continua da domenica 27 luglio
Le vecchie scafalature sui marciapiedi furono sostituite, all’inizio degli anni duemila, da reietti ancor più patetici: le torrette porta cd e, di tanto in tanto, i portariviste. Cassette e videocassette non hanno mai davvero aspirato a un sistema di archiviazione (se non, va detto, nel nostro regno della follia scaffalatoria, dove ci eravamo fatti costruire un’intera parete di ripiani per le videocassette, che nel frattempo sono stati destinati ai cd e adesso languono moribondi). Ma il cd fu adottato con sufficiente fervore e presentava un formato abbastanza diverso da richiedere una gamma tutta nuova di luoghi in cui riporlo. Ora questi giacciono lungo le strade inclinati da un lato, come patetici menhir in legno tinteggiato, a segnare gli antichi luoghi di culto del suono registrato, mentre sopra di loro sfreccia la grande, crepitante, enfatica nuvola digitale. A ben vedere, su quei marciapiedi dovrebbe giacere anche una discreta quantità di librerie, ma se ne vedono così poche che il loro tasso di mortalità dev’essere minore. In parte sarà per via di quant’è radicato, socialmente e culturalmente, il libro: mezzo millennio contro i miseri vent’anni del cd. In parte c’entrano considerazioni di ordine architettonico: le librerie sono spesso incorporate nella struttura della casa, sono più grandi e ucciderle richiede più impegno. Ma esistono anche gli aspetti sensoriali, tattili del libro: per le persone che leggono, il libro è qualcosa a cui sono legate da un tempo molto consistente delle loro vite, e separarsene rappresenta uno strappo. Per me lo è stato, direi cinque anni fa, quando mia moglie ha decretato che in casa nostra la soglia limite di ripiani era stata raggiunta e ha dato il via a un pogrom dei libri. Prima sono stati smaltiti solo i doppioni e i volumi veramente sfasciati, ma presto anche libri in perfette condizioni sono stati consegnati all’oblio del negozietto di beneficenza del quartiere. Dopo essermi opposto con veemenza alle purghe, una volta intraprese sono diventato un complice, se non volontario, perlomeno a livello pratico. Sospetto di essere come parecchie delle persone che stanno leggendo questo pezzo: l’avvento della lettura digitale ha coinciso con le mie personalissime e molto analogiche avvisaglie di mortalità. Da un lato c’era la sovrabbondanza di libri acquistabili online, dall’altro il gelido timore – guardando intorno a me volumi riposti almeno dieci anni prima e che ogni anno mi ripromettevo, un giorno, di leggere – di possedere già abbastanza libri cartacei per sopravvivermi tre, quattro, perfino cinquecento anni e più. Quanto al pensiero degli eredi, che per una vita mi ha spinto a trascinarmi vecchie copie di L’uomo a una dimensione e di Coppie da un’abitazione all’altra, quasi fossero una mia misera versione di una biblioteca presidenziale, be’, i miei quattro figli sono tutti deliziosi, ma nessuno di loro è quel che definirei un lettore avido. Io un lettore avido lo sono ancora, ma nonostante questo, con il diffondersi dei mezzi di comunicazione digitali, letterariamente ho cominciato a spizzicare, più che a fare pasti completi. I libri li leggo ancora, ma la mia tendenza a leggere più testi contemporaneamente, che già molto marcata prima della comparsa degli ebook, è ora divenuta quasi patologica: leggo letteralmente cento libri alla volta. Tra le due applicazioni per ebook che ho sul telefono (sì, sul telefono, e davvero la cosa non mi dà fastidio), mi rendo conto ora di preferire il Kindle, perché non prevede la rappresentazione scheumorfica di una libreria. Quando clicchi su un libro nell’applicazione iBooks, il “volume” balza verso di te dal suo “ripiano”, dando l’impressione di aprirsi a mezz’aria per offrirti il testo. Ogni volta che succede mi viene un brivido: mi sembra di sentire i librai disoccupati e inferociti che camminano sulla mia tomba. Rabbrividisco anche quando, guardando gli straripanti ripiani che mi circondano nella stanza dove scrivo, sento di aver ultimato la mia trasformazione in un’Alice che precipita al loro fianco abbastanza lentamente da riuscirne ad afferrarne uno, cosa che in definitiva ha poco senso perché sto cadendo. Sto morendo, e le mensole stanno morendo con me. Come ho detto, non dubito che quelle incrostate di mosaici e con i fanciulli danzanti continueranno a essere montate: in una mostra di quest’anno alla Serpentine Gallery di Londra se ne sono viste di molto simili. Ma la mensola come onnipotente piattaforma culturale appartiene al passato: la biblioteca digitale incombe, e qualsiasi cosa dicano i nostalgici, i conservatori e i luddisti reazionari, non c’è modo di riportare indietro un orologio che non ha nemmeno le lancette. Ma io piango la scomparsa della mensola, perché penso che la disposizione spaziale ed estetizzata dell’informativo sia un analogo fisico del canone stesso. Alzare un braccio e tirare giù un volume da un ripiano equivale a vedere, odorare e toccare la forma della conoscenza collettiva, una forma di apprendimento che non ha uguali nel regno del virtuale. Il grande favoliere argentino Jorge Luis Borges aveva previsto la digitalizzazione di tutta la conoscenza nel suo racconto La biblioteca di Babele, in cui immagina un universo che è in se stesso una sconfinata biblioteca. Borges è particolarmente specifico sulla componente fisica della biblioteca. La serie infinita di gallerie esagonali viene descritta così: “Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno; la loro altezza, che è quella stessa di ciascun piano, non supera di molto quella d’una biblioteca normale”. Quanto agli scaffali stessi: “Ci sono cinque scaffali per ognuna delle pareti dell’esagono; lo scaffale contiene trentacinque libri di formato uniforme; ogni libro è composto di 410 pagine, ogni pagina, di quaranta righe, ogni riga di ben ottanta lettere che sono di colore nero. Sul dorso di ogni libro vi sono anche delle lettere; queste lettere non indicano né prefigurano ciò che le pagine diranno”. Questa è informazione slegata da qualsiasi cosa non sia l’estetica più funzionalista, e organizzata senza alcun criterio architettonico se non quello del chip di silicio. Neanche a dirlo, il contenuto di questi infiniti volumi è casuale: alcuni hanno senso, ma la maggior parte sono parole in libertà. E naturalmente su questa sovraffollata moltitudine di scaffali non ci sono altro che informazioni. Niente borsine portatabacco, niente scheletri di metallo e nessuna cartolina appoggiata precariamente. Esiste questa consolazione, per chi di noi sta morendo insieme alle mensole: troveremo un’apoteosi all’altezza quando l’urna contenente le nostre ceneri sarà inserita con cura in uno dei ripiani del colombario.
fine
No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.
20140731
20140730
voci
Voices - Phantogram (2014)
Piacevolissima scoperta (con ritardo, visto che sono al secondo disco e io non ne avevo mai sentito parlare finché non ho letto la recensione di Voices di Nathan Stevens su Pop Matters), i Phantogram sono un duo proveniente da Greenwich, New York, formatosi nel 2007 da due amici, Sarah Bartel e Josh Carter. Primo disco nel 2009, Eyelid Movies, quattro EPs e svariati singoli, utilizzati in film e serie tv (ho scoperto che uno dei miei pezzi preferiti dell'album, Black Out Days, l'avevo già sentito in due serie tv, Shameless US e The Originals), il duo è una sorta di Yeah Yeah Yeahs (Sarah ricorda molto Karen, nella pettinatura soprattutto, ma è molto meno "strana") molto più elettronici e meno rock, con una voce femminile molto molto bella (mi ricorda addirittura quella di Nina Persson in My Only Friend, se non a livello di timbro, quantomeno a livello di teatralità e modulazione) - ascoltatela in Celebrating Nothing, chitarrine alt rock, suoni elettronici eighties ma 2.0, un pizzico perfino di Peter Gabriel (Never Going Home, uno dei pochi pezzi dove canta Josh, che però comincia con l'arpeggio di Nothing Else Matters dei Metallica), e poi trip-hop non troppo cupo ma comunque velato di dark. Belle canzoni, alcune davvero molto belle, tipo appunto Black Out Days o The Day You Died. Potrebbero sorprendervi piacevolmente.
Phantogram have been a pleasant surprise for me, even if they are on their second album. A mixture of eighties electronic and dark, alt rock, a beautiful female voice, the tendency to drift trip-hop well controlled, vibrant and beautiful songs, sometimes bathed in a measured but poignant drama.
Piacevolissima scoperta (con ritardo, visto che sono al secondo disco e io non ne avevo mai sentito parlare finché non ho letto la recensione di Voices di Nathan Stevens su Pop Matters), i Phantogram sono un duo proveniente da Greenwich, New York, formatosi nel 2007 da due amici, Sarah Bartel e Josh Carter. Primo disco nel 2009, Eyelid Movies, quattro EPs e svariati singoli, utilizzati in film e serie tv (ho scoperto che uno dei miei pezzi preferiti dell'album, Black Out Days, l'avevo già sentito in due serie tv, Shameless US e The Originals), il duo è una sorta di Yeah Yeah Yeahs (Sarah ricorda molto Karen, nella pettinatura soprattutto, ma è molto meno "strana") molto più elettronici e meno rock, con una voce femminile molto molto bella (mi ricorda addirittura quella di Nina Persson in My Only Friend, se non a livello di timbro, quantomeno a livello di teatralità e modulazione) - ascoltatela in Celebrating Nothing, chitarrine alt rock, suoni elettronici eighties ma 2.0, un pizzico perfino di Peter Gabriel (Never Going Home, uno dei pochi pezzi dove canta Josh, che però comincia con l'arpeggio di Nothing Else Matters dei Metallica), e poi trip-hop non troppo cupo ma comunque velato di dark. Belle canzoni, alcune davvero molto belle, tipo appunto Black Out Days o The Day You Died. Potrebbero sorprendervi piacevolmente.
Phantogram have been a pleasant surprise for me, even if they are on their second album. A mixture of eighties electronic and dark, alt rock, a beautiful female voice, the tendency to drift trip-hop well controlled, vibrant and beautiful songs, sometimes bathed in a measured but poignant drama.
20140729
magica sporcizia
Magical Dirt - Radio Moscow (2014)
Una jam session rock blues lunga un quarantun minuti, potremmo dire. Ancora una volta. Rispetto al precedente The Great Escape of Leslie Magnafuzz, niente da aggiungere, se non che nel 2012 è uscito 3 & 3 Quarters, una raccolta di demo registrati nel 2003 dal solo Parker Griggs, che come vi raccontavo la volta scorsa (parlando di Magnafuzz), aveva appunto fondato la band da solo, essendo polistrumentista. Altro disco delizioso questo Magical Dirt, con una sequela interamente da gustare di pezzi dal sapore seventies, tirati e perfettamente eseguiti. Magari sbaglierò, ma mi vengono sempre in mente i Grand Funk Railroad quando sento i Radio Moscow. Spiace un po' ripetere gli stessi concetti espressi nella precedente recensione, ma il punto è sempre quello: disco che se fosse uscito quarant'anni fa sarebbe stato ugualmente valido, oggi si ascolta con piacere, ma non aggiunge niente di nuovo a quel che già sappiamo. Pezzo favorito Gypsy Fast Woman (che, naturalmente, sa tanto di Black Sabbath).
Collection of inescapable songs of the seventies flavor, Magical Dirt confirms Radio Moscow as a niche for nostalgics. Musically and technically flawless. Gypsy Fast Woman is a wonderful song.
