L’albero – di Julie Bertuccelli (2011)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: deli’ato
Australia, regione del Queensland. Dawn e Peter O’Neil sono una giovane coppia felice con quattro figli bellissimi (il più piccolo ha qualche problema, non parla ancora, ma nessuno si preoccupa troppo). La vita scorre lenta, senza nessuna fretta, in un idillio quasi incredibile con la natura prepotente e partecipe, in una casa grande e accogliente. Finché, un giorno infausto, di ritorno da un viaggio di lavoro, Peter muore d’infarto, sotto gli occhi degli altri cinque componenti della famigliola. Ognuno reagisce a modo suo, ma decisamente quella che non pare abbia voglia di ricominciare a vivere è Dawn; Simone, l’unica femmina, otto anni, si convince che suo padre vive ancora nel ficus che domina la terra circostante la casa, e passa giornate (e notti) intere vicino o sopra l’albero, parlandoci pure. Dawn, dapprima scettica, asseconda poco convinta i capricci della figlia, intenerita. Poco a poco, soprattutto per necessità, Dawn torna alla vita, cercando un lavoro. Lo trova presso il negozio di sanitari dell’idraulico George Elrick, con il quale nasce quasi naturalmente una certa intimità; intimità che Simone non accetta, e, così sembra, neppure il ficus…
Julie Bertuccelli è una regista francese; ha 43 anni ed è vedova da 5. La conclusione sommaria potrebbe essere che i suoi due film (questo di cui parliamo oggi ed il primo, molto bello, Da quando Otar è partito) parlano entrambe dell’elaborazione del lutto perché ne ha subito uno che le ha fatto molto male. E invece, il marito, direttore della fotografia anche del suo primo film, è ovviamente morto dopo (il primo film). Questo dal punto di vista della cronaca.
Rimane il fatto che i suoi due film parlano di come le persone che rimangono in vita affrontano la mancanza di un caro che muore. Avevo grandi aspettative verso questo film, visto che il precedente era praticamente un capolavoro, e che questo aveva come protagonista una delle mie attrici preferite. Sarò sincero: questo L’albero non è mozzafiato come il precedente. Ma rimane, secondo me, un film da vedere, perché racconta una bella storia con quel tocco poetico e vagamente surreale che, ormai possiamo dirlo, è proprio della Bertuccelli.
Anche la storia che c’è dietro all’idea del film è interessante: la regista francese voleva mettere in scena una storia tratta da Il barone rampante di Calvino, ma ha avendo problemi con i diritti, ha ripiegato su Our Father Who Art in The Tree (in Italia L’albero, come il film) di Judy Pascoe. Non esattamente la stessa cosa, ma sempre un qualcosa che ruota attorno ad un albero.
Il risultato è un film pieno di scenari australiani ben fotografati, un film dal respiro lento ma poetico, al limite dello spirituale, con accadimenti non sempre giustificabili, metafore a volte anche troppo marcate, ma che in pratica riesce a comunicare la difficoltà di continuare a vivere senza chi si è amato, senza per questo scadere nell’ovvietà e, soprattutto, senza mai avvicinarsi al patetismo che storie di questo genere potrebbero facilmente generare. La macchina da presa accompagna delicatamente l’azione, e il cast risulta ben studiato, con alcune sorprese. Charlotte Gainsbourg (Dawn) è sempre meravigliosa e stordita, ma in questo caso, Morgana Davies (Simone), classe 2001, non solo le tiene testa, ma risulta stupefacente.
Un gradino sotto il suo debutto ma certamente un buon film, sono certo che Julie Bertuccelli ci regalerà ancora bei film, e auguro alla piccola Morgana una lunga carriera piena di soddisfazioni che, chissà, potremo pure "condividere", applaudendola da spettatori.
