No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20100512

waiting list


Paesi in lista d’attesa


Graeme Wood, Foreign Policy, Stati Uniti


Rilasciano passaporti ed emettono visti. Eleggono governi e battono moneta. Si comportano come veri stati, ma la comunità internazionale si rifiuta di riconoscerli e preferisce mantenerli nel limbo.


Durante il mio ultimo viaggio nella Repubblica dell’Abkhazia ho intervistato il viceministro degli esteri, Maksim Gundija, sugli scambi commerciali tra il suo paese (che formalmente non esiste) e i veri stati confinanti afacciati sul mar Nero. Alla fine della nostra chiacchierata il ministro ha fatto una pausa, ha dato un’occhiata alla mia gamba e mi ha chiesto perché sanguinava. Gli ho risposto che qualche ora prima ero scivolato e avevo una ferita grande come una moneta da un rublo. La fasciatura era piena di sangue e dovevo farmi mettere dei punti. “Può andare nel nostro ospedale, ma le condizioni le sembreranno disastrose”, ha detto Gundija. E così mi ha spedito nel palazzo accanto: nel giro di venti minuti la mia gamba era stesa su un tavolo di legno scuro e io storcevo la bocca per il dolore mentre il ministro della sanità in persona disinfettava la ferita con l’alcol. Non ero abituato a un servizio pubblico così personalizzato. Chissà se potevo chiedere al ministro dei trasporti di confermare la mia prenotazione del viaggio in pullman per la Georgia o chiedere al ministro delle finanze di rimborsarmi l’iva. I finti stati ce la mettono proprio tutta per ottenere lo status di paesi indipendenti. L’Abkhazia, insieme a un’altra decina di territori in attesa di essere riconosciuti come stati, è nel reparto prenatale della comunità internazionale.
Se il presente e il passato ci permettono di prevedere il futuro, molti di questi paesi embrionali non ce la faranno. Ma non per mancanza di impegno. I totem dell’autorità statale sono ovunque: uffici affollati di funzionari in giacca e cravatta, bandierine su ogni scrivania, articoli di cancelleria
con gli emblemi nazionali e montagne di scartoffie burocratiche. Tutto questo per convincere gli stranieri come me che il riconoscimento internazionale sarebbe meritato. Il Nagorno-Karabakh, l’enclave separatista armena all’interno dell’Azerbaigian, rilascia visti con ologrammi raffinati e bolli difficili da falsificare. Il Somaliland, una repubblica relativamente tranquilla che si è staccata dalla Somalia devastata dalla guerra civile, conia una sua moneta ufficiale, lo scellino del Somaliland, il cui taglio più piccolo è talmente privo di valore, che per trasportare i contanti necessari a rifornire le loro casseforti, i cambiavalute devono usare animali da tiro. Tra questi territori ci sono vecchi focolai di tensione internazionale come la Palestina, Cipro del Nord e Taiwan ed enclavi più oscure come la Transnistria, il Sahara occidentale, il Puntland, il Kurdistan iracheno e l’Ossezia del Sud. Ognuno è dotato di un governo parzialmente operativo che amministra il suo territorio. Diciamo che vivono in un limbo. Cominciano a comportarsi come un vero paese e un giorno sperano di diventarlo a tutti gli effetti. In passato le regioni secessioniste hanno ottenuto rapidamente l’indipendenza o sono state riassimilate nel giro di qualche anno nel paese di origine, di solito dopo una sanguinosa guerra civile, come è successo al Biafra con la Nigeria. Oggi invece rimangono nel purgatorio politico più a lungo – alcuni vagano in un deserto giuridico da più di quindici anni – e generano un nuovo e pericoloso fenomeno internazionale: gli stati di serie B. Il timore principale è che l’occasionale fortuna di alcuni territori ne incoraggi altri alla secessione. Immaginate un mondo dove ogni movimento indipendente provvisto di una cassa di kalashnikov pensi di poter diventare un nuovo Kurdistan a patto di riuscire a ingaggiare i lobbisti giusti a Washington e di aprire un ministero degli esteri credibile nella sua capitale improvvisata. La seconda preoccupazione è che questi aspiranti paesi non abbiano gli stessi diritti e doveri dei paesi veri e propri, ma solo uno status ambiguo e armi senza leggi. Le Nazioni Unite, dopo tutto, seguono una logica binaria: o sei dentro o sei fuori, e se sei fuori non c’è posto per le tue bandierine da scrivania al Palazzo di vetro.