Una jam session rock blues lunga un quarantun minuti, potremmo dire. Ancora una volta. Rispetto al precedente The Great Escape of Leslie Magnafuzz, niente da aggiungere, se non che nel 2012 è uscito 3 & 3 Quarters, una raccolta di demo registrati nel 2003 dal solo Parker Griggs, che come vi raccontavo la volta scorsa (parlando di Magnafuzz), aveva appunto fondato la band da solo, essendo polistrumentista. Altro disco delizioso questo Magical Dirt, con una sequela interamente da gustare di pezzi dal sapore seventies, tirati e perfettamente eseguiti. Magari sbaglierò, ma mi vengono sempre in mente i Grand Funk Railroad quando sento i Radio Moscow. Spiace un po' ripetere gli stessi concetti espressi nella precedente recensione, ma il punto è sempre quello: disco che se fosse uscito quarant'anni fa sarebbe stato ugualmente valido, oggi si ascolta con piacere, ma non aggiunge niente di nuovo a quel che già sappiamo. Pezzo favorito Gypsy Fast Woman (che, naturalmente, sa tanto di Black Sabbath).
Collection of inescapable songs of the seventies flavor, Magical Dirt confirms Radio Moscow as a niche for nostalgics. Musically and technically flawless. Gypsy Fast Woman is a wonderful song.
20140728
Two Swords
Game of Thrones - di David Benioff & D.B. Weiss - Stagione 4 (10 episodi; HBO) - 2014
A King's Landing, Tywin Lannister fa fondere Ghiaccio, la spada appartenuta a Ned Stark, e ne fa due spade; una la consegna al figlio Jaime, nuovo Lord Comandante della Guardia Reale, che spera di imparare ad usare la spada con la mano che gli rimane. Tywin, che come ormai saprete non guarda in faccia a nessuno, insiste che Jaime deve lasciare la Guardia Reale e recarsi a Castel Granito, sposarsi e governare al posto di Tywin, che deve rimanere per guidare il regno, neppure troppo dietro le quinte. Jaime rifiuta, mentre nel frattempo Tyrion sta attendendo l'arrivo del corteo dei Martell, in occasione del matrimonio di Joffrey. Anziché il principe Dorian, arriva al suo posto il fratello Oberyn, detto anche la Vipera rossa. Personaggio affascinante, attratto dal sesso in tutte le sue sfaccettature quanto dall'arte del combattimento, dimostra una strana simpatia per Tyrion, a differenza dell'odio che tende a rimarcare verso l'intera stirpe Lannister. Dichiara apertamente a Tyrion che è lì per vendicare la morte della sorella Elia, e dei due suoi figli, tutti uccisi durante lo spodestamento di Aerys il re pazzo da parte di Robert Baratheon, Ned Stark ed il sostegno dei Lannister. In particolare, Oberyn è convinto che l'ordine di uccidere la sorella e i figli sia partito da Tywin, ma fu eseguito da The Mountain, Gregor Clegane: è lui che Oberyn vuole uccidere. Tyrion è anche alle prese con la sua personale crisi di coscienza (dettata verosimilmente dal senso di colpa per il massacro perpetrato ai danni della di lei famiglia, ed orchestrato dal di lui padre) verso la moglie Sansa, ed il suo sempre più evidente distacco dall'amata Shae; così come Jaime è alle prese, oltre che con i suoi tormenti personali (la promessa di restituire vive le figlie a Catelyn Stark), al rifiuto da parte di Cersei, e la sua crescente simpatia nei confronti di Brienne.
Lady Olenna Tyrell è preoccupata dell'imminente matrimonio tra la nipote Margaery è re Joffrey, che si diverte a torturare psicologicamente anche Jaime, ignorando che ne è figlio, mentre Sansa viene avvicinata da Dontos, che le promette che l'aiuterà a fuggire.
Nel Nord, i bruti attendono ordini da Mance (e Ygritte anela il momento in cui ucciderà Jon Snow il traditore amato), mentre Jon Snow al Castello Nero si deve difendere dalle accuse, fondate del resto, di aver tradito il giuramento, mossegli da Alliser Thorne, Janos Slynt e Maestro Aemon. Quest'ultimo però lo salva, anche se la tensione resta alta, ma Jon acquista popolarità e solidarietà dal resto dei Guardiani.
Di là dal Mare Stretto, Daenerys ed il suo esercito marcia verso Meereen, ultima città da liberare. Mentre Daario ci prova sempre più intensamente con lei, tutti loro sono attesi da una terribile sorpresa sulla strada per Meereen.
Nella Terra dei Fiumi, il Mastino e Arya continuano il loro pellegrinaggio; il Mastino le dichiara che vuole arrivare dalla di lei zia Lysa a Nido dell'Aquila, offrigliela ed ottenere così un riscatto. Ma sulla loro strada, in una locanda, incrociano alcuni soldati Lannister, tra i quali c'è Polliver, l'uomo che ha ucciso Lommy e rubato Ago ad Arya. Si scatena una lotta all'ultimo sangue, durante la quale Arya conferma che ormai la sua innocenza è andata.
Vi dirò la verità, e un po' me l'aspettavo. Il fatto che ormai ci siamo tutti abituati alla grandiosità di Game of Thrones, unita (da parte mia) all'aver letto già la storia nei libri della saga, ha fatto si che questa quarta stagione della serie televisiva ormai più famosa al mondo, non mi abbia impressionato più di tanto. Metteteci pure dentro la cosa che volente o nolente, sono sempre in cerca di novità, ed il gioco è fatto. Ma qui entra in gioco la vecchia filosofia per cui dai primi della classe ci si aspetta sempre il massimo.
Game of Thrones, come detto, è ormai storia della televisione, ma rimane ancora oggi una delle più alte espressioni di quella che ormai si può a tutti gli effetti considerare un arte (ottava, nona, fate voi, se il cinema è la settima...). La media degli spettatori statunitensi che hanno guardato le prime visioni dei nuovi episodi di questa stagione ha spesso superato i sette milioni, e se pensate che quella della prima stagione era sotto i tre milioni (a parte il season finale), se pensate che ad ogni latitudine voi andiate è difficile incontrare chi non sa niente di Game of Thrones, vi dirà si che la stessa serie è ormai da considerare mainstream, ma tutti voi sapete anche che tutto questo seguito qualcosa vorrà dire.
Ad ogni modo, nonostante la sensazione di déjà vu che mi ha accompagnato per questa stagione, e tutti i fatti citati prima, c'è da dire che anche questa ha riservato episodi degni da ricordare, con, ancora una volta, grandi messe in scena.
Ancora una volta, grandioso GoT. Adesso sotto con Areo Hotah!
A King's Landing, Tywin Lannister fa fondere Ghiaccio, la spada appartenuta a Ned Stark, e ne fa due spade; una la consegna al figlio Jaime, nuovo Lord Comandante della Guardia Reale, che spera di imparare ad usare la spada con la mano che gli rimane. Tywin, che come ormai saprete non guarda in faccia a nessuno, insiste che Jaime deve lasciare la Guardia Reale e recarsi a Castel Granito, sposarsi e governare al posto di Tywin, che deve rimanere per guidare il regno, neppure troppo dietro le quinte. Jaime rifiuta, mentre nel frattempo Tyrion sta attendendo l'arrivo del corteo dei Martell, in occasione del matrimonio di Joffrey. Anziché il principe Dorian, arriva al suo posto il fratello Oberyn, detto anche la Vipera rossa. Personaggio affascinante, attratto dal sesso in tutte le sue sfaccettature quanto dall'arte del combattimento, dimostra una strana simpatia per Tyrion, a differenza dell'odio che tende a rimarcare verso l'intera stirpe Lannister. Dichiara apertamente a Tyrion che è lì per vendicare la morte della sorella Elia, e dei due suoi figli, tutti uccisi durante lo spodestamento di Aerys il re pazzo da parte di Robert Baratheon, Ned Stark ed il sostegno dei Lannister. In particolare, Oberyn è convinto che l'ordine di uccidere la sorella e i figli sia partito da Tywin, ma fu eseguito da The Mountain, Gregor Clegane: è lui che Oberyn vuole uccidere. Tyrion è anche alle prese con la sua personale crisi di coscienza (dettata verosimilmente dal senso di colpa per il massacro perpetrato ai danni della di lei famiglia, ed orchestrato dal di lui padre) verso la moglie Sansa, ed il suo sempre più evidente distacco dall'amata Shae; così come Jaime è alle prese, oltre che con i suoi tormenti personali (la promessa di restituire vive le figlie a Catelyn Stark), al rifiuto da parte di Cersei, e la sua crescente simpatia nei confronti di Brienne.
Lady Olenna Tyrell è preoccupata dell'imminente matrimonio tra la nipote Margaery è re Joffrey, che si diverte a torturare psicologicamente anche Jaime, ignorando che ne è figlio, mentre Sansa viene avvicinata da Dontos, che le promette che l'aiuterà a fuggire.
Nel Nord, i bruti attendono ordini da Mance (e Ygritte anela il momento in cui ucciderà Jon Snow il traditore amato), mentre Jon Snow al Castello Nero si deve difendere dalle accuse, fondate del resto, di aver tradito il giuramento, mossegli da Alliser Thorne, Janos Slynt e Maestro Aemon. Quest'ultimo però lo salva, anche se la tensione resta alta, ma Jon acquista popolarità e solidarietà dal resto dei Guardiani.
Di là dal Mare Stretto, Daenerys ed il suo esercito marcia verso Meereen, ultima città da liberare. Mentre Daario ci prova sempre più intensamente con lei, tutti loro sono attesi da una terribile sorpresa sulla strada per Meereen.
Nella Terra dei Fiumi, il Mastino e Arya continuano il loro pellegrinaggio; il Mastino le dichiara che vuole arrivare dalla di lei zia Lysa a Nido dell'Aquila, offrigliela ed ottenere così un riscatto. Ma sulla loro strada, in una locanda, incrociano alcuni soldati Lannister, tra i quali c'è Polliver, l'uomo che ha ucciso Lommy e rubato Ago ad Arya. Si scatena una lotta all'ultimo sangue, durante la quale Arya conferma che ormai la sua innocenza è andata.
Vi dirò la verità, e un po' me l'aspettavo. Il fatto che ormai ci siamo tutti abituati alla grandiosità di Game of Thrones, unita (da parte mia) all'aver letto già la storia nei libri della saga, ha fatto si che questa quarta stagione della serie televisiva ormai più famosa al mondo, non mi abbia impressionato più di tanto. Metteteci pure dentro la cosa che volente o nolente, sono sempre in cerca di novità, ed il gioco è fatto. Ma qui entra in gioco la vecchia filosofia per cui dai primi della classe ci si aspetta sempre il massimo.
Game of Thrones, come detto, è ormai storia della televisione, ma rimane ancora oggi una delle più alte espressioni di quella che ormai si può a tutti gli effetti considerare un arte (ottava, nona, fate voi, se il cinema è la settima...). La media degli spettatori statunitensi che hanno guardato le prime visioni dei nuovi episodi di questa stagione ha spesso superato i sette milioni, e se pensate che quella della prima stagione era sotto i tre milioni (a parte il season finale), se pensate che ad ogni latitudine voi andiate è difficile incontrare chi non sa niente di Game of Thrones, vi dirà si che la stessa serie è ormai da considerare mainstream, ma tutti voi sapete anche che tutto questo seguito qualcosa vorrà dire.
