No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.
20100331
appunto
mi hanno fatto un colloquio per partecipare ad un corso. alla fine il tipo mi dice di dirgli una cosa negativa di me. ci penso.lui dice: io lo so ma voglio che lo dici tu. poi viene fuori che sono timido. io lo so benissimo, ma in quel momento mi è sembrato brutto saperlo.
luce nera
Black Light - Groove Armada (2010)
Stiamo decisamente entrando nel vivo dell'anno musicale: infatti, stanno uscendo dei dischi che sicuramente lasceranno un segno indelebile su questo 2010. Il nuovo del duo britannico è una sorpresa, perfino per un ascoltatore rock-oriented come me, seppur interessato dai suoni dance, e innamorato, per dirne una, della loro My Friend, dal loro Goodbye Country (Hello Nightclub) del 2001. Il valore aggiunto dei GA, rispetto ad un altro disco di questo periodo che sta riscuotendo grande successo, quello dei Goldfrapp (del quale parleremo prossimamente), è che hanno sempre cercato una via mainstream e molto pop, mixando influenze dance vecchissime, ma pure molto soul e new wave, alla musica cosiddetta "ballabile". Se tutto ciò era rimasto tra le righe in passato, qui esce decisamente allo scoperto, ed il risultato è decisamente vincente. C'è di tutto, fatto con gran classe. Un pezzo cantato da Brian Ferry, Shameless, tanto per dire a chiare lettere che si, tra le influenze forti ci sono pure i suoi Roxy Music, una sorta di cover mascherata di Smalltown Boy (History, posta in chiusura, dove Will Young fa il Jimmy Sommerville), come pure una discreta sottotrama rock (l'iniziale Look Me In the Eye Sister è piuttosto chiara al riguardo).
Jessica Larrabee (voce e chitarra dei She Keeps Bees, da tenere d'occhio, gran bella voce) e Nick Littlemore (Pnau, Empire Of The Sun, Teenager) si dividono una buona parte dei rimanenti pezzi (ci sono anche SaintSaviour - il singolo I Won't Kneel e un altro paio di pezzi, uno dei quali in "duetto" con la Larrabee, Time And Space, dal ritornello inarrestabile, uno dei migliori del disco - e Fenech-Soler, ma in parte minore). La musica è molto solare, e contiene tutte le influenze citate prima. Il disco è compatto, e "fa le scarpe" a moltissima produzione elettro-dance degli ultimi anni.
giramondo
In viaggio con Manu Chao - Marco Mathieu
Stimo a pelle Mathieu, anche se non ci ho mai parlato (forse, ma non mi ricordo bene, ci ho scambiato qualche parola anni fa, dopo un concerto), per cui leggo sempre qualsiasi sua cosa, articoli, recensioni e libri. Da musicista hardcore-punk (bassista dei Negazione, per gli "sprovveduti") a giornalista "curioso" e "girovago", si è ritagliato, a mio giudizio, uno spazio di tutto rispetto nel panorama nazionale.
Qui, col suo stile asciutto, si "confronta" con Manu Chao, la sua band (RadioBemba), due anni di tour, e, soprattutto, il suo personaggio, il suorapporto con il successo, la politica, l'attivismo, la gente, tutto ciò che lo circonda.
Nonostante io stenti a capire perché Manu Chao sia diventato, per un sacco di gente, un personaggio antipatico, questo "diario di viaggio" (con intermezzianche di esperienze solo di Mathieu), contribuisce a darci un'idea più precisa della sua persona, che vive le contraddizioni del suo tempo e non lo nega, ma cerca di agire in maniera giusta; e scopriamo che quasi sempre, certescelte "professionali" sono guidate più dal cuore che dalla testa.
Un "dietro le quinte" ben fatto, per gente che non si ferma alla discussione da bar.
strawberry fields forever
Jagoda: fragole al supermarket – di Dusan Milic 2004
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: boia, fa stiantà
Jagoda (fragola) è di Belgrado, ha appena cominciato a lavorare in un supermarket all’americana, è insoddisfatta e sogna una vita migliore, magari con l’uomo della sua vita che ancora non c’è; una sera, proprio sull’orario di chiusura, innervosita dalla sua collega che le ha soffiato un appuntamento galante e che l’ha lasciata sola a chiudere le casse, rifiuta di vendere delle fragole ad una vecchina. Il giorno dopo, suo nipote Marko arriva armato nel supermarket e prende tutti in ostaggio per vendicare il torto subito dalla nonna.
Fragoroso, debordante, colorato, insensato, assolutamente sopra le righe, il film racchiude l’insegnamento di Kusturica (produttore e autore di un cameo) e tutta la carica balcanica, insieme al gusto del grottesco tipico della filmografia non solo balcanica, ma anche di tutti i paesi ex comunisti; dialoghi spesso insensati ma divertenti, ironia pesante sul mondo occidentale, ammissione della pazzia generalizzata che regna in Serbia.
Sopra le righe e divertente, svariate citazioni e momenti di ilarità incontrollabile.
20100330
risultati elettorali 2
risultati elettorali
Volevo ricordare solo che questo è chiaramente un blog di minoranza. Direi di estrema minoranza.
Per il resto, non riesco a dire altro che non ho già detto. Profilo bassissimo, sguardo distaccato, presa di coscienza dell'essere in qualche modo diversi. E la voglia di lasciarsi tutto alle spalle, progettando un'altra vita in un altro paese.
Si può fare.
Per il resto, non riesco a dire altro che non ho già detto. Profilo bassissimo, sguardo distaccato, presa di coscienza dell'essere in qualche modo diversi. E la voglia di lasciarsi tutto alle spalle, progettando un'altra vita in un altro paese.
Si può fare.
paralisi
Option Paralysis - The Dillinger Escape Plan (2010)
I Dillinger Escape Plan sono oltre. Sono i Journey del post-hardcore, i Ramones del progressive-metal, i Napalm Death dell'adult orientated rock (thanks to Maurino). Si spingono ancora più in là di quanto avessi (e non solo io, a giudicare dalle recensioni che leggo in giro) mai potuto pensare, dopo una sorta di capolavoro come Ire Works, non per niente il mio disco preferito del 2007, riescono ad abbattere quel muro che probabilmente in maniera ideale, li inibiva dal continuare la ricerca melodica iniziata su quell'album con pezzi quali Milk Lizard e Black Bubblegum, e, senza rinunciare al crashing ossessivo-complusivo delle loro parti veloci, che ricordano un jazz-rock estremizzato all'eccesso, vanno oltre, e stavolta, su tutte, compongono un pezzo come Widower, che rappresenta un gioiello dal valore inestimabile.
E' vero: Greg Puciato, per chi ancora non lo sapesse il cantante palestrato (ed oserei aggiungere completamente folle dal vivo) che ormai fa parte della band dal 2001, somiglia sempre più al miglior Mike Patton, sia quando si attorciglia sulle parti ultra-veloci e sincopate, sia quando la melodia la fa da padrona, ma se pensate sia un difetto vi conviene desistere dal ricercare godimento con questa band, che vi assicuro, dà grandi soddisfazioni agli amanti della buona musica. Per il resto, Billy Rymer, ultimo arrivato dietro ai tamburi, non fa rimpiangere il pur grandissimo Gil Sharone, ed il resto della band è affiatatissimo e preciso come da copione. Ma c'è una sorpresa, che a raccontarla atterrisce, e invece all'ascolto affascina totalmente: un grande protagonista è il piano di Mike Garson, una mossa davvero coraggiosa ma completamente azzeccata dai "bravi ragazzi" del New Jersey. Le atmosfere che riesce a disegnare, assemblate con il suono devastante dei DEP, rendono questo lavoro già da adesso uno dei migliori dischi che vi capiterà di ascoltare in questo 2010.
L'opzione paralisi è stata scartata dai Dillinger. Si guarda decisamente avanti.
Ancora più unici, signore e signori, The Dillinger Escape Plan.
onze minutos
Undici minuti - di Paulo Coelho
Leggere Coelho è facile, giudicarlo no. Si rischia di risultare troppo accomodanti o troppo sprezzanti a proposito del suo lavoro.
Scrive libri troppo in fretta (e questo non significherebbe granché), e spesso mentre lo leggi ti senti assalire dalla voglia di dirgli "ma sei il profeta dell'ovvio!!".
Eppure, a momenti alterni della lettura, dà grandi emozioni.Con "Undici minuti" Coelho affronta il sesso come argomento portante, raccontandoci la storia di Maria, una giovanissima brasiliana che non trova di meglio da fare che prostituirsi nella ricca Svizzera.
Eppure, a momenti alterni della lettura, dà grandi emozioni.Con "Undici minuti" Coelho affronta il sesso come argomento portante, raccontandoci la storia di Maria, una giovanissima brasiliana che non trova di meglio da fare che prostituirsi nella ricca Svizzera.
Il risultato, anche se come già detto e come spesso accade nei libri del brasiliano, è altalenante; il libro però ha dei momenti di grande intensità emotiva.
Gli amplessi di Maria (quelli dove lei prova piacere), la scoperta del dolore come viatico verso il piacere profondo e l'avvicinamento a Dio, sono probabilmente i punti più alti del libro, che in fondo risulta godibile.
Nonostante la prolificità però, Coelho resta uno scrittore da assumere a piccole dosi, per evitare la crisi di rigetto.
Nonostante la prolificità però, Coelho resta uno scrittore da assumere a piccole dosi, per evitare la crisi di rigetto.
bella vita
Swingers - di Doug Liman 1996
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: i vitelloni a losangelesse
Mike è un aspirante attore che si è trasferito di recente da New York a Los Angeles ed è stato mollato dalla sua ragazza. Il fatto che non riesca a "sfondare" come attore, unito alla delusione per il fallimento del suo rapporto lo sta devastando. L'amico Trent, tutto il contrario di lui, anche se pure lui non lavora moltissimo, ma riesce a prendere la vita con più filosofia, e soprattutto ha un gran successo con le donne, cerca di risollevarlo dal suo torpore, prima portandolo una notte a Las Vegas, dopo organizzando continue uscite insieme agli altri amici Rob, Charles e Sue.
La situazione non si sblocca, Trent rimane uno sciupafemmine e Mike è sempre più depresso, finchè una sera Mike conosce Lorraine...
Praticamente il debutto di Liman, se si esclude lo sconosciuto Getting In, prima di passare a tutt'altro (The Bourne Identity, Mr. & Mrs. Smith), sceneggiato da Jon Favreau, che interpreta Mike, Swingers (parola di difficile traduzione, anche se ai giorni nostri ha acquisito il significato di "scambista", ma qui sta più per vitelloni, gente alla moda, viveur, anche se a dire il vero i protagonisti hanno a che fare pure con lo swing: sono dei nostalgici degli anni '60, e di conseguenza, sono in pieno swing revival) è un film brillante, scoppiettante, pieno di citazioni e riferimenti a film d'autore, battute e situazioni molto divertenti, che in certi momenti addirittura può apparire malinconico ma che alla fine si rivela buffo, ottimista e perfino consolatorio.