Guerre per procura
Negli ultimi anni ho visitato molte di queste enclavi. Ho ascoltato le pretese disperate del Khalistan, uno stato separatista sikh che si dà un gran da fare e vanta un presidente in esilio ma non ha nemmeno un centimetro di territorio ed esiste solo sul web. Ho sperimentato le gravi disfunzioni del Somaliland e ho visitato il Kurdistan iracheno, che con un po’ di ottimismo
potrebbe quasi essere definito un paese produttore di petrolio. Ciascuno di questi potenziali paesi ha nemici pronti a riprendersi il territorio secessionista e per questo incarna i fantasmi
di guerre passate e future. Ma ai paesi reali conviene lasciarli immobilizzati in crisi irrisolte senza arrivare a una soluzione deinitiva: il limbo è utile perché consente ai veri stati di scontrarsi per procura e di pretendere lealtà e tributi dai territori che dipendono dalla loro protezione. Purtroppo entrare a far parte a pieno titolo della comunità internazionale è più difficile che limitarsi ad affittare una stampante di qualità e cominciare a sfornare passaporti. Staccarsi da altri paesi è quasi sempre un’operazione violenta e nella maggioranza dei casi lascia frontiere che
sanguinano per decenni. Il Somaliland e l’Abkhazia esistono da quasi vent’anni ma il riconoscimento internazionale non sembra imminente. In realtà i pochi fortunati che sono riusciti a compiere il salto da enclave tormentata a nazione indipendente hanno completamente aggirato il limbo. Pensate a Timor Leste e al Kosovo, passati da un’occupazione brutale all’amministrazione dell’Onu per poi ottenere l’indipendenza e diventare due paesi neonati del ventunesimo secolo. Gli stati nel limbo, invece, cominciano con la violenza e poi s’impantanano
senza arrivare da nessuna parte. Il caso dell’Abkhazia è esemplare. La repubblica, che ha 190mila abitanti, occupa un tratto del litorale georgiano sul mar Nero. In epoca sovietica ci andavano in vacanza Stalin, Khrusciov e Brezhnev attirati dalle sue spiagge, dalle montagne, dai laghi e dalle pinete. Nei primi anni novanta tra l’Abkhazia e la Georgia scoppiò una guerra che uccise migliaia di persone su entrambi i fronti e costrinse centomila abitanti di etnia georgiana e mingreliana ad abbandonare le loro case in Abkhazia. Levatrice della ribellione abkhasa era stata la Russia. La Georgia era uno degli stati ex sovietici più disposti a esplorare possibili alleanze con
l’occidente, e l’Abkhazia consentiva alla Russia, sua alleata e garante, di punire la Georgia per l’infedeltà. Mosca inviò aiuti all’Abkhazia, aprì le sue frontiere al commercio e gradualmente
adottò misure che si spinsero fino quasi all’annessione. Nel 2006 concesse il passaporto russo a tutti gli abkhasi e, quando la repubblica era ormai completamente dipendente dalla Russia, fu il primo paese a riconoscerne l’indipendenza. Secondo gli abkhasi nell’estate del 2008 la Georgia
progettava di invadere il paese e solo un afflusso di soldati russi nella repubblica secessionista
indusse all’ultimo momento Tbilisi a cambiare obiettivo e rivolgersi all’Ossezia del Sud, un altro stato cliente di Mosca che si trova all’interno del territorio georgiano. La Russia non ha mai formalmente annesso l’Abkhazia sottraendola alla Georgia, e gli abkhasi, in cambio, obbediscono