Ad ogni modo, nonostante la sensazione di déjà vu che mi ha accompagnato per questa stagione, e tutti i fatti citati prima, c'è da dire che anche questa ha riservato episodi degni da ricordare, con, ancora una volta, grandi messe in scena.
Ancora una volta, grandioso GoT. Adesso sotto con Areo Hotah!
20140727
The Death of the Shelf (2)
continua da giovedì 24 luglio
La comparsa del grammofono, con i suoi pesanti dischi in gommalacca che vanno riposti da qualche parte; l’avvento, poco tempo dopo, del radiogrammofono come specifico elemento d’arredo; il diffondersi della stampa a colori e del disco long playing dopo la seconda guerra mondiale: a metà del novecento, la piena integrazione dell’elemento decorativo con quello informativo all’interno della casa e la piena espressione di questa simbiosi corrispondono alla scaffalatura multifunzionale. Si tratta di una combinazione di superfici piane scoperte, scaffali, contenitori e nicchie in grado di ospitare qualsiasi cosa, dalle piante alla tv, con qualche libro – possibilmente una serie di enciclopedie rilegate in pelle – a fornire una ponderosa e più tradizionale zavorra. Sono queste scaffalature a dominare le stanze in cui si ricevono gli ospiti per i successivi quarant’anni. A volte sono fitte, modulari e dotate di sportelli in vetro, incuneate negli angoli e inchiodate ai muri – come le moquette ai pavimenti – in modo da coprirli completamente. Altre diventano lievi e inconsistenti, con i contenuti apparentemente sospesi nell’aria. E quando la mensola ha cominciato, per così dire, ad ammalarsi, sono stati proprio questi pezzi ad apparire per primi sui marciapiedi davanti alle case e a interi isolati del mio quartiere: patetici reietti, come vecchi inuit tramutati in oggetti, cacciati dalla tribù dei beni mobili affinché gli altri potessero avanzare verso il futuro sgravati da fardelli. Stiamo parlando, mi pare, dei tardi anni novanta o dei primi anni duemila, ma io faticavo a separarmi dalla mensola. Mio padre, che era emigrato in Australia vent’anni prima, morì nel 1998. Lasciò in eredità i suoi libri all’università dove insegnava, ma io mi presi la briga di spedire una selezione dei suoi mobili fino a Londra: due enormi librerie di quercia e un’altrettanto imponente libreria girevole. Fu all’incirca in quel periodo che mia moglie gridò: “Ça suffit! Basta!”. Il principio che mi guidava nell’acquisizione di libri era: avanti, c’è posto. Vecchi tascabili Penguin sbrindellati, copie della Dieta per fianchi e cosce di Rosemary Conley con le orecchie alle pagine, raccolte rilegate di arretrati di Popular Mechanics: per me non esisteva volume tanto umile da non meritare un posto su un ripiano. La posizione di mia moglie, invece, era saldamente pratica: in casa non c’è spazio per altre librerie. Mi è chiaro dove abbia origine il passionale coinvolgimento che mi suscitano le librerie, e non è esattamente in un amore per la letteratura. Nella villetta bifamiliare con tre camere da letto in cui viveva la mia famiglia, la mia stanza era quella sul retro, un tempo appartenuta al mio molto più anziano fratellastro e divenuta, quando lui era andato all’università (e quando io e l’altro mio fratello ancora condividevamo la stanza), lo studio di mio padre. Aveva inito per trasformarsi in un deposito di libri e altri bagagli, sparsi su una serie di scaffali non coordinati. Passai il periodo compreso tra gli otto e i diciassette anni a fissare quegli scaffali oppure a riorganizzarli, inframmezzando i libri con gli oggetti. Da piccolo allestii un complicato sistema di carrucole che collegavano gli scaffali tra di loro, così che i miei giocattoli potessero viaggiare appesi a un filo da L’uomo a una dimensione di Marcuse a Coppie di Updike. Me ne stavo anche steso sul letto a leggere e rileggere Alice nel paese delle meraviglie, rapito in particolare dalla sua lunga e non rischiosa caduta nel pozzo dalle pareti coperte di ripiani: “Dapprima cercò di guardare in basso e di distinguere la sua destinazione, ma era troppo buio per vedere qualcosa. Allora guardò le pareti del pozzo, e notò che queste erano piene di credenze e scfafali. Qua e là vide appesi quadri e carte geografiche. Prese al volo un vasetto. L’etichetta diceva ‘marmellata di arance’, ma con sua grande delusione il vasetto era vuoto. Alice non volle lasciarlo cadere per paura di ammazzare qualcuno sotto e fece in modo di posarlo sopra una credenza, sempre durante la caduta”. In un senso assolutamente cruciale, sono convinto di stare ancora cadendo giù per quel pozzo: le mensole della stanza in cui sto scrivendo questo testo corrispondono – almeno nella mia immaginazione – a quelle lungo le quali sfrecciava Alice durante la caduta: oggetti, immagini e libri accostati alla rinfusa che debordano da una serie di scompartimenti e superfici di legno. Aiuta, credo, il fatto che le misure da me comunicate al falegname che mi ha costruito il mobile scrivania-libreria fossero tristemente inadeguate: i ripiani propriamente destinati ai libri sono troppo bassi per le edizioni rilegate e troppo profondi per i tascabili, che vengono quindi tendenzialmente ammonticchiati in orizzontale su due pile che si susseguono, oppure spinti verso il fondo lasciando davanti abbondante spazio dove accumulare disordine. L’idea stessa che dovrei essere in grado di montare una mensola con le mie mani è, naturalmente, insensata; e ripensando agli scaffali della mia giovinezza, l’intersezione tra bricolage borghese e sogni di rivoluzione bien pensant è probabilmente esemplificata al meglio dal funzionalismo pseudoartigianale dei ripiani in mattoni e legno. Per la stessa ragione, gli imballaggi piatti dell’Ikea sono l’equivalente tridimensionale di una democrazia sociale pianificata. Ma sto divagando: torniamo al disordine! Ci sono caricabatterie per cellulari e flaconi di collutorio, borsine portatabacco e bussole, occhiali da lettura e bustine da tè. Qua e là sono appoggiate vecchie foto e cartoline. Mentre oggetti come i fermacarte di vetro, gli scheletrini di metallo e una piccola macchina in stile Tinguely regalo dei miei figli (con un braccio mozzato che azionando una manovella percuote un pezzo di latta) hanno ciascuno un posto tutto per sé. Potrei andare avanti. E ancora avanti. Fare un inventario richiederebbe giorni. Un famoso mnemonista è venuto a trovarmi e mi ha aiutato a imparare i nomi di quelli che allora erano i 43 presidenti degli Stati Uniti usando come promemoria gli oggetti disposti su un singolo scaffale. Non è mai esistita una vera giustificazione per il piccolo busto di scimmia, o per quello in gesso di Robert Schumann, a cui è attaccato un fumetto che dice: “Portatemi al fiume!”. Ma comincio ora a rendermi conto che di mensole, librerie e simili c’è sempre meno bisogno. Può darsi che a casa Self siano ancora vive e vegete, ma è la nuova mensola in cucina a delineare la forma di quelle a venire: in futuro, ospiteranno forse objets d’art, oggetti d’uso comune oppure oggetti che mescolano le due categorie, ma ciò che non faranno sarà integrare queste funzioni con la terza e più cruciale: quella informativa.
continua
La comparsa del grammofono, con i suoi pesanti dischi in gommalacca che vanno riposti da qualche parte; l’avvento, poco tempo dopo, del radiogrammofono come specifico elemento d’arredo; il diffondersi della stampa a colori e del disco long playing dopo la seconda guerra mondiale: a metà del novecento, la piena integrazione dell’elemento decorativo con quello informativo all’interno della casa e la piena espressione di questa simbiosi corrispondono alla scaffalatura multifunzionale. Si tratta di una combinazione di superfici piane scoperte, scaffali, contenitori e nicchie in grado di ospitare qualsiasi cosa, dalle piante alla tv, con qualche libro – possibilmente una serie di enciclopedie rilegate in pelle – a fornire una ponderosa e più tradizionale zavorra. Sono queste scaffalature a dominare le stanze in cui si ricevono gli ospiti per i successivi quarant’anni. A volte sono fitte, modulari e dotate di sportelli in vetro, incuneate negli angoli e inchiodate ai muri – come le moquette ai pavimenti – in modo da coprirli completamente. Altre diventano lievi e inconsistenti, con i contenuti apparentemente sospesi nell’aria. E quando la mensola ha cominciato, per così dire, ad ammalarsi, sono stati proprio questi pezzi ad apparire per primi sui marciapiedi davanti alle case e a interi isolati del mio quartiere: patetici reietti, come vecchi inuit tramutati in oggetti, cacciati dalla tribù dei beni mobili affinché gli altri potessero avanzare verso il futuro sgravati da fardelli. Stiamo parlando, mi pare, dei tardi anni novanta o dei primi anni duemila, ma io faticavo a separarmi dalla mensola. Mio padre, che era emigrato in Australia vent’anni prima, morì nel 1998. Lasciò in eredità i suoi libri all’università dove insegnava, ma io mi presi la briga di spedire una selezione dei suoi mobili fino a Londra: due enormi librerie di quercia e un’altrettanto imponente libreria girevole. Fu all’incirca in quel periodo che mia moglie gridò: “Ça suffit! Basta!”. Il principio che mi guidava nell’acquisizione di libri era: avanti, c’è posto. Vecchi tascabili Penguin sbrindellati, copie della Dieta per fianchi e cosce di Rosemary Conley con le orecchie alle pagine, raccolte rilegate di arretrati di Popular Mechanics: per me non esisteva volume tanto umile da non meritare un posto su un ripiano. La posizione di mia moglie, invece, era saldamente pratica: in casa non c’è spazio per altre librerie. Mi è chiaro dove abbia origine il passionale coinvolgimento che mi suscitano le librerie, e non è esattamente in un amore per la letteratura. Nella villetta bifamiliare con tre camere da letto in cui viveva la mia famiglia, la mia stanza era quella sul retro, un tempo appartenuta al mio molto più anziano fratellastro e divenuta, quando lui era andato all’università (e quando io e l’altro mio fratello ancora condividevamo la stanza), lo studio di mio padre. Aveva inito per trasformarsi in un deposito di libri e altri bagagli, sparsi su una serie di scaffali non coordinati. Passai il periodo compreso tra gli otto e i diciassette anni a fissare quegli scaffali oppure a riorganizzarli, inframmezzando i libri con gli oggetti. Da piccolo allestii un complicato sistema di carrucole che collegavano gli scaffali tra di loro, così che i miei giocattoli potessero viaggiare appesi a un filo da L’uomo a una dimensione di Marcuse a Coppie di Updike. Me ne stavo anche steso sul letto a leggere e rileggere Alice nel paese delle meraviglie, rapito in particolare dalla sua lunga e non rischiosa caduta nel pozzo dalle pareti coperte di ripiani: “Dapprima cercò di guardare in basso e di distinguere la sua destinazione, ma era troppo buio per vedere qualcosa. Allora guardò le pareti del pozzo, e notò che queste erano piene di credenze e scfafali. Qua e là vide appesi quadri e carte geografiche. Prese al volo un vasetto. L’etichetta diceva ‘marmellata di arance’, ma con sua grande delusione il vasetto era vuoto. Alice non volle lasciarlo cadere per paura di ammazzare qualcuno sotto e fece in modo di posarlo sopra una credenza, sempre durante la caduta”. In un senso assolutamente cruciale, sono convinto di stare ancora cadendo giù per quel pozzo: le mensole della stanza in cui sto scrivendo questo testo corrispondono – almeno nella mia immaginazione – a quelle lungo le quali sfrecciava Alice durante la caduta: oggetti, immagini e libri accostati alla rinfusa che debordano da una serie di scompartimenti e superfici di legno. Aiuta, credo, il fatto che le misure da me comunicate al falegname che mi ha costruito il mobile scrivania-libreria fossero tristemente inadeguate: i ripiani propriamente destinati ai libri sono troppo bassi per le edizioni rilegate e troppo profondi per i tascabili, che vengono quindi tendenzialmente ammonticchiati in orizzontale su due pile che si susseguono, oppure spinti verso il fondo lasciando davanti abbondante spazio dove accumulare disordine. L’idea stessa che dovrei essere in grado di montare una mensola con le mie mani è, naturalmente, insensata; e ripensando agli scaffali della mia giovinezza, l’intersezione tra bricolage borghese e sogni di rivoluzione bien pensant è probabilmente esemplificata al meglio dal funzionalismo pseudoartigianale dei ripiani in mattoni e legno. Per la stessa ragione, gli imballaggi piatti dell’Ikea sono l’equivalente tridimensionale di una democrazia sociale pianificata. Ma sto divagando: torniamo al disordine! Ci sono caricabatterie per cellulari e flaconi di collutorio, borsine portatabacco e bussole, occhiali da lettura e bustine da tè. Qua e là sono appoggiate vecchie foto e cartoline. Mentre oggetti come i fermacarte di vetro, gli scheletrini di metallo e una piccola macchina in stile Tinguely regalo dei miei figli (con un braccio mozzato che azionando una manovella percuote un pezzo di latta) hanno ciascuno un posto tutto per sé. Potrei andare avanti. E ancora avanti. Fare un inventario richiederebbe giorni. Un famoso mnemonista è venuto a trovarmi e mi ha aiutato a imparare i nomi di quelli che allora erano i 43 presidenti degli Stati Uniti usando come promemoria gli oggetti disposti su un singolo scaffale. Non è mai esistita una vera giustificazione per il piccolo busto di scimmia, o per quello in gesso di Robert Schumann, a cui è attaccato un fumetto che dice: “Portatemi al fiume!”. Ma comincio ora a rendermi conto che di mensole, librerie e simili c’è sempre meno bisogno. Può darsi che a casa Self siano ancora vive e vegete, ma è la nuova mensola in cucina a delineare la forma di quelle a venire: in futuro, ospiteranno forse objets d’art, oggetti d’uso comune oppure oggetti che mescolano le due categorie, ma ciò che non faranno sarà integrare queste funzioni con la terza e più cruciale: quella informativa.
