Rectify - di Ray McKinnon - Stagione 2 (10 episodi; Sundance Channel) - 2014
Daniel è in coma in un ospedale di Atlanta, in seguito al pestaggio subito nel finale della prima stagione. Amantha, la sorella che ormai ha costruito la propria vita su quella di Daniel, sul suo rilascio e sulla sua assoluzione, e la madre Janet, che ancora non riesce a scrollarsi di dosso il senso di colpa per non averci creduto tanto quanto la figlia, sono costantemente al suo capezzale, aggredendo quasi i dottori per una parvenza di novità positiva. Nel frattempo, Daniel rivive alcuni momenti della sua prigionia, e se ne inventa di nuovi, insieme all'amico vicino di cella Kerwin, che diventa la proiezione del suo inconscio, e che lo stimola a tornare verso la vita. Fuori, lo sceriffo Daggett sta forse cambiando punto di vista, dopo l'aggressione a Daniel, mentre Ted Jr. sta faticosamente cercando di mettere in piedi un'attività propria, e di andare realmente d'accordo con la moglie Tawney.
Oltre a rileggere la trama del primo episodio Running With the Bull, stavolta mi sono rivisto un paio di dialoghi, quelli onirici tra Daniel e Kerwin, all'inizio e alla fine dell'episodio. E, indovinate un po'? Si, amici, ho pianto. Di nuovo. C'è poco da fare, questa serie, questa situazione di quest'uomo che viene privato dell'adolescenza, viene incarcerato per 19 anni, condannato a morte e poi scarcerato da adulto, che si ritrova a dover ricominciare a vivere la vita senza averne le capacità o l'esperienza, mentre attorno a lui la cittadina dove è nato si divide in maniera aspra tra innocentisti e colpevolisti, ti tocca nel profondo, probabilmente laggiù dove ognuno di noi continua a chiedersi quale sia il senso della vita.
Questo come punto di partenza. Per allargare il discorso, Rectify prosegue nel suo percorso lentissimo (se pensavate, per dire, che il ritmo di Breaking Bad fosse lento, comparatelo con questo) verso la ricerca della verità, anche se dimostra che questa non è precisamente la cosa che la serie si prefigge. Al pari dei flashback della prigione, alcuni dolorosi ma molto spesso davvero belli ed intensi, le vicende che si sviluppano nella fittizia cittadina di Paulie e nei suoi dintorni, ci raccontano di meschinità ed incomprensioni umane. E' inutile sperare in un pallido ritorno alla normalità per una vita ed una famiglia che è stata scossa da tale sisma; in parte, si giustifica l'apparente decisione che Daniel prende verso il finale di stagione. Ma vi ho già detto troppo: se non vi interessa l'azione, ma volete qualcosa che vi lasci dentro un briciolo di umanità, Rectify fa al caso vostro.
Non riesco a smettere di pensare che il creatore sia contro la pena di morte; ingiustificabile altrimenti il fatto che le migliori persone siano proprio due carcerati nel braccio della morte (o, comunque, le storylines che ne derivano: a parte che tutto l'episodio è magnifico, ma la visita - non parlo di quella al museo, spassosa - alla quale assistiamo nell'episodio 2x04 Donald the Normal è praticamente strappacuore). Rectify non manca neppure di un certo obliquo umorismo, basicamente generato dal protagonista e dal suo strano adattamento alla vita fuori dalla prigione dopo 19 anni. Cast impeccabile, fotografia luminosa e colonna sonora che estremizza le parti drammatiche.
Curiosità varie: in questa stagione, 3 episodi (il primo e l'ultimo, carichi di emozioni, ed il 2x03) sono stati diretti da Stephen Gyllenhaal, il padre degli attori Jake e Maggie; la serie è stata rinnovata per una terza stagione, che andrà in onda nel 2015 e che probabilmente sarà composta da 6 episodi, come la prima.
No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.
20140930
20140929
grossa quantità
Motherload - The Graviators (2014)
C'è stato un momento, dopo aver ripreso l'ascolto di questo terzo disco della band svedese, in cui mi sono chiesto: "ma che senso ha?". La domanda andava naturalmente verso la comprensione del senso di essere l'ennesima band clone dei Black Sabbath, una band che come sapete io osanno, ma che per la cronaca, si ostina ad esistere senza in realtà riuscirci. Devo ammettere che, forse per la prima volta, la cosa mi ha infastidito. Ecco, questo è bene dirlo, soprattutto per quella cosa che si chiama (con una definizione orrenda, ammetto pure questo) onestà intellettuale. A volte mi sorprendo (a volte no), per quanto so essere paradossale. Infatti, mi esalto per cose completamente nuove, spingo artisti o band che, come i grandi navigatori della metà del millennio scorso, si spingono oltre i confini conosciuti, per cercare, e a volte trovare, qualcosa di completamente nuovo. E a volte, come nell'atto masturbatorio, mi sorprendo dandomi piacere ascoltando band come queste, che non aggiungono assolutamente niente a quello che è già stato detto, anzi, fanno di tutto per farti esclamare "questo viene da qui, quest'altro viene da qua".
In breve, Motherload, come detto terzo full length del quartetto svedese, è un disco tutto giocato sulle reminiscenze sabbathiane, con un tocco di Iron Maiden spruzzato qua e là, soprattutto durante gli assoli di chitarra. Le canzoni sono ben composte e ben suonate, la voce di Niklas Sjoberg ricorda quella di Ozzy, il disco è piacevole nel suo complesso e ti riporta indietro di almeno 30 anni, se non di 40.
Se questi ragazzi sono felici suonando questo genere musicale, chi sono io per dire che fanno male?
Third album by the Swedish band, which simply takes the songwriting of Black Sabbath, plus a little Iron Maiden-style of guitar solos. Nothing new, but absolutely well played and constructed. Who am I to say no?
C'è stato un momento, dopo aver ripreso l'ascolto di questo terzo disco della band svedese, in cui mi sono chiesto: "ma che senso ha?". La domanda andava naturalmente verso la comprensione del senso di essere l'ennesima band clone dei Black Sabbath, una band che come sapete io osanno, ma che per la cronaca, si ostina ad esistere senza in realtà riuscirci. Devo ammettere che, forse per la prima volta, la cosa mi ha infastidito. Ecco, questo è bene dirlo, soprattutto per quella cosa che si chiama (con una definizione orrenda, ammetto pure questo) onestà intellettuale. A volte mi sorprendo (a volte no), per quanto so essere paradossale. Infatti, mi esalto per cose completamente nuove, spingo artisti o band che, come i grandi navigatori della metà del millennio scorso, si spingono oltre i confini conosciuti, per cercare, e a volte trovare, qualcosa di completamente nuovo. E a volte, come nell'atto masturbatorio, mi sorprendo dandomi piacere ascoltando band come queste, che non aggiungono assolutamente niente a quello che è già stato detto, anzi, fanno di tutto per farti esclamare "questo viene da qui, quest'altro viene da qua".
In breve, Motherload, come detto terzo full length del quartetto svedese, è un disco tutto giocato sulle reminiscenze sabbathiane, con un tocco di Iron Maiden spruzzato qua e là, soprattutto durante gli assoli di chitarra. Le canzoni sono ben composte e ben suonate, la voce di Niklas Sjoberg ricorda quella di Ozzy, il disco è piacevole nel suo complesso e ti riporta indietro di almeno 30 anni, se non di 40.
Se questi ragazzi sono felici suonando questo genere musicale, chi sono io per dire che fanno male?
Third album by the Swedish band, which simply takes the songwriting of Black Sabbath, plus a little Iron Maiden-style of guitar solos. Nothing new, but absolutely well played and constructed. Who am I to say no?
20140928
utopia
Utopia - di Dennis Kelly - Stagione 2 (6 episodi; Channel 4) - 2014
Un passo indietro, si parte con un passo indietro fino agli anni '70. Siamo addirittura nell'Italia degli anni di piombo, appena dopo l'omicidio Moro da parte delle Brigate Rosse. Philip Carvel si trova in Italia con la figlioletta Jessica. Che i personaggi che gli girano intorno non siano esattamente dei cittadini qualunque, si capisce dal fatto che nella prima scena del primo episodio, Carvel si ritrova testimone dell'omicidio Pecorelli. A parte l'antefatto, vediamo un giovane Carvel che, affascinato da Milner, comincia a lavorare alacremente al progetto Janus, e scopriamo poco a poco la vita certo non facile di questa mente eccelsa, e vediamo muovere i primi passi ai suoi due figli, Pietre e Jessica, mai così diversi. Quando, ormai ad un passo dal termine della messa a punto di Janus, Carvel lo modifica, Milner non la prende molto bene. Tortura Carvel per farsi dire che cosa ha modificato, ma Carvel riesce a fuggire. Non prima di aver iniettato alla figlia Jessica il virus...
Beh, dopo aver affascinato un po' tutti con la prima stagione, la seconda di Utopia ha un po' diviso il pubblico. Naturalmente, anche quelli (leggermente) delusi, vogliono una terza stagione. Fate voi i conti.
L'introduzione è totalmente spiazzante: ho dovuto controllare che non avessi sbagliato serie. Ma, superato lo spiazzamento, ecco che si capisce che Dennis Kelly non è uno che scrive le cose a caso. Caso Moro e omicidio Pecorelli tanto per gradire, e per chiarire che si, è finzione, ma ancora per quanto? Utopia si conferma un gigantesco spettacolo, una fotografia killer, una colonna sonora che sembra prenderti per il culo continuamente, una serie di personaggi talmente assurdi da risultare dannatamente veri, una trama fanta-complottistica che però ti instilla il dubbio del tipo "in effetti potrebbe essere una soluzione...", un rutilare di colpi di scena e attori perfettamente in parte. Nonostante possa capire quelli che hanno avanzato delle "lamentele" per questo o quest'altro motivo, la svolta inerente la modifica del virus è semplicemente geniale, e questa, a mio giudizio, è solo una delle buone ragioni per vedersi anche la seconda stagione di Utopia, aspettando pazientemente la terza, visto che, come sapete, gli inglesi amano prendersela comoda anche con le serie di buon successo.
Di sicuro, non è una delle solite serie. Vi "allego" l'inizio dell'episodio 2x06, l'ultimo al momento, uno speech che fa venire i brividi, ma anche una certa voglia di riflessione...
Un passo indietro, si parte con un passo indietro fino agli anni '70. Siamo addirittura nell'Italia degli anni di piombo, appena dopo l'omicidio Moro da parte delle Brigate Rosse. Philip Carvel si trova in Italia con la figlioletta Jessica. Che i personaggi che gli girano intorno non siano esattamente dei cittadini qualunque, si capisce dal fatto che nella prima scena del primo episodio, Carvel si ritrova testimone dell'omicidio Pecorelli. A parte l'antefatto, vediamo un giovane Carvel che, affascinato da Milner, comincia a lavorare alacremente al progetto Janus, e scopriamo poco a poco la vita certo non facile di questa mente eccelsa, e vediamo muovere i primi passi ai suoi due figli, Pietre e Jessica, mai così diversi. Quando, ormai ad un passo dal termine della messa a punto di Janus, Carvel lo modifica, Milner non la prende molto bene. Tortura Carvel per farsi dire che cosa ha modificato, ma Carvel riesce a fuggire. Non prima di aver iniettato alla figlia Jessica il virus...
Beh, dopo aver affascinato un po' tutti con la prima stagione, la seconda di Utopia ha un po' diviso il pubblico. Naturalmente, anche quelli (leggermente) delusi, vogliono una terza stagione. Fate voi i conti.
L'introduzione è totalmente spiazzante: ho dovuto controllare che non avessi sbagliato serie. Ma, superato lo spiazzamento, ecco che si capisce che Dennis Kelly non è uno che scrive le cose a caso. Caso Moro e omicidio Pecorelli tanto per gradire, e per chiarire che si, è finzione, ma ancora per quanto? Utopia si conferma un gigantesco spettacolo, una fotografia killer, una colonna sonora che sembra prenderti per il culo continuamente, una serie di personaggi talmente assurdi da risultare dannatamente veri, una trama fanta-complottistica che però ti instilla il dubbio del tipo "in effetti potrebbe essere una soluzione...", un rutilare di colpi di scena e attori perfettamente in parte. Nonostante possa capire quelli che hanno avanzato delle "lamentele" per questo o quest'altro motivo, la svolta inerente la modifica del virus è semplicemente geniale, e questa, a mio giudizio, è solo una delle buone ragioni per vedersi anche la seconda stagione di Utopia, aspettando pazientemente la terza, visto che, come sapete, gli inglesi amano prendersela comoda anche con le serie di buon successo.
Di sicuro, non è una delle solite serie. Vi "allego" l'inizio dell'episodio 2x06, l'ultimo al momento, uno speech che fa venire i brividi, ma anche una certa voglia di riflessione...
20140927
20140926
Boldly running for President. Proudly standing for everything.
Veep - di Armando Iannucci - Stagione 3 (10 episodi; HBO) - 2014
Selina sta cercando un campaign manager, all'insaputa di Dan ed Amy, che naturalmente sono entrambi convinti di essere scelti per quel posto. Nel frattempo, è in Iowa, con il solo Ben a farle "compagnia", a presentare il suo libro Some New Beginnings: Our Next American Journey, naturalmente scritto da qualcun altro e infarcito di ovvietà, firmando autografi in libreria controvoglia ma sempre a caccia di voti. Il resto dello staff è al matrimonio di Mike (e già questa sarebbe una battuta di per sé), tutti costretti ad abbandonare i cellulari: durerà poco.
Che aggiungere a quello che già è stato detto? Poco. Veep, che, ve lo ricordo ancora, è in pratica la versione statunitense di The Thick of It, è satira fantapolitica, molto satira e poco fanta, perché visti i risultati della politica in tutto il mondo, si fa davvero fatica che nelle stanze dei bottoni non vada esattamente come ci mostra le cose Iannucci. Cast ancora una volta straordinario, Veep è una di quelle comedy delle quali ogni episodio andrebbe rivisto 2/3 volte, per apprezzare ogni battuta, ogni sfumatura, e ogni volta ridereste (amaro). Come dire, si ride per non piangere. Ma si ride forte.