comunque ai suoi ordini per essere sicuri che Mosca non abbia bisogno di annetterli. Questa garanzia dà molta sicurezza agli abkhasi che prendono in giro l’esercito georgiano schierato oltre la linea di confine. “Il primo soldato georgiano che attraverserà il fiume Inguri sarà ucciso da
un colpo di fucile”, ha giurato Gundija quando l’ho incontrato nell’autunno del 2009.
Grand hotel a Sukhumi
Mentre disinfettava la mia gamba, il ministro della sanità Zurab Marshanija – un dermatologo che non esercita più la professione – ha sospirato malinconicamente per la difficile situazione del suo governo. Gli ho detto che ero rimasto colpito del fatto che l’Abkhazia fosse tornata al vecchio
status sovietico di località turistica. L’ultima volta che ero stato a Sukhumi, la capitale, nel 2006, avevo trovato l’hotel Abkhazia, un tempo il gioiello del lungomare, bombardato e abbandonato alle erbacce. Adesso una metà è stata ristrutturata e il rivale, l’hotel Ritsa, ha aperto le sue suite ai ricchi turisti (circa un milione e quasi tutti russi) che ogni anno visitano l’Abkhazia: la stanza 208, dal cui balcone Lev Trotskij in vacanza arringò la folla in occasione della morte di Lenin, oggi costa 150 dollari a notte. Gli ospedali dell’Abkhazia saranno stati anche “disastrosi”, ma nell’insieme Sukhumi non sembra peggiore di una qualunque modesta cittadina del Minnesota. Marshanija mi ha risposto che fino a quando la Georgia avrà intenzione di riprendersi la regione queste conquiste resteranno fragili.
Il khat alla frontiera
Nel frattempo la politica estera dell’Abkhazia consiste nel corteggiare chiunque possa riconoscerne la sovranità: il governo nicaraguense guidato da Daniel Ortega, influenzato dai vecchi legami sovietici, l’ha fatto nel 2008 e il presidente venezuelano Hugo Chávez ha riconosciuto l’Abkhazia nel 2009. Ma a parte la Russia, la repubblica non ha relazioni ufficiali con altri paesi e le possibilità di movimento dei suoi diplomatici sono molto limitate. Gli Stati Uniti, alleati del presidente georgiano Mikheil Saakashvili, respingono le richieste di visto dei funzionari pubblici abkhasi, e altri paesi, tra cui l’India, si sono lasciati convincere a fare altrettanto. Questo ha lasciato la rappresentanza dell’Abkhazia in mano a volontari eccentrici come George Hewitt, professore di lingue caucasiche alla School of oriental and african studies di Londra che si è specializzato nella lingua locale, un fenomeno unico con 67 consonanti e una sola vocale. Hewitt conosce questa lingua come può saperla uno straniero e scrive saggi infiammati sulla questione abkhasa. Ma è più uno studioso che uno stratega politico. Incoraggiare lo sviluppo e la proliferazione di stati come l’Abkhazia ha creato proprio quel genere di statalità di serie B, con diritti e responsabilità incerte nell’ordine internazionale, che la diplomazia nei secoli scorsi ha avuto il compito di evitare. La pace di Westfalia del 1648 sancì un sistema internazionale di confini stabili e non prevedeva l’esistenza di enclavi indipendenti che, per esempio, la Francia poteva usare per fare pressioni sul Brandeburgo-Prussia. All’epoca si trattò di stabilire cosa fosse un territorio sovrano e accettare di farla finita con le guerre e la ambiguità. Questo anche per salvaguardare il destino di quelle enclavi, in modo che non fossero intrappolate nell’incertezza e usate come pedine coloniali dagli stati di serie A. Oggi i paesi del limbo subiscono proprio questo destino. L’Etiopia, che soffre ancora per aver perduto l’Eritrea, sua colonia di fatto fino al 1993, vent’anni fa ne ha adottata ufficiosamente un’altra all’estremità settentrionale della Somalia. Ai tempi della dittatura di Siad Barre, il Somaliland era una delle zone più difficili e ribelli della Somalia. Alla fine degli anni ottanta, Siad Barre uccise centinaia di migliaia di persone bombardando la città principale, Hargeisa, e le campagne circostanti. Dopo la caduta del dittatore, nel 1991, il Somaliland s’impose