Fotografia non bellissima, ma buoni movimenti di macchina e ottimo ritmo, nonostante non sia un film d'azione. Buona la direzione degli attori, funzionale la dinamica tra Favreau e Vaughn (Trent), bellissima e delicata Heather Graham (Lorraine).
Bella colonna sonora, ovviamente un po' sixties (Dean Martin), un po' swing revival (Big Bad Voodoo Daddy), ma anche altro.
20100329
bronzi
Da Internazionale nr.833, un fatto del quale si è occupato di recente anche il Venerdì di Repubblica, e che pare interessante.
Duecento immigrati per ridare vita a Riace
Juliane von Mittelstaedt, Der Spiegel, Germania
Un sindaco calabrese punta sugli stranieri per ripopolare il suo paese. Dà loro vitto e alloggio in cambio della manodopera. Ma la ’ndrangheta non è contenta
Domenico Lucano, 51 anni, è il sindaco di Riace, un paese calabrese con tre chiese, due santi patroni, greggi di pecore che pascolano sulle colline circostanti e filari di mandarini che crescono nelle valli. Fino a non molto tempo fa Riace stava rapidamente diventando una città fantasma. Gli abitanti se ne andavano in cerca di fortuna a Milano, Torino, Genova, in Germania o negli Stati Uniti. La popolazione si era ridotta così drasticamente che in paese non c’erano neanche un bar, un ristorante o una macelleria. A scuola non c’erano abbastanza bambini per formare le classi. Ma questo succedeva prima che il sindaco decidesse di ridare vita al paese accogliendo gli immigrati provenienti da Somalia, Eritrea, Afghanistan, Bosnia, Iraq e Libano. Tutto è cominciato dodici anni fa con l’arrivo di un barcone. Era il 1 luglio 1998. Lucano, che all’epoca era insegnante, stava guidando lungo la costa quando vide un gruppo di persone che camminava sulla riva. Erano profughi curdi, almeno trecento tra uomini, donne e bambini, che erano arrivati su una spiaggia vicino al suo paese. In quello stesso punto, nel 1972, erano state ritrovate sul fondale marino le due statue di bronzo che hanno reso famosa Riace in tutto il mondo. Secondo Lucano era un segno. “Il vento ci ha portato un carico speciale. Chi siamo noi per rifiutarlo?”, si è detto. Nell’antichità i greci avevano attraversato il Mediterraneo fino alla Calabria, poi erano arrivati gli arabi e i normanni. Ora era il momento dei rifugiati curdi. Lucano li ha accolti in paese, guadagnandosi il soprannome di “Mimmo dei curdi”. Poi ne sono arrivati altri, che fuggivano dalle guerre e dalla povertà. Lucano ha deciso di creare un luogo dove i rifugiati e gli abitanti di Riace potessero vivere e lavorare fianco a fianco, un villaggio globale nell’angolo più povero di una delle regioni più povere d’Italia. È nata così un’associazione dal nome ambizioso: Città futura.
I poveri salvano il centro
La popolazione europea è in calo e l’Italia ha uno dei tassi di natalità più bassi del continente. Ma Lucano è convinto di aver trovato un modo per stimolare la crescita demografica: accogliendo i rifugiati nelle località che si stanno spopolando. Secondo lui, in queste zone ci sono meno probabilità che gli abitanti abbiano paura di un’invasione. La sede dell’associazione Città futura è a palazzo Pinnarò. Anche dopo essere stato eletto sindaco nel 2004, Lucano ha mantenuto qui il suo ufficio. Lavora alla sua vecchia scrivania di legno, circondato da cartine geografiche, un disegno di Che Guevara e un poster che ritrae i ribelli zapatisti messicani. È un uomo piccolo con dei grandi sogni. La sua parola preferita è utopia. Non è iscritto a nessun partito e quando si è candidato come sindaco ha basato la sua campagna elettorale su un’idea semplice: i più poveri dei poveri avrebbero salvato Riace e, in cambio, Riace avrebbe salvato loro. Ha vinto le elezioni. Da allora Lucano assegna ai rifugiati le case vuote del centro storico medievale. Gli stranieri ricevono vitto e alloggio e non pagano l’elettricità. In cambio devono imparare l’italiano e lavorare. Le donne fabbricano prodotti artigianali e gli uomini ristrutturano le case, che poi sono date in affitto ai turisti. Helen viene dall’Etiopia ed era incinta di otto mesi quando è arrivata su un barcone. Ha imparato a tessere la lana per realizzare dei prodotti tipici calabresi di alta qualità. Mohammed, un iracheno minacciato dai miliziani dell’esercito del Mahdi, vende il kebab e fa il muratore. Shukri, un donna somala di 23 anni, talmente minuta che ne dimostra tredici, ha due figli e lavora il vetro soffiato con cui crea delle farfalle. A Riace vivono 220 immigrati e milleseicento riacesi. Il sindaco spera che presto la popolazione torni a tremila abitanti. I nuovi residenti aprono negozi e mandano i figli a scuola, mentre i turisti vanno a Riace per acquistare i prodotti d’artigianato. “Un luogo da cui le persone se ne andavano è diventato un luogo d’accoglienza”, dice fiero Lucano. Qualche settimana fa, dopo la rivolta scoppiata nella vicina cittadina di Rosarno, Lucano ha rilasciato un’intervista televisiva in cui diceva che Riace avrebbe accolto i braccianti africani che erano scappati. Poco tempo dopo tre ragazzi della Guinea si sono presentati alla sua porta. Uno di loro aveva una ferita d’arma da fuoco all’anca. Lucano gli ha spiegato le regole: avrebbero ricevuto due euro al giorno per le piccole spese e cinquecento euro al mese per i lavori che avrebbero svolto. I ragazzi erano sbalorditi. Sembra quasi troppo bello per essere vero, ma l’idea funziona. Lucano è riuscito a convincere sia gli anziani del paese, che avevano paura degli immigrati, sia i giovani, che temevano di perdere il lavoro. Città futura è il datore di lavoro più importante, sia per i profughi sia per la gente del posto. Ma c’è qualcuno che non è affatto contento di non avere più il controllo di Riace: la ’ndrangheta. Gli uomini dei boss mafiosi hanno avvelenato i tre cani di Lucano e hanno sparato due proiettili contro la porta della taverna Donna Rosa, gestita dall’associazione.
Un buon segno
Lucano, però, considera queste minacce un complimento e un segno che ha fatto bene il suo lavoro. Due comuni vicino a Riace hanno già adottato il suo approccio e la regione Calabria ha approvato una legge che permetterà ad altri paesini di seguire il suo esempio. I politici fanno continui pellegrinaggi a Riace e nell’autunno del 2009 è arrivato perfino il regista tedesco Wim Wenders. Wenders voleva girare un film sui profughi che sbarcano sulle coste dell’Italia del sud, ma ha finito per realizzare una via di mezzo tra un documentario e un film hollywoodiano di ventisette minuti, girato in 3D, su Riace e i suoi nuovi abitanti. Il titolo è Il volo. Poco tempo dopo a Berlino, dove erano appena finite le celebrazioni per il ventesimo anniversario del crollo del muro, Wenders ha detto: “La vera utopia non è la caduta del muro, ma quello che è stato realizzato in Calabria, a Riace”. Lucano ha stampato le parole di Wenders sui biglietti d’auguri per il 2010, che ha spedito in tutto il mondo nella speranza che il miracolo di Riace si difonda anche altrove.
Lucano, però, considera queste minacce un complimento e un segno che ha fatto bene il suo lavoro. Due comuni vicino a Riace hanno già adottato il suo approccio e la regione Calabria ha approvato una legge che permetterà ad altri paesini di seguire il suo esempio. I politici fanno continui pellegrinaggi a Riace e nell’autunno del 2009 è arrivato perfino il regista tedesco Wim Wenders. Wenders voleva girare un film sui profughi che sbarcano sulle coste dell’Italia del sud, ma ha finito per realizzare una via di mezzo tra un documentario e un film hollywoodiano di ventisette minuti, girato in 3D, su Riace e i suoi nuovi abitanti. Il titolo è Il volo. Poco tempo dopo a Berlino, dove erano appena finite le celebrazioni per il ventesimo anniversario del crollo del muro, Wenders ha detto: “La vera utopia non è la caduta del muro, ma quello che è stato realizzato in Calabria, a Riace”. Lucano ha stampato le parole di Wenders sui biglietti d’auguri per il 2010, che ha spedito in tutto il mondo nella speranza che il miracolo di Riace si difonda anche altrove.
se acabò
Manu Chao & RadioBemba Soundsystem + Bandabardò + Ceramichelineari – Volterra, Docciola – 6/8/2003
Non siamo giornalisti, ed è per questo che, arrivando sul posto alle 19,30 circa, possiamo solo mettere insieme informazioni sommarie; vedendo che sul palco non c’erano, come preannunciato alla vigilia, i detenuti della compagnia della fortezza che recitavano accompagnati da un gruppo chiamato “Ceramichelineari”, bensì solo una band che fa una sorta di rock demenziale, e lo fa senza infamia e senza lode, ma con un gran turpiloquio, posso provare ad immaginare che quelli sul palco fossero proprio le “Ceramichelineari”, e che i detenuti non abbiano avuto modo di fare il loro spettacolo. Chissà perché. *
Poco dopo le 20,00 sale sul palco la Bandabardò, e da vita ad un set di 40 minuti circa, mettendoci tutta l’energia della quale è capace, e scaldando a dovere il pubblico.
Certo, Bandabardò mi stupisce ogni volta di più. Stavolta ho visto con i miei occhi una bambina di circa 8 anni che cantava a memoria “Se mi rilasso, collasso”. Si stanno avviando decisamente a diventare la band italiana più amata in assoluto, da più generazioni. Chissà se tra qualche anno riusciranno a riempire per 2-3 date San Siro? Glielo auguro di cuore. A me continuano a non piacere, probabilmente sono l’unico, e non riesco a spiegarmi. Per cui cercherò di essere sempre almeno imparziale e obiettivo. Spero di riuscirci.
Alle 21,30 però, lasciatemelo dire, il “tiro” cambia e si sente. Manu Chao e i suoi salgono sul palco per scenderci solo quasi 2 ore e mezzo più tardi. Che dire? Una forza della natura, dei pazzi scatenati guidati da un pazzo al cubo, che nell’ultima ora di concerto avrà ripetuto 50 volte “se acabó, è finito”, per poi riprendere regolarmente. Senza contare che pure dopo che la gente scema via, a fine concerto, alcuni di loro rimarranno sul palco a mettere dischi fino all'1,30.
Una macchina perfetta, accelerazioni violente, tutti i classici spesso in versioni solo accennate o irriconoscibili (addirittura questa volta “Me gustas tu”, mai eseguita nel 2001/2002), qualche inedito, qualche classico della Mano Negra (come non suonare ogni sera un pezzo come “Malavida”), un momento più “introspettivo” per “Clandestino” e “Minha Galera” (ancora una volta la mia favorita).