continua
20140726
risorgerò come una fenice
Una delle più riuscite provocazioni degli ultimi anni. Grande giuria dell'Eurofestival ad averla premiata.
20140725
Celestina
Celestite - Wolves in the Throne Room (2014)
Tangerine Dream, Pink Floyd (Atom Heart Mother, Meddle), Lustmord, ovviamente Sunn 0))), Alan Parsons, Olivier Messiaen, Vangelis, Manuel Gottsching, Popol Vuh, Boris, Ulver, Gyorgy Ligeti, Krzysztof Penderecki, Henryk Górecki, Brian Eno, Pierre Boulez. In una maniera che grossolanamente possiamo paragonare a quella degli Ulver, i Wolves in the Throne Room (con i quali condividono pure il "lupo" nel nome della band) saltano la staccionata e dal drone black metal passano ad una sorta di ambient che ricorda solo in sparuti passaggi il tipo di musica che "praticavano" fino al precedente Celestial Lineage. Già in molti hanno gridato al capolavoro, per questo Celestite, che a detta dei due componenti della band stessa, parte proprio dal disco precedente per esaminarne le pieghe, destrutturarne il senso così come il genere black metal stesso, per arrivare ad un'opera che va verso la trascendenza. Potremmo aprire una parentesi interminabile, e riflettere sul perché molti musicisti black metal da lì partono per approdare in un ambito del genere (non ultimo Burzum), ma lascio a voi imbastire un'ipotesi che vi piace e vi soddisfa. Io mi limito a segnalarvi questa band, formata da due fratelli (Aaron e Nathan Weaver), che vive addirittura ai margini della società, quasi per vivere esclusivamente la sua musica e contemporaneamente il ritorno alla Terra, ed il loro capolavoro (mi accodo) che segna il distacco dai droni chitarristici e dal growling, per entrare, forse, proprio nella sala del trono, in un tripudio di synth, flauti, organi e fiati, senza basso e batteria (le chitarre fanno capolino, ogni tanto). Non vorrei essere troppo celebrativo, ma a chi ha "viaggiato" in lungo e in largo nei meandri sempre meravigliosi della musica rock, a chi è abbastanza open minded, un disco del genere da una band del genere non può non interessare.
Sicuramente da tenere di conto quando arriverà la fine di dicembre, naturalmente insieme al nuovo Neneh Cherry, non fosse altro che per fare gli snob e dimostrare, anche solo a discorsi, che si è avanti.
The Wolves in the Throne Room jumping the fence, act announced from their previous musical path, and they enter fully into the ambient genre. A disc that is more reminiscent of Pink Floyd at the time of the acids, that the Scandinavian black metal, but it reinforces the feeling that the transition from the second to the first succeeds very well, especially those who come from a genre that is nihilistic evidently only in appearance.
Tangerine Dream, Pink Floyd (Atom Heart Mother, Meddle), Lustmord, ovviamente Sunn 0))), Alan Parsons, Olivier Messiaen, Vangelis, Manuel Gottsching, Popol Vuh, Boris, Ulver, Gyorgy Ligeti, Krzysztof Penderecki, Henryk Górecki, Brian Eno, Pierre Boulez. In una maniera che grossolanamente possiamo paragonare a quella degli Ulver, i Wolves in the Throne Room (con i quali condividono pure il "lupo" nel nome della band) saltano la staccionata e dal drone black metal passano ad una sorta di ambient che ricorda solo in sparuti passaggi il tipo di musica che "praticavano" fino al precedente Celestial Lineage. Già in molti hanno gridato al capolavoro, per questo Celestite, che a detta dei due componenti della band stessa, parte proprio dal disco precedente per esaminarne le pieghe, destrutturarne il senso così come il genere black metal stesso, per arrivare ad un'opera che va verso la trascendenza. Potremmo aprire una parentesi interminabile, e riflettere sul perché molti musicisti black metal da lì partono per approdare in un ambito del genere (non ultimo Burzum), ma lascio a voi imbastire un'ipotesi che vi piace e vi soddisfa. Io mi limito a segnalarvi questa band, formata da due fratelli (Aaron e Nathan Weaver), che vive addirittura ai margini della società, quasi per vivere esclusivamente la sua musica e contemporaneamente il ritorno alla Terra, ed il loro capolavoro (mi accodo) che segna il distacco dai droni chitarristici e dal growling, per entrare, forse, proprio nella sala del trono, in un tripudio di synth, flauti, organi e fiati, senza basso e batteria (le chitarre fanno capolino, ogni tanto). Non vorrei essere troppo celebrativo, ma a chi ha "viaggiato" in lungo e in largo nei meandri sempre meravigliosi della musica rock, a chi è abbastanza open minded, un disco del genere da una band del genere non può non interessare.
Sicuramente da tenere di conto quando arriverà la fine di dicembre, naturalmente insieme al nuovo Neneh Cherry, non fosse altro che per fare gli snob e dimostrare, anche solo a discorsi, che si è avanti.
The Wolves in the Throne Room jumping the fence, act announced from their previous musical path, and they enter fully into the ambient genre. A disc that is more reminiscent of Pink Floyd at the time of the acids, that the Scandinavian black metal, but it reinforces the feeling that the transition from the second to the first succeeds very well, especially those who come from a genre that is nihilistic evidently only in appearance.
20140724
The Death of the Shelf
Tradotto su Internazionale 1056, una breve riflessione di uno dei miei scrittori preferiti sui progressi della tecnologia, di come ci rapportiamo ad essa, ed altre gustose e intelligenti riflessioni.
Will Self dalla rivista Prospect.
Potreste pensare che le voci sulla morte della mensola siano infondate, almeno se visitate casa mia, dove sono un argomento scottante nonché oggetto di contesa. La settimana scorsa, arrivando a casa dopo aver trascorso alcuni giorni lavorando a un libro (un libro che, spero, prima o poi sarà stampato, pubblicato e avrà bisogno di un luogo dove essere riposto), ho scoperto che in cucina erano apparse due nuove mensole. Una era solo funzionale: un ripiano in più nella dispensa, su cui conservare quei fastidiosi barattoli di sottaceti. Ma l’altra era decisamente barocca, con il bordo incrostato di mosaici, fissata in alto sopra il piano di lavoro e sorretta da due elaborati sostegni in ferro battuto che raffigurano dei fanciulli danzanti. Mi è stato detto che un tempo quei sostegni avevano sorretto la vasca di un gabinetto vittoriano e posso assicurarvi che se avessi espresso altro che assoluta approvazione per la nuova mensola sarebbe nata una lite domestica. Io e mia moglie apparteniamo a una generazione – baby boomer tardivi, ora da poco cinquantenni – che venera la mensola. Per noi la mensola è il ricettacolo della cultura esposta. Disposti sulle nostre mensole ci sono tutti i manufatti di nostra proprietà che per noi hanno un significato e quelli che ammettiamo in casa, ciò che conosciamo, ciò che ci piace e ciò che consideriamo importante o per il suo valore d’uso o per questioni estetiche. Le mensole trasformano le stanze delle nostre case in nitide sale di un palazzo della memoria al quale noi e i nostri ospiti abbiamo libero e continuo accesso. Se preferite, le mensole sono le giunture che uniscono passato e presente, pubblico e privato, pratico e decorativo. Ben più dei quadri o di altri elementi d’arredo, le mensole – la cui raison d’être è contenere e insieme mostrare – sono, a mio avviso, il cardine stesso di una forma di domesticità borghese che risale perlomeno agli albori del periodo moderno. A Skara Brae, il villaggio neolitico delle isole Orcadi rimasto intatto sotto una duna fino al giorno in cui, nell’inverno del 1850, una tempesta non lo riportò spettacolarmente e provvidenzialmente alla luce, si vedono case dell’età della pietra provviste di camini, letti e sistemi di mensole che hanno resistito per quasi cinquemila anni. Su questi elementi di mattoni e legno pietrificato (che tanto evocano il neofunzionalismo deglianni settanta) sono raggruppati piccoli contenitori, utensili domestici e altri strumenti. Ci si può solo domandare se gli abitanti avessero a cuore il loro modo di disporre e mettere in mostra così come mia moglie ha a cuore la nuova mensola in cucina, con il suo assembramento di cafettiere di vari tipi e varie misure, e credo sia ragionevole pensare di sì. Di certo esistono numerose raffigurazioni di mensole in contesti premoderni che indicano questo doppio scopo espositivo e pratico. Nel rinascimento la mensola è ormai pienamente integrata nello spazio pittorico come tropo figurativo: è rappresentata come una pietra tridimensionale che, insieme con nicchie, trabeazioni e altri dettagli architettonici, serve a imporre la mano dell’uomo sul mondo naturale, e perfino su quello celeste: la Pietà e la Madonna del latte sono spesso raffigurate su mensole.