rapidamente come stato indipendente e sono quasi vent’anni che vive in pace. Il litorale che l’Etiopia ha perso in Eritrea l’ha riguadagnato nel Somaliland con il porto di Berbera, che è uno snodo commerciale cruciale per il golfo di Aden. Ma il sostegno dell’Etiopia al Somaliland è un oltraggio continuo per i somali di Mogadiscio. Come gli abkhasi, gli abitanti del Somaliland sono tanto disponibili quanto sfortunati. L’ho scoperto appena ho messo piede nel loro piccolo ufficio di rappresentanza ad Addis Abeba, la capitale etiopica. Nella maggior parte delle ambasciate africane i diplomatici considerano chi fa richiesta di visto come una fonte di reddito. Ma invece di un burocrate disonesto, nell’ufficio del Somaliland mi è apparso davanti un giovane magro ed energico con un commovente desiderio di mettere in buona luce il suo paese. Dopo avermi timbrato il passaporto si è seduto accanto a me per tracciare sulla
mappa l’itinerario del mio diicile viaggio via terra da Addis Abeba ad Hargeisa. “Qui si coltiva la migliore varietà di khat”, mi ha detto orgoglioso alludendo alla pianta leggermente narcotica che si mastica nella regione, mentre l’indice tracciava un piccolo cerchio intorno a un’area a ridosso del lato etiopico della frontiera. Per 20 dollari ha incollato sul mio passaporto un visto grande quanto una pagina che aveva lo stesso aspetto ufficiale di qualunque altro visto africano.
L’itinerario che mi ha descritto non aveva nessuna ufficialità, visto che l’Etiopia non riconosce le frontiere. A Jijiga, l’ultima grande città etiopica prima di entrare nel territorio del Somaliland, che si trova a dieci ore di macchina da Addis Abeba, ho dovuto dare la caccia a un funzionario di polizia perché annotasse sul mio passaporto che ero uscito dall’Etiopia legalmente: la frontiera esisteva solo su richiesta. Una volta entrato in Somaliland ci sono volute quasi due ore di guida fuori strada – attraverso colline di boscaglia desertica, passando accanto a pastori accovacciati in capanne fatte con sacchi di farina dell’Onu e di Usaid – prima di incontrare qualche traccia di un governo. Mentre guidavo verso Hargeisa le luci della città collinare erano l’unico punto luminoso all’orizzonte. A un certo punto due uomini armati di mitra mi hanno fermato per chiedermi i
documenti. Ho pensato che avrei dovuto fare quello che si fa a tante altre frontiere africane, cioè ammiccare, offrire da fumare e pagare una mazzetta per passare tranquillamente dall’altra parte. Ma i due uomini hanno trovato il timbro d’inchiostro blu nel mio passaporto e mi hanno fatto segno di proseguire, chiedendomi soltanto di registrare la mia presenza al ministero degli esteri il giorno dopo. A diferenza dell’Abkhazia, il Somaliland non mi è sembrato un luogo incantevole per cui valesse la pena morire. Forse per colpa del caldo – la temperatura superava
i 38 gradi – e per il divieto di bere durante il mese di Ramadan, o forse per gli occhi pulciosi e i denti macchiati di verde dei masticatori di khat fuori dalla mia stanza d’albergo. Il pasto tipico – spaghetti e carne di cammello tritata da mangiare con le mani – spiegava perché non fossi mai andato in un ristorante somalo fuori dalla Somalia.
Un cattivo esempio
I cittadini del Somaliland hanno continuato a ripetermi quanto sia cinica e crudele la comunità internazionale a non riconoscere il loro stato. Nell’ufficio satellite del ministero degli esteri creato per registrare l’ingresso dei rari turisti, due nervosi funzionari mi hanno fatto notare che in Somaliland si svolgono elezioni multipartitiche, c’è una stampa libera e che il governo è impegnato in una dura lotta contro il terrorismo. Tutto questo senza riconoscimento e senza l’aiuto della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale o di qualunque altra agenzia governativa. E in ogni caso, qual è l’alternativa? La restituzione alla Somalia significherebbe far tornare il Somaliland a quello che forse è lo stato più fallito del mondo. Mentre il Somaliland ha una guardia costiera efficiente, la Somalia ha una fiorente pirateria, e mentre Hargeisa è la capitale di un paese democratico, Mogadiscio è precipitata in un’anarchia spaventosa aggravata dalla pratica della sharia. Eppure, tutti nella regione sembrano favorevoli alla riunificazione. Gli stati arabi sono riluttanti ad accettare che la Somalia, un paese della Lega Araba, sia smembrata