Le dediche : “Me gustas tu” per tutte le regioni spagnole colpite del disastro della petroliera spezzata (la “marea negra”, contro la quale si usa lo slogan galiziano “nunca mais”, mai più), Clandestino per tutti i morti nello stretto di Gibilterra, il tema di Pinocchio per Berlusconi.
Vogliamo aggiungere altro?
Una macchina perfetta, accelerazioni violente, tutti i classici spesso in versioni solo accennate o irriconoscibili (addirittura questa volta “Me gustas tu”, mai eseguita nel 2001/2002), qualche inedito, qualche classico della Mano Negra (come non suonare ogni sera un pezzo come “Malavida”), un momento più “introspettivo” per “Clandestino” e “Minha Galera” (ancora una volta la mia favorita).
Le dediche : “Me gustas tu” per tutte le regioni spagnole colpite del disastro della petroliera spezzata (la “marea negra”, contro la quale si usa lo slogan galiziano “nunca mais”, mai più), Clandestino per tutti i morti nello stretto di Gibilterra, il tema di Pinocchio per Berlusconi.
Vogliamo aggiungere altro?
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*L'equivoco fu chiarito, all'epoca, alcuni giorni dopo, da uno scambio di e-mail tra un membro delle Ceramichelineari e me, a proposito della recensione del concerto (mi accusavano di averli trattati male, poi ci siamo conosciuti, ho assistito ad un loro concerto dove mi fecero un'impressione decisamente più positiva di quella sera). Quello che risultava sui giornali non era corretto: le Ceramichelineari all'epoca vedevano nella loro formazione un cantante detenuto nel carcere di Volterra. Il fatto che all'interno del carcere ci sia attiva anche una compagnia teatrale di detenuti, è un altro discorso.
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La finestra sul cortile - di Alfred Hitchcock 1954
Giudizio sintetico: da vedere (5/5)
Giudizio vernacolare: la classe un è mi'a zuppa lombarda, dé...
Jeff Jeffries, fotografo temerario, soprattutto di guerra, comunque avventuroso, è costretto su una sedia a rotelle da un infortunio piuttosto grave ad un ginocchio, con un gesso che gli immobilizza la gamba sinistra e il bacino. Annoiato, si lascia prendere sempre più dal suo sguardo indiscreto sugli appartamenti che si affacciano sul cortile, come le finestre del suo appartamento da scapolo. Tutta una serie di personaggi, ognuno con le sue particolarità, diventano parte della giornata, e pure della nottata, di Jeff. Finchè il fotografo, attento osservatore dei particolari, ovviamente, nota qualcosa di strano nel comportamento del suo dirimpettaio Thorwald, rappresentate di gioielli con la moglie costretta a letto da una malattia non meglio identificata. Si convince che l'abbia uccisa e fatta a pezzi. Non solo: riesce a convincere di ciò anche l'infermiera dell'assicurazione, Stella, e l'eterna fidanzata, Lisa, di buonissima famiglia, profondamente innamorata di Jeff, e continuamente in cerca di convincerlo a sposarla e a smettere di fare il fotografo in giro per il mondo ed aprire uno studio in città; Lisa che, inizialmente, rimane quasi disturbata da questa sorta di "deviazione" voyeristica del fidanzato. L'unica persona che Jeff non riesce a convincere è l'amico nonché investigatore Thomas Doyle, scettico fino in fondo, che però non lesina di investigare sul caso, anche se, come dice giustamente all'amico e alla fidanzata, "non c'è un caso", non essendoci un cadavere.
Sceneggiatura di John Michael Hayes da un racconto breve di Cornell Woolrich dal titolo It Had to Be Murder, oltre alla magistrale tensione sempre calmierata dall'ironia (e dalla sottotrama generata dalla "repulsione" al matrimonio del protagonista), creata dal maestro Hitchcock, questo film, tutto girato praticamente da un punto fisso, che ha come scenario sempre lo stesso cortile, è una sorta di lezione di tecnica cinematografica di ripresa. Apoteosi della soggettiva, ma anche della carrellata, immaginiamoci cosa avrebbe potuto fare Hitchcock con una louma (in breve, una gru con telecamera), ricordando che il film è del 1954.
Un film davvero fantastico per chi ama osservare i movimenti di macchina, ma validissimo anche solo dal punto di vista della storia e della tensione, senza contare che filosoficamente ci si addentra in territori minati, quelli (come detto sopra) del voyerismo e del confine etico, usando un francesismo, del farsi i cazzi propri.
Un po' forzata la scelta di casting per la coppia protagonista (tra Stewart e Kelly c'è una differenza di 21 anni), c'è da dire che Grace Kelly è, letteralmente, me-ra-vi-glio-sa.
20100328
ora legale
giornata del f.a.i. (fondo per l'ambiente italiano) oggi. il mio paese è stato invaso dai turisti che cercavano di entrare nelle ville che di solito sono chiuse al pubblico. un bel sole, una bella giornata primaverile. uscire con leonardo a passeggio senza piumoni , coperte etc...è stato meraviglioso.
intanto l'hellas è sempre primo in classifica e mancano solo 6 partite alla fine del campionato, vedremo tra qualche domenica come si mette.
gli estere stanno terminando le registrazioni del nuovo disco. siamo in una fase di mixaggio, ma mancano ancora da registrare i cori. c'è già il titolo ma non ancora la copertina, anche se ci sono alcune idee. speriamo presto di terminare.
sto pensando di acquistare una nuova moto. o una casa. l'importante è che abbia le ruote.
oggi ho votato, ma tanto qui si sa già chi vince!
intanto l'hellas è sempre primo in classifica e mancano solo 6 partite alla fine del campionato, vedremo tra qualche domenica come si mette.
gli estere stanno terminando le registrazioni del nuovo disco. siamo in una fase di mixaggio, ma mancano ancora da registrare i cori. c'è già il titolo ma non ancora la copertina, anche se ci sono alcune idee. speriamo presto di terminare.
sto pensando di acquistare una nuova moto. o una casa. l'importante è che abbia le ruote.
oggi ho votato, ma tanto qui si sa già chi vince!
immigrati
Dal nr. 686 di D la Repubblica delle donne e dal libro Grazie - Ecco perchè senza gli immigrati saremmo perduti, di Riccardo Staglianò, appena pubblicato dalla casa editrice Chiarelettere.
Perché si assumono volentieri gli immigrati (senza diritti)
di Riccardo Staglianò
Abderrahim Belgaid dice "nulla di particolare" a consuntivo del suo stato di salute attuale, che prevede che non muova affatto i piedi e quasi niente le mani, con la parziale eccezione della sinistra alla quale sta per subire l'ennesima operazione, una "trasposizione di muscoli per poterla usare almeno come una pinza" e che allena quotidianamente con una tenace fisioterapia. "Non riesco a tenere le cose, al più clicco sulla tastiera del computer e alzo una fetta di pane se qualcuno l'ha tagliata per me. Che devo dire? Niente. Così è e sto cercando di abituarmi". Non c'è nato sulla sedia a rotelle, ma ci trascorre giornate sempre uguali da oltre quattro anni. Era uno "splendido quarantenne" e stava benissimo, anzi curava gli sfortunati che capitavano nel pronto soccorso dove faceva l'infermiere. Sino a quel dicembre 2005 quando, col Natale alle porte, si era infine deciso ad andare a reclamare i tre mesi di stipendio che ancora gli dovevano. Lavorava alle Molinette di Torino, ma il suo datore non era l'ospedale pubblico ma la cooperativa Vita Serena. La fiorente azienda di Luca Giovannone, psicologo e imprenditore di successo amico di Francesco Storace oltreché, per otto surreali giorni, presidente del Torino Calcio, che recluta stranieri da impiegare come personale sanitario in Italia e all'estero. La sventurata conversazione avviene con il responsabile locale, Michele Arcuri, e termina con lesioni così gravi alla spina vertebrale di Belgaid da renderlo tetraplegico. Non è vero niente, ribatte l'uomo condannato in primo grado a sei anni (in appello ridotti a un anno e mezzo) e a 400mila euro di risarcimento, è caduto per fatti suoi e ha sbattuto la schiena su uno spigolo. Da allora è diventato il caso emblematico del funzionamento patologico di certe coop di personale sanitario. Quelle, numerosissime, che nella loro dimensione fisiologica fanno invece incontrare una volenterosa offerta con la domanda che il mercato interno non riesce a soddisfare.
Perché si assumono volentieri gli immigrati (senza diritti)
di Riccardo Staglianò
Abderrahim Belgaid dice "nulla di particolare" a consuntivo del suo stato di salute attuale, che prevede che non muova affatto i piedi e quasi niente le mani, con la parziale eccezione della sinistra alla quale sta per subire l'ennesima operazione, una "trasposizione di muscoli per poterla usare almeno come una pinza" e che allena quotidianamente con una tenace fisioterapia. "Non riesco a tenere le cose, al più clicco sulla tastiera del computer e alzo una fetta di pane se qualcuno l'ha tagliata per me. Che devo dire? Niente. Così è e sto cercando di abituarmi". Non c'è nato sulla sedia a rotelle, ma ci trascorre giornate sempre uguali da oltre quattro anni. Era uno "splendido quarantenne" e stava benissimo, anzi curava gli sfortunati che capitavano nel pronto soccorso dove faceva l'infermiere. Sino a quel dicembre 2005 quando, col Natale alle porte, si era infine deciso ad andare a reclamare i tre mesi di stipendio che ancora gli dovevano. Lavorava alle Molinette di Torino, ma il suo datore non era l'ospedale pubblico ma la cooperativa Vita Serena. La fiorente azienda di Luca Giovannone, psicologo e imprenditore di successo amico di Francesco Storace oltreché, per otto surreali giorni, presidente del Torino Calcio, che recluta stranieri da impiegare come personale sanitario in Italia e all'estero. La sventurata conversazione avviene con il responsabile locale, Michele Arcuri, e termina con lesioni così gravi alla spina vertebrale di Belgaid da renderlo tetraplegico. Non è vero niente, ribatte l'uomo condannato in primo grado a sei anni (in appello ridotti a un anno e mezzo) e a 400mila euro di risarcimento, è caduto per fatti suoi e ha sbattuto la schiena su uno spigolo. Da allora è diventato il caso emblematico del funzionamento patologico di certe coop di personale sanitario. Quelle, numerosissime, che nella loro dimensione fisiologica fanno invece incontrare una volenterosa offerta con la domanda che il mercato interno non riesce a soddisfare.
