Carnage – di Roman Polanski (2011)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: questi vi le piazzate ulle sanno mi’a fa perbene
New York, oggi. Due compagni di scuola di 11 anni litigano al parco. Uno di loro colpisce l’altro al volto con un pezzo di legno, gli spacca due denti e gli causa una ferita per la quale ci vogliono dei punti di sutura. Le coppie di genitori, i Longstreet (Penelope e Michael, i genitori del ragazzo ferito, lei bibliotecaria ma anche scrittrice impegnata per la causa del Darfur, lui venditore di articoli casalinghi), ed i Cowan (Nancy e Alan, lei intermediatrice finanziaria, lui avvocato di grandi gruppi economici, attualmente molto impegnato per una casa farmaceutica che ha dei grattacapi per gli effetti collaterali di un farmaco molto usato), si incontrano, a casa dei Longstreet, per risolvere la cosa in modo amichevole, come si usa dire, “da persone civili”. Sembra andare tutto bene, ma le frustrazioni del quartetto saranno scatenate da allusioni, sfumature, battutine, finché tutto diventa, appunto, un carnage (carneficina).
Trasposizione della pièce teatrale Le Dieu du carnage di Yasmina Reza, tradotta anche in italiano da Roberto Andò, e diventata anche un libro (tradotta come Il dio della carneficina, poi, nel caso del libro, nelle nuova edizione come Il dio del massacro), curiosamente (ma non troppo) questo nuovo film di Polanski mette in scena un interno (ad essere precisi anche un esterno, il parco, il fattaccio e la riconciliazione, messi a bella posta sui titoli di testa e di coda) statunitense (newyorkese), Paese dove lui non può mettere piede pena l’arresto.
Naturalmente, tutti a sperticarsi in lodi al regista di origine polacca, per come ha saputo trasporre il teatro al cinema, avvalendosi di quattro attori (nota: tre premi Oscar e uno che non lo ha mai avuto, ma se lo sarebbe meritato in più di un’occasione) rinchiusi dentro un appartamento. Sicuramente Polanski ha dei meriti, così come li ha il montatore, che serra le fila e non dà tregua allo spettatore; sicuramente il testo è lo specchio dei nostri tempi, della nostra società intrisa di ipocrisia ai massimi livelli, fatta in superficie di buonismo spicciolo senza fondamenta, di solidarietà a chiacchiere, ma in realtà cattiva e spietata, e al tempo stesso fragile, come i quattro personaggi messi in scena da Kate Winslet (Nancy), Jodie Foster (Penelope), John C. Reilly (Michael) e Christoph Waltz (Alan).
Ma, lasciatemi andare leggermente controcorrente, a me non paiono giustificati questi fiumi di elogi a Polanski, memore (io) forse della delusione enorme dei suoi due film precedenti (L’uomo nell’ombra e Oliver Twist); era scontato che uno della sua esperienza, non avrebbe avuto problemi ad eliminare quel fastidioso senso di inadeguatezza che, a volte, pervade i film che prima erano pièce di teatro. Memore (lui) forse di risultati insoddisfacenti, sicuramente non ai livelli del suo Oscar per Il pianista, il sospetto che abbia scelto la strada più semplice può venire.
Gli osanna vanno indirizzati soprattutto a Yasmina Reza, autrice di un testo spietato, condivisibile seppur prevedibile, ma senza dubbio brillante. Oltre che, naturalmente, ai quattro attori, tutti in forma meravigliosa. Personalmente, ho preferito Waltz, perché mi è parso, di tutti, quello che ha lavorato più per sottrazione.
Film godibile, sottile e intelligente. La durata breve (nemmeno 80 minuti) aiuta a digerirlo senza problemi, visto l’effetto claustrofobico che, ovviamente, genera.
