No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20110928

La piel que habito




La pelle che abito – di Pedro Almodóvar (2011)




Giudizio sintetico: si può vedere per rispetto (2,5/5)
Giudizio vernacolare: vesto si che è malato!

Toledo, Spagna, 2012. Il chirurgo plastico Robert Ledgard vive in una lussuosa villa chiamata El Cigarral, dove sta sviluppando personalmente, nel suo laboratorio privato, una pelle umana modificata, per essere migliore, più resistente e bella. Ma in questa stessa villa, oltre alla fedele governante Marilia, che gestisce il personale, vive praticamente prigioniera Vera, una giovane bellissima, che comunica con Marilia tramite interfono, e passa le sue giornate abbigliando manichini con pezzi di stoffa, avvolta in una tuta aderentissima. Chi è Vera? Che cosa sta facendo lì, esattamente? E qual è il suo rapporto con Ledgard?

Diciamolo subito: il nuovo film di Almodóvar è piuttosto deludente. Manca di “vibrazioni”, pur essendo chiaramente una pellicola almodovariana. Un po’ ingessata nello sviluppo, come pure nelle recitazioni, che evidentemente il regista ha voluto così (a parte quella di Elena Anaya, splendida ed espressiva anche col corpo, ma del resto noi di fassbinder non la scopriamo adesso), la storia, che prende spunto dal libro noir Tarantola di Thierry Jonquet, si sviluppa con una serie di flashback che “rispondono” alle domande che ho posto prima, in chiusura del riassunto.
L’atmosfera è atipica, perché è impostata come un thriller hitchockiano (con chiari riferimenti pure al Frankenstein di Mary Shelley), aiutata anche dalla bella (ma un po’ ridondante) colonna sonora firmata da Alberto Iglesias, ma lo sfondo è decisamente Almodóvar, che si sbizzarrisce costruendo gli interni di El Cigarral come un museo di arte contemporanea (vi assicuro che passerete il tempo a guardare le pareti, gli arredi, le finiture, più che ad osservare l’inespressività di un Banderas assolutamente spento), corredando il film di citazioni ed autocitazioni.
Il risultato è, come detto, poco coinvolgente, molto freddo, e questo è decisamente strano per un Almodóvar, ne converrete (il momento almodovariano per eccellenza è l’arrivo de Il Tigre, personaggio tanto spassoso quanto inutile nell’economia del film, anche se il regista, in un’intervista, ha praticamente spiegato che gli è servito per far capire l’origine di Ledgard). Chissà se, sarebbe interessante capirlo, questa è una strada che il regista spagnolo ha deciso di percorrere in futuro, oppure è solo un esperimento. Vedremo.
Delle recitazioni abbiamo accennato. Antonio Banderas, nei panni di Ledgard, purtroppo torna in un film di Almodóvar dopo vent’anni, incappando in un personaggio che non gli si addice per niente; Marisa Paredes (Marilia), che abbiamo ammirato in decine di film in parti eccezionali, qua è frenata da evidenti ordini di scuderia. Anche altri bravi caratteristi (Fernando Cayo, Eduard Fernández) spagnoli risentono evidentemente del clima. Si salva Elena Anaya, splendida Vera, astro più che nascente del cinema spagnolo, ormai pronta al salto internazionale, aiutata da un fisico minuto ma perfetto, ed un viso straordinariamente bello.
Insomma, a parte il momento sorprendente in cui lo spettatore capisce chi è Vera, l’unico altro sobbalzo del film è l’apparizione di Concha Buika, altro personaggio che i lettori di fassbinder conoscono già, che canta due pezzi di persona.
L’unica attenuante che posso ipotizzare, avendo una piccola esperienza con Tutto su mia madre, è che il doppiaggio in italiano abbia raffreddato ulteriormente il film; ma non credo avrò la forza di rivederlo nuovamente, seppure in lingua originale.

1 commento:

Filo ha detto...

Peccato. Ci speravo un po' in questo film.