"Stando ai parametri Ocse ne mancherebbero 60-70mila", mi dice la presidente dell'Ipasvi Annalisa Silvestro, "ma anche fermandoci alle nostre stime siamo sotto di 40mila". Il totale degli iscritti ai collegi professionali è di oltre 370mila persone e tra loro gli stranieri regolari sono 35mila, circa il 10%. "Ma non tirate un respiro di sollievo", avverte Silvestro, "perché le assicuro che se nel giro di sei mesi tutti i non italiani rientrassero nei loro paesi il nostro sistema andrebbe in ginocchio. Di quei 35mila infatti quasi 20mila si trovano al nord, con punte di uno su cinque in Lombardia e uno su tre in Piemonte".
Negli ospedali privati non ci sono limiti al loro reclutamento e le quote della loro presenza variano dal 18% del San Raffaele di Milano, dove si cura anche Silvio Berlusconi, al 50% dell'Istituto delle Figlie di San Camillo di Treviso. In quelli pubblici invece, salvo rare eccezioni giurisprudenziali, possono essere assunti solo a tempo determinato. Alle Molinette di Torino, probabilmente quello che ne ha di più, sono il 12%. Ai quali però vanno aggiunti quelli in subappalto che, pur inesistenti sulle buste paga, affollano le sue corsie. "Direi che un quinto della sanità piemontese è esternalizzata", stima l'avvocato Dario Gamba, difensore di molti infermieri intermediati e legale dell'Ipasvi torinese, "e in alcune Asl importanti anche un quarto". Significa che il personale mancante si cerca fuori dagli organici della struttura, a volte anche per gestire interi padiglioni o servizi. Se del reclutamento si occupano le grosse società di lavoro somministrato, tipo Obiettivo Lavoro o Adecco, il capitolato è molto chiaro, tutti sanno cosa va a chi, si può discutere della congruità delle fette ma non litigare. Se l'appalto lo vince una delle centinaia di cooperative che lottano all'arma bianca per spartirsi l'ultima grande torta della sanità può invece succedere di tutto, come dimostra il drammatico caso di Belgaid.
Neppure gli ospedali sono stati risparmiati dall'epidemia dell'outsourcing. Dalla sua mistica, ad essere precisi, per cui un dipendente è sempre un costo (da abbattere) e un subappalto un'opportunità (da cogliere). Non è servita neanche la puntata di Report in cui i giornalisti dimostravano, conti alla mano, che al Policlinico di Roma un infermiere in subappalto costa più di un interno. "Però se consideri veramente tutto, togliendo e spalmando la maternità, i permessi sindacali e gli altri diritti sacrosanti - e pagati - di uno strutturato", spiega ancora l'avvocato Gamba, "viene fuori che in media, negli ospedali pubblici, si lavora 12 giorni al mese. Ed è per questo conto totale che alla fine esternalizzare costa meno, in termini budgettari". Perché è una formula pay as you go, si paga solo per quello che si usa. Tutte le altre grane, malattie e ferie comprese, restano sul gobbo dell'appaltatore. Per questo gioco servono pedine flessibili e nessuno lo è più degli immigrati. Stando a un'indagine Ires-Cgil del 2006 il differenziale di stipendi tra chi lavora nel pubblico e chi lavora nelle cooperative variava dal meno 20% al nord al meno 42% del centro-sud. Belgaid, che ha conosciuto Vita Serena dall'interno, conferma e rilancia: "Nel mio caso, che avevo studiato qui, parlavo bene ed ero autonomo quanto a vitto e alloggio, la differenza era "solo" tra i loro 24-28 euro e i 17 che prendevo io. Ma c'erano rumeni e tunisini a cui Arcuri passava anche una stanza da dividere in quattro e qualcosa da mangiare cui, netti, entravano in tasca 6 euro all'ora". "Quello che i caporali hanno capito sin troppo bene", è il commento del legale Ipasvi, "è che, venga da Lima o altrove, l'infermiere esterno è un libero professionista intellettuale e come tale non ha un decimo delle tutele del dipendente. Può difendersi da solo, certo, ma se sei appena arrivato, non hai tutti i documenti in regola e parli anche male la lingua, non è così semplice. E se con un "contratto d'opera" ti impegni a portare anche il giornale tra i denti alla caposala, poi devi farlo, salvo inadempimento".
de todo lo visible y lo invisible
Di tutte le cose visibili e invisibili – di Lucía Etxebarría
Non scorre come i suoi precedenti romanzi, questo bisogna dirlo subito, probabilmente perché indulge un po’ troppo nell’approfondita introspezione psicologica delle motivazioni di tutti i gesti e i comportamenti dei protagonisti, in special modo dei due principali. E magari, per chi non ha letto i suoi lavori precedenti, questo non è il miglior modo di avvicinarsi alla scrittura moderna e cruda della Etxebarría.
Bisogna dire però, che la descrizione di una relazione “distruttiva” è dipinta benissimo, e questo forse può mettere in guardia che non ne ha vissute, ma può ingenerare ricordi dolorosi in chi c’è passato.
Meno “aggressiva” di prima, più analitica. Crescere fa spesso questo effetto, pure a lei che ha debuttato con una biografia su Courtney Love. Non sempre è un male.
Meno “aggressiva” di prima, più analitica. Crescere fa spesso questo effetto, pure a lei che ha debuttato con una biografia su Courtney Love. Non sempre è un male.
il valzer delle coppie
I Love You Baby - di Alfonso Albacete e David Menkes 2001
Giudizio sintetico: si può perdere (1/5)
Giudizio vernacolare: ma levativi di 'ulo!
Marcos arriva a Madrid dalla provincia, ufficialmente per lavorare nel bar/ristorante degli zii, in realtà per capire la sua sessualità, e provare a viverla liberamente, cosa che, a Madrid, è più facile rispetto al resto della Spagna. Marisol, immigrata dominicana con una figlia piccola rimasta a Santo Domingo, lo nota subito, ma Marcos conosce Daniel, e realizza quella che è stata per tanto tempo una fantasia: fare l'amore con un uomo. I due si trovano bene, ma una sera, dopo una botta in testa, Daniel si accorge che Marcos non è più come prima. Marcos esce da solo, rivede Marisol, e si innamora di lei. Daniel non si rassegna, e le complicazioni aumentano.
Seconda sceneggiatura di Albacete & Menkes con la collaborazione della scrittrice Lucía Etxebarría dopo Sobreviviré. Il risultato è lievemente migliore, ma non fondamentale. Sguardo sugli immigrati e immigrate sommario, sfondo di Madrid trascurato, fotografia sciatta, attori diretti per niente bene. Si fa qualche risata.
C'è Jorge Sanz (Belle epoque), ma soprattutto la sempre super Verónica Forqué, ultimamente in Reinas, ma chica di Almodóvar: è stata in Kika, Matador e Che ho fatto io per meritare questo?. Cameo finale di Boy George, evocato per tutto il film.
20100327
ricreazione
ReCreation - Zap Mama (2010)
E' con colpevole ritardo (quasi un anno) che vi segnalo l'uscita dell'ultimo disco delle Zap Mama, da sempre una creatura della inarrivabile Marie Daulne, una donna che ha avuto una vita a dir poco avventurosa fin dalla nascita (chi avesse voglia, si legga - in inglese - le prime 5/6 righe qui). Doveroso raccontare un po' di storia, visto che probabilmente, a parte averle sentite (senza sapere che erano loro) in uno spot Fiat di alcuni anni fa, in Italia sono pochi a conoscerle: Zap Mama nascono nei primi anni '90 in Belgio, visto che la madre di Marie e le sue sorelle furono espatriate in Belgio, paese natìo del padre, ucciso dai ribelli Simba in Congo quando Marie aveva solo una settimana di vita.
Nascono come gruppo vocale a cappella, ed inglobano poco a poco una quantità difficilmente catalogabile di elementi musicali di ogni parte del mondo. Il risultato è ugualmente molto difficoltoso da raccontare, ma come minimo vi posso dire che c'è sempre un grandissimo senso del ritmo, e le voci la fanno ovviamente sempre da padrone.
E' un'esperienza ascoltare i loro dischi, così come lo è assistere ad un loro concerto: me ne ricordo uno memorabile dentro la Rocca di Scandiano, eoni fa (era infatti il 1997). E' un po' come fare un giro del mondo, più o meno.
Vi lascio così, sperando di avervi instillato un po' di curiosità: aggiungo solo che tra le altre cose (Marie ha collaborato con moltissimi altri artisti, uno su tutti Michael Franti), in questo ReCreation c'è una cover di Parole, parole (Paroles Paroles), che noi (anziani) conosciamo per l'originale duetto tra Mina ed Alberto Lupo, e che nella zona francese conoscono per la trasposizione fatta da Dalida ed Alain Delon. Le Zap Mama la cantano con Vincent Cassel, inserendovi elementi di musica brasiliana.
Fate un po' voi.
soul
The Soul Sessions - Joss Stone (2003)
Intendiamoci, la piccola non ha inventato niente.
La piccola è Joss Stone, non ancora maggiorenne all'epoca del suo debutto (16, 17 anni; poco importa la precisione in questo caso).
Bianca, inglese (per giunta, carina), grande voce.
La cosa che secondo me è importante, è che con tali requisiti non si è messa a fare pop: ha esordito con questo "The Soul Sessions" cimentandosi con classici (ma anche no, vedi il singolo "Fell In Love With A Boy" che non è altro che la rivisitazione in chiave soul di Fell In Love With A Girl dei White Stripes) soul-blues.
Musicisti impeccabili, comparsate mediamente famose (Angie Stone, ?uestlove dei Roots) e un talento naturale usato con misura.
Stupisce la sobrietà nell'uso della voce, di fronte a un mucchio di starlette (anche di casa nostra) che ormai non sanno far altro che cantare la stessa canzone, duettare e stremarci con un gorgheggio e un vocalizzo in più.
L'album è godibilissimo, molto classico.
Per il prossimo autunno è previsto il debutto con canzoni originali; se avesse anche il dono del songwriting ci sarebbe sicuramente da gridare al miracolo.
Vedremo. Nel frattempo, gioia per le orecchie, baby.
Aguirre, der Zorn Gottes
Aguirre, furore di Dio - di Werner Herzog 1972
Giudizio sintetico: da vedere (4/5)
Giudizio vernacolare: popò di mattonata dé!
All'incirca nel 1560, Lope de Aguirre, figura leggendaria in quanto spietato, assetato di sangue e di potere, ribelle a qualsiasi tipo di imposizione, si aggregò alla spedizione comandata da Gonzalo Pizarro (uno dei fratelli del più celebre Francisco, uno dei primi conquistadores), spedizione che cercava l'altrettanto leggendario El Dorado, nel Perù amazzonico. In mezzo a mille difficoltà, Pizarro decide di mandare in avanscoperta una squadra, lungo il fiume che scorre in quella zona (probabilmente il Rio delle Amazzoni, forse il Marañón). Aguirre sarà agli ordini di Pedro de Ursua, e sotto la supervisione religiosa del monaco Gaspar de Carvajal.
Ben presto, Aguirre con una sorta di mini-golpe, prenderà il comando della spedizione di avanscoperta.