e che una sua parte venga ceduta all’Etiopia, prevalentemente cristiana. L’Unione Africana teme che l’esempio del Somaliland possa convincere altri movimenti separatisti che, lottando con sufficiente energia, alla fine otterrebbero il loro posto alle Nazioni Unite. Il Somaliland risponde che la Somalia viene usata dagli stati stranieri proprio come l’Etiopia sta usando il Somaliland. Inoltre il paese si chiede se una democrazia pacifica e responsabile non meriti di essere incentivata, a prescindere dal fatto che sia nata da spinte separatiste. Ma per il momento persino l’Etiopia, il più stretto alleato regionale del Somaliland, non ha concesso il riconoscimento e non sembra disposta a farlo in tempi brevi. I critici accusano gli stati del limbo di fare le cose al contrario e perfino di praticare delle forme di “culto del cargo”, come avveniva all’inizio del novecento in alcune regioni del Pacifico sudoccidentale. Proprio come le tribù della Nuova Guinea costruivano piste aeree rudimentali per attirare gli aerei che trasportavano carichi preziosi, questi territori aprono ministeri degli esteri rudimentali nella vana speranza di attirare ambasciatori che portino con loro i riconoscimenti di Londra, Parigi e Washington. Questi critici sostengono che i paesi del limbo sono stati fatalmente ingannati su come dovrebbe funzionare l’indipendenza: il riconoscimento precede, e non segue, la creazione di un vero stato. L’elenco dei
paesi che hanno ottenuto l’indipendenza comportandosi prima come stati indipendenti e poi ottenendo il riconoscimento è corto. I pochi esempi di successo parziale (il Kosovo riconosciuto da 63 paesi e Taiwan da 23) fanno pensare che la lista d’attesa possa essere una condizione permanente e addirittura fatale. In realtà una volta che hanno raggiunto un certo livello di sviluppo, molti paesi cominciano a considerare la possibilità che l’indipendenza non sia il premio tanto sospirato. L’Abkhazia potrebbe essere entrata in questa fase. Dopo l’imbarazzante sconfitta subita dalla Georgia nel 2008 quando ha cercato di reclamare l’Ossezia del Sud – l’altro territorio nel limbo all’interno delle sue frontiere – l’Abkhazia è diventata più audace. Con l’appoggio della
Russia ha sviluppato il commercio e le infrastrutture. Nonostante il blocco imposto dalla marina georgiana ha ampliato gli scambi marittimi grazie ai mercantili turchi che, violando il divieto, raggiungono il porto russo di Soci e poi navigano sottocosta fino a raggiungere Sukhumi. Nessuno di questi territori vive in una condizione paragonabile a quella raggiunto dal Kurdistan iracheno. Negli anni novanta la regione è stata lacerata dalle divisioni interne, e i suoi leader in molte occasioni si sono accusati reciprocamente di essere peggio di Saddam Hussein. Nel 1996 il Partito democratico curdo si è alleato con Saddam Hussein contro l’Unione patriottica del Kurdistan (Puk) e ha invitato le forze di Saddam a Erbil per spazzare via i rivali. Poi nel 2002 le diverse fazioni hanno concluso una gelida tregua con l’obiettivo di collaborare per sconfiggere il regime e ottenere l’indipendenza. Il loro traguardo, almeno in teoria, rimane l’indipendenza. Il sospetto è che i politici del Kurdistan iracheno ci abbiano rinunciato e questo ha alimentato la sfiducia e la rabbia della popolazione.

