Dialogo con Pechino
Come racconta Walter Pernas in Comandante Facundo, quand’era in carcere l’attuale presidente dell’Uruguay ha mangiato carta igienica e sapone, oltre alle mosche attirate nella sua cella dall’odore degli escrementi. Ha bevuto la sua urina e ha dormito per anni su pavimenti di cemento in balia del freddo intollerabile e del caldo soffocante. Ha passato settimane o mesi senza vedere la luce del sole, ha parlato per anni solo con i topi e gli insetti che convivevano con lui o andavano a fargli visita in cella. In carcere ha perso la nozione dello spazio e del tempo, ha delirato, è dimagrito fino a poter contare tutte le sue ossa. A causa delle botte, delle ferite e della denutrizione ha sofferto di problemi ai reni e allo stomaco. Walter Pernas racconta che Mujica non riusciva a stare dritto quando camminava e che, nei momenti di maggior sofferenza fisica e psicologica, i militari portavano i loro figli in carcere per fargli vedere “la bestia” e insultarla. Lo spostavano da una prigione all’altra come un sacco di merce putrida, spingendolo senza tanti complimenti sul retro di un camion militare e facendolo scendere a calci. I carcerieri, che erano a conoscenza della sua diarrea cronica e dei suoi problemi urinari, ignoravano le suppliche di Mujica per farsi portare al gabinetto. Ma dopo anni, grazie alla sua tenacia e a quella della madre, era riuscito a ottenere il permesso per avere un orinale da cui non si separava mai e che, con il tempo, era diventato il simbolo di una vittoria morale sui suoi carcerieri. Quattro giorni dopo essere stato liberato, nel 1985, Mujica ha pronunciato un discorso in cui non c’era alcuna traccia di risentimento. La natura, ripete spesso, ci ha messo gli occhi davanti perché è in quella direzione che dobbiamo guardare. “Fuori, Manuela!”, grida di nuovo al cane con tre zampe. Manuela si fa da parte e noi entriamo in casa, dove c’è odore di umidità. “L’Uruguay sta diventando un paese tropicale”, afferma Mujica. “Non capisco come si faccia ancora a negare il cambiamento climatico”. Ci sediamo nel salotto vicino all’ingresso, che è anche la stanza da cui si accede al resto della casa (una camera, un bagno e una cucina: in tutto saranno quaranta, al massimo quarantacinque metri quadrati) e mi rendo conto con un brivido che Mujica si aspetta un’intervista tradizionale. Così, mi metto al lavoro. Alla prima domanda, il presidente risponde
che oggi chi governa non comanda niente. “E allora chi comanda?”, chiedo.“I grandi poteri finanziari. Non è più il cane a muovere la coda, ma la coda a muovere il cane”. “Parla di queste cose con i capi di stato o con i presidenti che incontra?”. “Sì”. “E loro cosa ne pensano?”. “Mi danno ragione, ma guardano dall’altra parte. S’illudono ancora di essere come i presidenti di una volta e non osano affrontare il nemico più forte. Fanno finta di niente, ma la verità è che siamo tutti dei fantocci”. “Come ha fatto a governare per cinque anni consapevole di questi limiti?”. “Questo è un piccolo paese molto speciale: più del 50 per cento dei movimenti bancari è nelle mani dello stato. Noi uruguaiani siamo cresciuti così: quando abbiamo un soldo andiamo a depositarlo al Banco de la República, che è la banca statale. Non perché ci trattino bene, anzi, manca solo che ci prendano a botte, ma noi ci fidiamo di quella banca. Le banche private sono deboli”. “Tutti i settori strategici dell’Uruguay sono nazionalizzati”. “È vero, ma non dia la colpa a me. Quando sono nato era già tutto così: è il risultato della storia”. Osservo Mujica e mi sembra uno che va e viene dentro di sé, come se avesse un retrobottega nella testa. Mi chiedo che tipo d’interesse possono suscitargli questi due spagnoli e se le sue risposte sono meccaniche quanto le mie domande. Mi spiega che l’Uruguay è un paese ricco che si è impoverito e si è lasciato andare intorno agli anni sessanta, dopo la vittoria contro il Brasile ai Mondiali del 1950, nello stadio Maracanã di Rio de Janeiro. “Cinquant’anni di nostalgia”, afferma Mujica. Poi continua: c’è troppa burocrazia, hanno sistemato davvero chiunque nell’apparato statale, c’era un teatro – il Solís – con un dipendente addetto ad alzare il sipario e un altro ad abbassarlo. La burocrazia statale è ancora un problema: i sindacati dei dipendenti pubblici, che sono potenti, gli hanno