Selina sta cercando un campaign manager, all'insaputa di Dan ed Amy, che naturalmente sono entrambi convinti di essere scelti per quel posto. Nel frattempo, è in Iowa, con il solo Ben a farle "compagnia", a presentare il suo libro Some New Beginnings: Our Next American Journey, naturalmente scritto da qualcun altro e infarcito di ovvietà, firmando autografi in libreria controvoglia ma sempre a caccia di voti. Il resto dello staff è al matrimonio di Mike (e già questa sarebbe una battuta di per sé), tutti costretti ad abbandonare i cellulari: durerà poco.
Che aggiungere a quello che già è stato detto? Poco. Veep, che, ve lo ricordo ancora, è in pratica la versione statunitense di The Thick of It, è satira fantapolitica, molto satira e poco fanta, perché visti i risultati della politica in tutto il mondo, si fa davvero fatica che nelle stanze dei bottoni non vada esattamente come ci mostra le cose Iannucci. Cast ancora una volta straordinario, Veep è una di quelle comedy delle quali ogni episodio andrebbe rivisto 2/3 volte, per apprezzare ogni battuta, ogni sfumatura, e ogni volta ridereste (amaro). Come dire, si ride per non piangere. Ma si ride forte.
20140925
Blood Eagle
Vikings - di Michael Hirst - Stagione 2 (10 episodi; History Channel) - 2014
Re Horik, appoggiato da Ragnar, è in guerra contro lo Jarl Borg, che al contrario, adesso annovera tra le sue file Rollo (fratello di Ragnar); Rollo combatte con rabbia e amarezza contro quelli che erano suoi compagni fino a poco tempo prima, ne uccide perfino alcuni, ma si paralizza dinnanzi al fratello, e si arrende. Si crea una situazione di stallo, dalla quale Horik, Borg e Ragnar escono alleandosi, e decidendo di cominciare a razziare come un'unica forza. Naturalmente, l'alleanza sarà perennemente in bilico.
Rollo viene fatto prigioniero, e attende con rassegnazione la sua morte, che sarà certamente decisa da un giudice, ma Ragnar decide di risparmiarlo senza apparire come suo salvatore. Mentre la principessa Aslaug, incinta di Ragnar, viene accolta a Kattegat, Lagertha, umiliata dalla proposta di rimanere con Ragnar assieme a Aslaug, lascia Kattegat insieme al figlio Bjorn.
Dopo una prima stagione che mi ha personalmente esaltato, più per motivi di fascinazione fanciullesca che per reale valenza della serie nel suo complesso, Vikings si conferma una delle serie che preferisco vedere, seppur le sue debolezze siano ben visibili. Ma, come già espresso in passato, il fascino di questi uomini selvaggi ma intelligenti, guerrieri spietati ma abili strateghi, amanti delle scorrerie ma pure ottimi negoziatori, per certi versi simili, nel loro atteggiamento conquistatore, ai più abili colonizzatori della storia (i romani, Alessandro Magno), unito a quella inconfessabile pulsione omoerotica sanguinaria che mi fa adorare quando si vedono questi energumeni impegnati in battaglia, coperti di sangue con i loro muscoli guizzanti, urlare a squarciagola per la vittoria, vince ancora una volta sulla pignoleria che guarderebbe alle inesattezze storiche, al destabilizzante uso dell'inglese, al frullato di nozioni storiche un poco superficiali delle quali, insieme ad altro, la serie di Hirst si nutre.
Così come appartengo alla scuola di pensiero del "meglio un solo genitore che l'orfanotrofio", alla stessa stregua sono convinto che è meglio accennare di storia che lasciare gli spettatori nell'ignoranza. Nonostante ciò, Vikings si sforza di mostrare che la civilizzazione dell'uomo moderno è passata da violenza, corruzione, doppiogiochismo e spietatezza (antivalori che del resto permangono nella politica di oggi), e che queste prerogative erano adottate certamente da tutte le parti in gioco.
Certo, il fascino vichingo non riesce a nascondere che la storia mostra un po' la corda, e comincia ad avvitarsi su se stessa, seppure in lenta evoluzione. Certamente, Hirst avrà capito tutto ciò, ed ecco perché ha già annunciato che gli scenari che saranno sullo sfondo della terza stagione saranno diversi (la Francia). E noi certamente continueremo a dargli una chance, non fosse altro che per vedere Ragnar coperto di sangue.
Re Horik, appoggiato da Ragnar, è in guerra contro lo Jarl Borg, che al contrario, adesso annovera tra le sue file Rollo (fratello di Ragnar); Rollo combatte con rabbia e amarezza contro quelli che erano suoi compagni fino a poco tempo prima, ne uccide perfino alcuni, ma si paralizza dinnanzi al fratello, e si arrende. Si crea una situazione di stallo, dalla quale Horik, Borg e Ragnar escono alleandosi, e decidendo di cominciare a razziare come un'unica forza. Naturalmente, l'alleanza sarà perennemente in bilico.
Rollo viene fatto prigioniero, e attende con rassegnazione la sua morte, che sarà certamente decisa da un giudice, ma Ragnar decide di risparmiarlo senza apparire come suo salvatore. Mentre la principessa Aslaug, incinta di Ragnar, viene accolta a Kattegat, Lagertha, umiliata dalla proposta di rimanere con Ragnar assieme a Aslaug, lascia Kattegat insieme al figlio Bjorn.
Dopo una prima stagione che mi ha personalmente esaltato, più per motivi di fascinazione fanciullesca che per reale valenza della serie nel suo complesso, Vikings si conferma una delle serie che preferisco vedere, seppur le sue debolezze siano ben visibili. Ma, come già espresso in passato, il fascino di questi uomini selvaggi ma intelligenti, guerrieri spietati ma abili strateghi, amanti delle scorrerie ma pure ottimi negoziatori, per certi versi simili, nel loro atteggiamento conquistatore, ai più abili colonizzatori della storia (i romani, Alessandro Magno), unito a quella inconfessabile pulsione omoerotica sanguinaria che mi fa adorare quando si vedono questi energumeni impegnati in battaglia, coperti di sangue con i loro muscoli guizzanti, urlare a squarciagola per la vittoria, vince ancora una volta sulla pignoleria che guarderebbe alle inesattezze storiche, al destabilizzante uso dell'inglese, al frullato di nozioni storiche un poco superficiali delle quali, insieme ad altro, la serie di Hirst si nutre.
Così come appartengo alla scuola di pensiero del "meglio un solo genitore che l'orfanotrofio", alla stessa stregua sono convinto che è meglio accennare di storia che lasciare gli spettatori nell'ignoranza. Nonostante ciò, Vikings si sforza di mostrare che la civilizzazione dell'uomo moderno è passata da violenza, corruzione, doppiogiochismo e spietatezza (antivalori che del resto permangono nella politica di oggi), e che queste prerogative erano adottate certamente da tutte le parti in gioco.
Certo, il fascino vichingo non riesce a nascondere che la storia mostra un po' la corda, e comincia ad avvitarsi su se stessa, seppure in lenta evoluzione. Certamente, Hirst avrà capito tutto ciò, ed ecco perché ha già annunciato che gli scenari che saranno sullo sfondo della terza stagione saranno diversi (la Francia). E noi certamente continueremo a dargli una chance, non fosse altro che per vedere Ragnar coperto di sangue.
20140924
il tunnel
The Tunnel - di Emma Frost, George Kay, Olivier Kohn, Chris Lang, Yann Le Nivert, Ben Richards, basato su Bron I Broen - Stagione 1 (10 episodi; Sky Altantic / Canal +) - 2013
Una sera qualsiasi, viene ritrovato un cadavere posto in uno dei tunnel di servizio dell'Eurotunnel (quello che unisce Francia e Regno Unito), esattamente nel punto di confine. E' il corpo di Marie Villeneuve, una politica francese. Due squadre di polizia, una francese e una britannica, accorrono. Visto che la politica è francese, viene deciso che il caso è francese. Ma al momento della rimozione del corpo, si scopre in realtà che i corpi sono due: la parte inferiore appartiene alla prostituta gallese Gemma Kirwan. A quel punto, il caso è condiviso. L'investigatore Karl Roebuck, britannico, e l'investigatrice Wassermann, francese, si ritrovano a dover lavorare fianco a fianco, su un caso che si rivela meno semplice di quanto si poteva pensare inizialmente.
Ed eccoci, alla fine, a parlare del secondo remake della serie sevedese-danese Bron I Broen, proprio mentre per quanto riguarda l'originale si sta lavorando alla terza stagione, e per la versione statunitense stanno andando in onda gli ultimi episodi della seconda. Per quanto riguarda il Regno Unito, c'è anche da dire che BBC Four ha trasmesso le due stagioni della serie scandinava. Ma, come che sia, la joint venture tra Canal +, francese, e Sky Atlantic, britannica, ha portato avanti questo progetto, che in fondo è andato discretamente, tanto che è in programma una seconda stagione. Naturalmente, come già per le altre due versioni, la trama di base è identica, cambiano le ambientazioni e qualcosina qua e là durante il divenire degli eventi, e, naturalmente, il mood. I due protagonisti principali risultano abbastanza ben scelti; Stephen Dillane (Roebuck), attore di vastissima esperienza, per noi tutti soprattutto Stannis Baratheon in Game of Thrones, fornisce una prova da manuale, portando il classico humor inglese a fare da colonna portante della serie (quando possibile, visto il genere, e la deriva tragica); a Clémence Poésy (Wassermann), attrice e modella 31enne francese, ottima anche in inglese e avente esperienza internazionale (Harry Potter, In Bruges, 127 ore, Gossip Girl, ultimamente insieme a Michael Caine in Mister Morgan), tocca il compito di recitare l'investigatrice strana, schiva, con comportamenti a volte autistici, e c'è da dire che ci riesce discretamente, in maniera sicuramente più sobria rispetto, per dire, a Diane Kruger (che recita la stessa parte nella versione statunitense The Bridge).
Gli opening credits vanno sulle note di The End of Time di Charlotte Gainsbourg, giusto per la cronaca. Superfluo dirvi che la versione originale è bilingue (inglese/francese).
Sicuramente prescindibile, a mio giudizio leggermente migliore della versione statunitense, ma ovviamente inferiore all'originale, vi può interessare se, come me, siete dei fanatici e vi piacciono le comparazioni.
Una sera qualsiasi, viene ritrovato un cadavere posto in uno dei tunnel di servizio dell'Eurotunnel (quello che unisce Francia e Regno Unito), esattamente nel punto di confine. E' il corpo di Marie Villeneuve, una politica francese. Due squadre di polizia, una francese e una britannica, accorrono. Visto che la politica è francese, viene deciso che il caso è francese. Ma al momento della rimozione del corpo, si scopre in realtà che i corpi sono due: la parte inferiore appartiene alla prostituta gallese Gemma Kirwan. A quel punto, il caso è condiviso. L'investigatore Karl Roebuck, britannico, e l'investigatrice Wassermann, francese, si ritrovano a dover lavorare fianco a fianco, su un caso che si rivela meno semplice di quanto si poteva pensare inizialmente.
Ed eccoci, alla fine, a parlare del secondo remake della serie sevedese-danese Bron I Broen, proprio mentre per quanto riguarda l'originale si sta lavorando alla terza stagione, e per la versione statunitense stanno andando in onda gli ultimi episodi della seconda. Per quanto riguarda il Regno Unito, c'è anche da dire che BBC Four ha trasmesso le due stagioni della serie scandinava. Ma, come che sia, la joint venture tra Canal +, francese, e Sky Atlantic, britannica, ha portato avanti questo progetto, che in fondo è andato discretamente, tanto che è in programma una seconda stagione. Naturalmente, come già per le altre due versioni, la trama di base è identica, cambiano le ambientazioni e qualcosina qua e là durante il divenire degli eventi, e, naturalmente, il mood. I due protagonisti principali risultano abbastanza ben scelti; Stephen Dillane (Roebuck), attore di vastissima esperienza, per noi tutti soprattutto Stannis Baratheon in Game of Thrones, fornisce una prova da manuale, portando il classico humor inglese a fare da colonna portante della serie (quando possibile, visto il genere, e la deriva tragica); a Clémence Poésy (Wassermann), attrice e modella 31enne francese, ottima anche in inglese e avente esperienza internazionale (Harry Potter, In Bruges, 127 ore, Gossip Girl, ultimamente insieme a Michael Caine in Mister Morgan), tocca il compito di recitare l'investigatrice strana, schiva, con comportamenti a volte autistici, e c'è da dire che ci riesce discretamente, in maniera sicuramente più sobria rispetto, per dire, a Diane Kruger (che recita la stessa parte nella versione statunitense The Bridge).
Gli opening credits vanno sulle note di The End of Time di Charlotte Gainsbourg, giusto per la cronaca. Superfluo dirvi che la versione originale è bilingue (inglese/francese).
Sicuramente prescindibile, a mio giudizio leggermente migliore della versione statunitense, ma ovviamente inferiore all'originale, vi può interessare se, come me, siete dei fanatici e vi piacciono le comparazioni.