Con l’aiuto dei repubblicani

Durante il mio primo viaggio a Erbil nel 2003, il governo curdo si manifestava soprattutto con le perquisizioni delle sue milizie peshmerga, che ogni giorno mettevano sottosopra il mio bagaglio per rovistarlo con implacabile attenzione. Poi, nel giro di pochi anni, i peshmerga si sono ammorbiditi e il governo sembrava essersi preparato al suo destino. Da allora la logica della piena indipendenza è diventata meno chiara, mentre l’apparato statale curdo è diventato più efficace e più sofisticato. Barham Salih, il rappresentante del Puk a Washington, ha guidato con successo gli
sforzi dei curdi per spingere gli Stati Uniti a rovesciare Saddam Hussein. Nel 2006 è diventato vicepremier del governo di Baghdad e dal 2009 è stato nominato primo ministro del Kurdistan iracheno. Il capo del Puk, Jalal Talabani, nel 2005 è stato eletto presidente dell’Iraq. A Washington i leader curdi hanno ingaggiato la Barbour Griffith & Rogers, una società di lobby legata ai repubblicani, e hanno cominciato a presentare con abilità la loro causa al mondo esterno, facendo meno ricorso a espressioni come “autonomia”, che avrebbero potuto spaventare i vicini turchi. Sono entrato in Kurdistan dalla Turchia a mezzanotte, a piedi, e ho ricevuto un grosso timbro con la scritta “Repubblica della regione del Kurdistan iracheno”. Su entrambi i lati della frontiera erano incolonnati centinaia di camion carichi di merci e pronti a pagare una somma consistente alla dogana. Il ricavato dei dazi non era destinato a Baghdad ma a Erbil, la capitale
curda. La Turchia è una controparte entusiasta di questo saccheggio ai danni del tesoro iracheno, disposta a far arricchire la leadership curda dell’Iraq purché non si spinga a chiedere al mondo di trattare le sue frontiere come se esistessero davvero. Quando mi sono lasciato alle spalle il confine meridionale del Kurdistan, dove comincia l’Iraq arabo con le sue spaventose carneficine, l’unico segnale del cambiamento di amministrazione era il diverso colore delle uniformi: la polizia irachena araba indossava divise azzurre, mentre i peshmerga avevano tute mimetiche color sabbia. Nei primi giorni dopo la caduta di Saddam Hussein, la frontiera era rappresentata da un check point sorvegliato attentamente che separava in modo netto il Kurdistan dall’Iraq. Oggi i curdi sono diventati meno pignoli nel segnare il confine. È come se volessero dire: dovete aver paura quando lasciate il nostro territorio sicuro per entrare nella terra delle autobombe. Non abbiamo bisogno di tracciare il nostro confine sulla carta. Basta guardarvi in faccia per sapere che l’avete superato. Nel 2006 la parola “indipendenza” era bisbigliata ovunque, ma non veniva mai
pronunciata apertamente. In compenso i funzionari curdi mi hanno portato a mangiare nel ristorante di un nuovo hotel che chiamavano lo Sheraton anche se non era un vero Sheraton (ma del resto questo non era un vero paese). Mi hanno fatto respirare la vernice fresca del nuovo aeroporto internazionale e mi hanno fatto ammirare le distese di appartamenti di lusso costruiti
da un’impresa edile turca. Insistere sulla questione dell’indipendenza sembrava inopportuno, ora che il limbo era diventato così vantaggioso.
Stelle marine
Nel corso dei miei viaggi negli stati del limbo, la conversazione è tornata spesso sull’Uruguay, dove nel 1933 fu concluso un accordo che oggi è un articolo di fede per questi territori. La convenzione di Montevideo sui diritti e doveri degli stati sanciva un modello di statalità che considerava i paesi come stelle marine, capaci di sopravvivere anche se gli viene mozzato un arto e capaci di far nascere nuovi stati indipendenti dagli arti tagliati. Oggi è conosciuta come la teoria
