno quaranta, al massimo quarantacinque metri quadrati) e mi rendo conto con un brivido che Mujica si aspetta un’intervista tradizionale. Così, mi metto al lavoro. Alla prima domanda, il presidente risponde
che oggi chi governa non comanda niente. “E allora chi comanda?”, chiedo.“I grandi poteri finanziari. Non è più il cane a muovere la coda, ma la coda a muovere il cane”. “Parla di queste cose con i capi di stato o con i presidenti che incontra?”. “Sì”. “E loro cosa ne pensano?”. “Mi danno ragione, ma guardano dall’altra parte. S’illudono ancora di essere come i presidenti di una volta e non osano affrontare il nemico più forte. Fanno finta di niente, ma la verità è che siamo tutti dei fantocci”. “Come ha fatto a governare per cinque anni consapevole di questi limiti?”. “Questo è un piccolo paese molto speciale: più del 50 per cento dei movimenti bancari è nelle mani dello stato. Noi uruguaiani siamo cresciuti così: quando abbiamo un soldo andiamo a depositarlo al Banco de la República, che è la banca statale. Non perché ci trattino bene, anzi, manca solo che ci prendano a botte, ma noi ci fidiamo di quella banca. Le banche private sono deboli”. “Tutti i settori strategici dell’Uruguay sono nazionalizzati”. “È vero, ma non dia la colpa a me. Quando sono nato era già tutto così: è il risultato della storia”. Osservo Mujica e mi sembra uno che va e viene dentro di sé, come se avesse un retrobottega nella testa. Mi chiedo che tipo d’interesse possono suscitargli questi due spagnoli e se le sue risposte sono meccaniche quanto le mie domande. Mi spiega che l’Uruguay è un paese ricco che si è impoverito e si è lasciato andare intorno agli anni sessanta, dopo la vittoria contro il Brasile ai Mondiali del 1950, nello stadio Maracanã di Rio de Janeiro. “Cinquant’anni di nostalgia”, afferma Mujica. Poi continua: c’è troppa burocrazia, hanno sistemato davvero chiunque nell’apparato statale, c’era un teatro – il Solís – con un dipendente addetto ad alzare il sipario e un altro ad abbassarlo. La burocrazia statale è ancora un problema: i sindacati dei dipendenti pubblici, che sono potenti, gli hanno dato del filo da torcere. Serve pazienza, bisogna continuare a lottare e a seminare. Lui ha riflettuto molto, perché in prigione ha avuto tempo per pensare e ha capito che i cambiamenti avvengono lentamente. Fino a venti o trent’anni fa si poteva ancora discutere di guerre giuste e guerre ingiuste, e quelle giuste erano guerre di liberazione nazionale o di liberazione dei paesi oppressi, ma oggi è evidente che tutte le guerre servono solo a far soffrire i più deboli. Esistono problemi che nessun paese può risolvere da solo, e le strade sono due: o governiamo la globalizzazione o la globalizzazione ci governerà. La democrazia e il socialismo sono compatibili, a condizione che una non annienti l’altro. La cosa più importante che ha fatto da quando è presidente, sostiene Mujica, è lottare contro la povertà e l’indigenza, creando un clima di stabilità politica e di fiducia che ha attirato gli investimenti stranieri. Mujica ci chiede se vogliamo un whisky e poi spiega che l’unica strada è tornare all’economia produttiva, in cui l’Uruguay è forte perché ha un’ottima produzione di latticini, di carne e dei principali cereali. Il paese produce grano, soia e riso, esporta carne di manzo e pesce (in Uruguay se ne mangia pochissimo), ha un mare bellissimo, ma gli uruguaiani hanno vissuto dandogli le spalle pur essendo discendenti degli spagnoli. Mujica dice che parla molto con i cinesi, sono loro i principali clienti del paese, comprano tutta la soia e sono sempre più presenti: nelle campagne elettorali le bandierine sono tutte prodotte in Cina. Il problema dell’Europa è che l’economia produttiva è stata trascurata a favore della finanza: è questa la coda che muove il cane. Prima di arrivare, l’addetto stampa ci aveva avvisato che avevamo a disposizione un’ora e mezzo al massimo e anche a Jordi Socías serve un po’ di tempo per le foto. Con un gesto d’impotenza, spengo il registratore e dico a Mujica, al presidente dell’Uruguay, a Pepe, come lo chiamano gli uruguaiani: “Sa, il fatto è che non sono bravo con le interviste. So raccontare quello che mi succede. Se mi permettesse di fare colazione con lei domani e di accompagnarla al lavoro per vedere come si muove e quello che fa, sarebbe diverso”. Cala un po’ d’imbarazzo: Mujica e il suo addetto stampa non capiscono perché dall’altro capo del mondo abbiano spedito un giornalista che non sa fare un’intervista. A quel punto interviene Jordi Socías: “Millás vuole solo dire che è bravo a raccontare le storie”.