20140923
gli avanzi
The Leftovers - di Damon Lindelof e Tom Perrotta - Stagione 1 (10 episodi; HBO) - 2014
Un giorno, improvvisamente, il 2 per cento della popolazione mondiale, semplicemente, svanisce nel nulla. Scompare. Mentre qualcuno scopa qualcun altro, mentre, qualcuno tiene qualcun altro per mano, mentre una madre tiene il figlio nato da poco che piange in continuazione nel seggiolino retrostante dell'auto, mentre un'altra madre/moglie sta preparando la colazione alla famiglia (marito, due figli). Il letto vuoto, le mani nel vuoto, il seggiolino vuoto (e il pianto cessato), la famiglia svanita. Riuscite ad immaginarlo? Probabilmente no. Probabilmente. Così come probabilmente non riuscite ad immaginare cosa accadrebbe nel mondo. Nascita di nuove religioni, sensi di colpa distribuiti random, santoni in ogni dove, perdita diffusa della sicurezza, smarrimento generalizzato, realizzazione dell'inutilità dell'esistenza, e via così. Tre anni dopo "the sudden departure", nella fittizia cittadina di Mapleton, New York, ognuno cerca di andare avanti come può. Il protagonista principale è Kevin Garvey, Jr., capo della polizia locale, con una situazione che francamente, potrebbe portare esclusivamente alla follia. La moglie Laurie, dopo le scomparse, abbandona la famiglia per entrare nel culto dei Guilty Remnant (nella versione italiana si chiamano Colpevoli Sopravvissuti, che è pure la traduzione letterale, ma che suona di merda); i membri di questa sorta di setta si vestono esclusivamente di bianco, non parlano (comunicano tra di loro e con i non appartenenti per mezzo di scritte pennarelli-su-taccuini) e fumano continuamente. La figlia Jill, appena post-adolescente, da figlia modello diventa tipo la persona più odiosa della serie. Il figlio Tommy, un poco più grande, lascia il college e si unisce ad un'altra setta, quella dedita al culto del sedicente guru Holy Wayne (questi, con un abbraccio, pare in grado di "liberare" chiunque dai sensi di colpa che pervadono praticamente tutti quanti dopo le scomparse), andando via da casa. Il padre, Kevin Garvey, Sr., ex capo della polizia, adesso è internato in una struttura di salute mentale a causa di comportamenti violenti. Questa la situazione. E quindi, come si sente Kevin? Esattamente come potreste pensare: probabilmente, sta impazzendo. Non che intorno a lui le persone sembrino esattamente il ritratto della salute mentale...
Orbene, vi dico subito che per me, The Leftovers è stata una delle novità più interessanti dell'anno 2014. Ma sono perfettamente cosciente che molte persone potrebbero giudicarlo una cagata pazzesca. C'è da chiarire prima di tutto che la serie prende ampiamente spunto dal libro omonimo di Tom Perrotta, da poco tradotto anche in Italia (con il titolo Svaniti nel nulla, ovviamente anche sottotitolo della versione italiana della serie doppiata), autore che appare come co-creatore e co-sceneggiatore (del pilot e di alcuni episodi), ma che si differenzia dal libro soprattutto per il trattamento che gli ha imposto l'altro creatore, che risponde al nome di Damon Lindelof. Per chi avesse vissuto su Saturno negli ultimi 25 anni, diremo che Lindelof è, semplicemente, uno dei "padri" (e showrunner, nonché lo sceneggiatore del maggior numero di episodi) di Lost. Ecco perché vi dicevo in apertura di commento che "sono perfettamente cosciente che molte persone potrebbero giudicarlo una cagata pazzesca": sono uno di quelli che non è riuscito ad appassionarsi a Lost (nonostante ci abbia provato, ho i testimoni). A parte le mie elucubrazioni, The Leftovers mi è parso costruito splendidamente, lentissimamente, pezzo dopo pezzo, lasciando nell'oscurità lo spettatore, cuocendolo nel suo personale brodo fatto di domande irrisolte, ma tremendamente figo. E attenzione, oltre al mood, la figaggine si estende anche al cast, ma non a quello che potreste pensare. Si, c'è Amy Brenneman (Judging Amy, Heat, Private Practice, due film di Rodrigo Garcìa, Le cose che so di lei e Nove vite da donna, splendida 50enne), qui nei panni di Laurie Garvey, c'è Liv Tyler rediviva, che interpreta Megan Abbott, ci sono le deliziose Margaret Qualley (Jill; nella realtà è la figlia di Andie MacDowell) e Emily Meade (Aimee; nella realtà a sette anni ha vinto lo Zecchino d'Argento - allo Zecchino d'Oro - per il miglior pezzo non italiano), ci sono le forse poco appariscenti ma ugualmente molto fighe Amanda Warren (Lucy, il sindaco) e Carrie Coon (Nora Durst), ma soprattutto c'è lui, Justin Theroux nella parte di Kevin Garvey, Jr., attore, sceneggiatore, regista, poliedrico (capace di passare da recitare per Lynch a scrivere la sceneggiatura di Tropic Thunder) e intenso quando vuole, qua mattatore assoluto, seppur circondato da non citati (per ragioni di spazio e soprattutto di sonno mio) caratteristi che completano il cast. Come ho detto di recente ad amici, "se c'è Theroux per me può durare anche altre 5 stagioni", ma seriamente, se avete voglia di farvi affascinare da una roba completamente anti-didascalica, beh, guardate The Leftovers.
Un giorno, improvvisamente, il 2 per cento della popolazione mondiale, semplicemente, svanisce nel nulla. Scompare. Mentre qualcuno scopa qualcun altro, mentre, qualcuno tiene qualcun altro per mano, mentre una madre tiene il figlio nato da poco che piange in continuazione nel seggiolino retrostante dell'auto, mentre un'altra madre/moglie sta preparando la colazione alla famiglia (marito, due figli). Il letto vuoto, le mani nel vuoto, il seggiolino vuoto (e il pianto cessato), la famiglia svanita. Riuscite ad immaginarlo? Probabilmente no. Probabilmente. Così come probabilmente non riuscite ad immaginare cosa accadrebbe nel mondo. Nascita di nuove religioni, sensi di colpa distribuiti random, santoni in ogni dove, perdita diffusa della sicurezza, smarrimento generalizzato, realizzazione dell'inutilità dell'esistenza, e via così. Tre anni dopo "the sudden departure", nella fittizia cittadina di Mapleton, New York, ognuno cerca di andare avanti come può. Il protagonista principale è Kevin Garvey, Jr., capo della polizia locale, con una situazione che francamente, potrebbe portare esclusivamente alla follia. La moglie Laurie, dopo le scomparse, abbandona la famiglia per entrare nel culto dei Guilty Remnant (nella versione italiana si chiamano Colpevoli Sopravvissuti, che è pure la traduzione letterale, ma che suona di merda); i membri di questa sorta di setta si vestono esclusivamente di bianco, non parlano (comunicano tra di loro e con i non appartenenti per mezzo di scritte pennarelli-su-taccuini) e fumano continuamente. La figlia Jill, appena post-adolescente, da figlia modello diventa tipo la persona più odiosa della serie. Il figlio Tommy, un poco più grande, lascia il college e si unisce ad un'altra setta, quella dedita al culto del sedicente guru Holy Wayne (questi, con un abbraccio, pare in grado di "liberare" chiunque dai sensi di colpa che pervadono praticamente tutti quanti dopo le scomparse), andando via da casa. Il padre, Kevin Garvey, Sr., ex capo della polizia, adesso è internato in una struttura di salute mentale a causa di comportamenti violenti. Questa la situazione. E quindi, come si sente Kevin? Esattamente come potreste pensare: probabilmente, sta impazzendo. Non che intorno a lui le persone sembrino esattamente il ritratto della salute mentale...
Orbene, vi dico subito che per me, The Leftovers è stata una delle novità più interessanti dell'anno 2014. Ma sono perfettamente cosciente che molte persone potrebbero giudicarlo una cagata pazzesca. C'è da chiarire prima di tutto che la serie prende ampiamente spunto dal libro omonimo di Tom Perrotta, da poco tradotto anche in Italia (con il titolo Svaniti nel nulla, ovviamente anche sottotitolo della versione italiana della serie doppiata), autore che appare come co-creatore e co-sceneggiatore (del pilot e di alcuni episodi), ma che si differenzia dal libro soprattutto per il trattamento che gli ha imposto l'altro creatore, che risponde al nome di Damon Lindelof. Per chi avesse vissuto su Saturno negli ultimi 25 anni, diremo che Lindelof è, semplicemente, uno dei "padri" (e showrunner, nonché lo sceneggiatore del maggior numero di episodi) di Lost. Ecco perché vi dicevo in apertura di commento che "sono perfettamente cosciente che molte persone potrebbero giudicarlo una cagata pazzesca": sono uno di quelli che non è riuscito ad appassionarsi a Lost (nonostante ci abbia provato, ho i testimoni). A parte le mie elucubrazioni, The Leftovers mi è parso costruito splendidamente, lentissimamente, pezzo dopo pezzo, lasciando nell'oscurità lo spettatore, cuocendolo nel suo personale brodo fatto di domande irrisolte, ma tremendamente figo. E attenzione, oltre al mood, la figaggine si estende anche al cast, ma non a quello che potreste pensare. Si, c'è Amy Brenneman (Judging Amy, Heat, Private Practice, due film di Rodrigo Garcìa, Le cose che so di lei e Nove vite da donna, splendida 50enne), qui nei panni di Laurie Garvey, c'è Liv Tyler rediviva, che interpreta Megan Abbott, ci sono le deliziose Margaret Qualley (Jill; nella realtà è la figlia di Andie MacDowell) e Emily Meade (Aimee; nella realtà a sette anni ha vinto lo Zecchino d'Argento - allo Zecchino d'Oro - per il miglior pezzo non italiano), ci sono le forse poco appariscenti ma ugualmente molto fighe Amanda Warren (Lucy, il sindaco) e Carrie Coon (Nora Durst), ma soprattutto c'è lui, Justin Theroux nella parte di Kevin Garvey, Jr., attore, sceneggiatore, regista, poliedrico (capace di passare da recitare per Lynch a scrivere la sceneggiatura di Tropic Thunder) e intenso quando vuole, qua mattatore assoluto, seppur circondato da non citati (per ragioni di spazio e soprattutto di sonno mio) caratteristi che completano il cast. Come ho detto di recente ad amici, "se c'è Theroux per me può durare anche altre 5 stagioni", ma seriamente, se avete voglia di farvi affascinare da una roba completamente anti-didascalica, beh, guardate The Leftovers.
20140922
colori di guerra
Warpaint - Warpaint (2014)
Alla fine ho ceduto anch'io al richiamo dell'hype, ed ho ascoltato il nuovo delle Warpaint. La all female band dove ha militato la bella attrice Shannyn Sossamon (e nella quale suona tutt'ora la di lei sorella Jenny Lee Lindberg, basso e cori) è tutto sommato interessante, anche se, non so perché, qualcosa mi suggerisce che dal vivo devono essere di una noia mortale. In molti le accostano ai mitici Cocteau Twins, ed in parte è vero, seppure sia un po' come accostare la pizza di Pizza Hut a quella napoletana. E' certo che le ragazze losangeline ce la mettono tutta per risultare eteree (e scusate se ripeto un aggettivo usato pure ieri per FKA twigs). La sequela delle canzoni, dodici, è buona, molte sono gustose seppure leggerissime, caratteristica che, come detto, è perseguita costantemente dalla band. La noia, trattandosi di un genere che alcuni definiscono art rock (definizione che è un po' una fregatura, ed insieme una condanna, se si pensa che viene spesso usato per gli Arcade Fire), è costantemente dietro l'angolo, ma tutto sommato una chance gliela potete dare. Paradossalmente il pezzo scelto come singolo, Love Is to Die, risulta quello meno interessante (beh, in realtà Disco/Very è una vera merda), seppure alla lunga entri in testa e vi si conficchi. Non mi pare neppure che le ragazze siano dei fenomeni a livello tecnico, per cui valutate voi.
Second full length for the all female band of Los Angeles, in which formerly played also the beautiful actress Shannyn Sossamon (in Warpaint still plays her sister, Jenny Lee Lindberg, bass and backing vocals). Them try hard to being ethereal (sorry for reuse the same adjective of yesterday, about FKA twigs), but between them and the myths Cocteau Twins, to which many compare to, there are a lot of differences. Anyway, we appreciate the efforts.
Alla fine ho ceduto anch'io al richiamo dell'hype, ed ho ascoltato il nuovo delle Warpaint. La all female band dove ha militato la bella attrice Shannyn Sossamon (e nella quale suona tutt'ora la di lei sorella Jenny Lee Lindberg, basso e cori) è tutto sommato interessante, anche se, non so perché, qualcosa mi suggerisce che dal vivo devono essere di una noia mortale. In molti le accostano ai mitici Cocteau Twins, ed in parte è vero, seppure sia un po' come accostare la pizza di Pizza Hut a quella napoletana. E' certo che le ragazze losangeline ce la mettono tutta per risultare eteree (e scusate se ripeto un aggettivo usato pure ieri per FKA twigs). La sequela delle canzoni, dodici, è buona, molte sono gustose seppure leggerissime, caratteristica che, come detto, è perseguita costantemente dalla band. La noia, trattandosi di un genere che alcuni definiscono art rock (definizione che è un po' una fregatura, ed insieme una condanna, se si pensa che viene spesso usato per gli Arcade Fire), è costantemente dietro l'angolo, ma tutto sommato una chance gliela potete dare. Paradossalmente il pezzo scelto come singolo, Love Is to Die, risulta quello meno interessante (beh, in realtà Disco/Very è una vera merda), seppure alla lunga entri in testa e vi si conficchi. Non mi pare neppure che le ragazze siano dei fenomeni a livello tecnico, per cui valutate voi.
Second full length for the all female band of Los Angeles, in which formerly played also the beautiful actress Shannyn Sossamon (in Warpaint still plays her sister, Jenny Lee Lindberg, bass and backing vocals). Them try hard to being ethereal (sorry for reuse the same adjective of yesterday, about FKA twigs), but between them and the myths Cocteau Twins, to which many compare to, there are a lot of differences. Anyway, we appreciate the efforts.
20140921
primo LP
LP1 - FKA twigs (2014)
Scoperta (nel mio caso, sia chiaro) tramite Anna Calvi ed il suo ultimo EP, dove rifà Papi Pacify, contenuta nel secondo EP di FKA twigs (FKA sta per Formerly Knows As, visto che dopo qualche tempo dal suo debutto pare ci fosse un altro artista reclamava il nome twigs) intitolato EP2, uscito nel 2013 ad un anno di distanza da (ovviamente) EP1, fuori verso la fine del 2012, Tahliah Debrett Barnett è un prodotto dei nostri tempi: nata nel Gloucestershire da genitori di origini miste, è cantante, compositrice, produttrice e ballerina, ha una voce incantevole con ampiezza di tonalità e sfumature, usa l'elettronica in modo intensivo ma non invasivo, e mescola con disinvoltura trip hop, r'n'b (quelli bravi direbbero PBR&B), elettronica, Bjork, Portishead, Burial e via discorrendo. Il risultato è sorprendentemente delicato nonostante le asprezze e la freddezza iniziale dei suoni. Uscito il 6 agosto del 2014, l'album è nella shortlist del prestigioso Mercury Prize. La giovane inglese, circondata da esperti produttori e DJ, ci mostra in sintesi la musica del futuro (su Spin l'hanno definita extraterrestrial). L'elettronica eterea, la voce (appunto) rnb applicata al 2-step evoluto, riveduto, corretto e potenziato. Ovviamente, rivolgendomi ad una platea di rocker, potrei predicare nel deserto, ma come sapete qua si descrivono le pietre miliari della storia della musica futura...