Ma è probabilmente solo nell’ottocento che la mensola domestica acquisisce una completa articolazione ideologica. Da qualche parte lungo le faglie funzionalistico-decorative tra il Biedermeier, la Belle époque e il movimento arts & crafts, viene appesa una mensola di tipo diverso, chiaramente moderna ed enfaticamente piccolo borghese. La capitolazione e ricapitolazione del similartigianale come elemento decorativo esiste in un paradossale rapporto con l’inizio della produzione su scala industriale di tutta una gamma di oggetti: non dimentichiamo che William Morris finanziò il suo sogno estetico-socialista grazie a un’azienda di carte da parati di enorme successo. Mi verrebbe da dire che, fino a quando libri e soprammobili rimangono oggetti costosi ed elaborati, la mensola non è un posto sicuro dove riporli. In fin dei conti possono sempre cadere. Ma tra gli anni sessanta e gli anni ottanta dell’ottocento, questi manufatti diventano più economici e largamente disponibili, tant’è che per accoglierli vengono montate delle mensole. La cultura smette di essere una questione aristocratica acquisita in modo ereditario e diventa un attributo che si può acquistare preconfezionato. Scrivendo mezzo secolo dopo, a proposito di quest’epoca Walter Benjamin osserva: “Gli interni piccolo borghesi del 1860-1870, con le gigantesche credenze cariche di legni intagliati, gli angoli in ombra con la palma nel vaso, il bovindo con la balaustra di protezione e quei lunghi corridoi in cui sibilano le fiamme a gas, si dimostrano adatti soltanto ai cadaveri”. L’idea di Benjamin è che i grandi scrittori anticipano gli ambienti in cui le loro storie si svolgeranno. E che l’epoca d’oro della narrativa poliziesca logico-deduttiva sia cominciata con il proto-Sherlock Holmes di Edgar Allan Poe, Auguste Dupin, in un’epoca in cui interni del genere dovevano ancora materializzarsi. La soluzione che Dupin dà al caso della Lettera rubata ruota significativamente intorno all’occultamento – in scrittoi, dietro libri riposti su mensole – e ciò che Benjamin vuole farci notare è l’integrazione dell’informazione nello spazio domestico: il metodo dell’investigatore ci rivelerà, attraverso l’analisi degli oggetti, i gusti del padrone di casa. Con questo non si vuole suggerire che prima del tardo ottocento il libro non fosse considerato un oggetto decorativo. Tuttavia, così come le dimensioni, il peso e il costo dei primi codici richiedevano mobili dedicati – per esempio tavoli da lettura piatti e scaffalature da magazzino – così la biblioteca in sé è rimasta uno spazio specializzato. Ai tempi in cui Virginia Woolf scrive Una stanza tutta per sé, l’invenzione della stampa offset ha già reso accessibile anche al più umile degli impiegati una mensola di libri in salotto. E anche se Woolf era afflitta dagli snobismi dell’epoca come altri della sua classe sociale, il dare per scontato che tutti i suoi lettori riuscissero a figurarsi mentalmente un interno domestico tappezzato di libri lascia intuire tutto il mensolame egalitario e fai da te di là da venire. Nel suo saggio, Woolf usa l’immagine ricorrente del prendere i libri dalle mensole (o riporveli) nove volte; non solo si descrive nell’atto di prelevare volumi, ma immagina che facciano lo stesso anche i suoi personaggi letterari femminili, in un gioco di mensole dentro altre mensole. Questo trattamento non è riservato solo ai libri ma anche ai barattoli, e nell’illustrare le libertà necessarie a coltivare il talento letterario femminile, ritengo che Woolf stesse inconsciamente integrando il luogo di lavoro femminile per eccellenza dell’epoca – la cucina – con la sede della produzione letteraria. L’onnipresenza della mensola nel libro di Woolf potrebbe anche essere un’eco repressa del motto di scherno che veniva spesso rivolto alle donne intellettuali come lei in un’epoca in cui il matrimonio era ancora considerato l’apoteosi della vita femminile: you’ll be left on the shelf, rimarrai sullo scaffale.
continua domenica 27 luglio
Will Self dalla rivista Prospect.
Potreste pensare che le voci sulla morte della mensola siano infondate, almeno se visitate casa mia, dove sono un argomento scottante nonché oggetto di contesa. La settimana scorsa, arrivando a casa dopo aver trascorso alcuni giorni lavorando a un libro (un libro che, spero, prima o poi sarà stampato, pubblicato e avrà bisogno di un luogo dove essere riposto), ho scoperto che in cucina erano apparse due nuove mensole. Una era solo funzionale: un ripiano in più nella dispensa, su cui conservare quei fastidiosi barattoli di sottaceti. Ma l’altra era decisamente barocca, con il bordo incrostato di mosaici, fissata in alto sopra il piano di lavoro e sorretta da due elaborati sostegni in ferro battuto che raffigurano dei fanciulli danzanti. Mi è stato detto che un tempo quei sostegni avevano sorretto la vasca di un gabinetto vittoriano e posso assicurarvi che se avessi espresso altro che assoluta approvazione per la nuova mensola sarebbe nata una lite domestica. Io e mia moglie apparteniamo a una generazione – baby boomer tardivi, ora da poco cinquantenni – che venera la mensola. Per noi la mensola è il ricettacolo della cultura esposta. Disposti sulle nostre mensole ci sono tutti i manufatti di nostra proprietà che per noi hanno un significato e quelli che ammettiamo in casa, ciò che conosciamo, ciò che ci piace e ciò che consideriamo importante o per il suo valore d’uso o per questioni estetiche. Le mensole trasformano le stanze delle nostre case in nitide sale di un palazzo della memoria al quale noi e i nostri ospiti abbiamo libero e continuo accesso. Se preferite, le mensole sono le giunture che uniscono passato e presente, pubblico e privato, pratico e decorativo. Ben più dei quadri o di altri elementi d’arredo, le mensole – la cui raison d’être è contenere e insieme mostrare – sono, a mio avviso, il cardine stesso di una forma di domesticità borghese che risale perlomeno agli albori del periodo moderno. A Skara Brae, il villaggio neolitico delle isole Orcadi rimasto intatto sotto una duna fino al giorno in cui, nell’inverno del 1850, una tempesta non lo riportò spettacolarmente e provvidenzialmente alla luce, si vedono case dell’età della pietra provviste di camini, letti e sistemi di mensole che hanno resistito per quasi cinquemila anni. Su questi elementi di mattoni e legno pietrificato (che tanto evocano il neofunzionalismo deglianni settanta) sono raggruppati piccoli contenitori, utensili domestici e altri strumenti. Ci si può solo domandare se gli abitanti avessero a cuore il loro modo di disporre e mettere in mostra così come mia moglie ha a cuore la nuova mensola in cucina, con il suo assembramento di cafettiere di vari tipi e varie misure, e credo sia ragionevole pensare di sì. Di certo esistono numerose raffigurazioni di mensole in contesti premoderni che indicano questo doppio scopo espositivo e pratico. Nel rinascimento la mensola è ormai pienamente integrata nello spazio pittorico come tropo figurativo: è rappresentata come una pietra tridimensionale che, insieme con nicchie, trabeazioni e altri dettagli architettonici, serve a imporre la mano dell’uomo sul mondo naturale, e perfino su quello celeste: la Pietà e la Madonna del latte sono spesso raffigurate su mensole.
Ma è probabilmente solo nell’ottocento che la mensola domestica acquisisce una completa articolazione ideologica. Da qualche parte lungo le faglie funzionalistico-decorative tra il Biedermeier, la Belle époque e il movimento arts & crafts, viene appesa una mensola di tipo diverso, chiaramente moderna ed enfaticamente piccolo borghese. La capitolazione e ricapitolazione del similartigianale come elemento decorativo esiste in un paradossale rapporto con l’inizio della produzione su scala industriale di tutta una gamma di oggetti: non dimentichiamo che William Morris finanziò il suo sogno estetico-socialista grazie a un’azienda di carte da parati di enorme successo. Mi verrebbe da dire che, fino a quando libri e soprammobili rimangono oggetti costosi ed elaborati, la mensola non è un posto sicuro dove riporli. In fin dei conti possono sempre cadere. Ma tra gli anni sessanta e gli anni ottanta dell’ottocento, questi manufatti diventano più economici e largamente disponibili, tant’è che per accoglierli vengono montate delle mensole. La cultura smette di essere una questione aristocratica acquisita in modo ereditario e diventa un attributo che si può acquistare preconfezionato. Scrivendo mezzo secolo dopo, a proposito di quest’epoca Walter Benjamin osserva: “Gli interni piccolo borghesi del 1860-1870, con le gigantesche credenze cariche di legni intagliati, gli angoli in ombra con la palma nel vaso, il bovindo con la balaustra di protezione e quei lunghi corridoi in cui sibilano le fiamme a gas, si dimostrano adatti soltanto ai cadaveri”. L’idea di Benjamin è che i grandi scrittori anticipano gli ambienti in cui le loro storie si svolgeranno. E che l’epoca d’oro della narrativa poliziesca logico-deduttiva sia cominciata con il proto-Sherlock Holmes di Edgar Allan Poe, Auguste Dupin, in un’epoca in cui interni del genere dovevano ancora materializzarsi. La soluzione che Dupin dà al caso della Lettera rubata ruota significativamente intorno all’occultamento – in scrittoi, dietro libri riposti su mensole – e ciò che Benjamin vuole farci notare è l’integrazione dell’informazione nello spazio domestico: il metodo dell’investigatore ci rivelerà, attraverso l’analisi degli oggetti, i gusti del padrone di casa. Con questo non si vuole suggerire che prima del tardo ottocento il libro non fosse considerato un oggetto decorativo. Tuttavia, così come le dimensioni, il peso e il costo dei primi codici richiedevano mobili dedicati – per esempio tavoli da lettura piatti e scaffalature da magazzino – così la biblioteca in sé è rimasta uno spazio specializzato. Ai tempi in cui Virginia Woolf scrive Una stanza tutta per sé, l’invenzione della stampa offset ha già reso accessibile anche al più umile degli impiegati una mensola di libri in salotto. E anche se Woolf era afflitta dagli snobismi dell’epoca come altri della sua classe sociale, il dare per scontato che tutti i suoi lettori riuscissero a figurarsi mentalmente un interno domestico tappezzato di libri lascia intuire tutto il mensolame egalitario e fai da te di là da venire. Nel suo saggio, Woolf usa l’immagine ricorrente del prendere i libri dalle mensole (o riporveli) nove volte; non solo si descrive nell’atto di prelevare volumi, ma immagina che facciano lo stesso anche i suoi personaggi letterari femminili, in un gioco di mensole dentro altre mensole. Questo trattamento non è riservato solo ai libri ma anche ai barattoli, e nell’illustrare le libertà necessarie a coltivare il talento letterario femminile, ritengo che Woolf stesse inconsciamente integrando il luogo di lavoro femminile per eccellenza dell’epoca – la cucina – con la sede della produzione letteraria. L’onnipresenza della mensola nel libro di Woolf potrebbe anche essere un’eco repressa del motto di scherno che veniva spesso rivolto alle donne intellettuali come lei in un’epoca in cui il matrimonio era ancora considerato l’apoteosi della vita femminile: you’ll be left on the shelf, rimarrai sullo scaffale.
continua domenica 27 luglio
20140723
ragazzi di vetro
Glass Boys - Fucked Up (2014)
Strano ma vero, il nuovo Glass Boys dei Fucked Up è forse più rock opera del precedente David Comes To Life, che voleva dichiaratamente esserlo. Glass Boys, a detta di loro stessi e pure dei testi, è una riflessione sul crescere e/o invecchiare nella scena punk, cercando di rimanere fedeli agli ideali di gioventù. Il suono si evolve e si stratifica (grandissima attenzione nella registrazione, si parla di quattro tracce di batteria e di svariate tracce di chitarra per ottenere un effetto "spesso" ed omogeneo al tempo stesso), il songwriting si fa raffinato, sempre ammesso che si possa usare questo aggettivo per una band che in fondo viene dall'hardcore punk. La title track, posta in chiusura dell'album, è una meraviglia, e nonostante i riferimenti ai migliori Fugazi siano evidenti, non ho paura di essere tacciato di rincoglionimento se azzardo che in questo disco siano vagamente mescolati con i Queen, seppur vagliati naturalmente da tutta la tradizione post hardcore punk; come però sostengono in molti, i Fucked Up (curiosità, loro prendono premi anche in televisione, in Nord America, ma in televisione non è permesso pronunciare il loro nome - linguaggio scurrile) sono ormai una rock band: attenzione, non è un'offesa, però.