Fuori dagli schemi, allucinato, rarefatto, simbolico, allegorico, cattivo. Considerato uno dei film più importanti di Herzog, il suo quarto lungometraggio di fiction, dominato da un Klaus Kinski totalmente calato nella parte (si narra di scontri epici tra Kinski ed Herzog, con quest'ultimo che lo minacciò con un'arma visto che l'attore voleva andarsene), e reso angosciante dalle musiche dei Popol Vuh, Aguirre parte da un fatto presumibilmente vero e poi ampliato (leggetevi bene la sua biografia: c'è materiale per una serie di almeno cento episodi) immaginariamente (sceneggiatura dello stesso Herzog, sulla quale sono fiorite altre leggende, vedi sezione "trivia" della scheda imdb), sia per illustrare l'assoluta scelleratezza dei conquistadores durante la "colonizzazione" delle Americhe, sia per dipingere una evidente metafora hitleriana.
Semplice e delirante, sofferente per le difficoltà di realizzazione e per la scarsa professionalità delle comparse (e per la non eccelsa qualità del resto del cast), è un film pesante ma probabilmente imprescindibile per ogni amante del cinema.
Lussureggiante e ostico. Kinski monumentale.
20100326
la crisi
Con un po' di ritardo, pubblico questa cosa che ho ricevuto da un'amica qualche giorno fa. A dimostrazione che la crisi è finita.
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AGILE -- ex EUTELIA
COME LICENZIARE 9000 PERSONE SENZA CHE NESSUNO SE NE ACCORGA !!!
E' iniziato il licenziamento dei primi 1200 lavoratori di
OLIVETTI-GETRONICS-BULL-EUTELIA-NOICOM-EDISONTEL TUTTI CONFLUITI IN:
AGILE s.r.l. ora Gruppo Omega
Agile ex Eutelia è stata consegnata a professionisti del FALLIMENTO.
Agile ex Eutelia è stata svuotata di ogni bene mobile ed immobile.
Agile ex Eutelia è stata condotta con maestria alla perdita di commesse e clienti.
Il gruppo Omega continua la sua opera di killer di aziende in crisi , l'ultima è Phonemedia 6600 dipendenti che subirà a breve la stessa sorte.
Siamo una realtà di quasi 10.000 dipendenti e considerando che ognuno di noi ha una famiglia, le
persone coinvolte sono circa 40.000 eppure nessuno parla di noi.
Abbiamo bisogno di visibilità Mediatica, malgrado le nostre manifestazioni nelle maggiori città
italiane (Roma – Siena Montepaschi -- Milano -- Torino -- Ivrea -- Bari -- Napoli – Arezzo - ) e che alcuni di noi sono saliti sui TETTI, altri si sono INCATENATI a Roma in piazza Barberini, nessun giornale a tiratura NAZIONALE si è occupato di noi ad eccezione dei TG REGIONALI e
GIORNALI LOCALI.
NON siamo mai stati nominati in nessun TELEGIORNALE NAZIONALE perchè la parola d'ordine è che se non siamo visibili all'opinione pubblica il PROBLEMA NON ESISTE.
==> Dal 4-Novembre-2009 le nostre principali sedi sono PRESIDIATE con assemblee permanenti <==
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AGILE -- ex EUTELIA
COME LICENZIARE 9000 PERSONE SENZA CHE NESSUNO SE NE ACCORGA !!!
E' iniziato il licenziamento dei primi 1200 lavoratori di
OLIVETTI-GETRONICS-BULL-EUTELIA-NOICOM-EDISONTEL TUTTI CONFLUITI IN:
AGILE s.r.l. ora Gruppo Omega
Agile ex Eutelia è stata consegnata a professionisti del FALLIMENTO.
Agile ex Eutelia è stata svuotata di ogni bene mobile ed immobile.
Agile ex Eutelia è stata condotta con maestria alla perdita di commesse e clienti.
Il gruppo Omega continua la sua opera di killer di aziende in crisi , l'ultima è Phonemedia 6600 dipendenti che subirà a breve la stessa sorte.
Siamo una realtà di quasi 10.000 dipendenti e considerando che ognuno di noi ha una famiglia, le
persone coinvolte sono circa 40.000 eppure nessuno parla di noi.
Abbiamo bisogno di visibilità Mediatica, malgrado le nostre manifestazioni nelle maggiori città
italiane (Roma – Siena Montepaschi -- Milano -- Torino -- Ivrea -- Bari -- Napoli – Arezzo - ) e che alcuni di noi sono saliti sui TETTI, altri si sono INCATENATI a Roma in piazza Barberini, nessun giornale a tiratura NAZIONALE si è occupato di noi ad eccezione dei TG REGIONALI e
GIORNALI LOCALI.
NON siamo mai stati nominati in nessun TELEGIORNALE NAZIONALE perchè la parola d'ordine è che se non siamo visibili all'opinione pubblica il PROBLEMA NON ESISTE.
==> Dal 4-Novembre-2009 le nostre principali sedi sono PRESIDIATE con assemblee permanenti <==
a volte
Mia zia, 73 anni e molti acciacchi, un padre fascista convinto, patriota e repubblichino:
...e dicevano de' fascisti? Ma questo è peggio...
Indovinate di chi parlava?
...e dicevano de' fascisti? Ma questo è peggio...
Indovinate di chi parlava?
leggi
Straniera nel suo paese
di Igiaba Scego (scrittrice italiana d’origine somala. Questa è la prima puntata della sua serie Nuovi cittadini)
Queenia Pereira De Oliveira non ha la cittadinanza ma vive in Italia da quando è nata. Qui ha fatto le scuole, ha conosciuto i suoi amici e si è formata come persona. Suo padre è nigeriano, la madre è brasiliana. Non ha la cittadinanza perché la legge non accoglie i figli degli immigrati che, come lei, sono arrivati in Italia da piccoli.
Queenia vorrebbe pensare al futuro ma la legge glielo impedisce. Quando ha compiuto 18 anni ha capito di essere una straniera in Italia. Su Facebook scrive: “Vivere nel mio paese legata a un permesso di soggiorno è come uscire di casa con un paio di chiavi, sapendo che qualcuno è pronto a cambiare la serratura (di casa mia) e lasciarmi fuori”.
Ai ragazzi come Queenia lo stato italiano nega la possibilità d’iscriversi a un albo professionale, di fare un viaggio di lavoro all’estero, di andare a studiare in un altro paese. Sono imprigionati nel loro paese dal permesso di soggiorno.
La cittadinanza in Italia si trasmette secondo il principio dello ius sanguinis, da genitore a figlio. Si è italiani se si ha un genitore (o un antenato) italiano e si riesce a dimostrare il rapporto di parentela. Chi è nato all’estero e non sa niente dell’Italia può avere la cittadinanza perché il suo trisavolo era friulano o calabrese. Invece ragazzi di origine cinese, somala, albanese che sono cresciuti qui, sulla carta sono considerati degli stranieri.
Una proposta bipartisan
La legge è anomala. Se ne sono accorti i parlamentari Andrea Sarubbi (Partito democratico) e Fabio Granata (Popolo della libertà), che stanno portando avanti un’iniziativa bipartisan sulle seconde generazioni.
Nel 2009 hanno presentato un testo che propone il passaggio dal principio dello ius sanguinis a quello dello ius soli, garantendo la cittadinanza ai figli di immigrati regolari che risiedono in Italia da cinque anni. “Stiamo cercando di portare i nuovi italiani al centro del dibattito politico”, spiega Sarubbi. “Nelle amministrazioni locali sono stati approvati degli ordini del giorno che propongono di dare la cittadinanza ai minori”.
Gli impedimenti non sono ideologici: purtroppo è solo una questione di convenienza politica. Intanto Queenia studia per laurearsi. Ma finita l’università, che scriverà sul permesso di soggiorno?
Igiaba Scego
Da Internazionale, anche on-line
http://www.internazionale.it/home/?p=19714#more-19714
di Igiaba Scego (scrittrice italiana d’origine somala. Questa è la prima puntata della sua serie Nuovi cittadini)
Queenia Pereira De Oliveira non ha la cittadinanza ma vive in Italia da quando è nata. Qui ha fatto le scuole, ha conosciuto i suoi amici e si è formata come persona. Suo padre è nigeriano, la madre è brasiliana. Non ha la cittadinanza perché la legge non accoglie i figli degli immigrati che, come lei, sono arrivati in Italia da piccoli.
Queenia vorrebbe pensare al futuro ma la legge glielo impedisce. Quando ha compiuto 18 anni ha capito di essere una straniera in Italia. Su Facebook scrive: “Vivere nel mio paese legata a un permesso di soggiorno è come uscire di casa con un paio di chiavi, sapendo che qualcuno è pronto a cambiare la serratura (di casa mia) e lasciarmi fuori”.
Ai ragazzi come Queenia lo stato italiano nega la possibilità d’iscriversi a un albo professionale, di fare un viaggio di lavoro all’estero, di andare a studiare in un altro paese. Sono imprigionati nel loro paese dal permesso di soggiorno.
La cittadinanza in Italia si trasmette secondo il principio dello ius sanguinis, da genitore a figlio. Si è italiani se si ha un genitore (o un antenato) italiano e si riesce a dimostrare il rapporto di parentela. Chi è nato all’estero e non sa niente dell’Italia può avere la cittadinanza perché il suo trisavolo era friulano o calabrese. Invece ragazzi di origine cinese, somala, albanese che sono cresciuti qui, sulla carta sono considerati degli stranieri.
Una proposta bipartisan
La legge è anomala. Se ne sono accorti i parlamentari Andrea Sarubbi (Partito democratico) e Fabio Granata (Popolo della libertà), che stanno portando avanti un’iniziativa bipartisan sulle seconde generazioni.
Nel 2009 hanno presentato un testo che propone il passaggio dal principio dello ius sanguinis a quello dello ius soli, garantendo la cittadinanza ai figli di immigrati regolari che risiedono in Italia da cinque anni. “Stiamo cercando di portare i nuovi italiani al centro del dibattito politico”, spiega Sarubbi. “Nelle amministrazioni locali sono stati approvati degli ordini del giorno che propongono di dare la cittadinanza ai minori”.
Gli impedimenti non sono ideologici: purtroppo è solo una questione di convenienza politica. Intanto Queenia studia per laurearsi. Ma finita l’università, che scriverà sul permesso di soggiorno?