A big surprise for me, but FKA twigs is no longer a newbie in the musical landscape. Born in Gloucestershire from parents with mixed origins, Tahliah Debrett Barnett is a typical product of our times: singer, producer, dancer and songwriter, she mix trip hop, r'n'b, 2-step and other electronical influences, with a surprising results. Aethereal, with a superb and sweet voice, her music is like a salty candy. The electronic is tough, angular, but her voice blunts the corners. Watch out, this can be the music of the near future.
Scoperta (nel mio caso, sia chiaro) tramite Anna Calvi ed il suo ultimo EP, dove rifà Papi Pacify, contenuta nel secondo EP di FKA twigs (FKA sta per Formerly Knows As, visto che dopo qualche tempo dal suo debutto pare ci fosse un altro artista reclamava il nome twigs) intitolato EP2, uscito nel 2013 ad un anno di distanza da (ovviamente) EP1, fuori verso la fine del 2012, Tahliah Debrett Barnett è un prodotto dei nostri tempi: nata nel Gloucestershire da genitori di origini miste, è cantante, compositrice, produttrice e ballerina, ha una voce incantevole con ampiezza di tonalità e sfumature, usa l'elettronica in modo intensivo ma non invasivo, e mescola con disinvoltura trip hop, r'n'b (quelli bravi direbbero PBR&B), elettronica, Bjork, Portishead, Burial e via discorrendo. Il risultato è sorprendentemente delicato nonostante le asprezze e la freddezza iniziale dei suoni. Uscito il 6 agosto del 2014, l'album è nella shortlist del prestigioso Mercury Prize. La giovane inglese, circondata da esperti produttori e DJ, ci mostra in sintesi la musica del futuro (su Spin l'hanno definita extraterrestrial). L'elettronica eterea, la voce (appunto) rnb applicata al 2-step evoluto, riveduto, corretto e potenziato. Ovviamente, rivolgendomi ad una platea di rocker, potrei predicare nel deserto, ma come sapete qua si descrivono le pietre miliari della storia della musica futura...
A big surprise for me, but FKA twigs is no longer a newbie in the musical landscape. Born in Gloucestershire from parents with mixed origins, Tahliah Debrett Barnett is a typical product of our times: singer, producer, dancer and songwriter, she mix trip hop, r'n'b, 2-step and other electronical influences, with a surprising results. Aethereal, with a superb and sweet voice, her music is like a salty candy. The electronic is tough, angular, but her voice blunts the corners. Watch out, this can be the music of the near future.
20140920
20140919
Maui
Pe'ahi - The Raveonettes (2014)
Se, come dicevo in occasione del loro quinto disco In And Out of Control, finalmente mi avevano convinto, con questo loro settimo Pe'ahi (un popolare spot per surfare a Maui; dopo la morte del padre di Sune Rose Wagner avvenuta nel 2013, il duo danese si è "immerso nella cultura surf della California del Sud) mi hanno praticamente conquistato. Una sorta di shoegaze elettronico prende il sopravvento, così come una deriva dark degli arrangiamenti, innestandosi sulle loro classiche influenze sixties ed il loro spiccato gusto per le composizioni melodiche contenenti proprio quel retrogusto ye-ye. Il risultato è ancor più affascinante del solito, e la decina di pezzi che compongono questo disco uscito il 22 luglio scorso, senza alcun annuncio preventivo, sono davvero interessanti. Bravi.
Is Pe'ahi the best album of The Raveonettes ever published? Maybe yes. A strong mix of dark mood and electronic shoegaze is grafted on the classical way of writing song in a sixties manner, of the danish duo. The results is highly interesting, and extremely catchy. Try it.
Se, come dicevo in occasione del loro quinto disco In And Out of Control, finalmente mi avevano convinto, con questo loro settimo Pe'ahi (un popolare spot per surfare a Maui; dopo la morte del padre di Sune Rose Wagner avvenuta nel 2013, il duo danese si è "immerso nella cultura surf della California del Sud) mi hanno praticamente conquistato. Una sorta di shoegaze elettronico prende il sopravvento, così come una deriva dark degli arrangiamenti, innestandosi sulle loro classiche influenze sixties ed il loro spiccato gusto per le composizioni melodiche contenenti proprio quel retrogusto ye-ye. Il risultato è ancor più affascinante del solito, e la decina di pezzi che compongono questo disco uscito il 22 luglio scorso, senza alcun annuncio preventivo, sono davvero interessanti. Bravi.
Is Pe'ahi the best album of The Raveonettes ever published? Maybe yes. A strong mix of dark mood and electronic shoegaze is grafted on the classical way of writing song in a sixties manner, of the danish duo. The results is highly interesting, and extremely catchy. Try it.
20140918
God Is Not Great. How Religion Poisons Everything
Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa - di Christopher Hitchens (2007)
Come avrete notato, quest'anno ho notevolmente ridotto i libri letti. Se non ricordo male, questo è il primo libro che riesco a terminare, dall'inizio del 2014. Lo dico con molta vergogna. Sono però orgoglioso di aver terminato proprio questo, l'ennesimo di Hitchens, personaggio, lo ripeto, che ho "conosciuto" solo dopo la sua morte, purtroppo, e grazie a questo tizio qua.
Hitchens è stato un polemista di razza, un irrequieto perfino sulle sue posizioni politiche, ma di sicuro un opinionista mai prevedibile, di certo non uno che usava frasi fatte, e soprattutto, una persona abituata a pensare con la propria testa, e che ha sempre incoraggiato gli altri a fare altrettanto. In questo libro, come si può facilmente intuire dal titolo e dal sottotitolo, si "diverte" ad ironizzare su come le religioni, tutte, perfino il buddismo che in molti ritengono degno, innocuo e costruttivo, hanno rovinato la convivenza tra gli esseri umani. Tanto per darvi un'idea:
Altrove, un gruppo di scienziati solerti e pazienti aveva localizzato, in una remota zona del Canada artico, svariati scheletri di un grosso pesce che, 375 milioni di anni fa, esibiva tratti precursori di dita, polsi rudimentali, gomiti e spalle. Il tiktaalik, così chiamato per suggerimento della locale popolazione nunavut, si aggiunge all'archaeopteryx, una forma di transizione tra dinosauri e uccelli, come uno dei cosiddetti anelli mancanti, e a lungo cercati, che servono a illuminarci sulla nostra vera natura. Nel frattempo, i rochi proponenti del "disegno intelligente" avevano messo sotto assedio un altro comitato scolastico, pretendendo che si insegnasse un simile ciarpame ai loro figli. Nella mia mente, questi fatti cominciavano ad assumere le caratteristiche di una gara di velocità: un modesto passo avanti da parte della ricerca e della ragione; un enorme e minaccioso balzo in avanti da parte delle forze della barbarie - quelli che sanno di avere ragione e vogliono instaurare, come si espresse una volta Robert Lowell in un altro contesto, "il regno della pietà e del ferro".
Questo libro, come ha detto qualche recensore molto più bravo di me, costringe faziosamente il lettore a schierarsi. Non ho mai fatto mistero del mio allontanamento dalla religione cattolica, culto con il quale sono stato cresciuto, e dei miei dubbi piuttosto forti sulla stessa, così come sulle altre religioni, anche qui su fassbinder. Di certo, questo libro, con lo stile caratteristico di Hitchens, più sarcastico che ironico, spesso cattivo, se uno ha dei dubbi li amplifica a dismisura, semplicemente contestualizzando storicamente molti fatti reali (contrariamente a quel che fanno le religioni). Il risultato della lettura, quindi, è duplice. Almeno per me: l'allargamento della crepa che mi separa dalla/dalle religione/i, ed il rimpianto fortissimo per la perdita di una mente ammirevole.
Come avrete notato, quest'anno ho notevolmente ridotto i libri letti. Se non ricordo male, questo è il primo libro che riesco a terminare, dall'inizio del 2014. Lo dico con molta vergogna. Sono però orgoglioso di aver terminato proprio questo, l'ennesimo di Hitchens, personaggio, lo ripeto, che ho "conosciuto" solo dopo la sua morte, purtroppo, e grazie a questo tizio qua.
Hitchens è stato un polemista di razza, un irrequieto perfino sulle sue posizioni politiche, ma di sicuro un opinionista mai prevedibile, di certo non uno che usava frasi fatte, e soprattutto, una persona abituata a pensare con la propria testa, e che ha sempre incoraggiato gli altri a fare altrettanto. In questo libro, come si può facilmente intuire dal titolo e dal sottotitolo, si "diverte" ad ironizzare su come le religioni, tutte, perfino il buddismo che in molti ritengono degno, innocuo e costruttivo, hanno rovinato la convivenza tra gli esseri umani. Tanto per darvi un'idea:
Altrove, un gruppo di scienziati solerti e pazienti aveva localizzato, in una remota zona del Canada artico, svariati scheletri di un grosso pesce che, 375 milioni di anni fa, esibiva tratti precursori di dita, polsi rudimentali, gomiti e spalle. Il tiktaalik, così chiamato per suggerimento della locale popolazione nunavut, si aggiunge all'archaeopteryx, una forma di transizione tra dinosauri e uccelli, come uno dei cosiddetti anelli mancanti, e a lungo cercati, che servono a illuminarci sulla nostra vera natura. Nel frattempo, i rochi proponenti del "disegno intelligente" avevano messo sotto assedio un altro comitato scolastico, pretendendo che si insegnasse un simile ciarpame ai loro figli. Nella mia mente, questi fatti cominciavano ad assumere le caratteristiche di una gara di velocità: un modesto passo avanti da parte della ricerca e della ragione; un enorme e minaccioso balzo in avanti da parte delle forze della barbarie - quelli che sanno di avere ragione e vogliono instaurare, come si espresse una volta Robert Lowell in un altro contesto, "il regno della pietà e del ferro".
Questo libro, come ha detto qualche recensore molto più bravo di me, costringe faziosamente il lettore a schierarsi. Non ho mai fatto mistero del mio allontanamento dalla religione cattolica, culto con il quale sono stato cresciuto, e dei miei dubbi piuttosto forti sulla stessa, così come sulle altre religioni, anche qui su fassbinder. Di certo, questo libro, con lo stile caratteristico di Hitchens, più sarcastico che ironico, spesso cattivo, se uno ha dei dubbi li amplifica a dismisura, semplicemente contestualizzando storicamente molti fatti reali (contrariamente a quel che fanno le religioni). Il risultato della lettura, quindi, è duplice. Almeno per me: l'allargamento della crepa che mi separa dalla/dalle religione/i, ed il rimpianto fortissimo per la perdita di una mente ammirevole.
20140917
fare alla bestia
Do To the Beast - Afghan Whigs (2014)
Si potrebbe fare dell'ironia infinita sul fatto che il settimo disco degli Afghan Whigs, che esce a sedici anni di distanza dal precedente 1965 (uscito nel 1998, non è uno scherzo), venga pubblicato dalla Sub Pop, quell'etichetta che ci stregò tutti, parlo di me e di un manipolo di rockettari che rimasero affascinati, una ventina d'anni fa, da tutto quello che usciva da Seattle, Washington ed in particolar modo da quell'etichetta. Invece, rimanendo focalizzati e concentrati sulla musica, parliamone coscientemente, o almeno proviamoci. Anche questo è un disco che avevo "accantonato", sul quale non ero riuscito a formarmi un'opinione definita (è uscito il 15 aprile di quest'anno); anche questo è un disco di una band che ha sempre individuato il suo marchio di fabbrica nell'unione del soul con il rock (per inciso, molti anni prima dei The Black Keys). E' inoltre impossibile prescindere dallo iato di 10 anni (2001/2011), ed era impossibile non domandarsi, alla notizia che sarebbero usciti con un nuovo disco nel 2014, come sarebbero risultati ai nostri orecchi oggi. Ecco, per alcuni mesi sono andato avanti non trovando la risposta a quest'ultima domanda, finché (un altro spot gratuito per le serie tv versus cinema - curioso e paradossale, lo so, da parte mia) una sera, guardando l'episodio 2x09 - Snowflake - di Ray Donovan, ho sentito partire le note di Algiers, la traccia numero 4 di questo Do To the Beast, all'inizio dei titoli di coda. Vi ho ripetuto spesso che quasi sempre per scrivere qualcosa di sensato su un disco devo trovare la "chiave" che mi permette di penetrare dentro il disco in questione; quasi sempre arriva ascoltandolo. Stavolta è arrivata ugualmente ascoltandolo, ma attraverso la tv. E la risposta definitiva alla domanda di cui sopra è che gli Afghan Whigs oggi suonano esattamente come allora, solo più maturi, ma nonostante tutto al passo con i tempi, forse perché sono cambiati poco o nulla, e la loro ricerca musicale non ha età. Quello che Greg Dulli ed i suoi pards ricercano da sempre è la bellezza, così come tanti del resto, e seppure non sempre riescano a trovarla, spesso vi si avvicinano molto. Ascoltateli. Suonano come se non si fossero mai allontanati (anche se, ad onor del vero, dei membri originali ci sono solo Dulli e Curley, visto che McCollum, coinvolto nella reunion, ha nuovamente abbandonato la band prima che iniziassero le registrazioni di questo disco), dipingono tavolozze di colori infiniti, Dulli, seppur faticando qua e là, sfodera ancora una gamma vasta di tonalità. Pollice all'insù per i mai dimenticati Afghan Whigs.