Alcuni ospiti, tra cui perfino il mitico J Mascis.
Strano ma vero, il nuovo Glass Boys dei Fucked Up è forse più rock opera del precedente David Comes To Life, che voleva dichiaratamente esserlo. Glass Boys, a detta di loro stessi e pure dei testi, è una riflessione sul crescere e/o invecchiare nella scena punk, cercando di rimanere fedeli agli ideali di gioventù. Il suono si evolve e si stratifica (grandissima attenzione nella registrazione, si parla di quattro tracce di batteria e di svariate tracce di chitarra per ottenere un effetto "spesso" ed omogeneo al tempo stesso), il songwriting si fa raffinato, sempre ammesso che si possa usare questo aggettivo per una band che in fondo viene dall'hardcore punk. La title track, posta in chiusura dell'album, è una meraviglia, e nonostante i riferimenti ai migliori Fugazi siano evidenti, non ho paura di essere tacciato di rincoglionimento se azzardo che in questo disco siano vagamente mescolati con i Queen, seppur vagliati naturalmente da tutta la tradizione post hardcore punk; come però sostengono in molti, i Fucked Up (curiosità, loro prendono premi anche in televisione, in Nord America, ma in televisione non è permesso pronunciare il loro nome - linguaggio scurrile) sono ormai una rock band: attenzione, non è un'offesa, però.
Alcuni ospiti, tra cui perfino il mitico J Mascis.
20140722
Una questione di genere
Da Internazionale 1057, una opinione estrema, che però io sposo in pieno a costo di urtare la sensibilità di alcuni lettori, sulle abitudini sociali verso i generi sessuali. Il pezzo è di Laurie Penny, giornalista britannica, columnist del New Statesman, collaboratrice del Guardian. In Italia è uscito il suo libro Meat Market - Carne femminile sul banco del capitalismo.
Una questione di genere di Laurie Penny
Davanti a me ho un libro da colorare. Si chiama Finding Gender e me lo ha mandato un’attivista che sa quanto mi piacciono la giustizia sociale e i pennarelli. I protagonisti del libro, un bambino e un robot, vivono una serie di meravigliose avventure. È un normale libro da colorare, tranne per il fatto che il bambino non è identificabile come maschio o femmina. E neanche il robot. Chi colora può decidere quello che indossano, se sono maschio, femmina, entrambe le cose o nessuna. Finalmente succede: dalle conversazioni a tavola ai libri per bambini, si stanno ridefinendo le linee di confine tra i generi. Transessuali e transgender – le persone che non si identificano con il sesso che è stato loro assegnato alla nascita – stanno invadendo la cultura popolare. Il 9 giugno il settimanale Time è uscito con una copertina intitolata “Il punto di svolta transgender”. Affamata di nuove tendenze, la stampa statunitense inventa sempre nuovi punti di svolta, ma questo è reale e importante. A causa di secoli di emarginazione, le statistiche sono ancora incerte, ma si calcola che una percentuale tra lo 0,1 e il 5 per cento della popolazione mondiale sia trans, intersessuale o non senta di appartenere a nessuno dei due sessi. Sono milioni di esseri umani. La nostra specie ha inventato gli antibiotici e ha viaggiato nello spazio, quindi mi sembra un po’ anacronistico che tanta parte della nostra cultura sia ancora legata all’idea che esistano solo due tipi di persone distinte essenzialmente in base al contenuto della loro biancheria intima. Ormai internet permette a chi appartiene a questa fetta di popolazione finora isolata di trovarsi e aiutarsi a vicenda. Fino a poco tempo fa le persone transgender che vivevano in piccoli centri avevano difficoltà a mettersi in contatto con qualcuno che fosse in grado di capire la loro situazione e consigliarle. Molte di loro hanno aspettato decenni prima di uscire allo scoperto, e alcune hanno cercato con grande sofferenza di mantenere segreto quell’aspetto della propria vita. La rete ha cambiato tutto questo. Non tutti nascono maschi o femmine e ci rimangono. L’identità di genere non è più fissa e immutabile. Se una persona può decidere di vivere come uomo, donna o come qualcosa di completamente diverso, dobbiamo rimettere in discussione tutto quello che abbiamo dato per scontato sull’identità di genere e i ruoli sessuali dal momento in cui il dottore ci ha messi tra le braccia di nostra madre definendoci un bambino o una bambina. Per secoli era considerato normale costringere chiunque non si conformasse al ruolo attribuito dalla società alle persone del suo sesso – dai gay ai transgender alle donne che erano troppo promiscue, arrabbiate, o “mascoline” – a farlo con la forza. Generazioni di attivisti hanno lottato contro questa discriminazione, ma per la comunità transgender e transessuale questo tipo di violenza è ancora una realtà di tutti i giorni. Le persone trans hanno più probabilità di essere vittime di aggressioni e omicidi di qualunque altra minoranza: un recente studio ha dimostrato che il 25 per cento di loro ha subìto violenza a causa della sua diversità, e che circa la metà degli adolescenti transgender tenta il suicidio. Mi sento vicina al movimento per la difesa dei diritti di queste persone quanto lo può essere chi non è come loro. Oggi il mondo sta cominciando a capirle di più, e la cosa mi riempie di gioia, ma anche di paura, perché è già partita la reazione. Gli editoriali contro i loro diritti stanno aumentando, e i miei amici e colleghi transessuali subiscono attacchi e molestie online, si sentono in pericolo e temono di perdere il lavoro. Con la visibilità crescono anche i rischi e, purtroppo, alcuni settori della sinistra, comprese alcune femministe, si sono schierati con il fronte conservatore. Time la chiama giustamente “la nuova frontiera dei diritti civili”. La cultura di destra ha già perso la battaglia sull’omosessualità. Quelli che si oppongono ai matrimoni e alle adozioni gay sono sempre più in contrasto con le norme sociali, e il tipo di omofobia pseudoreligiosa, che era tanto comune negli anni ottanta, ormai è considerata sempre più bigotta. Ma sulla sessualità bisogna ancora vigilare, e se non si può più pensare di essere presi sul serio dicendo che i gay sono peccatori, serve un altro capro espiatorio, un “diverso” rispetto al quale ridefinire la “normalità”. Si sta avvicinando il momento in cui tutti quelli che credono nell’uguaglianza e nella giustizia sociale devono decidere che posizione assumere nei confronti delle persone trans e del loro diritto alle pari opportunità nel mondo del lavoro o semplicemente a girare per le strade vestite come vogliono. Sono diritti per cui i movimenti per la liberazione delle donne e dei gay combattono da generazioni. Ed è un dovere di chi li ha già conquistati lottare per chi ancora non li possiede. Se crediamo nella giustizia sociale, dobbiamo sostenere la comunità trans e aiutarla a entrare a pieno titolo nella normalità.
Una questione di genere di Laurie Penny
Davanti a me ho un libro da colorare. Si chiama Finding Gender e me lo ha mandato un’attivista che sa quanto mi piacciono la giustizia sociale e i pennarelli. I protagonisti del libro, un bambino e un robot, vivono una serie di meravigliose avventure. È un normale libro da colorare, tranne per il fatto che il bambino non è identificabile come maschio o femmina. E neanche il robot. Chi colora può decidere quello che indossano, se sono maschio, femmina, entrambe le cose o nessuna. Finalmente succede: dalle conversazioni a tavola ai libri per bambini, si stanno ridefinendo le linee di confine tra i generi. Transessuali e transgender – le persone che non si identificano con il sesso che è stato loro assegnato alla nascita – stanno invadendo la cultura popolare. Il 9 giugno il settimanale Time è uscito con una copertina intitolata “Il punto di svolta transgender”. Affamata di nuove tendenze, la stampa statunitense inventa sempre nuovi punti di svolta, ma questo è reale e importante. A causa di secoli di emarginazione, le statistiche sono ancora incerte, ma si calcola che una percentuale tra lo 0,1 e il 5 per cento della popolazione mondiale sia trans, intersessuale o non senta di appartenere a nessuno dei due sessi. Sono milioni di esseri umani. La nostra specie ha inventato gli antibiotici e ha viaggiato nello spazio, quindi mi sembra un po’ anacronistico che tanta parte della nostra cultura sia ancora legata all’idea che esistano solo due tipi di persone distinte essenzialmente in base al contenuto della loro biancheria intima. Ormai internet permette a chi appartiene a questa fetta di popolazione finora isolata di trovarsi e aiutarsi a vicenda. Fino a poco tempo fa le persone transgender che vivevano in piccoli centri avevano difficoltà a mettersi in contatto con qualcuno che fosse in grado di capire la loro situazione e consigliarle. Molte di loro hanno aspettato decenni prima di uscire allo scoperto, e alcune hanno cercato con grande sofferenza di mantenere segreto quell’aspetto della propria vita. La rete ha cambiato tutto questo. Non tutti nascono maschi o femmine e ci rimangono. L’identità di genere non è più fissa e immutabile. Se una persona può decidere di vivere come uomo, donna o come qualcosa di completamente diverso, dobbiamo rimettere in discussione tutto quello che abbiamo dato per scontato sull’identità di genere e i ruoli sessuali dal momento in cui il dottore ci ha messi tra le braccia di nostra madre definendoci un bambino o una bambina. Per secoli era considerato normale costringere chiunque non si conformasse al ruolo attribuito dalla società alle persone del suo sesso – dai gay ai transgender alle donne che erano troppo promiscue, arrabbiate, o “mascoline” – a farlo con la forza. Generazioni di attivisti hanno lottato contro questa discriminazione, ma per la comunità transgender e transessuale questo tipo di violenza è ancora una realtà di tutti i giorni. Le persone trans hanno più probabilità di essere vittime di aggressioni e omicidi di qualunque altra minoranza: un recente studio ha dimostrato che il 25 per cento di loro ha subìto violenza a causa della sua diversità, e che circa la metà degli adolescenti transgender tenta il suicidio. Mi sento vicina al movimento per la difesa dei diritti di queste persone quanto lo può essere chi non è come loro. Oggi il mondo sta cominciando a capirle di più, e la cosa mi riempie di gioia, ma anche di paura, perché è già partita la reazione. Gli editoriali contro i loro diritti stanno aumentando, e i miei amici e colleghi transessuali subiscono attacchi e molestie online, si sentono in pericolo e temono di perdere il lavoro. Con la visibilità crescono anche i rischi e, purtroppo, alcuni settori della sinistra, comprese alcune femministe, si sono schierati con il fronte conservatore. Time la chiama giustamente “la nuova frontiera dei diritti civili”. La cultura di destra ha già perso la battaglia sull’omosessualità. Quelli che si oppongono ai matrimoni e alle adozioni gay sono sempre più in contrasto con le norme sociali, e il tipo di omofobia pseudoreligiosa, che era tanto comune negli anni ottanta, ormai è considerata sempre più bigotta. Ma sulla sessualità bisogna ancora vigilare, e se non si può più pensare di essere presi sul serio dicendo che i gay sono peccatori, serve un altro capro espiatorio, un “diverso” rispetto al quale ridefinire la “normalità”. Si sta avvicinando il momento in cui tutti quelli che credono nell’uguaglianza e nella giustizia sociale devono decidere che posizione assumere nei confronti delle persone trans e del loro diritto alle pari opportunità nel mondo del lavoro o semplicemente a girare per le strade vestite come vogliono. Sono diritti per cui i movimenti per la liberazione delle donne e dei gay combattono da generazioni. Ed è un dovere di chi li ha già conquistati lottare per chi ancora non li possiede. Se crediamo nella giustizia sociale, dobbiamo sostenere la comunità trans e aiutarla a entrare a pieno titolo nella normalità.
