Master of My Make-Believe - Santigold (2012)
Ed eccolo, finalmente, (modalità luogo comune on) l'attesissimo secondo album (modalità luogo comune off) di Santi White, the artist formerly know as Santogold, e adesso, a causa di una controversia sul nome, conosciuta come Santigold. Sono passati praticamente quattro lunghi anni dal suo debutto, che mi impressionò non poco (non solo a me, evidentemente), e devo ammettere che ero decisamente curioso di ascoltare le sue nuove cose. La terribile prova, a mio parere, è superata con un buon voto: Master of My Make-Believe è, fino ad ora, una delle migliori cose ascoltate nel 2012. Ve lo dico così, senza pensare troppo alle conseguenze. Con Bjork che si palesa solo ogni tanto, e una notevole normalizzazione della musica, c'è assoluto bisogno di chi osa, chi mescola (non solo) le carte, e se ne esce con dischi del genere.
L'apertura è affidata al singolo che ha preceduto di svariati mesi l'album (ma io, con il mio snobismo che a volte schifa anche me stesso, me ne sono tenuto ampiamente alla larga): GO!, cantato insieme a nientemeno che Karen O degli Yeah Yeah Yeahs, quindi un'altra ragazza terribile, e le cose sono subito molto chiare. Elettronica a manetta, ritmi incalzanti, beat veloci, suoni e voci in loop. E il buonumore, non perché il disco diverta, bensì perché quando c'è della buona musica tutto sembra migliore, si impossessa dell'ascoltatore. Santi, però, non è una tipa che dimentica, o non sa scrivere, delle buone melodie. Ecco quindi che si prosegue con una serie di brani che martellano elettronicamente, introducono patterns metallici, ma risultano melodicamente accattivanti, e sui quali la stessa Santi cambia registro, mostrandoceli tutti, indovinandone altrettanti. Disparate Youth rallenta, God From The Machine ancora di più, ma diventa marziale e genera una grande atmosfera, Fame, primo pezzo dove c'è lo zampino di Dave Sitek (TV on the Radio) parte sincopata e poi si apre in un gran bel chorus, Freak Like Me le somiglia un poco, e, seppur inferiore, fa muovere tutto il corpo come una sorta di dub secco e fortemente elettronico.
Su This Isn't Our Parade c'è ancora Sitek che scrive, e c'è da dire che questo pezzo electro-dark risulta uno dei più belli del disco. Potrebbero essere i Japan versione low-fi, ma certo la voce di Santi ci porta in una dimensione del tutto distante. Non meno valida, sia chiaro. Ma ecco che improvvisamente, un inizio che potrebbe essere da ballata pop, se non fosse così scarnificata, ci introduce dentro il pezzo che è davvero il più bello del disco, quello che spesso risulta la chiave d'accesso, quello che anche se ti addormenti al sole mentre lo ascolti in cuffia, ti rimane in testa pure se dormivi. The Riot's Gone potrebbe essere un classico già tra qualche mese. Se, soprattutto in questi ultimi due pezzi, vi sembrerà che la voce di Santi somigli a quella di Karen O, non stupitevi: su questi, oltre che su altri due, c'è la firma di Nick Zinner, chitarrista degli Yeah Yeah Yeahs (e siamo davvero dalle parti della loro Maps). Difficile proseguire, ma Pirate In The Water torna sul buon dub e non è poi malaccio, The Keepers è una cavalcata elettronica ma di gran classe, e sicuramente rientra tra i pezzi migliori (dopo GO!, Big Mouth e Disparate Youth sarà il prossimo singolo), Look At These Hoes è un breakbeat divertentissimo. Chiude la già citata Big Mouth, un altro pezzo estremamente vario e sincopato, che ad un certo punto parte per la tangente e diventa un carnevale di percussioni incessanti e sintetizzatori che strombazzano come impazziti.
Sia Santi-ficato il suo nome.
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