The question, when I knew that the Afghan Whigs would come out with a new album after 16 years, was: "how will they sound to our ears today?". The paradoxical answer I finally had a few nights ago, while I have heard their Algiers over the end credits of an episode of the television series Ray Donovan. Exactly as it was then, but perfectly in step with the times. The search for beauty in music by Afghan Whigs, combining soul and rock in their own way, continues in a fruitful way: even with this record they have approached often.
Si potrebbe fare dell'ironia infinita sul fatto che il settimo disco degli Afghan Whigs, che esce a sedici anni di distanza dal precedente 1965 (uscito nel 1998, non è uno scherzo), venga pubblicato dalla Sub Pop, quell'etichetta che ci stregò tutti, parlo di me e di un manipolo di rockettari che rimasero affascinati, una ventina d'anni fa, da tutto quello che usciva da Seattle, Washington ed in particolar modo da quell'etichetta. Invece, rimanendo focalizzati e concentrati sulla musica, parliamone coscientemente, o almeno proviamoci. Anche questo è un disco che avevo "accantonato", sul quale non ero riuscito a formarmi un'opinione definita (è uscito il 15 aprile di quest'anno); anche questo è un disco di una band che ha sempre individuato il suo marchio di fabbrica nell'unione del soul con il rock (per inciso, molti anni prima dei The Black Keys). E' inoltre impossibile prescindere dallo iato di 10 anni (2001/2011), ed era impossibile non domandarsi, alla notizia che sarebbero usciti con un nuovo disco nel 2014, come sarebbero risultati ai nostri orecchi oggi. Ecco, per alcuni mesi sono andato avanti non trovando la risposta a quest'ultima domanda, finché (un altro spot gratuito per le serie tv versus cinema - curioso e paradossale, lo so, da parte mia) una sera, guardando l'episodio 2x09 - Snowflake - di Ray Donovan, ho sentito partire le note di Algiers, la traccia numero 4 di questo Do To the Beast, all'inizio dei titoli di coda. Vi ho ripetuto spesso che quasi sempre per scrivere qualcosa di sensato su un disco devo trovare la "chiave" che mi permette di penetrare dentro il disco in questione; quasi sempre arriva ascoltandolo. Stavolta è arrivata ugualmente ascoltandolo, ma attraverso la tv. E la risposta definitiva alla domanda di cui sopra è che gli Afghan Whigs oggi suonano esattamente come allora, solo più maturi, ma nonostante tutto al passo con i tempi, forse perché sono cambiati poco o nulla, e la loro ricerca musicale non ha età. Quello che Greg Dulli ed i suoi pards ricercano da sempre è la bellezza, così come tanti del resto, e seppure non sempre riescano a trovarla, spesso vi si avvicinano molto. Ascoltateli. Suonano come se non si fossero mai allontanati (anche se, ad onor del vero, dei membri originali ci sono solo Dulli e Curley, visto che McCollum, coinvolto nella reunion, ha nuovamente abbandonato la band prima che iniziassero le registrazioni di questo disco), dipingono tavolozze di colori infiniti, Dulli, seppur faticando qua e là, sfodera ancora una gamma vasta di tonalità. Pollice all'insù per i mai dimenticati Afghan Whigs.
The question, when I knew that the Afghan Whigs would come out with a new album after 16 years, was: "how will they sound to our ears today?". The paradoxical answer I finally had a few nights ago, while I have heard their Algiers over the end credits of an episode of the television series Ray Donovan. Exactly as it was then, but perfectly in step with the times. The search for beauty in music by Afghan Whigs, combining soul and rock in their own way, continues in a fruitful way: even with this record they have approached often.
20140916
The Game of Thrones 4
continua da qui
Se i software non bastano
I modelli a grandezza naturale sono da tempo strumenti fondamentali per chi progetta gli aerei. Esistono software in grado di riprodurre versioni tridimensionali straordinariamente realistiche di intere cabine, sottolinea Park, ma rimangono comunque alcuni dettagli che riesci a valutare bene solo studiando un oggetto concreto a grandezza naturale. Il modello dimostrativo della nuova poltrona di business della JPA e della Jamco è stato costruito a Pitstone, una sessantina di chilometri a nord di Londra, dalla Curvature Group, un’azienda che fabbrica modelli di qualsiasi cosa, dai cellulari ai razzi, tutti in scala 1:1 e accurati nei minimi particolari. Tighe abita lì vicino e a volte ci fa un salto andando o tornando dal lavoro. Un giorno lo accompagno e James Lilley, il responsabile di progetto della Curvature, ci fa fare un giro. In una stanza vediamo un uomo incollare grandi assi di poliuretano da usare poi per costruire un modello di barca, ricorrendo alla più grande delle tredici fresatrici computerizzate del laboratorio. “Qui dentro possiamo tranquillamente riprodurre un treno intero”, precisa Lilley. Tighe mi ricorda che non molto tempo fa la ditta ha fabbricato un prototipo non funzionante di una carrozza ferroviaria per la Hitachi, e l’interno era così curato nei dettagli che entrandoci sembrava vera. In un’altra stanza un artigiano che sta curvando a mano il bordo del guscio di un sedile spiega a Tighe perché sarà difficile riprodurre la particolare sfumatura di colore di un certo campione. È un azzurro traslucido e glielo ha mandato l’esperto di materiali della JPA, che lo considera perfetto per una particolare rifinitura della nuova poltrona. “Pensiamo di sapere come ottenerlo”, dice l’artigiano, “ma sarà una grande seccatura”. Per ricreare quell’effetto, spiega, ci vorrebbe un primo strato di base, poi uno strato nero, uno lucido, uno di vernice, uno di smalto e almeno un paio di altri passaggi, senza contare il tempo necessario perché ogni strato si asciughi. Ma lui pensa di poter trovare un metodo più semplice per ottenere quasi lo stesso effetto e dà a Tighe due campioni. “La prima persona che trova il sistema per imitare in modo convincente la cromatura farà una fortuna”, annuncia Lilley. Per costruire il modello di un sedile d’aereo la Curvature può impiegare anche dieci settimane, perché ogni pezzo deve essere fatto su misura. Una volta finito il prototipo, per costruire la poltrona ci vuole meno tempo, ma il procedimento è molto simile. “L’industria delle poltrone d’aereo non è come quella delle automobili”, precisa Parker. “I pezzi sono molto più piccoli ed è ancora un lavoro artigianale. Nelle fabbriche di automobili, quasi tutte le saldature sono affidate ai robot, come buona parte dell’impianto elettrico. Nei sedili degli aerei, invece, perfino alcune parti del telaio sono fatte a mano”. Tighe aggiunge: “Se pensi a tutto quello che c’è in un aereo, sembra una follia che il biglietto costi così poco”. Per andare a Londra ho preso un volo dell’American Airlines. Le compagnie statunitensi hanno impiegato un po’ di tempo a introdurre poltrone più elaborate ma, visto che le aspettative dei viaggiatori sono cambiate, ora stanno cercando di mettersi al passo con le concorrenti straniere. Sul rinnovo della sua flotta, per esempio, l’American ha investito molto. Gli interni del mio aereo, un Boeing 777-300Er nuovo di zecca, sono stati interamente progettati dallo studio di Park. Le poltrone della business sono varianti della Cirrus molto simili a quelle della Cathay Pacific, anche se le ho solo intraviste mentre andavo a prendere posto in economy. Un passeggero della business si era già disteso e aveva estratto la coperta, una mossa da principiante dato che nel giro di qualche minuto avrebbe dovuto raddrizzare di nuovo lo schienale per il decollo. Verso la fine della settimana che ho passato a Londra ho messo un attimo da parte la mia deontologia di giornalista e non ho fatto obiezioni quando un’addetta al marketing mi ha chiesto se poteva cercare di procurarmi un posto migliore per il volo di ritorno, con un passaggio di classe in caso di “disponibilità”. Quando sono arrivato in aeroporto l’impiegata della biglietteria è scoppiata a ridere e mi ha detto di scordarmelo. C’erano solo due posti vuoti in business class, ma davanti a me c’era una lunga fila. “Anche i dipendenti possono approfittare di questi cambiamenti di posto”, mi ha detto, “ma sui nuovi aerei non c’è mai posto per noi”. Anche quando l’economy è semivuota, la prima è sempre piena, e per la business c’è la lista d’attesa. Mi sono rassegnato all’idea dei soliti 75 centimetri di spazio, e dopo il decollo mi sono consolato pensando che gli accessori della mia poltrona erano costati diverse migliaia di dollari in più di tutta l’attrezzatura audio e video che avevo in casa. Ogni tanto, quando il libro che stavo leggendo diventava noioso, chiudevo gli occhi. Ma per tutto il volo ho tenuto lo schienale dritto per riguardo al passeggero seduto dietro di me. E sono abbastanza sicuro di non aver mai dormito.
Se i software non bastano
I modelli a grandezza naturale sono da tempo strumenti fondamentali per chi progetta gli aerei. Esistono software in grado di riprodurre versioni tridimensionali straordinariamente realistiche di intere cabine, sottolinea Park, ma rimangono comunque alcuni dettagli che riesci a valutare bene solo studiando un oggetto concreto a grandezza naturale. Il modello dimostrativo della nuova poltrona di business della JPA e della Jamco è stato costruito a Pitstone, una sessantina di chilometri a nord di Londra, dalla Curvature Group, un’azienda che fabbrica modelli di qualsiasi cosa, dai cellulari ai razzi, tutti in scala 1:1 e accurati nei minimi particolari. Tighe abita lì vicino e a volte ci fa un salto andando o tornando dal lavoro. Un giorno lo accompagno e James Lilley, il responsabile di progetto della Curvature, ci fa fare un giro. In una stanza vediamo un uomo incollare grandi assi di poliuretano da usare poi per costruire un modello di barca, ricorrendo alla più grande delle tredici fresatrici computerizzate del laboratorio. “Qui dentro possiamo tranquillamente riprodurre un treno intero”, precisa Lilley. Tighe mi ricorda che non molto tempo fa la ditta ha fabbricato un prototipo non funzionante di una carrozza ferroviaria per la Hitachi, e l’interno era così curato nei dettagli che entrandoci sembrava vera. In un’altra stanza un artigiano che sta curvando a mano il bordo del guscio di un sedile spiega a Tighe perché sarà difficile riprodurre la particolare sfumatura di colore di un certo campione. È un azzurro traslucido e glielo ha mandato l’esperto di materiali della JPA, che lo considera perfetto per una particolare rifinitura della nuova poltrona. “Pensiamo di sapere come ottenerlo”, dice l’artigiano, “ma sarà una grande seccatura”. Per ricreare quell’effetto, spiega, ci vorrebbe un primo strato di base, poi uno strato nero, uno lucido, uno di vernice, uno di smalto e almeno un paio di altri passaggi, senza contare il tempo necessario perché ogni strato si asciughi. Ma lui pensa di poter trovare un metodo più semplice per ottenere quasi lo stesso effetto e dà a Tighe due campioni. “La prima persona che trova il sistema per imitare in modo convincente la cromatura farà una fortuna”, annuncia Lilley. Per costruire il modello di un sedile d’aereo la Curvature può impiegare anche dieci settimane, perché ogni pezzo deve essere fatto su misura. Una volta finito il prototipo, per costruire la poltrona ci vuole meno tempo, ma il procedimento è molto simile. “L’industria delle poltrone d’aereo non è come quella delle automobili”, precisa Parker. “I pezzi sono molto più piccoli ed è ancora un lavoro artigianale. Nelle fabbriche di automobili, quasi tutte le saldature sono affidate ai robot, come buona parte dell’impianto elettrico. Nei sedili degli aerei, invece, perfino alcune parti del telaio sono fatte a mano”. Tighe aggiunge: “Se pensi a tutto quello che c’è in un aereo, sembra una follia che il biglietto costi così poco”. Per andare a Londra ho preso un volo dell’American Airlines. Le compagnie statunitensi hanno impiegato un po’ di tempo a introdurre poltrone più elaborate ma, visto che le aspettative dei viaggiatori sono cambiate, ora stanno cercando di mettersi al passo con le concorrenti straniere. Sul rinnovo della sua flotta, per esempio, l’American ha investito molto. Gli interni del mio aereo, un Boeing 777-300Er nuovo di zecca, sono stati interamente progettati dallo studio di Park. Le poltrone della business sono varianti della Cirrus molto simili a quelle della Cathay Pacific, anche se le ho solo intraviste mentre andavo a prendere posto in economy. Un passeggero della business si era già disteso e aveva estratto la coperta, una mossa da principiante dato che nel giro di qualche minuto avrebbe dovuto raddrizzare di nuovo lo schienale per il decollo. Verso la fine della settimana che ho passato a Londra ho messo un attimo da parte la mia deontologia di giornalista e non ho fatto obiezioni quando un’addetta al marketing mi ha chiesto se poteva cercare di procurarmi un posto migliore per il volo di ritorno, con un passaggio di classe in caso di “disponibilità”. Quando sono arrivato in aeroporto l’impiegata della biglietteria è scoppiata a ridere e mi ha detto di scordarmelo. C’erano solo due posti vuoti in business class, ma davanti a me c’era una lunga fila. “Anche i dipendenti possono approfittare di questi cambiamenti di posto”, mi ha detto, “ma sui nuovi aerei non c’è mai posto per noi”. Anche quando l’economy è semivuota, la prima è sempre piena, e per la business c’è la lista d’attesa. Mi sono rassegnato all’idea dei soliti 75 centimetri di spazio, e dopo il decollo mi sono consolato pensando che gli accessori della mia poltrona erano costati diverse migliaia di dollari in più di tutta l’attrezzatura audio e video che avevo in casa. Ogni tanto, quando il libro che stavo leggendo diventava noioso, chiudevo gli occhi. Ma per tutto il volo ho tenuto lo schienale dritto per riguardo al passeggero seduto dietro di me. E sono abbastanza sicuro di non aver mai dormito.