Igiaba Scego
Da Internazionale, anche on-line
http://www.internazionale.it/home/?p=19714#more-19714
jazz nero
Blackjazz - Shining (2010)
I norvegesi Shining non sono da confondere con gli omonimi svedesi, e con il titolo di questo loro quinto album descrivono perfettamente il loro tipo di musica. Partiti, come recitano le loro note biografiche (per me invece è il primo approccio alla loro musica), come quartetto jazz acustico, hanno virato progressivamente verso il metal, e adesso si presentano come una sorta di Locust con pezzi, al contrario dei Locust, piuttosto lunghi ed elaborati, ma l'impatto sonoro (come pure quello visivo) è molto simile. Il disco si distingue anche per avere al suo interno, come pezzo conclusivo, una cover di 21st Century Schizoid Man, ovviamente dei King Crimson, per cui forse avrete capito da quali parti siamo (oltre che da quelle di John Zorn e qualcosa di Mike Patton). Iper-tecnici, super veloci e sincopati, violenti ed urlati, con elementi di elettronica che si uniscono al metal ed al jazz, gli Shining non sono un'assoluta novità e neppure un ascolto semplice, ma chissà che qualcuno di voi voglia almeno provarli.
stupido uomo bianco
Stupid White Men - di Michael Moore
Certo, è un libro "schierato" questo del regista del docu-film "Bowling For Columbine" premiato con l'Oscar.
Ma, anche se conoscete un po' il lavoro di Moore, non come, forse, vi aspettereste. Parla male, è giusto dirlo, di George W.Bush (con documenti e "prove" piuttosto chiare, quindi, per così dire, "a ragion veduta"), ma, attenzione, anche, e forse peggio, di Bill Clinton e di Al Gore.
A questo punto, non devo dirvi da che parte stia Moore, ma è interessante scoprirlo da soli.
Lo stile ironico e fuori dai denti, che lo contraddistingue anche sullo schermo, lo rende digeribile anche quando snocciola dati che, pur se interessanti, potrebbero diventare noiosi.
Se siete minimamente interessati a quello che succede nel paese che, volenti o nolenti, guida le sorti dell'intero pianeta, troverete gustosamente interessante questo libro.
RFK
Bobby - di Emilio Estevez 2007
Giudizio sintetico: da vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: un monte di storie di gente che ci credeva
4 giugno 1968 all'Hotel Ambassador, Los Angeles. Quartier generale del comitato elettorale democratico di Robert Fitzgerald Kennedy, in corsa per le primarie. Momento storico terribile per gli statunitensi, da una parte (Vietnam, tensioni razziali, Martin Luther King è stato assassinato due mesi prima, il fratello di Bobby, Robert - JFK - circa sei mesi prima), pieno di speranza dall'altra (i discorsi di Bobby, speranza, unità d'intenti, nazione compassionevole).
Tante storie che si intrecciano: mariti fedifraghi, direttori del personale stronzo, starlette in decadenza, mogli felici che si scoprono infelici, ragazzi giovani che sperimentano droghe, ragazzi giovani che pur di evitare il Vietnam si sposano senza amarsi (forse), immigrati che si sentono emarginati ma vogliono integrarsi, afroamericani che sembrano integrati e invece sono solo cittadini di serie B ma vivono felici ugualmente, pensionati che non riescono a lasciare il vecchio posto di lavoro, e tante altre storie ancora, tutte protese verso Bobby, tutte vite che vedono in Bobby un futuro migliore, la personalizzazione della parola speranza, un futuro migliore, un insieme di persone che lavorano per un accordo comune.
Quella notte, il buio rimarrà sugli Stati Uniti, e forse non si è ancora fatto l'alba.
I film corali sono sempre difficili da fare, e riescono solo ai migliori. Emilio Estevez non è né un attore eccezionale, e neppure un regista incredibilmente bravo, ma nemmeno l'ultimo arrivato. Questo suo Bobby, pur non essendo un capolavoro, è un film che riesce ad appassionare lo spettatore nonostante si conosca già il finale, a dirigere ottimamente un cast stellare, a ritagliarsi per sé una particina dignitosa e dolente, e soprattutto ad innescare diverse riflessioni a posteriori.
Integra bene immagini di repertorio con materiale di fiction originale, passa con grazia da una storia all'altra, le intreccia in maniera armonica, dà ad ogni attrice e ad ogni attore il suo spazio, e ne ricava il meglio. Difficile fare classifiche, ma a posteriori mi sembra che le prove di Sharon Stone e di Lindsay Lohan siano da annoverare tra le loro migliori in carriera. Evito di elencare il resto dello sterminato cast, per lasciarvi, eventualmente non lo aveste visto, il gusto di scoprirlo da soli.
Un ottimo film, da vedere senza perdere la speranza.
20100325
pozzanghere
Volume 4: Songs In The Key Of Love & Hate - Puddle Of Mudd (2009)
Un po' come per i P.O.D., ci sono delle band che suonano sempre lo stesso disco, identiche a 10 anni fa (e oltre), che non hanno inventato niente e che, magari, scopiazzano letteralmente (e musicalmente) grandi band dei bei tempi andati, per le quali ho un debole. Ascolto il disco nuovo, mi dico che non è niente di che, che davvero hanno toccato il fondo e stanno raschiando il barile, poi lo rimetto su e mi conquista completamente. Non mi sto a chiedere "a quale somiglia questa", perchè sarebbe troppo facile, non me ne frega assolutamente nulla: mi lascio trasportare.
In questo caso potremmo definire i Puddle Of Mudd una band nostalgic-grunge, in alcuni momenti pateticamente scimmiottante gli ovvi riferimenti (anche visivamente, a livello di look, come vi dimostrai piuttosto chiaramente postandovi il video di un loro pezzo di qualche anno fa del quale ero innamorato), ma innegabilmente (almeno per me) trascinante. Tra l'altro, l'equivalente di quel pezzo c'è pure su questo nuovo disco, si intitola Keep It Together e a me piace tanto. Il resto sono tutti pezzi stereotipati, ma efficaci. E Wes Scantlin (il leader) non accenna ad invecchiare.
timidezza
Perturbazione – 4/10/03 Sonar, Colle val d’Elsa (SI)
I Perturbazione, quasi sicuramente, non c’entrano niente, ma come succede sempre, anche in questa data giriamo la Toscana per vedere gruppi semisconosciuti, con una serata di merda come quella in questione, per esempio, e poi ci tocca far “melina” per 2 ore perché perfino sul giornale qualcuno ci scrive “inizio 22,30” e poi fino a mezzanotte inoltrata non suona nessuno.
Passiamo alla cronaca.
I Perturbazione sono un’ottima dimostrazione di come si possa fare musica e proporre anche qualcosa di non stantio, anche se assolutamente non originale, onestamente e senza essere musicisti straordinari.
Il concerto dura un’ora e mezzo, e non annoia. Qualche calo di tensione dovuta all’evidente timidezza del cantante (che, a volte, sembra quasi ostentata, da tanta che è), che diventa quasi goffaggine quando cerca di comunicare tra un pezzo e l’altro: personalmente però, apprezzo i tentativi.
Ottima tenuta vocale e strumentale dell’intera band (voce, 2 chitarre, basso, batteria e, scusate l’ignoranza, una ragazza che suona violoncello o viola, non conosco la differenza; tastiere occasionali suonate all’occorrenza da uno dei chitarristi o dalla ragazza), set sufficiente, qualche canzone orrenda (Cuorum) da escludere dalla scaletta appena possibile, alcune veramente belle (I complicati pretesti del come, Arrivederci addio), anche se appare chiaro che i torinesi si trovano più a loro agio con i pezzi “morbidi”.
Alcune ingenuità nei testi, da rivedere.
Bel finale con alcune cover dalle origini più svariate. Anche se l’uscita e il rientro per i “bis”, specialmente da band così, non lo vorremmo vedere.
Passiamo alla cronaca.
I Perturbazione sono un’ottima dimostrazione di come si possa fare musica e proporre anche qualcosa di non stantio, anche se assolutamente non originale, onestamente e senza essere musicisti straordinari.
Il concerto dura un’ora e mezzo, e non annoia. Qualche calo di tensione dovuta all’evidente timidezza del cantante (che, a volte, sembra quasi ostentata, da tanta che è), che diventa quasi goffaggine quando cerca di comunicare tra un pezzo e l’altro: personalmente però, apprezzo i tentativi.
Ottima tenuta vocale e strumentale dell’intera band (voce, 2 chitarre, basso, batteria e, scusate l’ignoranza, una ragazza che suona violoncello o viola, non conosco la differenza; tastiere occasionali suonate all’occorrenza da uno dei chitarristi o dalla ragazza), set sufficiente, qualche canzone orrenda (Cuorum) da escludere dalla scaletta appena possibile, alcune veramente belle (I complicati pretesti del come, Arrivederci addio), anche se appare chiaro che i torinesi si trovano più a loro agio con i pezzi “morbidi”.
Alcune ingenuità nei testi, da rivedere.
Bel finale con alcune cover dalle origini più svariate. Anche se l’uscita e il rientro per i “bis”, specialmente da band così, non lo vorremmo vedere.
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Foto da
Maarakat madinat al Jazaer
La battaglia di Algeri - di Gillo Pontecorvo 1966
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: firmone!Tramite un flashback nei ricordi di Ali La Pointe, attivista dell'FLN (Front de Libération Nationale), organo algerino che ha combattuto per l'indipendenza dalla Francia, che governava l'Algeria dal 1830, vengono ripercorsi i fatti accaduti ad Algeri dal 1954 al 1957, con chiusura sulla successiva sollevazione del 1960.
Vediamo come si organizzò l'FLN ad Algeri, eliminando con la forza la malavita dalla Casbah, in modo da porre le basi per un'appoggio completo della popolazione araba, come fu organizzata la struttura del fronte, l'escalation delle azioni di guerriglia urbana che portarono alla militarizzazione del perimetro della Casbah stessa, le contromosse dei civili francesi, i primi attentati sanguinosi ai danni di obiettivi non militari, l'arrivo dei paracadutisti comandati dal colonnello Mathieu (ispirato al comandante Jacques Massu), che diede il via ad una massiccia e duratura operazione, che effettivamente decapitò l'FLN (e qui torniamo all'inizio, quando comincia il flashback di La Pointe); ma, evidentemente, non placò la voglia di indipendenza di almeno una parte piuttosto importante della società civile algerina, che nonostante le diverse proposte francesi, allarmate da anni di turbolenze, non era mai stata veramente presa in considerazione per essere "elevata" e riscattata da una povertà diffusa.
E' interessante guardare questo film, ancora oggi molto citato, con occhi attuali, alla luce di questa sorta di divisione tra mondo europeo e mondo arabo che si è venuta a creare ultimamente, come pure è interessante leggere le recensioni d'epoca (qui ne trovate alcune), tutte molto acute, ancorchè schierate, e tenere conto dell'epoca in cui il film uscì (1966), o non uscì (in Francia proibito fino al 1972), delle reazioni che suscitò in Francia (bombe), e pure in Algeria (malcontento e proteste).