Giudizio vernacolare: deli’ato
Australia, regione del Queensland. Dawn e Peter O’Neil sono una giovane coppia felice con quattro figli bellissimi (il più piccolo ha qualche problema, non parla ancora, ma nessuno si preoccupa troppo). La vita scorre lenta, senza nessuna fretta, in un idillio quasi incredibile con la natura prepotente e partecipe, in una casa grande e accogliente. Finché, un giorno infausto, di ritorno da un viaggio di lavoro, Peter muore d’infarto, sotto gli occhi degli altri cinque componenti della famigliola. Ognuno reagisce a modo suo, ma decisamente quella che non pare abbia voglia di ricominciare a vivere è Dawn; Simone, l’unica femmina, otto anni, si convince che suo padre vive ancora nel ficus che domina la terra circostante la casa, e passa giornate (e notti) intere vicino o sopra l’albero, parlandoci pure. Dawn, dapprima scettica, asseconda poco convinta i capricci della figlia, intenerita. Poco a poco, soprattutto per necessità, Dawn torna alla vita, cercando un lavoro. Lo trova presso il negozio di sanitari dell’idraulico George Elrick, con il quale nasce quasi naturalmente una certa intimità; intimità che Simone non accetta, e, così sembra, neppure il ficus…
Julie Bertuccelli è una regista francese; ha 43 anni ed è vedova da 5. La conclusione sommaria potrebbe essere che i suoi due film (questo di cui parliamo oggi ed il primo, molto bello, Da quando Otar è partito) parlano entrambe dell’elaborazione del lutto perché ne ha subito uno che le ha fatto molto male. E invece, il marito, direttore della fotografia anche del suo primo film, è ovviamente morto dopo (il primo film). Questo dal punto di vista della cronaca.
Rimane il fatto che i suoi due film parlano di come le persone che rimangono in vita affrontano la mancanza di un caro che muore. Avevo grandi aspettative verso questo film, visto che il precedente era praticamente un capolavoro, e che questo aveva come protagonista una delle mie attrici preferite. Sarò sincero: questo L’albero non è mozzafiato come il precedente. Ma rimane, secondo me, un film da vedere, perché racconta una bella storia con quel tocco poetico e vagamente surreale che, ormai possiamo dirlo, è proprio della Bertuccelli.
Anche la storia che c’è dietro all’idea del film è interessante: la regista francese voleva mettere in scena una storia tratta da Il barone rampante di Calvino, ma ha avendo problemi con i diritti, ha ripiegato su Our Father Who Art in The Tree (in Italia L’albero, come il film) di Judy Pascoe. Non esattamente la stessa cosa, ma sempre un qualcosa che ruota attorno ad un albero.
Il risultato è un film pieno di scenari australiani ben fotografati, un film dal respiro lento ma poetico, al limite dello spirituale, con accadimenti non sempre giustificabili, metafore a volte anche troppo marcate, ma che in pratica riesce a comunicare la difficoltà di continuare a vivere senza chi si è amato, senza per questo scadere nell’ovvietà e, soprattutto, senza mai avvicinarsi al patetismo che storie di questo genere potrebbero facilmente generare. La macchina da presa accompagna delicatamente l’azione, e il cast risulta ben studiato, con alcune sorprese. Charlotte Gainsbourg (Dawn) è sempre meravigliosa e stordita, ma in questo caso, Morgana Davies (Simone), classe 2001, non solo le tiene testa, ma risulta stupefacente.
Un gradino sotto il suo debutto ma certamente un buon film, sono certo che Julie Bertuccelli ci regalerà ancora bei film, e auguro alla piccola Morgana una lunga carriera piena di soddisfazioni che, chissà, potremo pure "condividere", applaudendola da spettatori.
Il finale, bello ed intenso, è accompagnato da questa bella canzone, che "scivola" nei titoli di coda.
2 commenti:
Ma luilì nel video è Patrick Watson!
Non ho ancora capito se è un collione od un genio... Ho consumato un paio di cuffie a forza di ascoltare "Close to paradise".
Ciao,
Andrea.
già già proprio lui
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