fine
20140915
diventa blu
Turn Blue - The Black Keys (2014)
E alla fine, parliamone, soprattutto per l'amico Damiano, che mi aspetta al varco. No, anzi: parliamone perché The Black Keys sono decisamente una delle cose più importanti del rock negli ultimi anni. Sommariamente, tutti quanti hanno concordato che questo loro ottavo Turn Blue è stato inferiore al precedente El Camino. Beh, in un certo senso era inevitabile; ma ci sono quelle pietre miliari, quei momenti di svolta nelle carriere, nei percorsi delle vite delle band musicali, che è giusto rimangano inarrivabili. Detto questo, sbollita l'iniziale delusione, riprendendo (anche per i reminder dell'amico citato prima) "in mano" Turn Blue, ecco che si fa strada una domanda retorica: cosa ha che non va, che non funziona, questo nuovo (uscito il 12 maggio 2014) disco del duo di Akron, Ohio? Bene, se vi capita di fare come me, cioè di rimettervi all'ascolto di questo disco dopo qualche mese, sono abbastanza sicuro che la risposta che vi darete sarà la stessa che mi sono dato io: niente, assolutamente niente di sbagliato o fuori posto. E' davvero un bel disco, a tratti sorprendentemente delicato nella sua commistione di garage, blues e soul, venature "nere" nella ruvidezza del rock, e quel tocco giocoso delle tastierine tipo Farfisa, come nell'intro di Fever, che rende il tutto meno serioso ma non per questo meno accattivante. Auerbach, Carney e Brian Danger Mouse Burton (quest'ultimo ancora una volta presente come sul precedente disco, ormai praticamente terzo componente, produttore e compositore alla pari) sono dei genietti del songwriting, i pezzi sono inattaccabili presi uno per uno, il drumming di Carney è un marchio di fabbrica e Auerbach da una parte canta come un moderno Al Green, dall'altra sembra che ogni tanto si svegli e pensi di essere Santana. Smaltito l'hype, probabilmente da loro non voluto, che è derivato dal successo mondiale di El Camino, disco che li ha consacrati come fenomeno mainstream, tirandoli fuori dallo scaffale dell'alternative (e anche su questo si potrebbe discutere, la cosa vale per chi sta fuori dagli States, visto che là era già da un po' che i The Black Keys non erano più di nicchia) e che gli ha dato quella visibilità che si meritano fino all'ultimo cent, Turn Blue ci ricorda chi sono i The Black Keys: una band formidabile che riesce a mescolare con disinvoltura alcuni dei generi che hanno distinto la produzione musicale statunitense, e dei fantastici compositori, ed interpreti, di canzoni da "bere" quasi senza accorgersene. Infatti, questi 11 pezzi passeranno in un lampo, nessuno di loro vi annoierà, e alla fine vi rimarrà solo da premere il tasto repeat e cominciare di nuovo...
El Camino was the album that pulled them out of the niche of the alternative, but it is well to remember that this has happened in countries outside the USA. This Turn Blue has suffered initially comparison with the previous disc. But if you put it back to listening to this album with an open mind, you will realize that The Black Keys are a formidable band, which once again has produced a near perfect disc. Rock, blues and soul mixed with a decidedly uncommon wisdom.
E alla fine, parliamone, soprattutto per l'amico Damiano, che mi aspetta al varco. No, anzi: parliamone perché The Black Keys sono decisamente una delle cose più importanti del rock negli ultimi anni. Sommariamente, tutti quanti hanno concordato che questo loro ottavo Turn Blue è stato inferiore al precedente El Camino. Beh, in un certo senso era inevitabile; ma ci sono quelle pietre miliari, quei momenti di svolta nelle carriere, nei percorsi delle vite delle band musicali, che è giusto rimangano inarrivabili. Detto questo, sbollita l'iniziale delusione, riprendendo (anche per i reminder dell'amico citato prima) "in mano" Turn Blue, ecco che si fa strada una domanda retorica: cosa ha che non va, che non funziona, questo nuovo (uscito il 12 maggio 2014) disco del duo di Akron, Ohio? Bene, se vi capita di fare come me, cioè di rimettervi all'ascolto di questo disco dopo qualche mese, sono abbastanza sicuro che la risposta che vi darete sarà la stessa che mi sono dato io: niente, assolutamente niente di sbagliato o fuori posto. E' davvero un bel disco, a tratti sorprendentemente delicato nella sua commistione di garage, blues e soul, venature "nere" nella ruvidezza del rock, e quel tocco giocoso delle tastierine tipo Farfisa, come nell'intro di Fever, che rende il tutto meno serioso ma non per questo meno accattivante. Auerbach, Carney e Brian Danger Mouse Burton (quest'ultimo ancora una volta presente come sul precedente disco, ormai praticamente terzo componente, produttore e compositore alla pari) sono dei genietti del songwriting, i pezzi sono inattaccabili presi uno per uno, il drumming di Carney è un marchio di fabbrica e Auerbach da una parte canta come un moderno Al Green, dall'altra sembra che ogni tanto si svegli e pensi di essere Santana. Smaltito l'hype, probabilmente da loro non voluto, che è derivato dal successo mondiale di El Camino, disco che li ha consacrati come fenomeno mainstream, tirandoli fuori dallo scaffale dell'alternative (e anche su questo si potrebbe discutere, la cosa vale per chi sta fuori dagli States, visto che là era già da un po' che i The Black Keys non erano più di nicchia) e che gli ha dato quella visibilità che si meritano fino all'ultimo cent, Turn Blue ci ricorda chi sono i The Black Keys: una band formidabile che riesce a mescolare con disinvoltura alcuni dei generi che hanno distinto la produzione musicale statunitense, e dei fantastici compositori, ed interpreti, di canzoni da "bere" quasi senza accorgersene. Infatti, questi 11 pezzi passeranno in un lampo, nessuno di loro vi annoierà, e alla fine vi rimarrà solo da premere il tasto repeat e cominciare di nuovo...
El Camino was the album that pulled them out of the niche of the alternative, but it is well to remember that this has happened in countries outside the USA. This Turn Blue has suffered initially comparison with the previous disc. But if you put it back to listening to this album with an open mind, you will realize that The Black Keys are a formidable band, which once again has produced a near perfect disc. Rock, blues and soul mixed with a decidedly uncommon wisdom.
20140914
tempo strano
Strange Weather (EP) - Anna Calvi (2014)
Più che una recensione risulterà una segnalazione, immagino, ma tant'è. Il 15 luglio 2014 Anna Calvi dà segni di vita, e che vita, con un avvolgente EP di cinque pezzi. Cinque cover scovate un po' qua e un po' là da un'appassionata di musica, in primis. Il risultato è decisamente affascinante, come del resto tutta la produzione fin qui disponibile dell'inglesina. Rivisitazioni diversissime dagli originali, a volte non troppo, la Calvi rende digeribile a palati tendenti alla normalità la già fichissima Papi Pacify di FKA Twigs, così come rende un gran pezzo la già interessante I'm the Man, That Will Find You del neozelandese Connan Mockasin. Le cose si fanno ancor più interessanti quando coverizza Ghost Rider dei precursori elettropunk Suicide, conservando la claustrofobia del pezzo, ma regalandogli calore e rotondità al tempo stesso. Per il pezzo che dà il titolo all'EP, si fa accompagnare da David Byrne (così come succede per I'm the Man, That Will Find You), ma si limita a reinterpretare ed impreziosire la già preziosa canzone di Keren Ann, rendendola probabilmente l'apice emozionale del disco. Si finisce con Lady Grinning Soul di Bowie, alla quale la Calvi infonde un tocco marziale e sicuramente meno "leggero".
Aspettando il prossimo full lenght, Anna Calvi è una certezza.
Five tracks EP for the english female singer-guitarist, with the precious collaboration of David Byrne, that sings on two songs. Entirely composed by cover version, someone changed a lot, not someone else, this EP confirms the authority of Calvi, despite his (relatively) young age and the few records so far published, precisely because she allows to herself to change, in average, just a little of those songs that reinterprets, but manages to infuse them with his style, already a trademark.
Più che una recensione risulterà una segnalazione, immagino, ma tant'è. Il 15 luglio 2014 Anna Calvi dà segni di vita, e che vita, con un avvolgente EP di cinque pezzi. Cinque cover scovate un po' qua e un po' là da un'appassionata di musica, in primis. Il risultato è decisamente affascinante, come del resto tutta la produzione fin qui disponibile dell'inglesina. Rivisitazioni diversissime dagli originali, a volte non troppo, la Calvi rende digeribile a palati tendenti alla normalità la già fichissima Papi Pacify di FKA Twigs, così come rende un gran pezzo la già interessante I'm the Man, That Will Find You del neozelandese Connan Mockasin. Le cose si fanno ancor più interessanti quando coverizza Ghost Rider dei precursori elettropunk Suicide, conservando la claustrofobia del pezzo, ma regalandogli calore e rotondità al tempo stesso. Per il pezzo che dà il titolo all'EP, si fa accompagnare da David Byrne (così come succede per I'm the Man, That Will Find You), ma si limita a reinterpretare ed impreziosire la già preziosa canzone di Keren Ann, rendendola probabilmente l'apice emozionale del disco. Si finisce con Lady Grinning Soul di Bowie, alla quale la Calvi infonde un tocco marziale e sicuramente meno "leggero".
Aspettando il prossimo full lenght, Anna Calvi è una certezza.
Five tracks EP for the english female singer-guitarist, with the precious collaboration of David Byrne, that sings on two songs. Entirely composed by cover version, someone changed a lot, not someone else, this EP confirms the authority of Calvi, despite his (relatively) young age and the few records so far published, precisely because she allows to herself to change, in average, just a little of those songs that reinterprets, but manages to infuse them with his style, already a trademark.
20140913
20140912
Thank You
True Blood - di Alan Ball - Stagione 7 (10 episodi; HBO) - 2014
A Bon Temps sono cambiate molte cose. Tanto per dirne una, Sam è diventato sindaco. Vampiri e umani convivono, perché ancora molti pericoli sono là fuori, e quindi si decide che ogni umano prenderà sotto la propria "ala protettrice" un umano, un umano non portatore sano di Hep V, che in cambio nutrirà col suo sangue il vampiro, affinché non si ammali andando in giro a mordere chicchessia. Ebbene si, l'Hep V è l'AIDS dei vampiri, una malattia tremenda che non lascia scampo e li conduce velocemente alla "vera morte". E proprio mentre si celebra questa vantaggiosa e pacificatrice unione, proseguendo il cliffhanger della stagione precedente, un gruppo di vampiri affetti da Hep V attaccano l'intera popolazione di Bon Temps riunita appunto al Merlotte's. Tara muore, lasciando Lettie Mae in uno stato confusionale, accresciuto dal sangue di vampiro fornitole da Willa, Arlene, Holly e Nicole (incinta di Sam) vengono rapite. Jason finalmente sfodera la sua mascolinità nel suo rapporto con Violet, Jessica prova in tutti i modi a riguadagnare la fiducia di Andy e Adilyn. Una parte dei cittadini si ribella all'alleanza con i vampiri e alla leadership di Sam, mentre lui, Andy, Jason e Sookie vorrebbero solo ritrovare le tre donne rapite dai vampiri malati. Dall'altra parte del mondo, Pam è ancora alla ricerca di Eric.
True Blood ci lascia definitivamente con questa ultima stagione. Il bilancio è tutto sommato positivo, seppure le ultime stagioni, questa compresa, abbiano lasciato spesso a desiderare. Durante questa settima, ad esempio, le sceneggiature si lasciano spesso andare a flashback non sempre utili, e a momenti di amarcord esageratamente sdolcinati e mielosi. Perfino Pam perde la sua ficcante ironia, spesso e volentieri, nella disperata ricerca del suo maker. Per fortuna che c'è Jason Stackhouse, fino in fondo senza cervello alla ricerca di un briciolo di intelligenza e buon senso (il sacchetto di piselli surgelati sul suo pisello è una scena che racchiude la filosofia che volevamo fosse maggiormente approfondita, in True Blood, almeno ogni tanto). Ci sono diverse scene di sesso semi-esplicito, perfino una omosessuale, che però spesso danno l'impressione di esser messe lì per evitare che la melassa invadesse lo schermo definitivamente. E ci rimarrà pure in mente la bellezza allo stato puro di Deborah Ann Woll da una parte (Jessica, un sogno colorato di rosso; prossimamente sarà Karen Page nella serie Daredevil), e quella tutta nordica di Alexander Johan Hjalmar Skarsgard (Eric Northman), un pezzo d'uomo che non lascia scampo neppure a chi si sente uomo fino in fondo.
Finisce con una tavolata di buonismo, True Blood, una serie che voleva essere camp ("deliberately exaggerated and theatrical style, typically for humorous effect", questa l'esatta definizione che direi non abbisogna di traduzione), ma non ne è stata capace fino in fondo. Au revoir, Bon Temps.
A Bon Temps sono cambiate molte cose. Tanto per dirne una, Sam è diventato sindaco. Vampiri e umani convivono, perché ancora molti pericoli sono là fuori, e quindi si decide che ogni umano prenderà sotto la propria "ala protettrice" un umano, un umano non portatore sano di Hep V, che in cambio nutrirà col suo sangue il vampiro, affinché non si ammali andando in giro a mordere chicchessia. Ebbene si, l'Hep V è l'AIDS dei vampiri, una malattia tremenda che non lascia scampo e li conduce velocemente alla "vera morte". E proprio mentre si celebra questa vantaggiosa e pacificatrice unione, proseguendo il cliffhanger della stagione precedente, un gruppo di vampiri affetti da Hep V attaccano l'intera popolazione di Bon Temps riunita appunto al Merlotte's. Tara muore, lasciando Lettie Mae in uno stato confusionale, accresciuto dal sangue di vampiro fornitole da Willa, Arlene, Holly e Nicole (incinta di Sam) vengono rapite. Jason finalmente sfodera la sua mascolinità nel suo rapporto con Violet, Jessica prova in tutti i modi a riguadagnare la fiducia di Andy e Adilyn. Una parte dei cittadini si ribella all'alleanza con i vampiri e alla leadership di Sam, mentre lui, Andy, Jason e Sookie vorrebbero solo ritrovare le tre donne rapite dai vampiri malati. Dall'altra parte del mondo, Pam è ancora alla ricerca di Eric.