Il film appare piuttosto moderno nell'uso del flashback, come pure fuori dagli schemi con la negazione di un protagonista principale, se escludiamo l'antipatico colonnello Mathieu, nel quale lo spettatore, crediamo, non si voglia identificare, anche se alla fine si rivela il più profetico, e l'unico che spiattella scottanti verità. Piuttosto obiettivo e molto attento a conservare una certa equidistanza, ad osservare quantomeno le ragioni di entrambi gli schieramenti, anche se, forse, si dimentica la gente comune, Pontecorvo, forse impedito dalle convenzioni, forse dal budget, commette però un errore che, stranamente, notò a suo tempo Gian Luigi Rondi (e dico stranamente perchè difficilmente mi trovo d'accordo con lui, e non solo perchè Pasolini gli disse "sei così ipocrita che quando l'ipocrisia ti avrà ucciso, sarai all'inferno, ma ti dirai in paradiso", ma proprio perchè mi sembra sempre che veda un altro film, quando lo ascolto parlare di qualcosa che ho visto, anche se, per dirla proprio tutta, lui è sicuramente più accreditato di me per parlare), evidenziando che "I dialoghi non sono tutti egualmente asciutti e verosimili (specie in un film il cui nudo realismo documentario non consente di accettare facilmente la convenzione di una lingua italiana letteraria parlata indiscriminatamente da algerini della Kasbah e da paracadutisti francesi, per di più doppiati da voci convenzionali e stereotipate)"; verissimo. Strano che a dirlo sia un così influente critico italianissimo (nonchè ex Presidente della Biennale di Venezia e attuale sovraintendente della Festa del Cinema di Roma), quindi mi sarei aspettato da lui una crociata per, almeno, una quota di film in lingua originale nelle sale italiane, ma ancora non ne ho notizia.
Chiusa la parentesi, c'è da notare anche come il film, nonostante non sia velocissimo anche nelle scene di azione, sia invece scandito da un montaggio mozzafiato, per l'epoca, e da intelligenti espedienti che scandiscono le scene e il passare del tempo, l'escalation del conflitto (uno su tutti, le "aperture" sulle telefonate dei giornalisti alle redazioni, ma l'attenzione per alcuni particolari perdura per tutte le due ore di film). Bianco e nero asciutto, musica a cura di Morricone e dello stesso Pontecorvo interessante, anche se in un paio di occasioni troppo "presente" e poco dentro allo spirito realista del film.
Comunque, un lavoro molto interessante.
20100324
father & son
Oggi è il compleanno di mio padre. Il 74esimo.
Appena alzato, gli ho mandato un sms:
Auguri babbo sono contento che sei il mi' babbo :)
Dopo qualche ora, mi ha risposto:
Grazie. Alla mia età le tue parole fanno bene.
Sono ancora qui che mi commuovo scrivendolo.
Appena alzato, gli ho mandato un sms:
Auguri babbo sono contento che sei il mi' babbo :)
Dopo qualche ora, mi ha risposto:
Grazie. Alla mia età le tue parole fanno bene.
Sono ancora qui che mi commuovo scrivendolo.
il coraggio degli altri
The Courage Of Others - Midlake (2010)
Bisogna aspettare la traccia 5, Fortune, per ascoltare un pezzo che non somigli a quello precedente (a parte il primo, naturalmente). Questa cosa non è che sia un pregio. Non so, forse è la voce di Tim Smith, intrecciata quasi sempre con quella di Eric Pulido, che nonostante la costante ricerca dell'armonia, di questa sorta di mix tra il sound di Crosby, Still & Nash e quello di Simon & Garfunkel, finisce per risultare estremamente monocorde e, più che crepuscolare, opprimente.
Ben suonato e pulitissimo, ma piuttosto noioso.
on the inside
Ben Harper & the Innocent Criminals - Firenze Palasport - 27/10/2003
Avendo seguito le quattro date italiane di Ben Harper, il mio parere è che quella fiorentina sia stata la migliore, anche grazie ad un pubblico caldissimo, che ha risparmiato critiche al mezzo sangue californiano, a differenza di come un qualsiasi occhio (sempre critico) potrebbe muovergli.
La realtà è che Harper è ormai una rockstar a livelli planetari, quindi da tale si muove (anche goffamente), cercando di equilibrare con la scaletta pezzi dell'ultimo "Diamonds On The Inside", successo mondiale ma debole tassello della sua discografia, e pezzi vecchi del suo repertorio "di culto".
La comunicazione è scarsa, e all'apparenza non più militante, se non nei testi delle vecchie canzoni, tra l'altro spesso riarrangiate con risultati alterni.
Rimane un artista che, partendo dal blues "duro e puro" degli esordi, fonde mirabilmente rock, gospel, reggae, soul, country-folk e, appunto, blues, in maniera sempre più disinvolta e libera da schemi. Il rischio è la deriva pop-rock, così lontana da (esempio) "When It's Good", ma così vicina in "Diamonds On The Inside" e "Brown Eyed Blues" (tanto per rimanere circoscritti agli estratti dall'ultimo lavoro). Viene l'amaro in bocca quando, nel primo bis acustico, Harper propone solo quattro pezzi (tre dei quali rispettivamente dal primo, secondo e terzo album) e, nonostante gli urletti irrispettosi di quella parte del pubblico egocentrica per un momento, e gli applausi a metà canzone, ci si accorge che la magia dell'uomo seduto con la chitarra sulle ginocchia esisterebbe ancora e potrebbe stregare intere folle, se solo lui lo volesse.
Rimane da capire, infatti, se lui lo vuole.
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natural flop
Natural City – di Min Byung-Chun 2005
Giudizio sintetico: da evitare (0,5/5)
Giudizio vernacolare: ridateci i vaini!!
Anno 2080, in una megalopoli asiatica, forse post-atomica (si parla di bombardamenti e di una Guerra), i cyborg, del tutto simili agli umani, ma con data di scadenza, coadiuvano la vita di tutti i giorni, ma creano anche problemi.
Infatti, la polizia è sulle tracce di un cyborg ribelle, che sta organizzando una sorta di colpo di stato. Uno dei poliziotti, Erre, perdutamente innamorato di una cyborg in "scadenza", traffica chip di cyborg ribelli, per tirar sù soldi in modo da poter prolungare la vita di Ria, e non si accorge di essere una pedina in un gioco più grande e pericoloso.
E’ stato scomodato Blade Runner come paragone, e questo probabilmente ha fatto più male che bene a questo colossal coreano. Il riferimento è fin troppo palese, ma il risultato è lontanissimo dall’intensità di un capolavoro; l’ambientazione è da fumetto di bassa categoria, la trama, scontata, sembra un’accozzaglia di altri film, i protagonisti tutti poco convincenti (e, tra l’altro, doppiati in stile cartone animato, il che non giova affatto al risultato), la sottotrama più interessante, anche se già vista (l’amore tra umano e cyborg), sviluppata decisamente poco e, soprattutto, male.
Attori tutti mediocri, come già detto, e diretti male, finale che mette a dura prova la pazienza dei più zen tra gli spettatori.
Delusione.
Attori tutti mediocri, come già detto, e diretti male, finale che mette a dura prova la pazienza dei più zen tra gli spettatori.
Delusione.
20100323
commercialisti fascisti
Sempre sul numero di D uscito sabato scorso, c'è una simpatica e interessante intervista di Guia Soncini (mi piace come scrive) a Tilda Swinton, attrice completamente fuori dal giro delle celebrità onnipresenti, nonostante sia bravissima e affascinante; si conclude con questo "scambio" che mi ha particolarmente colpito:
A proposito di tempi che cambiano: Orlando è del 1992, e l'ambiguità sessuale pare essere entrata nei media generalisti solo da qualche anno, non so se ha presente la televisione italiana. Era un film in anticipo sui tempi?
"Di sicuro è più moderno che mai. E il libro è più avanti ancora, ed è del 1928. D'altra parte lo diceva appunto Virginia Woolf: la mente dell'artista è sempre androgina. La fluidità non è mai un problema, credo: non si è mai completamente innocenti o colpevoli, di destra o sinistra, uomini o donne. Ma non possiedo un televisore e non guardo i programmi inglesi, figuriamoci quelli italiani".
Diciamo che gli italiani amano votare per gay e transessuali nei reality sentendosi di mente aperta a modico prezzo, ma l'impressione è che se si ritrovassero un transessuale come supplente di matematica del figlio chiamerebbero la polizia.
"Sì, forse più ancora che quello bisognerebbe domandarsi come reagirebbe ogni persona del pubblico davanti a un figlio che volesse fare un intervento per cambiare sesso. Ma quello non credo si possa sapere finché non capita, no? Nella mia famiglia veniamo tutti scambiati per qualcuno di un altro sesso. Se ai raggi X dell'aeroporto c'è da perquisirmi, spesso si fa avanti un poliziotto uomo, perché finché non parlo e non sentono la voce pensano io sia un maschio. Mio figlio ha i capelli lunghi e lo scambiano per una femmina. Mia figlia a un certo punto li aveva corti e la prendevano per un ragazzino. Ma siamo molto tranquilli, al riguardo. Ce ne vantiamo, persino".
Se metto in fila le sue ultime risposte ne traggo l'impressione che per lei sarebbe molto più un problema un bambino che le dicesse "mamma, voglio fare l'attore", di uno che annunciasse "mamma, voglio cambiare sesso".
"È un gioco che facciamo spesso, in famiglia. Qual è la disgrazia più grande. La scelta dei figli che ci farebbe soffrire di più. Cosa dovrebbero diventare per spezzarci il cuore. E la conclusione è: commercialisti fascisti. Ma, anche in quel caso, ci faremmo forza, e li ameremmo lo stesso".
Se siete interessati, potete trovare l'intervista completa spulciando il sito
ancora oscar
Vi copio/incollo il testo della rubrica settimanale di Federico Rampini su D la Repubblica delle donne di sabato scorso, che parla del film vincitore dell'Oscar e della "fierezza militarista" della Bigelow. Siccome io continuo a sostenere (come feci all'epoca della sua uscita, in sordina, sugli schermi italiani) che non solo non è il suo film migliore, ma è pure, essendo un film sulla guerra, piuttosto fascista (e non solo cripto-fascista, come Rampini dice "si sarebbe detto in altri tempi"), mi è piaciuto il pezzo anche se, a mio giudizio, "ci gira un po' intorno".