“Intanto beviamo qualcosa”, taglia corto il presidente. In cucina Mujica versa del whisky e Socías si mette al lavoro. Non ho la sensazione di essere in compagnia di un presidente o di un politico importante e mi torna in mente che quest’uomo devolve l’87 per cento del suo stipendio a un progetto di case per i poveri. Gli chiedo se gli resta abbastanza per vivere e lui risponde di sì: dopo aver contribuito alle spese del partito, a lui e alla moglie restano quarantamila pesos (duemila euro). Sua moglie è Lucía Topolansky, senatrice ed ex guerrigliera tupamara, anche lei detenuta durante la dittatura. Si erano conosciuti due mesi prima di essere arrestati e quando sono usciti, tredici anni dopo, sono andati a vivere insieme. Si sono sposati nel 2005 per avere tutti i documenti in regola, perché ormai hanno una certa età e non si può mai sapere. Li ha sposati un giudice proprio in questa cucina, da gente povera, ma molto pulita, “perché il vantaggio di avere una casa così piccola”, spiega Mujica, “è che tra me e mia moglie spazziamo e riordiniamo tutto in un lampo”. Di lampi ce ne sono anche fuori, e parecchi. Il Presidente della repubblica cede comunque alle preghiere del fotografo ed esce per farsi scattare qualche foto, perché dentro casa non c’è abbastanza luce. Per fortuna ha smesso di piovere. Quando rientra, Mujica ride di continuo, come se gli sembrassimo un po’ buffi. A un certo punto mi guarda e poi ci invita il giorno dopo a visitare la Torre Ejecutiva, in Plaza Independencia, dove si trova il suo ufficio. Accettiamo e gli assicuriamo che arriveremo puntuali alle undici. Poi Mujica sprofonda nel suo retrobottega e quando riappare ci chiede di accompagnarlo, il sabato seguente, ad Anchorena, la residenza estiva dei presidenti dell’Uruguay.
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20140519
Ritratto dell'Uruguay, il paese che sorprende il mondo (1)
Tradotto da Internazionale nr. 1049. Qui l'articolo originale. Il pezzo è stato tagliato nella traduzione, mi riprometto di leggere l'originale e di riassumere i tagli, se meritano.
Di Juan José Millás, El País Semanal
Il temporale si annuncia con uno stato di oppressione simile a quello che precede il mal di testa. L’atmosfera s’incupisce nel bel mezzo della giornata, come se Dio avesse chiuso gli occhi, e si leva un’aria strana che mette addosso un’euforia gratuita. Nel giro di un quarto d’ora gli edifici grondano come una spugna appena tolta dall’acqua e poggiata sul bordo della vasca. I bambini saltano nelle pozzanghere e la realtà sembra sospesa. Il clima di Montevideo soffre di un disturbo della personalità. Nella stanza d’albergo ho la sensazione di essere uno di quei personaggi dello scrittore Juan Carlos Onetti che se ne stanno sdraiati nudi sul letto, senza mai smettere di fumare, ad ascoltare ossessivamente i rumori esterni cercando di ricostruire nella loro testa un’immagine del mondo. Il mondo, all’inizio, sono le strade che scendono verso quel punto stranissimo in cui s’incrociano le acque del Río de la Plata e quelle dell’oceano Atlantico. A volte il mare penetra nel fiume, a volte il iume penetra nel mare, dipende dai venti, dalle maree, dalle piogge, dalle piene e dagli effetti del cambiamento climatico. El País ci ha mandato dall’altra parte del mondo per scrivere un reportage. Così, un pomeriggio, il fotografo Jordi Socías e io usciamo a fare una passeggiata e imbocchiamo una delle strade che scendono verso l’estuario. Dopo un’ora, vediamo un uomo che esce da un negozio di dolci con una busta in mano. “Vendono vini buoni?”, gli chiede Socías. “Ottimi”, risponde l’uomo. “E hanno anche un pane squisito, ma è quasi l’ora della chiusura”. È un signore dall’aria benestante che ha voglia di fare due chiacchiere. Gli chiediamo se il mercato è lontano. “Non andateci: a quest’ora è deserto”, ci spiega. “E verso la via principale?”. “Non cambia niente. Se andate su di qua dopo quattrocento metri troverete dei bar con una bella atmosfera, come quelli di Madrid o di Parigi”. “Ma noi non vogliamo vedere Madrid o Parigi, vogliamo vedere Montevideo”, replica Socías. Il signore ci guarda come se fossimo matti e si allontana prudentemente, mentre noi continuiamo a camminare nella direzione proibita. Ma l’uomo dall’aria benestante aveva ragione: è tutto deserto. “Bisogna venirci di mattina”, ci spiegano quando arriviamo vicino al mercato. Ci sono quartieri di Montevideo che sono Montevideo solo la mattina e all’ora di pranzo. Poi diventano un’altra città, dov’è sempre domenica pomeriggio.