20140721
This is a true story
Fargo - di Noah Hawley - Stagione 1 (10 episodi; FX) - 2014
Gennaio 2006. Lorne Malvo, uno spietato sicario, tanto spietato quanto calmo, passa quasi casualmente per Bemidji, Minnesota. Stava viaggiando in zona, con un uomo nudo nel bagagliaio, quando rimane vittima di un banale incidente stradale. L'uomo fugge nudo per i campi innevati, Malvo rimane lievemente ferito; si reca quindi al pronto soccorso, visto che è rimasto lievemente ferito nell'incidente, e visto che Bemidji si trova sulla strada per raggiungere il luogo dove è stato inviato dal suo datore di lavoro per un altra "missione", si trova fianco a fianco con Lester Nygaard, un assicuratore insignificante, un uomo totalmente succube della moglie brontolona e del fratello spaccone e brillante. I due si trovano seduti fianco a fianco, appunto, nella sala d'attesa dell'ospedale locale. Lester è stato appena vittima di bullismo, se così si può dire. Nonostante l'età adulta, ha incrociato per strada Sam Hess, un vecchio compagno di scuola, che è rimasto prepotente come al liceo, ha sposato una spogliarellista, è sospettato di fare affari con bande di malviventi, e ha due figli davvero scemi. Il risultato dell'incontro è il naso rotto di Lester, che però è davvero stufo di essere vessato praticamente da tutti. Malvo, spietato, calmo e pure molto intuitivo, comprende immediatamente la natura dell'uomo Lester, e gli instilla il seme della violenza e della vendetta in pochi minuti di colloquio, un colloquio a dir poco grottesco. Questo incontro fortuito scatenerà una serie di eventi incontrollabili, e non sempre negativi.
Potrebbe essere la nuova tendenza: riadattare per la televisione un grande film del recente passato. Fargo dei fratelli Coen, del 1996, fu uno degli apici della carriera dei due, un delizioso e surreale affresco di quella sonnacchiosa provincia statunitense del nord che messa di fronte a crimini efferati reagisce a modo suo. Un cast straordinario, una storia che non ti molla senza risultare incalzante, un gioiello. Il "discepolo" Noah Hawley, con la benedizione dei Coen, riprende la storia, la cambia moderatamente, la allunga dove necessario creando deliziosi intrecci e dando spiegazioni in più, approfondisce le psicologie dei personaggi, si prende tutto il tempo necessario ma ricava un prodotto sopraffino per palati esigenti. Un trittico di attori con i controfiocchi illumina ogni scena, o quasi. La (per me, ma anche per molti altri; era apparsa in un episodio di Prison Break) scoperta Allison Tolman nel ruolo del deputy Solverson, il multifunzionale Martin Freeman nei panni di Lester Nygaard, ed il sempre straordinario Billy Bob Thornton nella parte di Lorne Malvo (tra questi ultimi due, devo dire, la partita è durissima, a livello di prova attoriale, anche se devo dire che forse per me la bilancia pende un pochino dalla parte dell'inglese).
Naturalmente non è finita qui, perché il "contorno" non è da sottovalutare: Colin Hanks (Gus Grimly), Bob Odenkirk (Chief Oswalt), Adam Goldberg (Numbers), Oliver Platt (Stavros Milos), Keith Carradine (Lou Solverson), Kate Walsh (Gina Hess). Da tenere d'occhio (nei prossimi anni) Joey King (Greta Grimly), da non perdere la strana coppia Jordan Peele / Keegan-Micahel Key (i detectives Pepper e Budge).
Come per True Detective, pare che se ci sarà una seconda stagione (ancora, per Fargo, non c'è la certezza), la storia sarà totalmente differente come pure i ruoli. Non è ancora chiaro se però il cast rimarrà o sarà sconvolto.
Gennaio 2006. Lorne Malvo, uno spietato sicario, tanto spietato quanto calmo, passa quasi casualmente per Bemidji, Minnesota. Stava viaggiando in zona, con un uomo nudo nel bagagliaio, quando rimane vittima di un banale incidente stradale. L'uomo fugge nudo per i campi innevati, Malvo rimane lievemente ferito; si reca quindi al pronto soccorso, visto che è rimasto lievemente ferito nell'incidente, e visto che Bemidji si trova sulla strada per raggiungere il luogo dove è stato inviato dal suo datore di lavoro per un altra "missione", si trova fianco a fianco con Lester Nygaard, un assicuratore insignificante, un uomo totalmente succube della moglie brontolona e del fratello spaccone e brillante. I due si trovano seduti fianco a fianco, appunto, nella sala d'attesa dell'ospedale locale. Lester è stato appena vittima di bullismo, se così si può dire. Nonostante l'età adulta, ha incrociato per strada Sam Hess, un vecchio compagno di scuola, che è rimasto prepotente come al liceo, ha sposato una spogliarellista, è sospettato di fare affari con bande di malviventi, e ha due figli davvero scemi. Il risultato dell'incontro è il naso rotto di Lester, che però è davvero stufo di essere vessato praticamente da tutti. Malvo, spietato, calmo e pure molto intuitivo, comprende immediatamente la natura dell'uomo Lester, e gli instilla il seme della violenza e della vendetta in pochi minuti di colloquio, un colloquio a dir poco grottesco. Questo incontro fortuito scatenerà una serie di eventi incontrollabili, e non sempre negativi.
Potrebbe essere la nuova tendenza: riadattare per la televisione un grande film del recente passato. Fargo dei fratelli Coen, del 1996, fu uno degli apici della carriera dei due, un delizioso e surreale affresco di quella sonnacchiosa provincia statunitense del nord che messa di fronte a crimini efferati reagisce a modo suo. Un cast straordinario, una storia che non ti molla senza risultare incalzante, un gioiello. Il "discepolo" Noah Hawley, con la benedizione dei Coen, riprende la storia, la cambia moderatamente, la allunga dove necessario creando deliziosi intrecci e dando spiegazioni in più, approfondisce le psicologie dei personaggi, si prende tutto il tempo necessario ma ricava un prodotto sopraffino per palati esigenti. Un trittico di attori con i controfiocchi illumina ogni scena, o quasi. La (per me, ma anche per molti altri; era apparsa in un episodio di Prison Break) scoperta Allison Tolman nel ruolo del deputy Solverson, il multifunzionale Martin Freeman nei panni di Lester Nygaard, ed il sempre straordinario Billy Bob Thornton nella parte di Lorne Malvo (tra questi ultimi due, devo dire, la partita è durissima, a livello di prova attoriale, anche se devo dire che forse per me la bilancia pende un pochino dalla parte dell'inglese).
Naturalmente non è finita qui, perché il "contorno" non è da sottovalutare: Colin Hanks (Gus Grimly), Bob Odenkirk (Chief Oswalt), Adam Goldberg (Numbers), Oliver Platt (Stavros Milos), Keith Carradine (Lou Solverson), Kate Walsh (Gina Hess). Da tenere d'occhio (nei prossimi anni) Joey King (Greta Grimly), da non perdere la strana coppia Jordan Peele / Keegan-Micahel Key (i detectives Pepper e Budge).
Come per True Detective, pare che se ci sarà una seconda stagione (ancora, per Fargo, non c'è la certezza), la storia sarà totalmente differente come pure i ruoli. Non è ancora chiaro se però il cast rimarrà o sarà sconvolto.
20140720
In The Woods
Louie - di Louis C.K. - Stagione 4 (14 episodi; FX) - 2014
Anche se è difficile da credere, è ostico dire qualcosa di nuovo che non abbia già detto in passato, a proposito delle precedenti stagioni, su Louie, che continua ad essere uno dei prodotti più atipici mai visti in tv.
Ancor più difficile da credere, il fatto che Louie, il protagonista interpretato dal factotum Louis C.K., si permette il lusso di rimanere assurdo, surreale, e paradossalmente altamente educativo. Ebbene, provate per credere, una stagione che comincia con un episodio che ruota attorno all'acquisto di un vibratore (4x01 Back), tocca l'apice della delicatezza, commozione e grandezza con il doppio episodio In The Woods (4x11-12), nel quale Louie "becca" Lilly, la figlia più grande, a fumare marijuana, e non sapendo come fronteggiare la cosa, si mette a ricordare come lui, tredicenne, scoprì la marijuana. Superbo, tra l'altro, Jeremy Renner nei panni dello spacciatore Jeff.
Incredibile Louie, che passa da una sempre splendida Yvonne Strahovski (Blake nel 4x02 Model, dove ovviamente interpreta una modella che si porta a casa Louie dopo una fallimentare serata di beneficenza negli Hamptons - Louie apre per Jerry Seinfeld), in un episodio davvero surreale e al tempo stesso spassoso, a un F. Murray Abraham (che, come ricorderete, era già apparso nei panni del padre di Louie) sempre in ottima forma.
Una sorta di filo conduttore della stagione è lo stranissimo invaghimento di Louie per Amia, la nipote ungherese, che non parla una parola di inglese, della vicina di casa di Louie Evanka (un'anziana di origini ungheresi che Louie "salva" dopo che è rimasta bloccata nell'ascensore, interpretata da una bravissima Ellen Burstyn - sempre sia lodata), e la breve storia dei due che decidono di vivere questo rapporto "a scadenza", visto che Amia entro un mese dovrà tornare in Ungheria, perché là vive suo figlio e lei non ha la minima intenzione di lasciarlo - storia che darà luogo ad un finale in stile Louie, assurdo e commovente al tempo stesso; dopo di che la stagione stessa termina con il riavvicinamento di Louie e Pamela (Pamela Adlon).
Una gemma, davvero, questa serie che non può essere rinchiusa nella definizione comedy.
Qualche altra curiosità. Amia è interpretata da Eszter Balint, violinista ungherese apparsa anche in Stranger Than Paradise di Jarmusch, Ombre e nebbia di Allen, e Mosche da bar di Steve Buscemi, e che ha suonato tra gli altri anche con Marc Ribot e Michael Gira. Appaiono inoltre in alcuni episodi Edward Burns, Skipp Sudduth, Victor Garber, e naturalmente tutta una serie di stand-up comedian statunitensi. Spassoso pure Charles Grodin nei panni del dottor Bigelow, che maltratta Louie a più riprese.
Da non perdere.
Anche se è difficile da credere, è ostico dire qualcosa di nuovo che non abbia già detto in passato, a proposito delle precedenti stagioni, su Louie, che continua ad essere uno dei prodotti più atipici mai visti in tv.
