No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20130924

siamo o non siamo?

Un punto di vista "esterno" sul nostro presunto razzismo (sapete che io la penso esattamente come questa scrittrice statunitense di origini etiopi, sugli svariati punti da lei toccati in questo articolo); da The Guardian, tradotto su Internazionale numero 1017.


Razzisti per tradizione
di Maaza Mengiste
Gli insulti contro Cécile Kyenge derivano anche dall'incapacità italiana di fare i conti con il passato coloniale

Il 4 settembre, di fronte alla sede del X municipio di Roma, dove era attesa la visita di Cécile Kyenge, prima donna nera alla guida di un ministero italiano, sono stati trovati tre manichini coperti di sangue finto. Accanto c’erano dei volantini su cui si leggeva: “L’immigrazione è il genocidio dei popoli. Kyenge dimettiti”. È l’ultimo di una serie sconvolgente di attacchi e minacce contro la ministra. Un ex ministro ha detto che somigliava a un orango e un vicesindaco l’ha paragonata a una prostituta. Infine, qualcuno le ha lanciato delle banane durante un discorso. La sua nomina a ministra dell’integrazione non ha solo scoperchiato i problemi dell’Italia con la tolleranza razziale, ma ha anche smentito il luogo comune degli “italiani brava gente”. È questo luogo comune che mi ha spinto a scegliere l’Italia come argomento del mio nuovo libro. Un’idea che contraddice le esperienze di mio nonno, e della sua generazione, che combattè contro l’invasione fascista dell’Etiopia e subì cinque anni di occupazione italiana. Il partito fascista e Benito Mussolini governarono a Roma dal 1922 al 1943, e durante quel periodo l’Italia ampliò il suo impero oltre la Libia, l’Eritrea e la Somalia. Nel 1935 invase l’Etiopia con una miscela devastante di guerra aerea e attacchi terrestri. Gli etiopici dovettero subire il gas mostarda, i campi di concentramento e i massacri, tattiche che l’Italia mise a punto in Libia, dove si svolse per trent’anni una lotta brutale che gli italiani definirono “campagna di pacificazione”. I resoconti della guerra in Etiopia erano censurati e si parlava invece della missione civilizzatrice portata avanti dall’Italia. Inoltre, si sottoponeva la lingua ad accurate manipolazioni per convincere gli italiani non solo che avevano diritto di prendersi la terra di un altro popolo, ma anche che si trattava di un gesto di benevolenza. La cosa che più colpisce è che la vicenda coloniale italiana è quasi assente dai libri di storia e dal dibattito nazionale. Solo nel 1996, sessant’anni dopo, il ministero della difesa ha ammesso l’uso del gas mostarda nella campagna d’Etiopia. La Germania ha avuto i processi di Norimberga, il Sudafrica la sua Commissione per la verità e la riconciliazione. Nell’Italia nel dopoguerra è mancato un dibattito simile che avviasse il paese sul difficile cammino verso la pacificazione.
Trasformazione
Questi momenti di presa di coscienza ci hanno dimostrato che affrontare gli eventi dolorosi del passato cementa la memoria collettiva e contribuisce a creare un vocabolario del pentimento. Riavvicina quanti ebbero il potere di ferire e quanti hanno il potere di perdonare. Il compito dell’Italia dal 1861, l’anno dell’unificazione, è stato quello di accomunare gruppi di persone molto diverse e spesso in conflitto fra loro. Si attribuisce a Massimo d’Azeglio la frase: “Abbiamo fatto l’Italia. Ora dobbiamo fare gli italiani”. L’identità collettiva dell’Italia, ammesso che esista, è stata costruita con cura. Un’identità che ha avuto tra le sue componenti la pelle bianca. E che oggi si sente messa in discussione dalla presenza della ministra Kyenge. Ma l’Italia, volente o nolente, sta subendo una trasformazione. Gli immigrati di prima o di seconda generazione, e altri italiani, stanno tentando di modificare le leggi discriminatorie, combattono per una maggiore consapevolezza del passato e delle potenzialità per il futuro. Ricordo una cena a Roma con amici e colleghi. Da un altro tavolo è stato fatto un commento ad alta voce sul colore della mia pelle, il cibo, e certe volgari allusioni sessuali. Gli amici che mi stavano accanto sono rimasti esterrefatti. Poco dopo un signore anziano mi ha fatto l’occhiolino, e quando ho protestato ha allargato le braccia e si è messo a ridere. Se non avessimo sentito tutti quel che aveva appena detto, sarebbe sembrato un tipo allegro che era stato frainteso e ingiustamente accusato. Un esemplare degli “italiani brava gente”. Invece gli insulti a Cécile Kyenge sono stati molto più virulenti, non c’era la decantata giovialità degli italiani. Un mito che resiste solo perché non ci sono sanzioni severe contro i politici e i gruppi responsabili di certe violenze verbali. Occorre fare i conti con il proprio passato, coinvolgendo tutti gli italiani. Ho chiesto a una mia amica italiana di origini somale cosa ne pensasse degli insulti a Kyenge. “Questo è il mio paese”, mi ha risposto. “Stiamo lavorando per migliorarlo. Oggi più che mai, l’Italia ha bisogno di persone come me”.

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