Gli occhi davanti
Quello che ho appena raccontato, però, succederà dopo. Al nostro arrivo in Uruguay, invece, con la valigia ancora da disfare sul letto della camera d’albergo, succede che squilla il telefono. È l’addetto stampa del presidente dell’Uruguay: “Alle 15.30 passerà a prendervi un’auto per portarvi alla chacra (la fattoria) di José ‘Pepe’ Mujica”, mi comunica.Guardo l’orologio: è mezzogiorno. “Ma eravamo rimasti d’accordo che ci saremmo visti domani”, faccio presente con cautela. “Domani non si può fare”, taglia corto l’addetto stampa. Riattacco e avviso il fotografo. Quando passano a prenderci la pioggia cade con una forza incredibile, come se volesse fare male a qualcuno. E anche se mancano ancora cinque o sei ore di luce prima del tramonto, le strade sono buie come i corridoi di un ufficio in un giorno di festa. L’auto va verso la periferia e quasi subito arriviamo in una zona di campagna. Alcuni cani si avvicinano per fare le feste e c’è anche qualche gallina. A un certo punto l’autista si ferma davanti a una specie di bivio. “Ci siamo”, dice. Siamo arrivati a Rincón del Cerro. Scendiamo e vediamo, in mezzo ai campi, una guardiola simile a un bagno chimico, che dà al paesaggio un’aria surreale. A destra, nascosta dalla vegetazione, c’è la casa di José Mujica, il presidente della Repubblica Orientale dell’Uruguay. Tutti dicono che vive in una casa modesta. È falso: la sua casa è povera, un po’ più di una catapecchia, con il tetto di lamiera. Sulla porta ci sta aspettando l’anziano presidente che ha fatto diventare di moda il suo paese. “Signor presidente”, lo salutiamo dandogli la mano. “Fuori, Manuela!”, grida lui a un cane con tre zampe che l’ha preceduto per darci il benvenuto. José Mujica Cordano ha quasi ottant’anni e ne ha passati quindici in carcere perché faceva parte del Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros. Nel suo curriculum da guerrigliero ci sono due evasioni e sul corpo porta i segni di sei ferite da arma da fuoco. È stato arrestato l’ultima volta nel 1972 e non è tornato in libertà fino al 1985. È entrato in prigione a 37 anni e ne è uscito quando ne aveva cinquanta. Nelle carceri della dittatura, è stato sottoposto a maltrattamenti infiniti.
continua domani
Di Juan José Millás, El País Semanal
Il temporale si annuncia con uno stato di oppressione simile a quello che precede il mal di testa. L’atmosfera s’incupisce nel bel mezzo della giornata, come se Dio avesse chiuso gli occhi, e si leva un’aria strana che mette addosso un’euforia gratuita. Nel giro di un quarto d’ora gli edifici grondano come una spugna appena tolta dall’acqua e poggiata sul bordo della vasca. I bambini saltano nelle pozzanghere e la realtà sembra sospesa. Il clima di Montevideo soffre di un disturbo della personalità. Nella stanza d’albergo ho la sensazione di essere uno di quei personaggi dello scrittore Juan Carlos Onetti che se ne stanno sdraiati nudi sul letto, senza mai smettere di fumare, ad ascoltare ossessivamente i rumori esterni cercando di ricostruire nella loro testa un’immagine del mondo. Il mondo, all’inizio, sono le strade che scendono verso quel punto stranissimo in cui s’incrociano le acque del Río de la Plata e quelle dell’oceano Atlantico. A volte il mare penetra nel fiume, a volte il iume penetra nel mare, dipende dai venti, dalle maree, dalle piogge, dalle piene e dagli effetti del cambiamento climatico. El País ci ha mandato dall’altra parte del mondo per scrivere un reportage. Così, un pomeriggio, il fotografo Jordi Socías e io usciamo a fare una passeggiata e imbocchiamo una delle strade che scendono verso l’estuario. Dopo un’ora, vediamo un uomo che esce da un negozio di dolci con una busta in mano. “Vendono vini buoni?”, gli chiede Socías. “Ottimi”, risponde l’uomo. “E hanno anche un pane squisito, ma è quasi l’ora della chiusura”. È un signore dall’aria benestante che ha voglia di fare due chiacchiere. Gli chiediamo se il mercato è lontano. “Non andateci: a quest’ora è deserto”, ci spiega. “E verso la via principale?”. “Non cambia niente. Se andate su di qua dopo quattrocento metri troverete dei bar con una bella atmosfera, come quelli di Madrid o di Parigi”. “Ma noi non vogliamo vedere Madrid o Parigi, vogliamo vedere Montevideo”, replica Socías. Il signore ci guarda come se fossimo matti e si allontana prudentemente, mentre noi continuiamo a camminare nella direzione proibita. Ma l’uomo dall’aria benestante aveva ragione: è tutto deserto. “Bisogna venirci di mattina”, ci spiegano quando arriviamo vicino al mercato. Ci sono quartieri di Montevideo che sono Montevideo solo la mattina e all’ora di pranzo. Poi diventano un’altra città, dov’è sempre domenica pomeriggio.
Gli occhi davanti
Quello che ho appena raccontato, però, succederà dopo. Al nostro arrivo in Uruguay, invece, con la valigia ancora da disfare sul letto della camera d’albergo, succede che squilla il telefono. È l’addetto stampa del presidente dell’Uruguay: “Alle 15.30 passerà a prendervi un’auto per portarvi alla chacra (la fattoria) di José ‘Pepe’ Mujica”, mi comunica.Guardo l’orologio: è mezzogiorno. “Ma eravamo rimasti d’accordo che ci saremmo visti domani”, faccio presente con cautela. “Domani non si può fare”, taglia corto l’addetto stampa. Riattacco e avviso il fotografo. Quando passano a prenderci la pioggia cade con una forza incredibile, come se volesse fare male a qualcuno. E anche se mancano ancora cinque o sei ore di luce prima del tramonto, le strade sono buie come i corridoi di un ufficio in un giorno di festa. L’auto va verso la periferia e quasi subito arriviamo in una zona di campagna. Alcuni cani si avvicinano per fare le feste e c’è anche qualche gallina. A un certo punto l’autista si ferma davanti a una specie di bivio. “Ci siamo”, dice. Siamo arrivati a Rincón del Cerro. Scendiamo e vediamo, in mezzo ai campi, una guardiola simile a un bagno chimico, che dà al paesaggio un’aria surreale. A destra, nascosta dalla vegetazione, c’è la casa di José Mujica, il presidente della Repubblica Orientale dell’Uruguay. Tutti dicono che vive in una casa modesta. È falso: la sua casa è povera, un po’ più di una catapecchia, con il tetto di lamiera. Sulla porta ci sta aspettando l’anziano presidente che ha fatto diventare di moda il suo paese. “Signor presidente”, lo salutiamo dandogli la mano. “Fuori, Manuela!”, grida lui a un cane con tre zampe che l’ha preceduto per darci il benvenuto. José Mujica Cordano ha quasi ottant’anni e ne ha passati quindici in carcere perché faceva parte del Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros. Nel suo curriculum da guerrigliero ci sono due evasioni e sul corpo porta i segni di sei ferite da arma da fuoco. È stato arrestato l’ultima volta nel 1972 e non è tornato in libertà fino al 1985. È entrato in prigione a 37 anni e ne è uscito quando ne aveva cinquanta. Nelle carceri della dittatura, è stato sottoposto a maltrattamenti infiniti.
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20140518
Marinaleda, la Cuba andalusa (2)
Continua dall'altro ieri
Olive e carciofi
Il leader e le sue truppe proclamano che, grazie alle misure collettivistiche, in questa roccaforte anarco-sindacalista la crisi è meno dura che altrove. La disoccupazione –sostengono – è al 5 per cento. “In realtà tutto dipende dai raccolti. Quando è la stagione delle olive o dei carciofi siamo a pieno regime, ma a partire da maggio-giugno c’è molto meno lavoro”, precisa la vicesindaca Esperanza Saavedra, in un’aula municipale dove i conti si fanno ancora in pesetas. Marinaleda è un villaggio molto particolare. All’ingresso del paese, sotto il disegno di una colomba, c’è scritto: “Marinaleda, un’utopia verso la pace”. I muri delle case basse che costeggiano la via principale sono decorati con slogan militanti: “Terra ai contadini”, “Sovranità socialista” o “La costanza è rivoluzionaria”. Di recente anche alcuni indignados hanno lasciato il loro simbolo. La prima grande vittoria di Sánchez Gordillo risale a poco più di vent’anni fa. Nel 1991, dopo dodici anni di lotte tenaci, i jornaleros avevano ottenuto l’espropriazione e poi l’acquisto, da parte del governo andaluso, di vasti terreni di proprietà del duca dell’Infantado, una decina di chilometri a nord del villaggio. Il risultato è che la cooperativa di Marinaleda, El Humoso, oggi occupa 1.200 ettari e fa lavorare la metà degli abitanti del villaggio nei campi o nella fabbrica comunale, Humar, dove i prodotti agricoli sono confezionati per la vendita. Da qui partono olive, fagioli, carciofi, peperoni, porri e bieta, tutte coltivazioni che richiedono molta manodopera. La maggior parte della popolazione riceve anche un sussidio agricolo di 426 euro, finanziato con i fondi europei: uno strumento per evitare lo spopolamento delle campagne. Manolo ha sessant’anni e si occupa del frantoio. Anche lui è un fervente sostenitore di Sánchez Gordillo. Prima dell’espropriazione del 1991, quando da queste parti era impossibile trovare un lavoro, doveva andare a lavorare a Jaén (per la raccolta delle olive), a Valladolid (per le barbabietole) o nel sud della Francia (per la vendemmia). “All’epoca Marinaleda era uno dei villaggi più poveri della Spagna. Dovevamo andare ad ammazzarci di lavoro altrove o emigrare”, ricorda Manolo. “In ogni caso c’era sempre un padrone che ci trattava come schiavi. Il sindaco ci ha ridato la dignità”. La famiglia di Manolo, come altre 317, beneficia di un alloggio gratuito – di proprietà del comune – e di uno stipendio garantito e uguale per tutti: 1.200 euro. Attualmente sono in cantiere 23 nuove case “autocostruite”: i futuri inquilini contribuiscono a realizzarle lavorando come muratori. “Senza il sindaco non so cosa sarei diventato”, mormora José Muñoz, che ha 58 anni e alleva un gregge di 600 capre. “Gli devo tutto”. Non deve stupire, quindi, che dal 1999 a oggi il líder máximo abbia sempre ottenuto la maggioranza assoluta in tutte le elezioni locali. Nel 2011, mentre la crisi obbligava molti operai edili a tornare a Marinaleda, il suo partito (Izquierda unida-Convocatoria por Andalucía) ha avuto il 73 per cento dei voti, rispetto al 21 per cento dei socialisti, cioè nove rappresentanti contro i due dell’opposizione. Sánchez Gordillo è il signore incontrastato della zona. Le lodi al suo operato sono la norma.
Il culto della personalità
Mariano Pradas, consigliere socialista, è uno dei pochi a criticare pubblicamente il sindaco. E non c’è seduta del consiglio comunale in cui lui e il suo collega Hipólito Aires Navarro non siano definiti “fascisti”. “Visti i suoi metodi autoritari”, dice Pradas, “e il culto della personalità, la gente ha paura. Ha messo a punto un sistema clientelare di cui ha il controllo assoluto. Se si è d’accordo con lui, va tutto bene, in caso contrario le pressioni sono fortissime. Per me Sánchez Gordillo non è altro che un tradizionale cacicco andaluso. Approviamo le sue idee ma non i suoi metodi, come l’occupazione delle terre nella più completa illegalità”. Sánchez Gordillo non si preoccupa delle voci critiche, che rimangono “un numero insignificante”. Mentre si avvicina il momento del pensionamento politico, la sua principale preoccupazione è rendere permanente il modello instaurato a Marinaleda e trasmetterlo alle generazioni future. “I prezzi agricoli sono molto bassi e la presenza dei nostri prodotti su un mercato senza regole è ogni giorno più complicata. Abbiamo dei progetti, in particolare una banca della terra per i jornaleros senza lavoro, ma ci mancano i mezzi finanziari per realizzarli. Almeno, però, siamo riusciti a conservare quello che abbiamo conquistato”. Per ora Marinaleda sembra resistere e anche i suoi (numerosi) nemici lo riconoscono. D’altra parte, viene spontaneo chiedersi perché altri villaggi andalusi non abbiano seguito lo stesso modello. A questa domanda Sánchez Gordillo si limita a sorridere. Di fronte al municipio uno dei suoi collaboratori ha la risposta pronta: “Di Sánchez Gordillo ce n’è uno solo!”.
Scheda Wikipedia di Marinaleda
Sala uso multiplo a Marinaleda |
Olive e carciofi
Il leader e le sue truppe proclamano che, grazie alle misure collettivistiche, in questa roccaforte anarco-sindacalista la crisi è meno dura che altrove. La disoccupazione –sostengono – è al 5 per cento. “In realtà tutto dipende dai raccolti. Quando è la stagione delle olive o dei carciofi siamo a pieno regime, ma a partire da maggio-giugno c’è molto meno lavoro”, precisa la vicesindaca Esperanza Saavedra, in un’aula municipale dove i conti si fanno ancora in pesetas. Marinaleda è un villaggio molto particolare. All’ingresso del paese, sotto il disegno di una colomba, c’è scritto: “Marinaleda, un’utopia verso la pace”. I muri delle case basse che costeggiano la via principale sono decorati con slogan militanti: “Terra ai contadini”, “Sovranità socialista” o “La costanza è rivoluzionaria”. Di recente anche alcuni indignados hanno lasciato il loro simbolo. La prima grande vittoria di Sánchez Gordillo risale a poco più di vent’anni fa. Nel 1991, dopo dodici anni di lotte tenaci, i jornaleros avevano ottenuto l’espropriazione e poi l’acquisto, da parte del governo andaluso, di vasti terreni di proprietà del duca dell’Infantado, una decina di chilometri a nord del villaggio. Il risultato è che la cooperativa di Marinaleda, El Humoso, oggi occupa 1.200 ettari e fa lavorare la metà degli abitanti del villaggio nei campi o nella fabbrica comunale, Humar, dove i prodotti agricoli sono confezionati per la vendita. Da qui partono olive, fagioli, carciofi, peperoni, porri e bieta, tutte coltivazioni che richiedono molta manodopera. La maggior parte della popolazione riceve anche un sussidio agricolo di 426 euro, finanziato con i fondi europei: uno strumento per evitare lo spopolamento delle campagne. Manolo ha sessant’anni e si occupa del frantoio. Anche lui è un fervente sostenitore di Sánchez Gordillo. Prima dell’espropriazione del 1991, quando da queste parti era impossibile trovare un lavoro, doveva andare a lavorare a Jaén (per la raccolta delle olive), a Valladolid (per le barbabietole) o nel sud della Francia (per la vendemmia). “All’epoca Marinaleda era uno dei villaggi più poveri della Spagna. Dovevamo andare ad ammazzarci di lavoro altrove o emigrare”, ricorda Manolo. “In ogni caso c’era sempre un padrone che ci trattava come schiavi. Il sindaco ci ha ridato la dignità”. La famiglia di Manolo, come altre 317, beneficia di un alloggio gratuito – di proprietà del comune – e di uno stipendio garantito e uguale per tutti: 1.200 euro. Attualmente sono in cantiere 23 nuove case “autocostruite”: i futuri inquilini contribuiscono a realizzarle lavorando come muratori. “Senza il sindaco non so cosa sarei diventato”, mormora José Muñoz, che ha 58 anni e alleva un gregge di 600 capre. “Gli devo tutto”. Non deve stupire, quindi, che dal 1999 a oggi il líder máximo abbia sempre ottenuto la maggioranza assoluta in tutte le elezioni locali. Nel 2011, mentre la crisi obbligava molti operai edili a tornare a Marinaleda, il suo partito (Izquierda unida-Convocatoria por Andalucía) ha avuto il 73 per cento dei voti, rispetto al 21 per cento dei socialisti, cioè nove rappresentanti contro i due dell’opposizione. Sánchez Gordillo è il signore incontrastato della zona. Le lodi al suo operato sono la norma.
Il culto della personalità
Mariano Pradas, consigliere socialista, è uno dei pochi a criticare pubblicamente il sindaco. E non c’è seduta del consiglio comunale in cui lui e il suo collega Hipólito Aires Navarro non siano definiti “fascisti”. “Visti i suoi metodi autoritari”, dice Pradas, “e il culto della personalità, la gente ha paura. Ha messo a punto un sistema clientelare di cui ha il controllo assoluto. Se si è d’accordo con lui, va tutto bene, in caso contrario le pressioni sono fortissime. Per me Sánchez Gordillo non è altro che un tradizionale cacicco andaluso. Approviamo le sue idee ma non i suoi metodi, come l’occupazione delle terre nella più completa illegalità”. Sánchez Gordillo non si preoccupa delle voci critiche, che rimangono “un numero insignificante”. Mentre si avvicina il momento del pensionamento politico, la sua principale preoccupazione è rendere permanente il modello instaurato a Marinaleda e trasmetterlo alle generazioni future. “I prezzi agricoli sono molto bassi e la presenza dei nostri prodotti su un mercato senza regole è ogni giorno più complicata. Abbiamo dei progetti, in particolare una banca della terra per i jornaleros senza lavoro, ma ci mancano i mezzi finanziari per realizzarli. Almeno, però, siamo riusciti a conservare quello che abbiamo conquistato”. Per ora Marinaleda sembra resistere e anche i suoi (numerosi) nemici lo riconoscono. D’altra parte, viene spontaneo chiedersi perché altri villaggi andalusi non abbiano seguito lo stesso modello. A questa domanda Sánchez Gordillo si limita a sorridere. Di fronte al municipio uno dei suoi collaboratori ha la risposta pronta: “Di Sánchez Gordillo ce n’è uno solo!”.
Scheda Wikipedia di Marinaleda
20140517
20140516
Marinaleda, la Cuba andalusa (1)
Tradotto per Internazionale nr. 1048. L'articolo originale.
Di François Musseau, Libération
Un leader rivoluzionario non ha orari. È venerdì sera, quasi mezzanotte, quando Juan Manuel Sánchez Gordillo, 64 anni, ci riceve a casa sua, un edificio basso in un quartiere piuttosto anonimo. Sulla porta di un minuscolo salotto senza lussi particolari, quest’uomo di bassa statura appare nel suo aspetto abituale: lunga barba da profeta, camicia rossa a quadri e kefiah palestinese. Ha i lineamenti tirati, la gola irritata e il respiro rumoroso, tutti effetti collaterali del suo sacerdozio sociale. Quasi fosse ispirato dal ritratto del Che Guevara appeso al muro, afferma con la sua voce acuta e nasale: “La situazione attuale mi dà ragione. Il capitalismo, questa idra dalle mille teste, divora le nostre vite in modo subdolo. È un sistema necrofilo. Dobbiamo resistergli. Questo è lo scopo della mia lotta”. Il suo sguardo è intenso e i piccoli occhi neri sono scintillanti. Trent’anni dopo la sua nascita, nel cuore dell’Andalusia rurale e povera, avevamo quasi dimenticato l’esperimento della ribelle e anarchica Marinaleda, la cittadina di 2.786 abitanti di cui Sánchez Gordillo è l’inossidabile e carismatico sindaco. Quando è stato eletto per la prima volta, nel 1999, aveva alle sue spalle già dodici anni di lotte per la terra. In questo villaggio di braccianti, che vive grazie all’occupazione di terre appartenenti all’aristocrazia e grida slogan rivoluzionari, la maggior parte degli abitanti riceve lo stesso salario, abita in case di proprietà collettiva e in occasione delle “domeniche rosse” si dedica ai lavori comunitari. Una sorta di Cuba in miniatura, nascosta tra Siviglia e Cordova, che ha in Sánchez Gordillo il suo líder máximo e che, dopo tanti anni, ha finito per assumere un’immagine quasi folcloristica, attirando scrittori, intellettuali, giornalisti e comunisti di tutto il mondo. Negli ultimi anni, però, la crisi economica e l’abilità politica di Sánchez Gordillo hanno dato una nuova popolarità a Marinaleda. In una regione dove la disoccupazione raggiunge il 36 per cento (il 62 per cento tra i giovani) e dove il 40 per cento degli abitanti vive appena sopra il limite della povertà (in totale tre milioni e mezzo di persone), l’attività del sindaco ha conquistato una nuova legittimità agli occhi dei cittadini,sempre più poveri. Nel 2007, nel pieno della crisi immobiliare che aveva colpito la Spagna, Sánchez Gordillo ha capito che il vento stava soffiando dalla sua parte. E ha deciso di cambiare il nome del suo storico sindacato da Soc (cioè Sindicato de Obreros del Campo) a Sat, dove la A sta per andaluz e la T per trabajadores, tutti i lavoratori. Oggi il Sat ha sostenitori anche nelle città, non più solo nelle campagne.
Espropri proletari
Con il tempo le iniziative del sindaco di Marinaleda si sono moltiplicate. Nel maggio del 2012 alcuni militanti del Sat hanno saccheggiato un supermercato di Écija (una cittadina a mezz’ora di macchina da Marinaleda) distribuendo il bottino tra le famiglie povere del posto. Tre mesi dopo ad Arcos de la Frontera (un’altra città andalusa) sono entrati in un supermercato Carrefour e hanno portato via diversi carrelli di beni alimentari di prima necessità. Sempre nel 2012, accompagnato da cinquecento simpatizzanti, il líder máximo di Marinaleda ha occupato 470 ettari di terra che stavano per essere messi all’asta dal governo autonomo dell’Andalusia a Somonte, nella provincia di Cordova. Nell’estate del 2012, poi, un gruppo di braccianti del Sat si è impadronito per una quindicina di giorni di un’area militare nei pressi di Osuna, non lontano da Siviglia: 1.200 ettari, di cui solo venti erano usati per l’allevamento di cavalli. L’azione gli è costata una denuncia per “reati contro la proprietà”, “danni materiali” e "insubordinazione”. Nel novembre del 2013 quattro leader del sindacato, tra cui Sánchez Gordillo, sono stati condannati a 275mila euro di multa e sette mesi di prigione. Contro la sentenza hanno presentato ricorso. Quando parla della condanna, il sindaco è un fiume in piena: “In passato quella proprietà l’avevamo già occupata una quindicina di volte. Per quanto riguarda le multe, ci siamo abituati: in trent’anni abbiamo accumulato un debito di circa un milione di euro. Ma la prigione è una novità. Questo significa una repressione più forte. Hanno paura perché si rendono conto che le nostre azioni sono condivise da una popolazione sempre più prostrata a causa della politica ultraliberista imposta da Bruxelles e dai mercati”. I suoi occhi si fanno ancora più neri: “Come si fa a condannare l’occupazione di terre non coltivate e abbandonate dai loro proprietari, quando questa serve a dare lavoro a migliaia di jornaleros (braccianti agricoli) che fanno fatica a sopravvivere? In una regione latifondista dove il 3 per cento della popolazione possiede il 50 per cento delle terre, da che parte sta la giustizia?”. A Somonte una trentina di giovani sembrano aver recepito il messaggio. Quasi due anni dopo l’ocupación del marzo del 2012 un gruppo di braccianti disoccupati, provenienti dai paesi vicini, ha occupato 400 ettari di terra, sottraendoli all’abbandono e seminando avena, orzo, fagioli e girasoli. Alla guida di un trattore c’è Juan Manuel Borrego, 38 anni, che pensa a un progetto a lungo termine: “Con la crisi migliaia di persone che lavoravano nell’edilizia sono tornate nei villaggi, senza formazione e senza risorse. Vogliono solo lavorare la terra, come i loro padri e i loro nonni. Quando non rimane nient’altro, si torna alla terra. È una questione di sopravvivenza. E questo lo dobbiamo al Sat e a Sánchez Gordillo”.
Continua dopodomani
Di François Musseau, Libération
Un leader rivoluzionario non ha orari. È venerdì sera, quasi mezzanotte, quando Juan Manuel Sánchez Gordillo, 64 anni, ci riceve a casa sua, un edificio basso in un quartiere piuttosto anonimo. Sulla porta di un minuscolo salotto senza lussi particolari, quest’uomo di bassa statura appare nel suo aspetto abituale: lunga barba da profeta, camicia rossa a quadri e kefiah palestinese. Ha i lineamenti tirati, la gola irritata e il respiro rumoroso, tutti effetti collaterali del suo sacerdozio sociale. Quasi fosse ispirato dal ritratto del Che Guevara appeso al muro, afferma con la sua voce acuta e nasale: “La situazione attuale mi dà ragione. Il capitalismo, questa idra dalle mille teste, divora le nostre vite in modo subdolo. È un sistema necrofilo. Dobbiamo resistergli. Questo è lo scopo della mia lotta”. Il suo sguardo è intenso e i piccoli occhi neri sono scintillanti. Trent’anni dopo la sua nascita, nel cuore dell’Andalusia rurale e povera, avevamo quasi dimenticato l’esperimento della ribelle e anarchica Marinaleda, la cittadina di 2.786 abitanti di cui Sánchez Gordillo è l’inossidabile e carismatico sindaco. Quando è stato eletto per la prima volta, nel 1999, aveva alle sue spalle già dodici anni di lotte per la terra. In questo villaggio di braccianti, che vive grazie all’occupazione di terre appartenenti all’aristocrazia e grida slogan rivoluzionari, la maggior parte degli abitanti riceve lo stesso salario, abita in case di proprietà collettiva e in occasione delle “domeniche rosse” si dedica ai lavori comunitari. Una sorta di Cuba in miniatura, nascosta tra Siviglia e Cordova, che ha in Sánchez Gordillo il suo líder máximo e che, dopo tanti anni, ha finito per assumere un’immagine quasi folcloristica, attirando scrittori, intellettuali, giornalisti e comunisti di tutto il mondo. Negli ultimi anni, però, la crisi economica e l’abilità politica di Sánchez Gordillo hanno dato una nuova popolarità a Marinaleda. In una regione dove la disoccupazione raggiunge il 36 per cento (il 62 per cento tra i giovani) e dove il 40 per cento degli abitanti vive appena sopra il limite della povertà (in totale tre milioni e mezzo di persone), l’attività del sindaco ha conquistato una nuova legittimità agli occhi dei cittadini,sempre più poveri. Nel 2007, nel pieno della crisi immobiliare che aveva colpito la Spagna, Sánchez Gordillo ha capito che il vento stava soffiando dalla sua parte. E ha deciso di cambiare il nome del suo storico sindacato da Soc (cioè Sindicato de Obreros del Campo) a Sat, dove la A sta per andaluz e la T per trabajadores, tutti i lavoratori. Oggi il Sat ha sostenitori anche nelle città, non più solo nelle campagne.