Ancor più difficile da credere, il fatto che Louie, il protagonista interpretato dal factotum Louis C.K., si permette il lusso di rimanere assurdo, surreale, e paradossalmente altamente educativo. Ebbene, provate per credere, una stagione che comincia con un episodio che ruota attorno all'acquisto di un vibratore (4x01 Back), tocca l'apice della delicatezza, commozione e grandezza con il doppio episodio In The Woods (4x11-12), nel quale Louie "becca" Lilly, la figlia più grande, a fumare marijuana, e non sapendo come fronteggiare la cosa, si mette a ricordare come lui, tredicenne, scoprì la marijuana. Superbo, tra l'altro, Jeremy Renner nei panni dello spacciatore Jeff.
Incredibile Louie, che passa da una sempre splendida Yvonne Strahovski (Blake nel 4x02 Model, dove ovviamente interpreta una modella che si porta a casa Louie dopo una fallimentare serata di beneficenza negli Hamptons - Louie apre per Jerry Seinfeld), in un episodio davvero surreale e al tempo stesso spassoso, a un F. Murray Abraham (che, come ricorderete, era già apparso nei panni del padre di Louie) sempre in ottima forma.
Una sorta di filo conduttore della stagione è lo stranissimo invaghimento di Louie per Amia, la nipote ungherese, che non parla una parola di inglese, della vicina di casa di Louie Evanka (un'anziana di origini ungheresi che Louie "salva" dopo che è rimasta bloccata nell'ascensore, interpretata da una bravissima Ellen Burstyn - sempre sia lodata), e la breve storia dei due che decidono di vivere questo rapporto "a scadenza", visto che Amia entro un mese dovrà tornare in Ungheria, perché là vive suo figlio e lei non ha la minima intenzione di lasciarlo - storia che darà luogo ad un finale in stile Louie, assurdo e commovente al tempo stesso; dopo di che la stagione stessa termina con il riavvicinamento di Louie e Pamela (Pamela Adlon).
Una gemma, davvero, questa serie che non può essere rinchiusa nella definizione comedy.
Qualche altra curiosità. Amia è interpretata da Eszter Balint, violinista ungherese apparsa anche in Stranger Than Paradise di Jarmusch, Ombre e nebbia di Allen, e Mosche da bar di Steve Buscemi, e che ha suonato tra gli altri anche con Marc Ribot e Michael Gira. Appaiono inoltre in alcuni episodi Edward Burns, Skipp Sudduth, Victor Garber, e naturalmente tutta una serie di stand-up comedian statunitensi. Spassoso pure Charles Grodin nei panni del dottor Bigelow, che maltratta Louie a più riprese.
Da non perdere.
20140719
20140718
la grande valchiria del West
Great Western Valkyrie - Rival Sons (2014)
Potrei fare lo stesso discorso fatto in apertura della recensione del precedente Head Down, con la sola eccezione che non ho pensato per niente all'amico Filo. O quasi.
Sono d'accordo con una recensione letta di recente, che osa dire, di questo Great Western Valkyrie, che sia fin'ora il miglior disco della band di Long Beach, California. Un disco godibilissimo, che affina la tecnica clonistica (si può dire? Boh) dei seventies, che li fa assomigliare un po' ai Led Zep, un po' ai The Doors, un po' ai Free, un po' ai The Animals e via aggiungendo Deep Purple, Bad Company, smussando di molto le velleità psichedeliche, divagando meno e concentrandosi sulle canzoni. Ottenendo così dei piccoli capolavori di hard rock senza tempo, a cominciare dalla straordinaria apertura di Electric Man. Non starò qui a farvi l'elenco dei pezzi fulminanti del disco. Vi basti sapere che esordisce nella formazione il bassista Dave Beste (a sostituire la defezione di Robin Everhart), che spicca su diversi brani, e che il chitarrista Scott Holiday appare in grande forma. Curiosità: tutti e dieci i pezzi hanno un "sottotitolo" oltre al titolo.
Enjoy.
Potrei fare lo stesso discorso fatto in apertura della recensione del precedente Head Down, con la sola eccezione che non ho pensato per niente all'amico Filo. O quasi.
Sono d'accordo con una recensione letta di recente, che osa dire, di questo Great Western Valkyrie, che sia fin'ora il miglior disco della band di Long Beach, California. Un disco godibilissimo, che affina la tecnica clonistica (si può dire? Boh) dei seventies, che li fa assomigliare un po' ai Led Zep, un po' ai The Doors, un po' ai Free, un po' ai The Animals e via aggiungendo Deep Purple, Bad Company, smussando di molto le velleità psichedeliche, divagando meno e concentrandosi sulle canzoni. Ottenendo così dei piccoli capolavori di hard rock senza tempo, a cominciare dalla straordinaria apertura di Electric Man. Non starò qui a farvi l'elenco dei pezzi fulminanti del disco. Vi basti sapere che esordisce nella formazione il bassista Dave Beste (a sostituire la defezione di Robin Everhart), che spicca su diversi brani, e che il chitarrista Scott Holiday appare in grande forma. Curiosità: tutti e dieci i pezzi hanno un "sottotitolo" oltre al titolo.
Enjoy.
20140717
Hell is an Understatement (8)
continua da martedì 15 luglio
Senza una vittoria definitiva
Nel cuore climatizzato dell’incubo centrafricano, Samba-Panza cerca di mantenere la sua compostezza di avvocata. È facile capire perché sia riuscita ad affermarsi come candidata di compromesso per la guida del paese. Ma mi fa tanto pensare a un difensore d’ufficio che deve seguire un cliente impazzito, che non può più essere difeso né salvato. L’ufficiale ruandese responsabile della sicurezza della presidente è seduto vicino a noi durante l’intervista, e rimane sempre in silenzio. Nel suo paese la guerra finì solo quando il Fronte patriottico ruandese, guidato dal leader tutsi Paul Kagame, ottenne una vittoria decisiva. In seguito gli hutu sono stati integrati forzatamente nelle istituzioni del governo e della società civile.
Ma il Ruanda non sarebbe arrivato a tanto se uno dei due schieramenti non avesse vinto la guerra. Per la Repubblica Centrafricana, dove – si spera– le forze di pace impediranno che la situazione precipiti come in Ruanda, la prospettiva di una vittoria definitiva degli anti-balaka o della coalizione ribelle Séléka rianimata e vendicativa è un esito che sarebbe meglio evitare. La sicurezza dall’esterno sta lentamente arrivando, ma una sicurezza senza una dose di clemenza e perdono da parte degli stessi centrafricani è solo una ricetta per rinviare
ulteriormente il disastro. Samba-Panza preferisce parlare dei suoi progetti per il rilancio dell’economia. Quando l’intervista si sta per concludere, sentiamo dei colpi di arma da fuoco provenienti dal centro della capitale. Nessuno dei due sembra farci caso, ma io mi trovo a prolungare i saluti più di quanto sarebbe necessario, assaporando un altro minuto di pace prima di tornare a una realtà che nessun paese dovrebbe mai trovarsi ad affrontare.
=====
I numeri della crisi
Prima dell’inizio della crisi scatenata dal colpo di stato contro il presidente François Bozizé, nel marzo del 2013, la Repubblica Centrafricana aveva, secondo le stime delle Nazioni Unite, una popolazione di 4,6 milioni di persone, formata per il 40 per cento da minori di quindici anni. Anche se la lingua ufficiale è il francese, la maggior parte della popolazione parla il sango. La religione più diffusa è quella cristiana (cattolici e protestanti formano almeno il 50 per cento della popolazione), mentre il 35 per cento dei centrafricani segue credenze tradizionali e il 15 per cento l’islam. Anche prima della crisi, la Repubblica Centrafricana è sempre stata povera: era al 180° posto su 187 nella classifica dell’indice di sviluppo umano 2013 dell’Onu. Man mano che, verso la fine del 2013, il conflitto interno ha assunto i contorni di uno scontro religioso, almeno seicentomila centrafricani (di cui 160mila abitanti di Bangui) sono stati costretti ad abbandonare le loro case. Altre 350mila persone sono fuggite nei paesi confinanti: Camerun, Ciad, Congo e Repubblica Democratica del Congo. La Commissione europea stima che almeno 2,5 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria. Non esistono invece dati sulle vittime delle violenze degli ultimi mesi. Da dicembre del 2013 l’Unione europea ha stanziato 51 milioni di euro di aiuti umanitari per la Repubblica Centrafricana.
fine
Senza una vittoria definitiva
Nel cuore climatizzato dell’incubo centrafricano, Samba-Panza cerca di mantenere la sua compostezza di avvocata. È facile capire perché sia riuscita ad affermarsi come candidata di compromesso per la guida del paese. Ma mi fa tanto pensare a un difensore d’ufficio che deve seguire un cliente impazzito, che non può più essere difeso né salvato. L’ufficiale ruandese responsabile della sicurezza della presidente è seduto vicino a noi durante l’intervista, e rimane sempre in silenzio. Nel suo paese la guerra finì solo quando il Fronte patriottico ruandese, guidato dal leader tutsi Paul Kagame, ottenne una vittoria decisiva. In seguito gli hutu sono stati integrati forzatamente nelle istituzioni del governo e della società civile.
Ma il Ruanda non sarebbe arrivato a tanto se uno dei due schieramenti non avesse vinto la guerra. Per la Repubblica Centrafricana, dove – si spera– le forze di pace impediranno che la situazione precipiti come in Ruanda, la prospettiva di una vittoria definitiva degli anti-balaka o della coalizione ribelle Séléka rianimata e vendicativa è un esito che sarebbe meglio evitare. La sicurezza dall’esterno sta lentamente arrivando, ma una sicurezza senza una dose di clemenza e perdono da parte degli stessi centrafricani è solo una ricetta per rinviare
ulteriormente il disastro. Samba-Panza preferisce parlare dei suoi progetti per il rilancio dell’economia. Quando l’intervista si sta per concludere, sentiamo dei colpi di arma da fuoco provenienti dal centro della capitale. Nessuno dei due sembra farci caso, ma io mi trovo a prolungare i saluti più di quanto sarebbe necessario, assaporando un altro minuto di pace prima di tornare a una realtà che nessun paese dovrebbe mai trovarsi ad affrontare.
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I numeri della crisi
Prima dell’inizio della crisi scatenata dal colpo di stato contro il presidente François Bozizé, nel marzo del 2013, la Repubblica Centrafricana aveva, secondo le stime delle Nazioni Unite, una popolazione di 4,6 milioni di persone, formata per il 40 per cento da minori di quindici anni. Anche se la lingua ufficiale è il francese, la maggior parte della popolazione parla il sango. La religione più diffusa è quella cristiana (cattolici e protestanti formano almeno il 50 per cento della popolazione), mentre il 35 per cento dei centrafricani segue credenze tradizionali e il 15 per cento l’islam. Anche prima della crisi, la Repubblica Centrafricana è sempre stata povera: era al 180° posto su 187 nella classifica dell’indice di sviluppo umano 2013 dell’Onu. Man mano che, verso la fine del 2013, il conflitto interno ha assunto i contorni di uno scontro religioso, almeno seicentomila centrafricani (di cui 160mila abitanti di Bangui) sono stati costretti ad abbandonare le loro case. Altre 350mila persone sono fuggite nei paesi confinanti: Camerun, Ciad, Congo e Repubblica Democratica del Congo. La Commissione europea stima che almeno 2,5 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria. Non esistono invece dati sulle vittime delle violenze degli ultimi mesi. Da dicembre del 2013 l’Unione europea ha stanziato 51 milioni di euro di aiuti umanitari per la Repubblica Centrafricana.
fine
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