dato del filo da torcere. Serve pazienza, bisogna continuare a lottare e a seminare. Lui ha riflettuto molto, perché in prigione ha avuto tempo per pensare e ha capito che i cambiamenti avvengono lentamente. Fino a venti o trent’anni fa si poteva ancora discutere di guerre giuste e guerre ingiuste, e quelle giuste erano guerre di liberazione nazionale o di liberazione dei paesi oppressi, ma oggi è evidente che tutte le guerre servono solo a far soffrire i più deboli. Esistono problemi che nessun paese può risolvere da solo, e le strade sono due: o governiamo la globalizzazione o la globalizzazione ci governerà. La democrazia e il socialismo sono compatibili, a condizione che una non annienti l’altro. La cosa più importante che ha fatto da quando è presidente, sostiene Mujica, è lottare contro la povertà e l’indigenza, creando un clima di stabilità politica e di fiducia che ha attirato gli investimenti stranieri. Mujica ci chiede se vogliamo un whisky e poi spiega che l’unica strada è tornare all’economia produttiva, in cui l’Uruguay è forte perché ha un’ottima produzione di latticini, di carne e dei principali cereali. Il paese produce grano, soia e riso, esporta carne di manzo e pesce (in Uruguay se ne mangia pochissimo), ha un mare bellissimo, ma gli uruguaiani hanno vissuto dandogli le spalle pur essendo discendenti degli spagnoli. Mujica dice che parla molto con i cinesi, sono loro i principali clienti del paese, comprano tutta la soia e sono sempre più presenti: nelle campagne elettorali le bandierine sono tutte prodotte in Cina. Il problema dell’Europa è che l’economia produttiva è stata trascurata a favore della finanza: è questa la coda che muove il cane. Prima di arrivare, l’addetto stampa ci aveva avvisato che avevamo a disposizione un’ora e mezzo al massimo e anche a Jordi Socías serve un po’ di tempo per le foto. Con un gesto d’impotenza, spengo il registratore e dico a Mujica, al presidente dell’Uruguay, a Pepe, come lo chiamano gli uruguaiani: “Sa, il fatto è che non sono bravo con le interviste. So raccontare quello che mi succede. Se mi permettesse di fare colazione con lei domani e di accompagnarla al lavoro per vedere come si muove e quello che fa, sarebbe diverso”. Cala un po’ d’imbarazzo: Mujica e il suo addetto stampa non capiscono perché dall’altro capo del mondo abbiano spedito un giornalista che non sa fare un’intervista. A quel punto interviene Jordi Socías: “Millás vuole solo dire che è bravo a raccontare le storie”.
“Intanto beviamo qualcosa”, taglia corto il presidente. In cucina Mujica versa del whisky e Socías si mette al lavoro. Non ho la sensazione di essere in compagnia di un presidente o di un politico importante e mi torna in mente che quest’uomo devolve l’87 per cento del suo stipendio a un progetto di case per i poveri. Gli chiedo se gli resta abbastanza per vivere e lui risponde di sì: dopo aver contribuito alle spese del partito, a lui e alla moglie restano quarantamila pesos (duemila euro). Sua moglie è Lucía Topolansky, senatrice ed ex guerrigliera tupamara, anche lei detenuta durante la dittatura. Si erano conosciuti due mesi prima di essere arrestati e quando sono usciti, tredici anni dopo, sono andati a vivere insieme. Si sono sposati nel 2005 per avere tutti i documenti in regola, perché ormai hanno una certa età e non si può mai sapere. Li ha sposati un giudice proprio in questa cucina, da gente povera, ma molto pulita, “perché il vantaggio di avere una casa così piccola”, spiega Mujica, “è che tra me e mia moglie spazziamo e riordiniamo tutto in un lampo”. Di lampi ce ne sono anche fuori, e parecchi. Il Presidente della repubblica cede comunque alle preghiere del fotografo ed esce per farsi scattare qualche foto, perché dentro casa non c’è abbastanza luce. Per fortuna ha smesso di piovere. Quando rientra, Mujica ride di continuo, come se gli sembrassimo un po’ buffi. A un certo punto mi guarda e poi ci invita il giorno dopo a visitare la Torre Ejecutiva, in Plaza Independencia, dove si trova il suo ufficio. Accettiamo e gli assicuriamo che arriveremo puntuali alle undici. Poi Mujica sprofonda nel suo retrobottega e quando riappare ci chiede di accompagnarlo, il sabato seguente, ad Anchorena, la residenza estiva dei presidenti dell’Uruguay.
continua domani
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