True Blood ci lascia definitivamente con questa ultima stagione. Il bilancio è tutto sommato positivo, seppure le ultime stagioni, questa compresa, abbiano lasciato spesso a desiderare. Durante questa settima, ad esempio, le sceneggiature si lasciano spesso andare a flashback non sempre utili, e a momenti di amarcord esageratamente sdolcinati e mielosi. Perfino Pam perde la sua ficcante ironia, spesso e volentieri, nella disperata ricerca del suo maker. Per fortuna che c'è Jason Stackhouse, fino in fondo senza cervello alla ricerca di un briciolo di intelligenza e buon senso (il sacchetto di piselli surgelati sul suo pisello è una scena che racchiude la filosofia che volevamo fosse maggiormente approfondita, in True Blood, almeno ogni tanto). Ci sono diverse scene di sesso semi-esplicito, perfino una omosessuale, che però spesso danno l'impressione di esser messe lì per evitare che la melassa invadesse lo schermo definitivamente. E ci rimarrà pure in mente la bellezza allo stato puro di Deborah Ann Woll da una parte (Jessica, un sogno colorato di rosso; prossimamente sarà Karen Page nella serie Daredevil), e quella tutta nordica di Alexander Johan Hjalmar Skarsgard (Eric Northman), un pezzo d'uomo che non lascia scampo neppure a chi si sente uomo fino in fondo.
Finisce con una tavolata di buonismo, True Blood, una serie che voleva essere camp ("deliberately exaggerated and theatrical style, typically for humorous effect", questa l'esatta definizione che direi non abbisogna di traduzione), ma non ne è stata capace fino in fondo. Au revoir, Bon Temps.
20140911
la moglie/trofeo
Trophy Wife - di Emily Halpern e Sarah Haskins - Stagione 1 (22 episodi; ABC) - 2013/2014
Un qualsiasi suburb statunitense. Kate, una bellissima, biondissima ex party girl sposa l'avvocato di mezz'età Pete Harrison. Stabilità economica, una bella casa, una vita agiata, una ibrida in garage. Tutto facile, quindi? Neppure per sogno. Pete ha alle spalle ben due matrimoni e tre figli. E siccome siamo nei civilissimi USA, i tre figli vivono principalmente con lui, e le due ex mogli sono ben presenti nella sua vita. La prima ex moglie è la dottoressa Diane Buckley, inflessibile, severa, maniacale, perfezionista. I primi due figli provengono dal di lei matrimonio con Pete, e sono la iper-brava ragazza Hillary, e lo slacker Warren, pigro e ben poco sveglio, entrambi adolescenti. A Diane naturalmente non piace Kate, mentre inizialmente Kate fa di tutto per andarle a genio. La seconda moglie è Jackie Fisher, stralunata, fissata con qualsiasi cosa new age, un vulcano di idee inconcludenti, fondamentalmente pigra e disoccupata: la sua specialità è intrufolarsi in qualsiasi modo in casa di Pete e Kate. Il terzo figlio viene dal matrimonio di lei con Pete, ed è Bert, un bambino asiatico adottato dai due ai tempi, appunto, della loro unione. Bambino simpaticissimo e fin troppo sveglio per la sua età, ovviamente spesso poco centrato sulla realtà che lo circonda a causa dell'influenza della madre adottiva. Completa il quadro Meg, migliore amica di Kate ai tempi dei party: anche lei, a suo modo, pare vivere in una realtà parallela.
Questo è quello che Kate sposa sposando Pete. Ce la farà?
Sembrava una sfida facile, un cast interessantissimo, una nuova, ancor più comedy, Modern Family (stessa rete), e invece è stato un po' un buco nell'acqua, questo Trophy Wife. La bellissima Malin Akerman nei panni di Kate, uno degli attori preferiti da Sorkin, Bradley Whitford, nei panni di Pete, Marcia Gay Harden in quelli di Diane, una delle stelle del Saturday Night Live Michaela Watkins che interpreta Jackie, tre brillanti giovanissimi attori nei ruoli dei figli, la faccia da schiaffi di Natalie Morales in quelli di Meg.
La serie è stata cancellata dopo la prima stagione, fatta da 22 episodi, durante i quali si è sorriso spesso, ma durante i quali si capiva che mancava quel mordente necessario a farla diventare, appunto, seriale. Anche gli attori, che sono comprensibilmente bravi, parevano mordere il freno in vari momenti. Per dire, Marcia Gay Harden dà di più in un episodio di The Newsroom che in 22 di Trophy Wife. Rimpiangeremo solo le scarpe della Akerman, di tutto questo.
Un qualsiasi suburb statunitense. Kate, una bellissima, biondissima ex party girl sposa l'avvocato di mezz'età Pete Harrison. Stabilità economica, una bella casa, una vita agiata, una ibrida in garage. Tutto facile, quindi? Neppure per sogno. Pete ha alle spalle ben due matrimoni e tre figli. E siccome siamo nei civilissimi USA, i tre figli vivono principalmente con lui, e le due ex mogli sono ben presenti nella sua vita. La prima ex moglie è la dottoressa Diane Buckley, inflessibile, severa, maniacale, perfezionista. I primi due figli provengono dal di lei matrimonio con Pete, e sono la iper-brava ragazza Hillary, e lo slacker Warren, pigro e ben poco sveglio, entrambi adolescenti. A Diane naturalmente non piace Kate, mentre inizialmente Kate fa di tutto per andarle a genio. La seconda moglie è Jackie Fisher, stralunata, fissata con qualsiasi cosa new age, un vulcano di idee inconcludenti, fondamentalmente pigra e disoccupata: la sua specialità è intrufolarsi in qualsiasi modo in casa di Pete e Kate. Il terzo figlio viene dal matrimonio di lei con Pete, ed è Bert, un bambino asiatico adottato dai due ai tempi, appunto, della loro unione. Bambino simpaticissimo e fin troppo sveglio per la sua età, ovviamente spesso poco centrato sulla realtà che lo circonda a causa dell'influenza della madre adottiva. Completa il quadro Meg, migliore amica di Kate ai tempi dei party: anche lei, a suo modo, pare vivere in una realtà parallela.
Questo è quello che Kate sposa sposando Pete. Ce la farà?
Sembrava una sfida facile, un cast interessantissimo, una nuova, ancor più comedy, Modern Family (stessa rete), e invece è stato un po' un buco nell'acqua, questo Trophy Wife. La bellissima Malin Akerman nei panni di Kate, uno degli attori preferiti da Sorkin, Bradley Whitford, nei panni di Pete, Marcia Gay Harden in quelli di Diane, una delle stelle del Saturday Night Live Michaela Watkins che interpreta Jackie, tre brillanti giovanissimi attori nei ruoli dei figli, la faccia da schiaffi di Natalie Morales in quelli di Meg.
La serie è stata cancellata dopo la prima stagione, fatta da 22 episodi, durante i quali si è sorriso spesso, ma durante i quali si capiva che mancava quel mordente necessario a farla diventare, appunto, seriale. Anche gli attori, che sono comprensibilmente bravi, parevano mordere il freno in vari momenti. Per dire, Marcia Gay Harden dà di più in un episodio di The Newsroom che in 22 di Trophy Wife. Rimpiangeremo solo le scarpe della Akerman, di tutto questo.
20140910
The Game of Thrones 3
continua da qui
Sogni ad alta quota
I letti in volo non sono un’invenzione recente. Su alcuni dei primi aerei della Pan Am c’erano cuccette simili a quelle dei treni. Nel 1937 un passeggero raccontò di aver sentito “russare leggermente” Anna May Wong, l’attrice di Shanghai Express, che dormiva dietro una tenda nella cuccetta dall’altra parte del corridoio. Man mano che volare diventava sempre meno esclusivo e la velocità degli aerei aumentava, questi spazi letto si sono ridotti fino a sparire del tutto, per poi essere reintrodotti dalla British Airways negli anni novanta. Sui primi voli di linea non c’erano posti di seconda classe, perché solo i ricchi potevano permettersi di viaggiare in aereo. Nel 1938 un biglietto per il volo della Imperial da Londra a Durban, che durava sei giorni e comprendeva pasti e alberghi, costava 125 sterline, quasi un quarto del prezzo medio di una casa. Quando furono introdotte categorie diverse di posti a volte la prima classe si trovava in coda, per essere lontana dal rumore dei motori e forse anche dai piloti. Nel 1977 la British Airways introdusse una terza divisione al centro dell’aereo, la cabina Executive, descritta come “una zona esclusiva e tranquilla lontana dalla distrazione dei film e dal chiasso dei bambini”. Il settore aveva poltrone e spazi identici a quelli della classe economica, ma era riservato a passeggeri che non avevano acquistato biglietti scontati, di solito in viaggio per lavoro. La prima vera business class sarebbe nata poco dopo, e da allora si è evoluta seguendo le fluttuazioni delle economie nazionali, l’aumento della concorrenza dovuto alla liberalizzazione e altri fattori. Una delle chiavi del suo successo è che molti biglietti sono acquistati con la moneta virtuale più vecchia del mondo: i soldi degli altri. Per i passeggeri che pagano di tasca loro e salgono di categoria grazie alle miglia di volo accumulate, il costo è integrato dalle quote che i commercianti pagano alle società che erogano carte di credito, le quali comprano dalle compagnie aeree miglia in blocco per darle in premio ai loro clienti. Per i dirigenti d’azienda e i loro avvocati, banchieri e consulenti, le spese sono in parte coperte dagli azionisti, che d’altronde coprono anche le spese degli aerei aziendali (i jet privati dividono le persone benestanti in due categorie: i ricchi, che volano in prima classe, e i miliardari, che non hanno mai visto il terminal di un aeroporto). Poco dopo essere tornati in prima classe, i letti hanno cominciato a ricomparire anche in business. Oggi la variazione in termini di rifiniture, dimensioni, spazio, comodità e prezzo dei biglietti in tutte le classi è così grande che le deinizioni tradizionali perdono di significato. Ben Orson, il direttore amministrativo della sede londinese della JPA, mi ha detto che probabilmente sarebbe più giusto considerare i modelli di poltrona come una serie di punti molto vicini tra loro, lungo una linea che va dai trespoli da trombosi dei voli regionali alle camere da letto della Emirates o della esclusiva Etihad di Abu Dhabi. Tra questi due estremi c’è tutta un’esplosione di varianti, tra cui alcune classi intermedie con nomi come economy comfort, economy plus e main cabin extra. L’Air New Zealand si è dimostrata particolarmente innovativa e negli ultimi anni ha introdotto due diversi modelli di poltrone: la Skycouch, che unisce tre posti di economy adiacenti in un ampio letto, e la Spaceseat, che la compagnia aerea colloca in premium economy, ma che per altre compagnie potrebbe essere una business. Contendersi i clienti in questo modo è economicamente rischioso. In alcune cabine di prima classe dell’indiana Kingisher Airlines c’erano un bar e un ampio salottino, più uno chef che cucinava prelibatezze su ordinazione. Ma la compagnia ha smesso di volare nel 2012, dopo soli sette anni di attività, e uno dei motivi era che riservava troppo spazio a servizi che allietavano i passeggeri ma non producevano introiti. Anche troppa moderazione, però, è pericolosa. Le cabine di lusso contribuiscono in modo sproporzionato al successo economico di una compagnia sia direttamente, per via dell’alto costo dei biglietti, sia indirettamente, consolidando i rapporti con i clienti più ricchi che viaggiano spesso. In questo senso la business è particolarmente preziosa, mentre la prima classe può dare qualche problema, perché i passeggeri si aspettano di essere più coccolati e non accettano l’overbooking. Siti come SeatGuru permettono ai più esigenti di confrontare le caratteristiche dei sedili di varie compagnie. E fidelizzare questi clienti è molto caro: le nuove poltrone di prima classe possono costare più di mezzo milione di dollari l’una. Jami Counter, uno dei direttori di TripAdvisor, il sito che possiede SeatGuru, mi ha detto: “In realtà le cabine di prima classe stanno scomparendo, perché la business è diventata così raffinata che a fare la differenza sono più che altro i pasti e il servizio”. Dato che i costi sono alti, la densità dei passeggeri è estremamente importante, soprattutto al di fuori della prima classe. La misura base del settore è il pitch, la distanza tra un punto di una poltrona e lo stesso punto di quella davanti e dietro. Più è ridotto, più file si possono fare; più file significano più introiti (e di solito prezzi più bassi, che è il criterio principale seguito da chi viaggia in economy per scegliere una compagnia invece di un’altra). Sugli aerei di linea lo spazio tra i sedili va dai circa 75 centimetri della classe economica sulla maggior parte dei voli a corto raggio, ai due metri e trenta di alcune cabine di prima sui voli a lunga distanza. In una cabina con poche file perfino i centimetri diventano importanti, perché si sommano. Se una fila occupa complessivamente un metro e ottanta, uno spazio equivalente che resta inutilizzato può costare molto caro, perché non è escluso che su un volo la differenza tra profitti e perdite sia inferiore al costo di un singolo biglietto. Scegliere con cura il prezzo del biglietto per ogni tipo di classe è diventato così importante che le compagnie aeree fanno di tutto per prevedere quale sarà la domanda, che di ora in ora può essere influenzata dalle condizioni meteorologiche, da un colpo di stato militare, dalle vacanze scolastiche, da un’epidemia, da un evento sportivo e da innumerevoli altri fattori. I prezzi cambiano continuamente con il variare delle situazioni. “Se riempi un volo in troppo poco tempo”, mi spiega Tighe, “vuol dire che il prezzo dei biglietti è troppo basso”. Durante la mia visita alla JPA quasi tutti si stavano preparando per l’Aircraft Interiors Expo, che si tiene ogni primavera ad Amburgo ed è la più grande fiera del settore per quelli che progettano, fabbricano, vendono o comprano tutto quello che va in quasi tutto quello che vola. I progettisti della JPA stavano lavorando a una nuova poltrona di business per la lunga distanza in collaborazione con la Jamco, un’azienda produttrice di interni per aerei. Il sedile, presentato come prototipo ad Amburgo nel 2013, è in qualche modo l’erede di una poltrona letto che si appiattiva completamente, introdotta dalla JPA insieme a un’altra ditta nel 2007 e chiamata Cirrus. Alcune sue versioni sono state adottate da diverse compagnie aeree, per lo più in business ma anche in prima. Le poltrone Cirrus sono avvolte in una specie di guscio, come ricorderanno molte persone che ci hanno viaggiato o ci sono passate davanti per raggiungere la coda dell’aereo. I sedili sono disposti a spina di pesce, cioè in diagonale rispetto all’asse longitudinale dell’aereo. Con questo orientamento è possibile avere più di un metro e ottanta di superficie letto in un pitch di 120 centimetri, e al tempo stesso garantire la cosa che i viaggiatori di prima classe considerano più importante, cioè poter accedere da ogni posto al corridoio senza dover dire “mi scusi” quando si alzano per andare in bagno. La disposizione delle Cirrus è definita a spina invertita, perché ribalta l’orientamento scelto dalla Virgin Atlantic, che è stata la prima compagnia a introdurre nella business l’angolatura delle poltrone. Sugli aerei della Virgin i passeggeri sui lati della cabina siedono dando la schiena ai finestrini e i piedi verso il corridoio, nelle Cirrus è il contrario. “Le poltrone della Virgin sono state molto innovative, ma ci sembrava un peccato non permettere ai passeggeri di guardare fuori dal finestrino”, commenta Tighe. “Inoltre quella sistemazione non va bene per tutti, perché in certe culture mostrare la pianta dei piedi è segno di maleducazione e alcuni passeggeri, soprattutto in Asia e in Medio Oriente, si sentono a disagio a dormire con i piedi rivolti verso il corridoio, dove passano tutti”. In volo le diferenze culturali possono essere notevoli. Agli statunitensi dà meno fastidio che agli sceicchi arabi se qualcuno vestito in modo trasandato e con le infradito finisce in prima classe. Il nuovo sedile della JPA, come il Cirrus, sarà venduto in varie versioni a più di una compagnia aerea, e lo scopo della sua presentazione ad Amburgo e altrove è di trovare clienti prima di cominciare la produzione. Il prototipo è una riproduzione a grandezza naturale di un modulo di cinque unità, in cui una poltrona ha tutte le funzioni, un’altra è già un letto e una terza è parzialmente reclinata. “L’amministratore delegato della compagnia di solito si siede sulla sedia funzionante e tutti gli altri gli si mettono intorno”, mi ha detto Orson. Durante le dimostrazioni i progettisti dello studio di Park diventano venditori, ma prestano anche attenzione a come si muovono i passeggeri. Per esempio, osservando i dirigenti delle compagnie alla fiera del 2013 hanno notato che a volte qualcuno di loro alzandosi urtava contro una sporgenza del guscio dal lato del corridoio, all’altezza delle spalle, e l’hanno eliminata. Dopo l’esposizione del 2013 il modello è stato spedito a Seattle, Singapore, Tokyo e in altre città per ulteriori presentazioni, e alla fine dell’anno i dirigenti di decine di compagnie lo avevano già esaminato. Eppure, al vero e proprio lancio della poltrona mancano almeno altri due anni e quasi tutte le informazioni, compreso il nome che le daranno, sono ancora segrete. Prima dell’esposizione del 2014 il modello è stato smontato, riparato, modificato, ricostruito e rivestito con tessuti di colore diverso, e (a lavori in corso) i progettisti della JPA ne hanno fabbricato una copia grossolana con pannelli di polistirolo. I sedili erano comuni sedie da ufficio, ma consentivano ai progettisti di controllare particolari come la visuale e gli spazi liberi.
