Rileggendo le poche recensioni degli Iron che ho scritto fin'ora, mi sono ricordato che vi devo ancora un racconto ormai storico, sul concerto che me li fece ascoltare per la prima volta, come band di apertura ai Kiss nel 1980. Troverò il tempo. Per il momento, parliamo del sedicesimo disco in studio della band britannica, intitolato The Book of Souls.
Beh, rileggendo quello che scrissi in occasione del precedente The Final Frontier, non cambia molto, discorso sulla voce di Dickinson compreso (ci sono momenti in cui ho proprio paura che gli stia accadendo qualcosa, da tanto è "strozzato" sulle note alte), ma posso aggiungere che questi signori, riprendendo il discorso del passare del tempo e della dignità musicale, sono invecchiati decisamente bene.
Di questo album se n'è parlato abbondantemente prima della sua uscita (settembre 2015), sia perché Dickinson si era ristabilito da un tumore, sia perché la track list lasciava intendere una durata monumentale, pezzi lunghissimi e uno in particolare che avrebbe rappresentato un record per i Maiden (Empire of the Clouds, 18 minuti).
La band inglese ha sempre unito, fin dagli inizi, la vena potente e metal a complesse trame, che somigliavano a strutture progressive, sia pure in pezzi dalla durata inferiore (di molto) ai 10 minuti; qua, evidentemente, non avendo più nulla da dimostrare o da temere, si lasciano andare completamente alla loro vena progressiva, avvalendosi tra l'altro di diverse parti orchestrali. Il risultato è molto buono, lo stile è però ancora quello degli esordi, ovviamente senza quel senso di novità che accompagnava i loro dischi 30 anni fa, ma c'è da dire che alcuni attacchi, alcuni riff, fanno venire la pelle d'oca, probabilmente agli anziani come me che, appunto, 30 anni fa hanno amato questa band (Death or Glory, Speed of Light - stendiamo però un velo pietoso sull'urlo d'apertura -, The Red and the Black), quasi tutti gli assoli sono lezioni, e la costruzione dei pezzi mostra ancora una sterminata passione per la musica di un certo tipo, metal si, ma di ispirazione epica e perfino sinfonica. La ricerca dell'anthem è sempre aperta, e proprio con The Red and the Black i vecchi Maiden ne trovano uno magari un po' pacchianotto, ma irresistibile. Disco che si ascolta con piacere, massimo rispetto.
Much has been said about this album before its release (September 2015), because Dickinson had been recovered from cancer, and because the track list implied a monumental duration, long tracks, and one in particular that would have been a record for the Maiden ("Empire of the Clouds", 18 minutes).
The British band has always united from the beginning, the powerful "metal" vein and a complex plots that resembled progressive structures, albeit in pieces by the shorter duration (a lot less) of 10 minutes; here, obviously, no longer having anything to prove or to fear, they let themselves go completely to their progressive vein, among other things by using different orchestral parts. The result is very good, but the style is still that of the beginning, of course, without that sense of newness that accompanied their albums 30 years ago, but it must be said that some intros, some riffs, give you goosebumps probably to seniors like me who, in fact, 30 years ago have loved this band ("Death or Glory", "Speed of Light" - but let's get a veil on the opening scream - "The Red and the Black"), almost all the solos they are lessons, and the construction of the pieces still shows a boundless passion for music of a certain type, metal of course, but with epic and even symphonic inspiration. The anthem research is always open, and with "The Red and the Black", the old Maiden they find one maybe a little foregone, but irresistible. Album that you listen with pleasure, utmost respect.
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