"The Hurt Locker" dimostra che la religione militarista non è solo roba da maschi
di Federico Rampini
Può una donna essere intimamente, pericolosamente militarista? Credo di sì, e soprattutto dopo aver visto il bellissimo e inquietante film The Hurt Locker della regista americana premio Oscar Kathryn Bigelow. Non mi riferisco in modo generico all'attrazione che le donne possono provare per la violenza. Dalle antiche tragedie greche fino alla pittrice Artemisia Gentileschi (Giuditta che decapita Oloferne) o alle moderne spettatrici che affollano gli incontri di boxe al Madison Square Garden, è evidente che anche tra il sesso femminile e lo spargimento di sangue altrui c'è una lunga e morbosa storia d'amore. Né mi riferisco all'uso delle forze armate da parte della donna-statista: la regina Vittoria e Margaret Thatcher, Golda Meir e Indira Gandhi, furono capaci di guidare con pugno di ferro le proprie nazioni in guerra. Ma c'è una certa religione virile del guerriero, un culto del combattimento fine a se stesso, che tendiamo ad associare ai geni XY. The Hurt Locker distrugge anche questo mito. La californiana Bigelow è una donna molto bella ed è nota anche per essere stata la moglie di James Cameron (Avatar). Nessuno meglio di lei oggi ha raccolto l'eredità di Sergio Leone e di Sam Peckinpah, i registi che hanno messo in scena un archetipo del "macho" sanguinario. The Hurt Locker è un film di guerra di rara perfezione. È la cronaca di 40 giorni sul fronte iracheno vissuti da una squadra speciale di artificieri e sminatori dell'esercito americano, che rischiano la vita ogni giorno per disinnescare ordigni esplosivi. Il film ha un ritmo ossessivo. Ti sembra di sentire l'odore della morte nelle narici. Contrariamente al malcostume hollywoodiano gli effetti speciali sono quasi inesistenti, il realismo è spinto all'estremo. Il vero miracolo che compie la Bigelow è un altro: non solo t'incolla alla tua poltrona ma ti costringe a identificarti con i suoi personaggi, a parteggiare per loro anche quando sono odiosi. (In altri tempi si sarebbe detto: un film cripto-fascista). Dopo pochi minuti abbandoni qualsiasi pudore, rinunci a capire l'Iraq e gli iracheni, ti disinteressi di ogni spiegazione storica e contesto sociale. Sei risucchiato nei riti tribali di quel manipolo di guerrieri. Ti senti contagiato dalle loro ondate di adrenalina, sei attratto dal loro codice d'onore e da quell'idea arcaica di eroismo. Il pericolo, che è la loro droga, diventa la tua droga davanti allo schermo. Sul Los Angeles Times una collega giornalista si è arrampicata sugli specchi per teorizzare che Kathryn Bigelow è una femminista, che con questo film avrebbe eseguito una sottile "de-strutturazione della logica maschile". Balle. Andatelo a vedere e capirete perché ho ragione io. Perfino nelle scene dove la violenza è allo stadio bruto - le scazzottature tra soldati ubriachi - si sente benissimo che la regista sta incollata alla pelle dei suoi personaggi, condivide i legami che si formano tra loro, è una complice astuta e maliziosa di quel gioco. Quel che fa paura è che The Hurt Locker è un film maledettamente intelligente, raffinato. Non è roba per maschietti adolescenti cresciuti a videogame, con sangue a fiotti e violenza all'ingrosso. Qui la violenza spesso è centellinata col contagocce, in un sublime crescendo di tensione. Il culto del guerriero porta con sé una parallela venerazione della manualità, della tecnica: uno degli eroi-protagonisti cresce di statura ai nostri occhi via via che seguiamo i suoi gesti precisi mentre disinnesca i detonatori, in una sfida a orologeria contro la morte. The Hurt Locker l'ho visto al cinema Lincoln di Manhattan. In una sera in cui la sala era piena di donne. Alcune erano sole: attente, concentrate, appassionate. Ho ripensato quella sera alle donne sempre più numerose che si arruolano nell'esercito americano. Ho ripensato alle banalità con cui un sociologismo femminista e di sinistra spiega il fenomeno (si arruolano, naturalmente, per bisogno; perché "non hanno alternativa": lo stesso si può dire di tanti loro colleghi maschi). Sono tutti sotterfugi, per non vedere che la donna può essere non solo combattente per necessità, ma militarista e fiera di esserlo.
from alaska to baires
L'amica Juli mi segnala un cantante e musicista che mi pare interessante, almeno, per chi cerca qualcosa che esuli dal rock classico e dal mainstream. Il pezzo è del 2007, ed il video è simpatico. Il tipo si accompagna con una band che si chiama The Nada, e, non ci crederete, lui è nato in Alaska.
sull'amore
About Love - Plastiscines (2009)
Secondo disco per le francesine, dopo che il primo ci aveva davvero fatto sperare che fosse anche l'ultimo. E invece, vuoi perchè forse hanno imparato a suonare, vuoi perchè forse vi ha suonato qualcun altro (a questo punto, dobbiamo vederle dal vivo), questo About Love non è così male come il debutto LP1.
Ricordano moltissimo The Donnas, ma non riescono a risultare così hard rock come loro, e spesso si concedono forti divagazioni pop e perfino ballabili. Qualche pezzo, a volte solo alcune parti, sono cantate in francese, anzichè in inglese, rendendo strano l'impatto.
Canzoncine quasi tutte simpatiche, forse la mia preferita è la scanzonata From Friends To Lovers, e anche Time To Leave non è male, come You're No Good, ma insomma, un po' tutto il disco è decisamente più convincente dell'esordio.
martin and me
J Mascis - 11/11/2003 - Tago Mago, Cinquale (MS)
E' ufficiale: l'uomo che voleva essere Neil Young ha perso un po' di smalto. Al Tago Mago, locale relativamente nuovo, posto vintage simpatico, ma sinceramente, dislocato non in maniera appropriata per far pagare 10 euro e non vedere una mazza anche se gli spettatori saranno stati al massimo 60, è andata in onda una specie di riunione di nostalgici dei primi anni '90 (sono un esponente di spicco, lo ammetto).
Prima dell'esibizione di Mascis suona un gruppo italiano, gli Sprinzi, che profumano di tante cose già sentite, ma lo fanno abbastanza bene e non ci dispiacciono.
Ma, è brutto dirlo, sono qui per J. Quest'uomo che (non) vediamo stasera a 3, 4 metri da noi darsi da fare con la sua chitarra, ha fatto sognare diversi di noi circa 10 anni fa. Adesso mi sa proprio che sbarca il lunario come può, facendo serate da solo lui e la sua chitarra acustico-elettrificata con un'apparecchiatura che gli permette di mandare in loop l'accordo che sostiene la canzone, attaccare il distorsore, e sputarci addosso assoli da quasi 5 minuti sui vecchi classici dei Dinosaur Jr.
Nella scaletta (un'ora abbondante) c'è posto anche per pezzi sconosciuti (pochi, forse nuovi). L'ex ragazzo è invecchiato (come me), ha i capelli sempre lunghi ma grigi e radi, e ha messo su qualche chilo (nemmeno troppi); è calmo, quasi pachidermico, quando lo vediamo alzarsi alla fine. Come di consueto, non lo disturbo, gli lascio la sua privacy.
Quel paio di momenti nei quali ho chiuso gli occhi ed ho ondeggiato con la testa seguendo i suoi assoli (in uno dei quali, oltre a Neil Young, mi è venuto a mente Santana) me li tengo per me, in un cassetto che spolvero di rado, ma so che c'è.
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Foto di Roman Sokal da http://con.tapeop.com/2002/photos/index.html
a secret
The Woodsman - Il segreto – di Nicole Kassell 2005
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: addiacciante
Walter si è fatto 12 anni di carcere per molestie a minorenni, esce, ritrova il suo vecchio lavoro in una segheria grazie al buon lavoro fatto per il vecchio padrone (padre dell’attuale), e poco altro ad aspettarlo, vista l’infamia del suo passato, del quale né lui, né i pochi che lo conoscono, parlano volentieri.
La famiglia, salvo l’eccezione del cognato, non ne vuole sapere, i colleghi che non sanno niente di lui sono sospettosi, la polizia lo tiene d’occhio.
L’unica che sembra tenere a lui è Vickie, una donna bella quanto dura e scontrosa, evidentemente un’altra persona dal passato non vellutato. Nel centro c’è lui, Walter, che lotta con i suoi demoni, conscio di non essere normale, impaurito dagli altri e da se stesso, innervosito dal terapista che deve frequentare, tentato dalla scuola elementare davanti al suo appartamento ("è l’unico che mi hanno affittato"), spaventato perfino dalle attenzioni di Vickie, atterrito dalle visite del poliziotto che lo sorveglia.
Regista debuttante, la Kassell sceglie di mettere su pellicola un’opera teatrale di Steven Fetcher (che ha scritto la sceneggiatura insieme a lei) in maniera piuttosto semplice dal punto di vista delle riprese e della fotografia (con solo qualche virtuosismo, vedi l’uscita dall’autobus ripresa dall’alto), ma in modo atipico e coraggioso a livello di psicologia dei personaggi.
Oltre a scegliere di non mostrare niente di scabroso o disturbante visivamente, la regista si schiera, anche se non apertamente e mai assolvendolo, dalla parte del pedofilo, conscio di essere una persona con gravi problemi ("Dottore, quando potrò essere normale?" - "Sarò mai normale?"), circondato da un ambiente ostile che non lo aiuta a non ripetere i suoi sbagli.
L’oppressione è palpabile, e non solo nei dialoghi (che comunicano davvero sgomento e difficoltà di comprensione), ma anche negli sguardi, nelle camminate, nei viaggi in bus, in tutti i piccoli gesti del protagonista. Un film che riesce a trasmetterci con inquietudine un dramma interiore squassante, al quale è difficile tenere testa, a meno di non lasciarvisi andare soggiogati.
Tutte le interpretazioni, così come il film, sono senza fronzoli ma efficacissime; un superbo Kevin Bacon, attore da sempre sottovalutato, un’ottima Kyra Sedgwick nei panni di Vickie, una sorprendente Eve che interpreta la perfida segretaria del direttore della segheria, e un sempre più convincente Mos Def nei panni del poliziotto che "tiene d’occhio" Walter, il Sergente Lucas. Splendida Hannah Pilkes nei panni della piccola Robin.
Un film che non alza la voce, ma che picchia nello stomaco passando dalla testa, mettendola in funzione in maniera incessante.
Oltre a scegliere di non mostrare niente di scabroso o disturbante visivamente, la regista si schiera, anche se non apertamente e mai assolvendolo, dalla parte del pedofilo, conscio di essere una persona con gravi problemi ("Dottore, quando potrò essere normale?" - "Sarò mai normale?"), circondato da un ambiente ostile che non lo aiuta a non ripetere i suoi sbagli.
L’oppressione è palpabile, e non solo nei dialoghi (che comunicano davvero sgomento e difficoltà di comprensione), ma anche negli sguardi, nelle camminate, nei viaggi in bus, in tutti i piccoli gesti del protagonista. Un film che riesce a trasmetterci con inquietudine un dramma interiore squassante, al quale è difficile tenere testa, a meno di non lasciarvisi andare soggiogati.
Tutte le interpretazioni, così come il film, sono senza fronzoli ma efficacissime; un superbo Kevin Bacon, attore da sempre sottovalutato, un’ottima Kyra Sedgwick nei panni di Vickie, una sorprendente Eve che interpreta la perfida segretaria del direttore della segheria, e un sempre più convincente Mos Def nei panni del poliziotto che "tiene d’occhio" Walter, il Sergente Lucas. Splendida Hannah Pilkes nei panni della piccola Robin.
Un film che non alza la voce, ma che picchia nello stomaco passando dalla testa, mettendola in funzione in maniera incessante.
Altamente consigliato.
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