Boys Don't Cry - Rumer (2012)
Devo dire che ero abbastanza eccitato quando ho saputo che l'inglese di Islamabad, Sarah Joyce in arte Rumer, stava per far uscire il suo (difficile, sempre difficile) secondo album. Poi l'ho ascoltato più e più volte, e non era un brutto disco, ma mancava qualcosa, ed ero qua che riflettevo, chiaramente dormendo sul divano, su come spiegarlo a voi, care lettrici e cari lettori, voi che pendete dalle mie righe per ascoltare cose nuove ma anche no. Come faccio di solito, mi sono messo a navigare per vedere cosa si diceva in giro. Checché se ne dica, la stampa inglese, almeno una parte, riesce spesso a risultare la migliore, in casi come questi. Ecco che mi trovo a sposare completamente la recensione di Kitty Empire su The Observer, una recensione rispettosa, cinica e divertente al tempo stesso (e che, consentitemi di scendere in particolari, soddisferà perfino l'amico Monty, nel passaggio dove la Empire definisce Townes Van Zandt "widely acknowledged master of misery", qualcosa vicino a "largamente riconosciuto maestro della povertà", o roba simile).
Ricapitoliamo. Rumer ha una gran voce, ed una fortissima influenza bacharachiana, con una predilezione verso un certo tipo di musica degli anni '70. Ha questo stile che potremmo situare a cavallo di una sorta di jazz-pop, qualcosa definibile anche come musica leggera impegnata. Riesce ad inglobare miriadi di influenze musicali con leggerezza e naturalezza, a risultare ascoltabile, gradevole, perfino allegra, seppure la sua voce appaia profondamente triste. E' un po' la dimostrazione di come la musica può arrivare a guarire profonde ferite dell'anima. Certe notizie sulla sua vita privata non erano disponibili all'epoca del primo disco, ma adesso si capisce qualcosa in più. Settima di sette fratelli, Sarah nasce in Pakistan per caso: il marito della madre è un ingegnere inglese che sta lavorando alla costruzione della diga di Tarbela. Lei è il frutto della relazione della madre col cuoco pakistano dell'insediamento dei lavoratori inglesi, e nessuno, a parte la madre, sa della differenza tra lei e i fratelli. In seguito, i genitori divorziano, la madre si ammala e muore di cancro al seno, lei comincia a scrivere canzoni, va in Pakistan per conoscere il padre biologico ma scopre che è morto qualche mese prima.
Detto questo, Boys Don't Cry è il secondo disco, ma è un modo di aggirare le difficoltà (di cui sopra, e di caparezziana memoria): è, infatti, un disco fatto da cover di artisti maschi (da qui l'ironico titolo, credo), datate intorno agli anni '70. Artisti conosciuti e no, perché l'elenco comprende Richie Havens (It Could be the First Day), appunto Townes Van Zandt (con la vibrante Flyin' Shoes), addirittura Hall & Oates (con, pensate un po' l'ironia, Sara Smile), Jimmy Webb (con la spiazzante, apparentemente allegra e amaramente ironica P.F. Sloan), Isaac Hayes (con l'ottima Soulsville, dove Rumer fornisce probabilmente la prova vocale più importante del disco), e così via. Una serie di cover affrontate con grande professionalità, e perfino una discreta intensità e trasporto, ma che non soddisfa fino in fondo chi avrebbe voluto qualcosa di veramente suo: una (altra) stagione della sua anima.
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