Sogni ad alta quota
I letti in volo non sono un’invenzione recente. Su alcuni dei primi aerei della Pan Am c’erano cuccette simili a quelle dei treni. Nel 1937 un passeggero raccontò di aver sentito “russare leggermente” Anna May Wong, l’attrice di Shanghai Express, che dormiva dietro una tenda nella cuccetta dall’altra parte del corridoio. Man mano che volare diventava sempre meno esclusivo e la velocità degli aerei aumentava, questi spazi letto si sono ridotti fino a sparire del tutto, per poi essere reintrodotti dalla British Airways negli anni novanta. Sui primi voli di linea non c’erano posti di seconda classe, perché solo i ricchi potevano permettersi di viaggiare in aereo. Nel 1938 un biglietto per il volo della Imperial da Londra a Durban, che durava sei giorni e comprendeva pasti e alberghi, costava 125 sterline, quasi un quarto del prezzo medio di una casa. Quando furono introdotte categorie diverse di posti a volte la prima classe si trovava in coda, per essere lontana dal rumore dei motori e forse anche dai piloti. Nel 1977 la British Airways introdusse una terza divisione al centro dell’aereo, la cabina Executive, descritta come “una zona esclusiva e tranquilla lontana dalla distrazione dei film e dal chiasso dei bambini”. Il settore aveva poltrone e spazi identici a quelli della classe economica, ma era riservato a passeggeri che non avevano acquistato biglietti scontati, di solito in viaggio per lavoro. La prima vera business class sarebbe nata poco dopo, e da allora si è evoluta seguendo le fluttuazioni delle economie nazionali, l’aumento della concorrenza dovuto alla liberalizzazione e altri fattori. Una delle chiavi del suo successo è che molti biglietti sono acquistati con la moneta virtuale più vecchia del mondo: i soldi degli altri. Per i passeggeri che pagano di tasca loro e salgono di categoria grazie alle miglia di volo accumulate, il costo è integrato dalle quote che i commercianti pagano alle società che erogano carte di credito, le quali comprano dalle compagnie aeree miglia in blocco per darle in premio ai loro clienti. Per i dirigenti d’azienda e i loro avvocati, banchieri e consulenti, le spese sono in parte coperte dagli azionisti, che d’altronde coprono anche le spese degli aerei aziendali (i jet privati dividono le persone benestanti in due categorie: i ricchi, che volano in prima classe, e i miliardari, che non hanno mai visto il terminal di un aeroporto). Poco dopo essere tornati in prima classe, i letti hanno cominciato a ricomparire anche in business. Oggi la variazione in termini di rifiniture, dimensioni, spazio, comodità e prezzo dei biglietti in tutte le classi è così grande che le deinizioni tradizionali perdono di significato. Ben Orson, il direttore amministrativo della sede londinese della JPA, mi ha detto che probabilmente sarebbe più giusto considerare i modelli di poltrona come una serie di punti molto vicini tra loro, lungo una linea che va dai trespoli da trombosi dei voli regionali alle camere da letto della Emirates o della esclusiva Etihad di Abu Dhabi. Tra questi due estremi c’è tutta un’esplosione di varianti, tra cui alcune classi intermedie con nomi come economy comfort, economy plus e main cabin extra. L’Air New Zealand si è dimostrata particolarmente innovativa e negli ultimi anni ha introdotto due diversi modelli di poltrone: la Skycouch, che unisce tre posti di economy adiacenti in un ampio letto, e la Spaceseat, che la compagnia aerea colloca in premium economy, ma che per altre compagnie potrebbe essere una business. Contendersi i clienti in questo modo è economicamente rischioso. In alcune cabine di prima classe dell’indiana Kingisher Airlines c’erano un bar e un ampio salottino, più uno chef che cucinava prelibatezze su ordinazione. Ma la compagnia ha smesso di volare nel 2012, dopo soli sette anni di attività, e uno dei motivi era che riservava troppo spazio a servizi che allietavano i passeggeri ma non producevano introiti. Anche troppa moderazione, però, è pericolosa. Le cabine di lusso contribuiscono in modo sproporzionato al successo economico di una compagnia sia direttamente, per via dell’alto costo dei biglietti, sia indirettamente, consolidando i rapporti con i clienti più ricchi che viaggiano spesso. In questo senso la business è particolarmente preziosa, mentre la prima classe può dare qualche problema, perché i passeggeri si aspettano di essere più coccolati e non accettano l’overbooking. Siti come SeatGuru permettono ai più esigenti di confrontare le caratteristiche dei sedili di varie compagnie. E fidelizzare questi clienti è molto caro: le nuove poltrone di prima classe possono costare più di mezzo milione di dollari l’una. Jami Counter, uno dei direttori di TripAdvisor, il sito che possiede SeatGuru, mi ha detto: “In realtà le cabine di prima classe stanno scomparendo, perché la business è diventata così raffinata che a fare la differenza sono più che altro i pasti e il servizio”. Dato che i costi sono alti, la densità dei passeggeri è estremamente importante, soprattutto al di fuori della prima classe. La misura base del settore è il pitch, la distanza tra un punto di una poltrona e lo stesso punto di quella davanti e dietro. Più è ridotto, più file si possono fare; più file significano più introiti (e di solito prezzi più bassi, che è il criterio principale seguito da chi viaggia in economy per scegliere una compagnia invece di un’altra). Sugli aerei di linea lo spazio tra i sedili va dai circa 75 centimetri della classe economica sulla maggior parte dei voli a corto raggio, ai due metri e trenta di alcune cabine di prima sui voli a lunga distanza. In una cabina con poche file perfino i centimetri diventano importanti, perché si sommano. Se una fila occupa complessivamente un metro e ottanta, uno spazio equivalente che resta inutilizzato può costare molto caro, perché non è escluso che su un volo la differenza tra profitti e perdite sia inferiore al costo di un singolo biglietto. Scegliere con cura il prezzo del biglietto per ogni tipo di classe è diventato così importante che le compagnie aeree fanno di tutto per prevedere quale sarà la domanda, che di ora in ora può essere influenzata dalle condizioni meteorologiche, da un colpo di stato militare, dalle vacanze scolastiche, da un’epidemia, da un evento sportivo e da innumerevoli altri fattori. I prezzi cambiano continuamente con il variare delle situazioni. “Se riempi un volo in troppo poco tempo”, mi spiega Tighe, “vuol dire che il prezzo dei biglietti è troppo basso”. Durante la mia visita alla JPA quasi tutti si stavano preparando per l’Aircraft Interiors Expo, che si tiene ogni primavera ad Amburgo ed è la più grande fiera del settore per quelli che progettano, fabbricano, vendono o comprano tutto quello che va in quasi tutto quello che vola. I progettisti della JPA stavano lavorando a una nuova poltrona di business per la lunga distanza in collaborazione con la Jamco, un’azienda produttrice di interni per aerei. Il sedile, presentato come prototipo ad Amburgo nel 2013, è in qualche modo l’erede di una poltrona letto che si appiattiva completamente, introdotta dalla JPA insieme a un’altra ditta nel 2007 e chiamata Cirrus. Alcune sue versioni sono state adottate da diverse compagnie aeree, per lo più in business ma anche in prima. Le poltrone Cirrus sono avvolte in una specie di guscio, come ricorderanno molte persone che ci hanno viaggiato o ci sono passate davanti per raggiungere la coda dell’aereo. I sedili sono disposti a spina di pesce, cioè in diagonale rispetto all’asse longitudinale dell’aereo. Con questo orientamento è possibile avere più di un metro e ottanta di superficie letto in un pitch di 120 centimetri, e al tempo stesso garantire la cosa che i viaggiatori di prima classe considerano più importante, cioè poter accedere da ogni posto al corridoio senza dover dire “mi scusi” quando si alzano per andare in bagno. La disposizione delle Cirrus è definita a spina invertita, perché ribalta l’orientamento scelto dalla Virgin Atlantic, che è stata la prima compagnia a introdurre nella business l’angolatura delle poltrone. Sugli aerei della Virgin i passeggeri sui lati della cabina siedono dando la schiena ai finestrini e i piedi verso il corridoio, nelle Cirrus è il contrario. “Le poltrone della Virgin sono state molto innovative, ma ci sembrava un peccato non permettere ai passeggeri di guardare fuori dal finestrino”, commenta Tighe. “Inoltre quella sistemazione non va bene per tutti, perché in certe culture mostrare la pianta dei piedi è segno di maleducazione e alcuni passeggeri, soprattutto in Asia e in Medio Oriente, si sentono a disagio a dormire con i piedi rivolti verso il corridoio, dove passano tutti”. In volo le diferenze culturali possono essere notevoli. Agli statunitensi dà meno fastidio che agli sceicchi arabi se qualcuno vestito in modo trasandato e con le infradito finisce in prima classe. Il nuovo sedile della JPA, come il Cirrus, sarà venduto in varie versioni a più di una compagnia aerea, e lo scopo della sua presentazione ad Amburgo e altrove è di trovare clienti prima di cominciare la produzione. Il prototipo è una riproduzione a grandezza naturale di un modulo di cinque unità, in cui una poltrona ha tutte le funzioni, un’altra è già un letto e una terza è parzialmente reclinata. “L’amministratore delegato della compagnia di solito si siede sulla sedia funzionante e tutti gli altri gli si mettono intorno”, mi ha detto Orson. Durante le dimostrazioni i progettisti dello studio di Park diventano venditori, ma prestano anche attenzione a come si muovono i passeggeri. Per esempio, osservando i dirigenti delle compagnie alla fiera del 2013 hanno notato che a volte qualcuno di loro alzandosi urtava contro una sporgenza del guscio dal lato del corridoio, all’altezza delle spalle, e l’hanno eliminata. Dopo l’esposizione del 2013 il modello è stato spedito a Seattle, Singapore, Tokyo e in altre città per ulteriori presentazioni, e alla fine dell’anno i dirigenti di decine di compagnie lo avevano già esaminato. Eppure, al vero e proprio lancio della poltrona mancano almeno altri due anni e quasi tutte le informazioni, compreso il nome che le daranno, sono ancora segrete. Prima dell’esposizione del 2014 il modello è stato smontato, riparato, modificato, ricostruito e rivestito con tessuti di colore diverso, e (a lavori in corso) i progettisti della JPA ne hanno fabbricato una copia grossolana con pannelli di polistirolo. I sedili erano comuni sedie da ufficio, ma consentivano ai progettisti di controllare particolari come la visuale e gli spazi liberi.
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