Giudizio vernacolare: questi vi le piazzate ulle sanno mi’a fa perbene
New York, oggi. Due compagni di scuola di 11 anni litigano al parco. Uno di loro colpisce l’altro al volto con un pezzo di legno, gli spacca due denti e gli causa una ferita per la quale ci vogliono dei punti di sutura. Le coppie di genitori, i Longstreet (Penelope e Michael, i genitori del ragazzo ferito, lei bibliotecaria ma anche scrittrice impegnata per la causa del Darfur, lui venditore di articoli casalinghi), ed i Cowan (Nancy e Alan, lei intermediatrice finanziaria, lui avvocato di grandi gruppi economici, attualmente molto impegnato per una casa farmaceutica che ha dei grattacapi per gli effetti collaterali di un farmaco molto usato), si incontrano, a casa dei Longstreet, per risolvere la cosa in modo amichevole, come si usa dire, “da persone civili”. Sembra andare tutto bene, ma le frustrazioni del quartetto saranno scatenate da allusioni, sfumature, battutine, finché tutto diventa, appunto, un carnage (carneficina).
Trasposizione della pièce teatrale Le Dieu du carnage di Yasmina Reza, tradotta anche in italiano da Roberto Andò, e diventata anche un libro (tradotta come Il dio della carneficina, poi, nel caso del libro, nelle nuova edizione come Il dio del massacro), curiosamente (ma non troppo) questo nuovo film di Polanski mette in scena un interno (ad essere precisi anche un esterno, il parco, il fattaccio e la riconciliazione, messi a bella posta sui titoli di testa e di coda) statunitense (newyorkese), Paese dove lui non può mettere piede pena l’arresto.
Naturalmente, tutti a sperticarsi in lodi al regista di origine polacca, per come ha saputo trasporre il teatro al cinema, avvalendosi di quattro attori (nota: tre premi Oscar e uno che non lo ha mai avuto, ma se lo sarebbe meritato in più di un’occasione) rinchiusi dentro un appartamento. Sicuramente Polanski ha dei meriti, così come li ha il montatore, che serra le fila e non dà tregua allo spettatore; sicuramente il testo è lo specchio dei nostri tempi, della nostra società intrisa di ipocrisia ai massimi livelli, fatta in superficie di buonismo spicciolo senza fondamenta, di solidarietà a chiacchiere, ma in realtà cattiva e spietata, e al tempo stesso fragile, come i quattro personaggi messi in scena da Kate Winslet (Nancy), Jodie Foster (Penelope), John C. Reilly (Michael) e Christoph Waltz (Alan).
Ma, lasciatemi andare leggermente controcorrente, a me non paiono giustificati questi fiumi di elogi a Polanski, memore (io) forse della delusione enorme dei suoi due film precedenti (L’uomo nell’ombra e Oliver Twist); era scontato che uno della sua esperienza, non avrebbe avuto problemi ad eliminare quel fastidioso senso di inadeguatezza che, a volte, pervade i film che prima erano pièce di teatro. Memore (lui) forse di risultati insoddisfacenti, sicuramente non ai livelli del suo Oscar per Il pianista, il sospetto che abbia scelto la strada più semplice può venire.
Gli osanna vanno indirizzati soprattutto a Yasmina Reza, autrice di un testo spietato, condivisibile seppur prevedibile, ma senza dubbio brillante. Oltre che, naturalmente, ai quattro attori, tutti in forma meravigliosa. Personalmente, ho preferito Waltz, perché mi è parso, di tutti, quello che ha lavorato più per sottrazione.
Film godibile, sottile e intelligente. La durata breve (nemmeno 80 minuti) aiuta a digerirlo senza problemi, visto l’effetto claustrofobico che, ovviamente, genera.
3 commenti:
anche secondo me Waltz è il migliore!mentre Jodie Foster mi è sembrata un po' troppo sopra le righe!
vero, vero giulietta.
Film molto bello. Con qualche lacuna, forse (1 - il fatto che non ci sia un vero e proprio finale; 2 - gli attori americani quando fanno gli ubriachi mi sembra che "vadano sopra le righe").
Ho amato Kate Winslet, ma... un attimo.. io AMO Kate Winslet, forse è per quello.
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