Espropri proletari
Con il tempo le iniziative del sindaco di Marinaleda si sono moltiplicate. Nel maggio del 2012 alcuni militanti del Sat hanno saccheggiato un supermercato di Écija (una cittadina a mezz’ora di macchina da Marinaleda) distribuendo il bottino tra le famiglie povere del posto. Tre mesi dopo ad Arcos de la Frontera (un’altra città andalusa) sono entrati in un supermercato Carrefour e hanno portato via diversi carrelli di beni alimentari di prima necessità. Sempre nel 2012, accompagnato da cinquecento simpatizzanti, il líder máximo di Marinaleda ha occupato 470 ettari di terra che stavano per essere messi all’asta dal governo autonomo dell’Andalusia a Somonte, nella provincia di Cordova. Nell’estate del 2012, poi, un gruppo di braccianti del Sat si è impadronito per una quindicina di giorni di un’area militare nei pressi di Osuna, non lontano da Siviglia: 1.200 ettari, di cui solo venti erano usati per l’allevamento di cavalli. L’azione gli è costata una denuncia per “reati contro la proprietà”, “danni materiali” e "insubordinazione”. Nel novembre del 2013 quattro leader del sindacato, tra cui Sánchez Gordillo, sono stati condannati a 275mila euro di multa e sette mesi di prigione. Contro la sentenza hanno presentato ricorso. Quando parla della condanna, il sindaco è un fiume in piena: “In passato quella proprietà l’avevamo già occupata una quindicina di volte. Per quanto riguarda le multe, ci siamo abituati: in trent’anni abbiamo accumulato un debito di circa un milione di euro. Ma la prigione è una novità. Questo significa una repressione più forte. Hanno paura perché si rendono conto che le nostre azioni sono condivise da una popolazione sempre più prostrata a causa della politica ultraliberista imposta da Bruxelles e dai mercati”. I suoi occhi si fanno ancora più neri: “Come si fa a condannare l’occupazione di terre non coltivate e abbandonate dai loro proprietari, quando questa serve a dare lavoro a migliaia di jornaleros (braccianti agricoli) che fanno fatica a sopravvivere? In una regione latifondista dove il 3 per cento della popolazione possiede il 50 per cento delle terre, da che parte sta la giustizia?”. A Somonte una trentina di giovani sembrano aver recepito il messaggio. Quasi due anni dopo l’ocupación del marzo del 2012 un gruppo di braccianti disoccupati, provenienti dai paesi vicini, ha occupato 400 ettari di terra, sottraendoli all’abbandono e seminando avena, orzo, fagioli e girasoli. Alla guida di un trattore c’è Juan Manuel Borrego, 38 anni, che pensa a un progetto a lungo termine: “Con la crisi migliaia di persone che lavoravano nell’edilizia sono tornate nei villaggi, senza formazione e senza risorse. Vogliono solo lavorare la terra, come i loro padri e i loro nonni. Quando non rimane nient’altro, si torna alla terra. È una questione di sopravvivenza. E questo lo dobbiamo al Sat e a Sánchez Gordillo”.
Continua dopodomani
20140515
coach
New Girl - di Elizabeth Meriwether - Stagione 3 (23 episodi; Fox) - 2013/2014
Dopo il disastroso tentativo di matrimonio di Cece, Jess e Nick sono andati in Messico per stare un po' loro due da soli. Schmidt è ancora indeciso tra Cece ed Elizabeth, mentre Winston ha il problema di essere Winston.
New Girl stagione 3 è appena terminata. Se da una parte, le comedy, anche se provano a far compiere un cammino "evolutivo" ai propri personaggi, stancano comunque, a meno non ci siano sempre e comunque folgoranti battute, dall'altra New Girl tiene botta perché è, spesso, demenziale fino all'eccesso senza sembrarlo.
Alcuni esempi: episodi come Keaton (3x06), in cui Schmidt scopre che la sua amicizia con Michael Keaton, andata avanti per anni via email, non esiste, oppure Basketsball (3x12), solo per la spiegazione del titolo dell'episodio e della sua esse di troppo, fanno capire che vale la pena di investire 20 minuti alla settimana in una serie che fa ridere senza troppe volgarità, e con un umorismo ancora da definire.
In questa stagione, Damon Wayans Jr. torna a far parte del cast nei panni di Coach; se n'era andato dopo il primo episodio della prima stagione.
In autunno la quarta stagione.
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