dichiarativa della statalità, perché il primo paragrafo del terzo articolo afferma che “l’esistenza politica di uno stato è indipendente dal riconoscimento degli altri stati”. In base alla convenzione, uno stato è un’entità con un territorio definito, una popolazione permanente e un governo che può intrattenere rapporti con altri stati. Inutile dire che se questo trattato – di cui gli Stati Uniti sono firmatari – fosse rispettato alla lettera, ogni territorio secessionista si trasformerebbe imediatamente in una vera nazione e ogni gruppo ribelle del pianeta si metterebbe a stampare biglietti da visita per un corpo diplomatico creato in fretta. Come altre ambiziose convenzioni internazionali, quella di Montevideo è caduta nell’oblio subito dopo la sua frma. Ma nemmeno il dritto riconosciuto ai paesi esistenti di mettere il veto su ogni movimento di autodeterminazione ha prodotto buoni risultati, e tra le due posizioni non è stata ancora raggiunta una via di mezzo.
Nel mondo nel limbo alcuni si accontentano di questa ambiguità. Nel suo ufficio di Sukhumi, Maksim Gundija osservava che essere una pedina di Mosca non è meno imbarazzante che essere una pedina di Washington, come la Georgia. E in ogni caso, il riconoscimento è sopravvalutato, finché l’economia del territorio secessionista è povera. “Qual è il vantaggio di essere riconosciuti come l’Afghanistan?”, mi ha chiesto. “Hanno la prima bandiera nella piazza dell’Onu, ma chi vuole vivere in quel paese?”. Quella sera, mentre zoppicavo sulla passeggiata lungo il mar Nero, lentamente per evitare che la ferita alla gamba si riaprisse, non avevo difficoltà a capire il suo punto di vista. In effetti, non era chiaro perché l’Abkhazia stesse inseguendo il riconoscimento con tanta ostinazione, dal momento che anche se l’avesse ottenuto probabilmente sarebbe rimasta dipendente dalla Russia per quasi tutto, sicurezza compresa. Per il momento un’occhiata alla costa dimostrava che l’Abkhazia aveva più ricchezze di tanti paesi veri: la bellezza di un mare illuminato dalla luna e un inizio di prosperità assicurato da un lusso di turisti felici di sborsare i loro rubli per affittare eleganti stanze d’albergo, vino a buon mercato e dolci caucasici. I turisti russi che mi passavano accanto erano un promemoria costante del fatto che il desiderio di vera indipendenza, dalla Georgia e dalla Russia, non era realistico per quanto gli abkhasi si sforzassero di realizzarlo. Mentre osservavo quella scena, i raggi della luna hanno illuminato una nave in lontananza. Il pensiero che quella nave potesse battere solo bandiera russa o georgiana mi ha fatto capire per un attimo perché continuano a provarci.



La Repubblica di Abkhazia ha una supericie di 8.600 chilometri quadrati. Nel 1992 ha rivendicato l’indipendenza dalla Georgia. Solo Russia, Nicaragua, Venezuela e Nauru riconoscono il paese.


La Repubblica del Somaliland si è proclamata indipendente nel 1991. Ha una superficie di 137.600 chilometri quadrati e 3,5 milioni di abitanti. Ha relazioni con diversi paesi, ma nessun riconoscimento.

Il Kurdistan iracheno ha goduto di un’indipendenza de facto dalla prima guerra del Golfo nel 1991. Nel 2005 la nuova costituzione irachena ne ha formalizzato l’autonomia, che è riconosciuta anche dalle Nazioni Unite.

===========================

Da Internazionale nr.831

Nella foto, Sukhumi, Abkhazia

Nessun commento: