El hombre de tu vida - di Juan José Campanella e Marcela Guerty - Stagioni 1 e 2 (13 e 11 episodi; Telefe) - 2011/2012
Buenos Aires, Argentina. Hugo Bermùdez è un uomo tra i quaranta e i cinquanta, vedovo da diversi anni, che ha cresciuto suo figlio Franco, di 14 anni, nel miglior modo possibile. Improvvisamente, si ritrova senza lavoro, e non sa cosa fare. Disperato, accetta la proposta di sua cugina Gloria. In cosa consiste? Gloria, anche lei senza lavoro, in crisi con Romàn, l'uomo sposato col quale ha una relazione da 11 anni, ha pensato di imbastire un'agenzia di incontri. Ma si stanno prenotando solo donne, quindi ha bisogno di un uomo. Anche avendone uno, deve farselo bastare. Ecco perché, il compito di Hugo sarà quello di presentarsi ad ogni appuntamento richiesto da ogni cliente dell'agenzia, incarnare, di volta in volta, le richieste della cliente in questione, farle quasi innamorare, e, al secondo appuntamento, deluderle con qualche trucchetto, farle immediatamente disamorare. Hugo accetta, ed inizia a mettere a punto una serie di ottimi metodi per riuscire nel lavoro, che comincia ad ingranare molto bene. Ma in gioco entrano altri fattori. Si sente falso, ovviamente, e cerca aiuto spirituale. Lo trova in padre Francisco, un prete filosofo, comprensivo ma che non gli risparmia critiche bonarie. Inoltre, conosce Silvina, una delle insegnanti di Franco, una giovane deliziosa che sembra essere interessata a lui.
Potrei cavarmela pressappoco con le stesse cose che vi ho detto a proposito di Tratame bien. A dire la verità, questa novela, che grazie all'enorme successo avuto è arrivata alla seconda stagione (che si è conclusa giusto qualche settimana fa), e che è andata in onda sul canale "rivale" rispetto a quello di Tratame bien, è, a livello di contenuti, un pochino inferiore, anche se ugualmente molto divertente. Il successo ottenuto è stato tale che, pensate un po', nientemeno che HBO ne ha rilevato i diritti, per il momento per trasmetterla tale e quale in tutto il Sud America. L'attore principale al momento dice che non è prevista una terza stagione, ma, come dicono laggiù, "nunca se sabe".
L'argomento è relativamente leggero: le relazioni tra uomo e donna, anche se di volta in volta si cerca di drammatizzare, e qualche lacrimuccia può scappare, il tono rimane divertente, i dialoghi molto ben scritti, i tempi comici invidiabili. Ben studiato il "contraltare" rappresentato dai divertenti "sermoni" di padre Francisco, un personaggio che spesso tende a rubare la scena al protagonista.
Da sottolineare che l'idea è curata, oltre che dall'esperta sceneggiatrice televisiva (ma non solo, ha messo lo zampino pure nella sceneggiatura del delizioso film di qualche anno fa Elsa y Fred) Marcela Guerty, dal grande Juan José Campanella, regista premio Oscar per Il segreto dei suoi occhi, del quale era anche sceneggiatore, regista che lavora anche negli USA (Law & Order, Dr. House), e responsabile di altri film deliziosi, poco o mai visti da noi, come Il figlio della sposa, Luna de Avellaneda, El mismo amor, la misma lluvia; il suo tocco è riconoscibile.
Altro fatto di indubbio interesse, per chi ha dimestichezza con il cinema di quei posti, è la presenza di Guillermo Francella. Francella, che da noi è conosciuto esclusivamente per Il segreto dei suoi occhi, è uno dei più famosi attori argentini; molta tv, molto cinema, un po' di teatro, le sue parti sono solitamente comiche, tanto che ne Il segreto dei suoi occhi molti argentini non credevano ai loro, di occhi, vista la parte molto diversa dal solito. Eppure, questo attore è davvero bravissimo. Fa ridere, trasmette emozioni, è tremendamente espressivo: è sicuramente il valore aggiunto di questa serie. Da non sottovalutare, come detto poc'anzi, la presenza di Luis Brandoni nei panni di padre Francisco. Brandoni, attore super-esperto, è anche un politico di centro-sinistra (dell'UCR, per la precisione); il suo personaggio è davvero straordinario.
No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.
20120831
20120830
sassi
Fragili estasiati davanti al tramonto dell’umanità
Prendimi la mano ed accompagnami in questi giorni di desolazione per la nostra terra
Che ci ha sempre protetti
Che ci ha sempre amati e rispettati
Quando noi non la rispettavamo con il nostro egoismo
Tienimi la mano ti prego, madre
Chiuderemo gli occhi ed inizierà un lento che accompagnerà la bomba finale
Prendi questa mano e proteggila come fosse un tesoro
Io ho già chiuso gli occhi e sto aspettando il momento
La musica è già iniziata
I sassi rotolano e cadono sulla scarpata
La terra trema e le nostre gambe tremano con lei
Il mio cuore batte sempre più forte
Le orecchie cominciano a fischiare e il fischio si tramuta in rumore assordante
I miei nervi si stringono intorno alle ossa
La mia pelle si restringe colpita da vetusta energia
L’umanità sente il rumore di sedie a rotelle
Prendimi la mano ed accompagnami in questi giorni di desolazione per la nostra terra
Che ci ha sempre protetti
Che ci ha sempre amati e rispettati
Quando noi non la rispettavamo con il nostro egoismo
Tienimi la mano ti prego, madre
Chiuderemo gli occhi ed inizierà un lento che accompagnerà la bomba finale
Prendi questa mano e proteggila come fosse un tesoro
Io ho già chiuso gli occhi e sto aspettando il momento
La musica è già iniziata
I sassi rotolano e cadono sulla scarpata
La terra trema e le nostre gambe tremano con lei
Il mio cuore batte sempre più forte
Le orecchie cominciano a fischiare e il fischio si tramuta in rumore assordante
I miei nervi si stringono intorno alle ossa
La mia pelle si restringe colpita da vetusta energia
L’umanità sente il rumore di sedie a rotelle
senza nome
Sin nombre - di Cary Fukunaga (2009)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: ocche vita è?
Siamo in Messico. Willy, detto El Casper, è membro della gang Mara Salvatrucha, e vive a Tapachula, nel Chiapas, vicino al confine col Guatemala. Sta introducendo un ragazzino nella banda, un ragazzino che viene ribattezzato Smiley. L'iniziazione consta dapprima nel ricevere un sacco di botte, dopo di che il ragazzino deve uccidere un membro di una gang rivale. Willy aiuta Smiley, ancora titubante. Willy è innamorato di Martha Marlene, una bella ragazza dei quartieri un po' più benestanti, ed è preoccupato per la sua incolumità, tanto che tiene la sua relazione nascosta; questo fa si che su di lui ci siano dei sospetti, da parte dei capi. Ma Martha Marlene un giorno lo segue, e si fa vedere ad un raduno della gang; Lil Mago, il capo, la prende in disparte e intima Willy di fare altro. Lil Mago tenta di violentare Martha Marlene, questa si ribella, lui diventa violento e, spingendola, le fa battere la testa. La ragazza muore, e Lil Mago, dopo qualche giorno, dice laconicamente a Willy che se ne deve trovare un'altra. Willy e Smiley sono poi condotti a La Bombilla, una stazione merci dove passano i treni (appunto, merci) che i clandestini di tutto il Centro America usano per andare negli USA; i due dovranno salire sul tetto del treno per rapinare i poveracci che stanno facendo "il viaggio della speranza". Tra questi, Sayra, una ragazzina che viene dall'Honduras, insieme al padre e allo zio, che stanno tentanto di raggiungere alcuni loro familiari nel New Jersey. I tre della gang iniziano a rapinare i "passeggeri", finché Lil Mago tenta di violentare Sayra; Willy, come per evitare un déjà vu, si oppone e uccide Lil Mago, dopo di che rimane sul treno e manda via Smiley. Mentre quest'ultimo torna a fare rapporto a El Sol, un altro capo della gang, e viene poi rimandato, insieme ad altri, ad inseguire il treno per uccidere El Casper, Willy/El Casper viene avvicinato da Sayra, che noncurante dell'opposizione del padre e dello zio, lo vuole ringraziare.
Arrivato a questo film incuriosito dalla sua (di Fukunaga) versione di Jane Eyre del 2011, e naturalmente rinfrancato dal fatto che il film fosse in spagnolo, come ormai tutti saprete, mia seconda lingua, devo riconoscere che questo suo Sin nombre mi è piaciuto ancor di più dell'adattamento della Bronte. Cary Joji Fukunaga, nato a Oakland, California, da padre giapponese e madre svedese, che ha vissuto in vari luoghi del globo e parla inglese, francese e spagnolo, mi dà l'impressione di essere un regista da seguire. Questo film, prodotto da Gael García Bernal e Diego Luna, girato (e ambientato, a parte l'ultimissima scena, ma non farò spoiler) ovviamente in Messico, è al tempo stesso vibrante, toccante, interessante ed elegante. La storia si occupa di personaggi che potremmo definire "diseredati", giovani "costretti" ad unirsi alle gang dall'assenza di un tessuto sociale, come Willy/El Casper, o obbligati all'emigrazione clandestina da una povertà che è meglio chiamare miseria, come Sayra, e si snoda tra una tragedia e quella seguente senza fare sconti (fino alla fine). Descrive due fenomeni reali (quello delle gang e quello delle migrazioni sul tetto dei treni merci che partono dal sud del Messico e arrivano alla frontiera con gli USA), e li racconta con spietatezza. Il tutto è fotografato in maniera esemplare (Fukunaga nasce come direttore della fotografia), ed è per questo che mi permetto di definirlo anche "elegante". Impressionanti anche i corpi interamente tatuati dei capi dei Salvatrucha. Il cast è sconosciuto fuori dal Messico, ma chissà che qualcuno dei protagonisti non diventi un "prodotto d'esportazione". In realtà, Paulina Gaitán, la giovane interprete di Sayra, che avevamo già visto ne I figli della guerra, ha già "passato la frontiera", essendo stata nel cast di The River, serie tv ABC del 2012 cancellata dopo la prima stagione composta di 8 episodi. Molto bravo anche Edgar Flores (Willy/El Casper), molto bella Diana García (Martha Marlene).
A questo punto, non ci resta che attendere il 2013: Fukunaga è in pre-produzione come regista della serie HBO True Detectives, con nientemeno che Matthew McConaughey e Woody Harrelson nei panni di due (appunto) detective da 17 anni alle calcagna di un serial killer in Louisiana. Tanto per ribadire che la televisione ormai sta definitivamente soppiantando il buon cinema.
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: ocche vita è?
Siamo in Messico. Willy, detto El Casper, è membro della gang Mara Salvatrucha, e vive a Tapachula, nel Chiapas, vicino al confine col Guatemala. Sta introducendo un ragazzino nella banda, un ragazzino che viene ribattezzato Smiley. L'iniziazione consta dapprima nel ricevere un sacco di botte, dopo di che il ragazzino deve uccidere un membro di una gang rivale. Willy aiuta Smiley, ancora titubante. Willy è innamorato di Martha Marlene, una bella ragazza dei quartieri un po' più benestanti, ed è preoccupato per la sua incolumità, tanto che tiene la sua relazione nascosta; questo fa si che su di lui ci siano dei sospetti, da parte dei capi. Ma Martha Marlene un giorno lo segue, e si fa vedere ad un raduno della gang; Lil Mago, il capo, la prende in disparte e intima Willy di fare altro. Lil Mago tenta di violentare Martha Marlene, questa si ribella, lui diventa violento e, spingendola, le fa battere la testa. La ragazza muore, e Lil Mago, dopo qualche giorno, dice laconicamente a Willy che se ne deve trovare un'altra. Willy e Smiley sono poi condotti a La Bombilla, una stazione merci dove passano i treni (appunto, merci) che i clandestini di tutto il Centro America usano per andare negli USA; i due dovranno salire sul tetto del treno per rapinare i poveracci che stanno facendo "il viaggio della speranza". Tra questi, Sayra, una ragazzina che viene dall'Honduras, insieme al padre e allo zio, che stanno tentanto di raggiungere alcuni loro familiari nel New Jersey. I tre della gang iniziano a rapinare i "passeggeri", finché Lil Mago tenta di violentare Sayra; Willy, come per evitare un déjà vu, si oppone e uccide Lil Mago, dopo di che rimane sul treno e manda via Smiley. Mentre quest'ultimo torna a fare rapporto a El Sol, un altro capo della gang, e viene poi rimandato, insieme ad altri, ad inseguire il treno per uccidere El Casper, Willy/El Casper viene avvicinato da Sayra, che noncurante dell'opposizione del padre e dello zio, lo vuole ringraziare.
Arrivato a questo film incuriosito dalla sua (di Fukunaga) versione di Jane Eyre del 2011, e naturalmente rinfrancato dal fatto che il film fosse in spagnolo, come ormai tutti saprete, mia seconda lingua, devo riconoscere che questo suo Sin nombre mi è piaciuto ancor di più dell'adattamento della Bronte. Cary Joji Fukunaga, nato a Oakland, California, da padre giapponese e madre svedese, che ha vissuto in vari luoghi del globo e parla inglese, francese e spagnolo, mi dà l'impressione di essere un regista da seguire. Questo film, prodotto da Gael García Bernal e Diego Luna, girato (e ambientato, a parte l'ultimissima scena, ma non farò spoiler) ovviamente in Messico, è al tempo stesso vibrante, toccante, interessante ed elegante. La storia si occupa di personaggi che potremmo definire "diseredati", giovani "costretti" ad unirsi alle gang dall'assenza di un tessuto sociale, come Willy/El Casper, o obbligati all'emigrazione clandestina da una povertà che è meglio chiamare miseria, come Sayra, e si snoda tra una tragedia e quella seguente senza fare sconti (fino alla fine). Descrive due fenomeni reali (quello delle gang e quello delle migrazioni sul tetto dei treni merci che partono dal sud del Messico e arrivano alla frontiera con gli USA), e li racconta con spietatezza. Il tutto è fotografato in maniera esemplare (Fukunaga nasce come direttore della fotografia), ed è per questo che mi permetto di definirlo anche "elegante". Impressionanti anche i corpi interamente tatuati dei capi dei Salvatrucha. Il cast è sconosciuto fuori dal Messico, ma chissà che qualcuno dei protagonisti non diventi un "prodotto d'esportazione". In realtà, Paulina Gaitán, la giovane interprete di Sayra, che avevamo già visto ne I figli della guerra, ha già "passato la frontiera", essendo stata nel cast di The River, serie tv ABC del 2012 cancellata dopo la prima stagione composta di 8 episodi. Molto bravo anche Edgar Flores (Willy/El Casper), molto bella Diana García (Martha Marlene).
A questo punto, non ci resta che attendere il 2013: Fukunaga è in pre-produzione come regista della serie HBO True Detectives, con nientemeno che Matthew McConaughey e Woody Harrelson nei panni di due (appunto) detective da 17 anni alle calcagna di un serial killer in Louisiana. Tanto per ribadire che la televisione ormai sta definitivamente soppiantando il buon cinema.
20120829
You Again
Ancora tu! - di Andy Fickman (2011)
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Giudizio vernacolare: firmetto
Marni Olsen è riuscita a dare una svolta alla sua vita. Al liceo era, oltre che impopolare, il bersaglio del bullismo femminile. Era bruttina e non era una cheerleader. La principale responsabile delle angherie era Joanna Clark, la capo cheerleader. Marni, che ormai ha una brillante carriera, torna a casa per il matrimonio dell'amatissimo fratello Will, suo unico rifugio quando a scuola veniva tormentata. E' molto che non si vedono, e lei è felicissima che Will convoli a nozze. Ma quando arriva a casa, scopre che la promessa sposa è... Joanna Clark! Joanna sembra cambiata, ma Marni non è affatto convinta; si dedica quindi anima e corpo a far capire al fratellone chi è, in realtà, la perfida Joanna. Per il matrimonio, arriva pure la zia di Joanna, Ramona, sofisticatissima donna che s'è presa cura di Joanna alla morte dei genitori. E, durante il marasma dei preparativi, scopriamo che Ramona e Gail, la madre di Marni e Will, andavano a scuola assieme. E successe che...
Film statunitense della Disney, con una storiellina leggera leggera, un cast di giovani emergenti e di vecchie volpi, moralina finale e, in mezzo, colpetti di scena e tante gag telefonate. Kristen Bell (Veronica Mars) è la protagonista Marni Olsen, Jamie Lee Curtis è Gail, Sigourney Weaver è Ramona, la bella Odette Annable (Brothers & Sisters, Dr. House) è Joanna, Victor Garber (Alias) è Mark, il padre di Marni, James Wolk (Lone Star, Shameless) è Will.
Da serata televisiva, distratti al pc.
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Giudizio vernacolare: firmetto
Marni Olsen è riuscita a dare una svolta alla sua vita. Al liceo era, oltre che impopolare, il bersaglio del bullismo femminile. Era bruttina e non era una cheerleader. La principale responsabile delle angherie era Joanna Clark, la capo cheerleader. Marni, che ormai ha una brillante carriera, torna a casa per il matrimonio dell'amatissimo fratello Will, suo unico rifugio quando a scuola veniva tormentata. E' molto che non si vedono, e lei è felicissima che Will convoli a nozze. Ma quando arriva a casa, scopre che la promessa sposa è... Joanna Clark! Joanna sembra cambiata, ma Marni non è affatto convinta; si dedica quindi anima e corpo a far capire al fratellone chi è, in realtà, la perfida Joanna. Per il matrimonio, arriva pure la zia di Joanna, Ramona, sofisticatissima donna che s'è presa cura di Joanna alla morte dei genitori. E, durante il marasma dei preparativi, scopriamo che Ramona e Gail, la madre di Marni e Will, andavano a scuola assieme. E successe che...
Film statunitense della Disney, con una storiellina leggera leggera, un cast di giovani emergenti e di vecchie volpi, moralina finale e, in mezzo, colpetti di scena e tante gag telefonate. Kristen Bell (Veronica Mars) è la protagonista Marni Olsen, Jamie Lee Curtis è Gail, Sigourney Weaver è Ramona, la bella Odette Annable (Brothers & Sisters, Dr. House) è Joanna, Victor Garber (Alias) è Mark, il padre di Marni, James Wolk (Lone Star, Shameless) è Will.
Da serata televisiva, distratti al pc.
20120828
volo notturno
Nightflight - Kate Miller-Heidke (2012)
Le cose accadono per caso, a volte. Alzi la mano chi, fino ad oggi, aveva sentito parlare di Kate Miller-Heidke, trentenne di Brisbane, Australia. Io no, fino a quando non mi sono messo a guardare The Big C, la serie con Laura Linney protagonista. Alla fine di un episodio, sento un pezzo che mi piace. Non era tanto la canzone, tanto è vero che non me lo sono ricordato, finché non ho riletto il titolo su una lista che elencava la colonna sonora. Era la voce, che mi aveva colpito; e come sapete, sono sempre alla ricerca di voci femminili interessanti. Ed ecco che riesco a recuperare qualche lavoro dell'australiana, e leggo qualcosa su di lei. Kate ha cominciato relativamente tardi la sua carriera nella musica per così dire leggera: prima era una cantante classica. Questa cosa si sente chiaramente nella sua musica. Ha una voce molto bella, con un sacco di registri. Dentro la sua voce ci potete sentire Kate Bush, Tori Amos, addirittura di Liz Fraser. Spruzzate di arie celtiche somiglianti a cose di Loreena McKennitt o di Enya (Sarah, Nightflight), che sconfinano in passaggi à la Sinead O'Connor; in pochi secondi, Kate può però trasformarsi nella migliore delle folk-singer (The Tiger Inside Will Eat the Child, Fire and Iron). C'è spazio anche per qualcosa di molto vicino al pop teen-oriented (I'll Change Your Mind), ma di gran classe.
Il disco è molto bello. Lo ascolto da giorni. Come detto, è molto vario, ma ci sono un sacco di belle canzoni, seppur diverse tra di loro (il che non è necessariamente un male). La title-track ha dei momenti che fanno venire davvero i brividi. Let Me Fade a me pare meravigliosa e struggente. Anche il bonus disc ha dei bei momenti, un paio di inediti e alcune cose, anche estratti dal disco stesso, in versione live (splendida la celticissima The Devil Wears a Suit). Per curiosità, se vi dovesse piacere questo disco, recuperate il suo debutto del 2007 Little Eve, e, anche lì nel bonus disc, ascoltate la sua cover di Psycho Killer dei Talking Heads: una roba sconvolgente.
Le cose accadono per caso, a volte. Alzi la mano chi, fino ad oggi, aveva sentito parlare di Kate Miller-Heidke, trentenne di Brisbane, Australia. Io no, fino a quando non mi sono messo a guardare The Big C, la serie con Laura Linney protagonista. Alla fine di un episodio, sento un pezzo che mi piace. Non era tanto la canzone, tanto è vero che non me lo sono ricordato, finché non ho riletto il titolo su una lista che elencava la colonna sonora. Era la voce, che mi aveva colpito; e come sapete, sono sempre alla ricerca di voci femminili interessanti. Ed ecco che riesco a recuperare qualche lavoro dell'australiana, e leggo qualcosa su di lei. Kate ha cominciato relativamente tardi la sua carriera nella musica per così dire leggera: prima era una cantante classica. Questa cosa si sente chiaramente nella sua musica. Ha una voce molto bella, con un sacco di registri. Dentro la sua voce ci potete sentire Kate Bush, Tori Amos, addirittura di Liz Fraser. Spruzzate di arie celtiche somiglianti a cose di Loreena McKennitt o di Enya (Sarah, Nightflight), che sconfinano in passaggi à la Sinead O'Connor; in pochi secondi, Kate può però trasformarsi nella migliore delle folk-singer (The Tiger Inside Will Eat the Child, Fire and Iron). C'è spazio anche per qualcosa di molto vicino al pop teen-oriented (I'll Change Your Mind), ma di gran classe.
Il disco è molto bello. Lo ascolto da giorni. Come detto, è molto vario, ma ci sono un sacco di belle canzoni, seppur diverse tra di loro (il che non è necessariamente un male). La title-track ha dei momenti che fanno venire davvero i brividi. Let Me Fade a me pare meravigliosa e struggente. Anche il bonus disc ha dei bei momenti, un paio di inediti e alcune cose, anche estratti dal disco stesso, in versione live (splendida la celticissima The Devil Wears a Suit). Per curiosità, se vi dovesse piacere questo disco, recuperate il suo debutto del 2007 Little Eve, e, anche lì nel bonus disc, ascoltate la sua cover di Psycho Killer dei Talking Heads: una roba sconvolgente.
20120827
Haywire
Knockout - Resa dei conti - di Steven Soderbergh (2012)
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Giudizio vernacolare: anche con questa vi conviene un litigacci
Mallory Kane è un agente segreto donna, che lavora, per così dire, da freelance. Non dipende dal governo degli USA, né da altri, ma è spesso ingaggiata da questi per compiere i cosiddetti "lavori sporchi". Ritrovatasi coinvolta in una caccia all'uomo, anzi alla donna, internazionale, che quindi ha lei come obiettivo, la storia ripercorre al contrario come si è arrivati fin lì. E si scopre che Mallory è stata ingaggiata per essere incastrata, ma le sue abilità superiori le hanno permesso di sfuggire alla morte all'ultimo momento, a capire pian piano il perché la volevano morta, e, in una lotta senza quartiere, appunto in giro per il mondo, Mallory lotta per far fuori tutti quelli che la vogliono morta, e a salvare il padre, consulente governativo di tattiche di guerriglia.
E' da un po' di tempo che ogni film di Soderbergh ci viene presentato come l'ultimo (pare si voglia prendere una lunga pausa); il regista, che ha diretto grandi film, e altri meno grandi ma di grande successo, girandone altri ancora solo per togliersi qualche sfizio, a detta di qualcuno (e in parte posso concordare) questa volta si mette (ancora) dalla parte delle donne, così come fece con Erin Brockovich (in un modo "tradizionale") prima, e con The Girlfriend Experience (in un modo molto diverso) poi, per fare un film d'azione-barra-spy story, con una donna protagonista.
Il risultato è a due facce. Sicuramente è un film d'azione d'autore, passatemi la definizione. Niente colonna sonora, molti combattimenti nella penombra, poco montaggio (e dopo vi spiegherò perché) nelle scene di lotta, pochissimi dialoghi. Fin qui, tutto bene: queste sono le note positive o, per lo meno, quelle non negative. Ma, comunque, rimane un film d'azione, con tutto ciò che ne consegue: esagerazioni, sceneggiatura striminzita, attori sfruttati al minimo d'espressività.
In definitiva, un ibrido. A mio parere, un ennesimo "sfizio", ma che rischia d'incassare al botteghino (ma di deludere chi va a vederlo per vedere solo tante botte; ad oggi, però, i risultati non sono stati esaltanti).
Il cast vede attori notissimi, trattandosi comunque di Soderbergh che dirige. Michael Douglas (Alex Coblenz), Channing Tatum (Aaron), Antonio Banderas (Rodrigo), Ewan McGregor (Kenneth), Michael Fassbender (Paul), Mathieu Kassovitz (Studer), Bill Paxton (John, il padre di Mallory). Poi c'è la protagonista. Si tratta di Gina Carano, un reality sulla Muay thai e una comparsa in un altro film d'azione prima di questo con Soderbergh, vera campionessa di arti marziali miste e pugliato, statunitense di chiare origini italiane (quarta generazione), e (ciononostante) molto telegenica. Le abilità della Carano hanno permesso al regista di girare le scene di lotta senza ricorrere a troppo montaggio, quindi. In definitiva, Gina se la cava alla grande, e sono abbastanza sicuro che si è aperta per lei una nuova carriera. Prossimamente chiederò che ne pensa in proposito mio nipote, visto che la vedremo nel 2013 in The Fast and the Furious 6.
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Giudizio vernacolare: anche con questa vi conviene un litigacci
Mallory Kane è un agente segreto donna, che lavora, per così dire, da freelance. Non dipende dal governo degli USA, né da altri, ma è spesso ingaggiata da questi per compiere i cosiddetti "lavori sporchi". Ritrovatasi coinvolta in una caccia all'uomo, anzi alla donna, internazionale, che quindi ha lei come obiettivo, la storia ripercorre al contrario come si è arrivati fin lì. E si scopre che Mallory è stata ingaggiata per essere incastrata, ma le sue abilità superiori le hanno permesso di sfuggire alla morte all'ultimo momento, a capire pian piano il perché la volevano morta, e, in una lotta senza quartiere, appunto in giro per il mondo, Mallory lotta per far fuori tutti quelli che la vogliono morta, e a salvare il padre, consulente governativo di tattiche di guerriglia.
E' da un po' di tempo che ogni film di Soderbergh ci viene presentato come l'ultimo (pare si voglia prendere una lunga pausa); il regista, che ha diretto grandi film, e altri meno grandi ma di grande successo, girandone altri ancora solo per togliersi qualche sfizio, a detta di qualcuno (e in parte posso concordare) questa volta si mette (ancora) dalla parte delle donne, così come fece con Erin Brockovich (in un modo "tradizionale") prima, e con The Girlfriend Experience (in un modo molto diverso) poi, per fare un film d'azione-barra-spy story, con una donna protagonista.
Il risultato è a due facce. Sicuramente è un film d'azione d'autore, passatemi la definizione. Niente colonna sonora, molti combattimenti nella penombra, poco montaggio (e dopo vi spiegherò perché) nelle scene di lotta, pochissimi dialoghi. Fin qui, tutto bene: queste sono le note positive o, per lo meno, quelle non negative. Ma, comunque, rimane un film d'azione, con tutto ciò che ne consegue: esagerazioni, sceneggiatura striminzita, attori sfruttati al minimo d'espressività.
In definitiva, un ibrido. A mio parere, un ennesimo "sfizio", ma che rischia d'incassare al botteghino (ma di deludere chi va a vederlo per vedere solo tante botte; ad oggi, però, i risultati non sono stati esaltanti).
Il cast vede attori notissimi, trattandosi comunque di Soderbergh che dirige. Michael Douglas (Alex Coblenz), Channing Tatum (Aaron), Antonio Banderas (Rodrigo), Ewan McGregor (Kenneth), Michael Fassbender (Paul), Mathieu Kassovitz (Studer), Bill Paxton (John, il padre di Mallory). Poi c'è la protagonista. Si tratta di Gina Carano, un reality sulla Muay thai e una comparsa in un altro film d'azione prima di questo con Soderbergh, vera campionessa di arti marziali miste e pugliato, statunitense di chiare origini italiane (quarta generazione), e (ciononostante) molto telegenica. Le abilità della Carano hanno permesso al regista di girare le scene di lotta senza ricorrere a troppo montaggio, quindi. In definitiva, Gina se la cava alla grande, e sono abbastanza sicuro che si è aperta per lei una nuova carriera. Prossimamente chiederò che ne pensa in proposito mio nipote, visto che la vedremo nel 2013 in The Fast and the Furious 6.
20120826
giovani in rivolta
Youth in Revolt - di Miguel Arteta (2009)
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: firmettino
Nick Twisp è un adolescente molto timido, che vive a Oakland, California, insieme alla madre Estelle, e al di lei fidanzato Jerry. Jerry vive di espedienti, e quando alcuni marinai bussano cassa da lui per un affare andato male, i tre si trasferiscono momentaneamente in un camping a Clearlake. Lì, Nick conosce Sheeni, un'altra adolescente, che però a dispetto di lui è molto smaliziata. Nonostante sia fidanzata con Trent, e che i suoi genitori siano piuttosto bigotti, tra i due nasce una storia, e Nick ne rimane stregato, essendo la sua prima volta. Quando Jerry deve tornare a Oakland, e quindi riporta Nick e la madre indietro, l'idea è che Sheeni trovi un lavoro lì vicino per il padre di Nick, George, e che Nick stesso si faccia cacciare di casa dalla madre per poter andare a vivere col padre, e rimanere vicino a Sheeni. E' in questo momento che Nick, per emanciparsi e vivere la sua vita, crea un alter ego di nome Francois Dillinger, un piantagrane-quasi-gangster, per ribellarsi e vivere il suo amore. Jerry muore, e Estelle si fidanza subito dopo con Lance, un poliziotto del luogo. Le cose si complicano ma Nick, sotto l'influenza di Francois, non desiste dal suo piano, che incontrerà ancora molti ostacoli.
Sceneggiato da Gustin Nash, sulla base del libro omonimo di C.D. Payne, Youth in Revolt è un film carino, movimentato, divertente, onirico, con inserti a disegni animati, con molti tratti esagerati e surreali, e una trama complessa, con ripetuti colpi di scena, così come ogni grande storia d'amore cinematografica che si rispetti. Riesce difficile da credere ed è francamente esagerato, ma ha una direzione buona e ritmata, e un cast fatto da giovani star ed esperti caratteristi che alla fine, regala un'ora e mezzo di sano divertimento senza nessuna sottotrama e nessun messaggio tra le righe.
Michael Cera è Nick (e pure Francois, naturalmente), l'angelica Portia Doubleday è Sheeni, Justin Long è Paul, il fratello di Sheeni, Rooney Mara è Taggarty, una compagna di collegio. Zach Galifianakis, sempre molto divertente, è Jerry, Steve Buscemi è George, il padre di Nick, Fred Willard (235 film all'attivo!) è Mr. Ferguson, Ari Graynor (Fringe) è Lacey, la fidanzata di George, Ray Liotta è Lance il poliziotto, i genitori di Sheeni sono interpretati da M. Emmet Walsh e da Mary Kay Place.
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: firmettino
Nick Twisp è un adolescente molto timido, che vive a Oakland, California, insieme alla madre Estelle, e al di lei fidanzato Jerry. Jerry vive di espedienti, e quando alcuni marinai bussano cassa da lui per un affare andato male, i tre si trasferiscono momentaneamente in un camping a Clearlake. Lì, Nick conosce Sheeni, un'altra adolescente, che però a dispetto di lui è molto smaliziata. Nonostante sia fidanzata con Trent, e che i suoi genitori siano piuttosto bigotti, tra i due nasce una storia, e Nick ne rimane stregato, essendo la sua prima volta. Quando Jerry deve tornare a Oakland, e quindi riporta Nick e la madre indietro, l'idea è che Sheeni trovi un lavoro lì vicino per il padre di Nick, George, e che Nick stesso si faccia cacciare di casa dalla madre per poter andare a vivere col padre, e rimanere vicino a Sheeni. E' in questo momento che Nick, per emanciparsi e vivere la sua vita, crea un alter ego di nome Francois Dillinger, un piantagrane-quasi-gangster, per ribellarsi e vivere il suo amore. Jerry muore, e Estelle si fidanza subito dopo con Lance, un poliziotto del luogo. Le cose si complicano ma Nick, sotto l'influenza di Francois, non desiste dal suo piano, che incontrerà ancora molti ostacoli.
Sceneggiato da Gustin Nash, sulla base del libro omonimo di C.D. Payne, Youth in Revolt è un film carino, movimentato, divertente, onirico, con inserti a disegni animati, con molti tratti esagerati e surreali, e una trama complessa, con ripetuti colpi di scena, così come ogni grande storia d'amore cinematografica che si rispetti. Riesce difficile da credere ed è francamente esagerato, ma ha una direzione buona e ritmata, e un cast fatto da giovani star ed esperti caratteristi che alla fine, regala un'ora e mezzo di sano divertimento senza nessuna sottotrama e nessun messaggio tra le righe.
Michael Cera è Nick (e pure Francois, naturalmente), l'angelica Portia Doubleday è Sheeni, Justin Long è Paul, il fratello di Sheeni, Rooney Mara è Taggarty, una compagna di collegio. Zach Galifianakis, sempre molto divertente, è Jerry, Steve Buscemi è George, il padre di Nick, Fred Willard (235 film all'attivo!) è Mr. Ferguson, Ari Graynor (Fringe) è Lacey, la fidanzata di George, Ray Liotta è Lance il poliziotto, i genitori di Sheeni sono interpretati da M. Emmet Walsh e da Mary Kay Place.
20120825
nuotare solo
Nadar solo - di Ezequiel Acuna (2003)
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: succede po'o
Martìn è un diciassettenne che è nato e cresciuto a Buenos Aires. Sta per terminare la scuola superiore, non ha idea sull'università che vuole frequentare e se la vuole davvero frequentare. Ha un rapporto distante con i genitori, appartengono a mondi completamente differenti. Ma Martìn si sta allontanando anche dai suoi amici storici, e la sua band, vagamente emo, non va come vorrebbe. Improvvisamente, Martìn riceve notizie di suo fratello più grande, Pablo, scomparso già da qualche anno. E, come se fosse l'unica cosa che gli interessa, dopo qualche titubanza, si mette sulle sue tracce, e si reca a Mar del Plata. E lì conosce Luciana, la sorella di Lucas, un amico di Pablo.
Ecco, in pratica vi ho raccontato l'intero film. Nadar solo è il primo lungometraggio dell'argentino Acuna, prodotto e sostenuto dall'inossidabile coppia Daniel Burman/Diego Dubcovsky (che, evidentemente, ci hanno visto qualcosa). Di lui vi ho già parlato in occasione di Como un aviòn estrellado, suo secondo film, che mi ha incuriosito tanto da guardare l'intera sua produzione (che, fortunatamente, al momento conta solo tre film). Questo suo debutto, con le ovvie ingenuità del caso, denota una ricerca poetica eseguita per sottrazione, che ha il suo fascino. Almeno, per noi cinefili dilettanti, o aspiranti tali; per tutti quelli che non si fanno completamente abbindolare dal fascino dell'americanata, intesa come spettacolarizzazione di qualunque storia.
Tra gli interpreti, Santiago Pedrero (Guille), che ritroveremo negli altri due film di Acuna, Mònica Gàlan (la madre di Martìn), attrice argentina di vasta esperienza, l'ottima Antonella Costa (Luciana), italiana di nascita ma emigrata in Argentina all'età di quattro anni, vista anche in Garage Olimpo e Figli/Hijos di Marco Bechis, ne La fuga e ne I diari della motocicletta, e Tomàs Fonzi (Tomàs), visto in Kamchatka, Nove regine e Una noche con Sabrina Love.
Un film delicato, che è al confine dell'impalpabilità.
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: succede po'o
Martìn è un diciassettenne che è nato e cresciuto a Buenos Aires. Sta per terminare la scuola superiore, non ha idea sull'università che vuole frequentare e se la vuole davvero frequentare. Ha un rapporto distante con i genitori, appartengono a mondi completamente differenti. Ma Martìn si sta allontanando anche dai suoi amici storici, e la sua band, vagamente emo, non va come vorrebbe. Improvvisamente, Martìn riceve notizie di suo fratello più grande, Pablo, scomparso già da qualche anno. E, come se fosse l'unica cosa che gli interessa, dopo qualche titubanza, si mette sulle sue tracce, e si reca a Mar del Plata. E lì conosce Luciana, la sorella di Lucas, un amico di Pablo.
Ecco, in pratica vi ho raccontato l'intero film. Nadar solo è il primo lungometraggio dell'argentino Acuna, prodotto e sostenuto dall'inossidabile coppia Daniel Burman/Diego Dubcovsky (che, evidentemente, ci hanno visto qualcosa). Di lui vi ho già parlato in occasione di Como un aviòn estrellado, suo secondo film, che mi ha incuriosito tanto da guardare l'intera sua produzione (che, fortunatamente, al momento conta solo tre film). Questo suo debutto, con le ovvie ingenuità del caso, denota una ricerca poetica eseguita per sottrazione, che ha il suo fascino. Almeno, per noi cinefili dilettanti, o aspiranti tali; per tutti quelli che non si fanno completamente abbindolare dal fascino dell'americanata, intesa come spettacolarizzazione di qualunque storia.
Tra gli interpreti, Santiago Pedrero (Guille), che ritroveremo negli altri due film di Acuna, Mònica Gàlan (la madre di Martìn), attrice argentina di vasta esperienza, l'ottima Antonella Costa (Luciana), italiana di nascita ma emigrata in Argentina all'età di quattro anni, vista anche in Garage Olimpo e Figli/Hijos di Marco Bechis, ne La fuga e ne I diari della motocicletta, e Tomàs Fonzi (Tomàs), visto in Kamchatka, Nove regine e Una noche con Sabrina Love.
Un film delicato, che è al confine dell'impalpabilità.
20120824
aspettando il Messia
Esperando al mesìas - di Daniel Burman (2000)
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: ce n'hanno uno d'arti'oli l'ebrei
Buenos Aires, Argentina, barrio Once, a maggioranza ebraica. E' il 1999, l'era Menem sta volgendo al termine e si vede. Ariel Goldstein è un giovane, ma non giovanissimo, di famiglia ebraica, che lavora come montatore di video, o riprendendo cerimonie ebraiche. E' incerto su tutto, sulla fede, sulle donne, sul suo futuro. Estela, una ragazza ebrea che aiuta il di lui padre Simòn nel suo negozio, gli muore dietro, ma lui non si decide. Conoscere Laura, una giornalista bisessuale con la quale gli capita di lavorare per un periodo, gli incasina ancora di più le idee. Nel frattempo, Santamarìa, un bancario di mezza età, perde il lavoro, la casa, tutto quanto. Per sopravvivere si inventa espedienti, anche piuttosto divertenti, dorme dove capita, si lava nei bagni di una stazione. Lì, conosce Elsa, l'addetta alle pulizie.
Secondo film di Burman, una co-produzione con l'Italia che infatti vede nel cast due attrici italiane. E' anche il primo "pezzo" della "trilogia di Ariel", insieme a El abrazo partido - L'abbraccio perduto e a Derecho de familia. Sicuramente acerbo, poco amalgamato, ma coraggioso sicuramente, divertente e, al tempo stesso, fonte di riflessione. Una specie di film corale, anche se il fulcro rimane il protagonista (il cui nome è ovviamente Ariel), ma che, con grande tempestività, col personaggio di Santamarìa affronta la crisi galoppante, unita alla disgregazione della società argentina. Non troppo convincenti le prove del cast, anche se Daniel Hendler (Ariel) ed Enrique Pineyro (Santamarìa) sono bravi. C'è anche Héctor Alterio nei panni di Simòn, il padre di Ariel. Le due attrici italiane citate poc'anzi sono Stefania Sandrelli, che interpreta Elsa, e Chiara Caselli, nei panni di Laura.
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: ce n'hanno uno d'arti'oli l'ebrei
Buenos Aires, Argentina, barrio Once, a maggioranza ebraica. E' il 1999, l'era Menem sta volgendo al termine e si vede. Ariel Goldstein è un giovane, ma non giovanissimo, di famiglia ebraica, che lavora come montatore di video, o riprendendo cerimonie ebraiche. E' incerto su tutto, sulla fede, sulle donne, sul suo futuro. Estela, una ragazza ebrea che aiuta il di lui padre Simòn nel suo negozio, gli muore dietro, ma lui non si decide. Conoscere Laura, una giornalista bisessuale con la quale gli capita di lavorare per un periodo, gli incasina ancora di più le idee. Nel frattempo, Santamarìa, un bancario di mezza età, perde il lavoro, la casa, tutto quanto. Per sopravvivere si inventa espedienti, anche piuttosto divertenti, dorme dove capita, si lava nei bagni di una stazione. Lì, conosce Elsa, l'addetta alle pulizie.
Secondo film di Burman, una co-produzione con l'Italia che infatti vede nel cast due attrici italiane. E' anche il primo "pezzo" della "trilogia di Ariel", insieme a El abrazo partido - L'abbraccio perduto e a Derecho de familia. Sicuramente acerbo, poco amalgamato, ma coraggioso sicuramente, divertente e, al tempo stesso, fonte di riflessione. Una specie di film corale, anche se il fulcro rimane il protagonista (il cui nome è ovviamente Ariel), ma che, con grande tempestività, col personaggio di Santamarìa affronta la crisi galoppante, unita alla disgregazione della società argentina. Non troppo convincenti le prove del cast, anche se Daniel Hendler (Ariel) ed Enrique Pineyro (Santamarìa) sono bravi. C'è anche Héctor Alterio nei panni di Simòn, il padre di Ariel. Le due attrici italiane citate poc'anzi sono Stefania Sandrelli, che interpreta Elsa, e Chiara Caselli, nei panni di Laura.
20120823
rompere l'incantesimo
Break the Spell - Daughtry (2011)
Daughtry, la band, rappresentano uno dei miei antidoti a quella sorta di nerditudine che abita l'amante di musica che è in me. In realtà, non so se il neologismo nerditudine riesca perfettamente a definire quello che voglio dire. E cioè che noi che pensiamo di amare la musica rock di un certo livello, andiamo sempre a cercare qualcosa di complicato. Spesso sono cose che danno un po' di soddisfazione, ma che richiedono un minimo di impegno: sono cose non immediatamente di impatto. Spero di essere riuscito a spiegarmi.
Torniamo a, o meglio ai Daughtry (ci tengono a sottolineare che, nonostante portino il cognome del cantante/leader/fondatore nonché quarto classificato ad American Idol 5 negli USA, e che ricevette anche offerte di "lavoro", nello specifico dai Fuel). Li avevo lasciati a Leave This Town nel 2009, e li ritrovo, con un po' di ritardo, con questo Break the Spell, uscito a fine novembre 2011. Niente di troppo diverso, rispetto al disco del 2009, e quindi un disco molto vicino allo stile arena-rock-post-grunge-melodic-oriented dei Nickelback, band di cui soprattutto Chris (Daughtry) è grande ammiratore (ha scritto pure diversi pezzi con Chad Kroeger, presenti sul disco precedente). I Daughtry, però, personalmente mi sembrano, non so come dire, più spontanei, e quindi alternano bei pezzi "col cuore in mano", ad altri tirati e leggermente meno pacchiani dell'ultima produzione Nickelback. Insomma, mi piacciono di più, almeno in questi ultimi anni, mi gasano, mi affascina la loro apparente semplicità di songwriting sempre a cavallo dell'ovvio, ma che spesso arriva dritta e fa centro, senza necessitare di (vedi sopra) troppe elaborazioni. In questo ultimo lavoro sembrano prevalere le ballads, o almeno presunte tali, come Crawling Back to You, Start of Something Good, Crazy, Gone Too Soon, Losing My Mind, Rescue Me, e, sulla versione Deluxe, Who's They, Everything But Me, e l'acustica Lullaby. Potrebbe sembrare un disco lagnoso, ma non lo è: molti di questi pezzi sono sostenuti da suoni di chitarra taglienti quanto basta per non farvi addormentare, e da gran belle melodie. Non preoccupatevi, e ricordate che è sempre meglio una rock ballad iper-classica (ma con ritornello "sostenuto") come, per esempio, We're Not Gonna Fall, rispetto ad un up-tempo pacchiano quale Outta My Head, probabilmente il peggior pezzo del disco.
Daughtry, la band, rappresentano uno dei miei antidoti a quella sorta di nerditudine che abita l'amante di musica che è in me. In realtà, non so se il neologismo nerditudine riesca perfettamente a definire quello che voglio dire. E cioè che noi che pensiamo di amare la musica rock di un certo livello, andiamo sempre a cercare qualcosa di complicato. Spesso sono cose che danno un po' di soddisfazione, ma che richiedono un minimo di impegno: sono cose non immediatamente di impatto. Spero di essere riuscito a spiegarmi.
Torniamo a, o meglio ai Daughtry (ci tengono a sottolineare che, nonostante portino il cognome del cantante/leader/fondatore nonché quarto classificato ad American Idol 5 negli USA, e che ricevette anche offerte di "lavoro", nello specifico dai Fuel). Li avevo lasciati a Leave This Town nel 2009, e li ritrovo, con un po' di ritardo, con questo Break the Spell, uscito a fine novembre 2011. Niente di troppo diverso, rispetto al disco del 2009, e quindi un disco molto vicino allo stile arena-rock-post-grunge-melodic-oriented dei Nickelback, band di cui soprattutto Chris (Daughtry) è grande ammiratore (ha scritto pure diversi pezzi con Chad Kroeger, presenti sul disco precedente). I Daughtry, però, personalmente mi sembrano, non so come dire, più spontanei, e quindi alternano bei pezzi "col cuore in mano", ad altri tirati e leggermente meno pacchiani dell'ultima produzione Nickelback. Insomma, mi piacciono di più, almeno in questi ultimi anni, mi gasano, mi affascina la loro apparente semplicità di songwriting sempre a cavallo dell'ovvio, ma che spesso arriva dritta e fa centro, senza necessitare di (vedi sopra) troppe elaborazioni. In questo ultimo lavoro sembrano prevalere le ballads, o almeno presunte tali, come Crawling Back to You, Start of Something Good, Crazy, Gone Too Soon, Losing My Mind, Rescue Me, e, sulla versione Deluxe, Who's They, Everything But Me, e l'acustica Lullaby. Potrebbe sembrare un disco lagnoso, ma non lo è: molti di questi pezzi sono sostenuti da suoni di chitarra taglienti quanto basta per non farvi addormentare, e da gran belle melodie. Non preoccupatevi, e ricordate che è sempre meglio una rock ballad iper-classica (ma con ritornello "sostenuto") come, per esempio, We're Not Gonna Fall, rispetto ad un up-tempo pacchiano quale Outta My Head, probabilmente il peggior pezzo del disco.
20120822
senza limiti
Limitless - di Neil Burger (2011)
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Giudizio vernacolare: dove la vendano?
New York. Eddie Morra è uno scrittore, ma è pigro, scoglionato, in crisi. Probabilmente è pure incapace. Non ha un soldo. La fidanzata lo molla. E' sull'orlo del suicidio. Disperato, incontra per caso il fratello della sua ex. E scopre che sta sperimentando un nuovo farmaco, l'NZT. E lo prende. E' miracoloso, incredibile. La mente lavora al cento per cento, forse di più. Le capacità di apprendimento di Eddie diventano sorprendenti, si ricorda qualsiasi cosa, diventa creativo, irresistibile per chiunque. In poco tempo, aiuta la moglie del padrone di casa, che era andata da lui per farsi pagare l'affitto arretrato o per sfrattarlo, a scrivere un saggio per la di lei università, a scoparla, a scrivere quasi tutto il libro che non aveva mai cominciato, a tirare a lucido la sua casa. Ma la mattina seguente, l'effetto è svanito. Si mette in cerca di una nuova dose, e capita in casa di quello che gliel'ha fornita il giorno precedente, che però è stato ucciso. Riesce a recuperare una scorta considerevole, senza dover rendere conto a nessuno. La vita di Eddie cambia radicalmente: non solo diventa un grande scrittore, ma si accorge che, oltre a poter imparare una lingua straniera solo ascoltandola, o a suonare uno strumento in poche ore, può capire meglio di chiunque altro i meccanismi dell'alta finanza. E comincia a fare montagne di soldi. Ovviamente, se ne accorgono in molti.
Tratto dal libro The Dark Fields, dell'irlandese Alan Glynn, Limitless mi è parso decisamente un'occasione sprecata. L'incipit è molto interessante, ma sia il proseguimento, sia lo svolgimento, che le prove del cast, che pure è di tutto rispetto, sono deludenti. La storia diventa intricata, forse troppo, e tutto diventa pesante, scorre male, sembra che il film duri una vita, anziché meno di due ore. Una grande intuizione, dall'ottimo potenziale, si va a impantanare in una sorta di action movie di serie B. Il protagonista, Bradley Cooper (Eddie Morra), continua a sembrarmi non abbastanza carismatico per reggere un film. E non basta una piccola parte di Robert De Niro (Carl Van Loon), o la deliziosa Abby Cornish (Lindy), per rendere Limitless un film interessante.
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Giudizio vernacolare: dove la vendano?
New York. Eddie Morra è uno scrittore, ma è pigro, scoglionato, in crisi. Probabilmente è pure incapace. Non ha un soldo. La fidanzata lo molla. E' sull'orlo del suicidio. Disperato, incontra per caso il fratello della sua ex. E scopre che sta sperimentando un nuovo farmaco, l'NZT. E lo prende. E' miracoloso, incredibile. La mente lavora al cento per cento, forse di più. Le capacità di apprendimento di Eddie diventano sorprendenti, si ricorda qualsiasi cosa, diventa creativo, irresistibile per chiunque. In poco tempo, aiuta la moglie del padrone di casa, che era andata da lui per farsi pagare l'affitto arretrato o per sfrattarlo, a scrivere un saggio per la di lei università, a scoparla, a scrivere quasi tutto il libro che non aveva mai cominciato, a tirare a lucido la sua casa. Ma la mattina seguente, l'effetto è svanito. Si mette in cerca di una nuova dose, e capita in casa di quello che gliel'ha fornita il giorno precedente, che però è stato ucciso. Riesce a recuperare una scorta considerevole, senza dover rendere conto a nessuno. La vita di Eddie cambia radicalmente: non solo diventa un grande scrittore, ma si accorge che, oltre a poter imparare una lingua straniera solo ascoltandola, o a suonare uno strumento in poche ore, può capire meglio di chiunque altro i meccanismi dell'alta finanza. E comincia a fare montagne di soldi. Ovviamente, se ne accorgono in molti.
Tratto dal libro The Dark Fields, dell'irlandese Alan Glynn, Limitless mi è parso decisamente un'occasione sprecata. L'incipit è molto interessante, ma sia il proseguimento, sia lo svolgimento, che le prove del cast, che pure è di tutto rispetto, sono deludenti. La storia diventa intricata, forse troppo, e tutto diventa pesante, scorre male, sembra che il film duri una vita, anziché meno di due ore. Una grande intuizione, dall'ottimo potenziale, si va a impantanare in una sorta di action movie di serie B. Il protagonista, Bradley Cooper (Eddie Morra), continua a sembrarmi non abbastanza carismatico per reggere un film. E non basta una piccola parte di Robert De Niro (Carl Van Loon), o la deliziosa Abby Cornish (Lindy), per rendere Limitless un film interessante.
20120821
esche
Esche vive - di Fabio Genovesi (2011)
Muglione, Pisa (è fittizio). Un paese, un posto, nel mezzo a una piana, non lontana dal mare (ma quanto basta), ma invece persa in mezzo a fossi maleodoranti. Tre persone, tremendamente diverse tra di loro, vivono qui. Fiorenzo. Diciotto anni, circa. Gli manca una mano. L'ha persa anni prima, per uno stupido incidente. Ha due grandi passioni: la musica heavy metal e la pesca. E' il cantante dei Metal Devastation, e per loro si avvicina un concerto importantissimo. La passione per la pesca l'ha ereditata da suo padre, che ha pure un negozio di articoli per questo particolare sport; suo padre è il suo unico genitore, la madre è morta qualche anno prima, e gli manca moltissimo. Invece, lui non manca al padre: il padre, ex ciclista, è tutto concentrato sul Campioncino. Ecco il secondo personaggio. Sedici anni, proveniente da un paesino del Molise, dove appunto il padre di Fiorenzo l'ha scovato per caso. Vince gare su gare, senza neppure impegnarsi troppo. Un piccolo campione, difatti. Nessuno però riesce a capire cos'ha dentro. A Fiorenzo, ovviamente, non gliene frega un cazzo. Per ultima, Tiziana. Trent'anni, bella senza rendersene conto, a Muglione c'è nata anche lei, ma da Muglione è fuggita subito dopo il liceo. Si è laureata, poi ha fatto un master all'estero, le si sono spalancate favolose opportunità di lavoro, ha conosciuto persone fantastiche, intelligenti, interessanti, meritevoli. E invece, lei è tornata a Muglione. Per mettere le sue competenze al servizio della comunità che le ha dato i natali. In realtà, per lavorare all'Informagiovani, che di giovani non ne vede nessuno, e diventa immediatamente un ritrovo di vecchi, che giocano a carte e bevono gottini di vino.
Sarà che mi sta simpatico. Sarà che è toscano. Sarà che ama la musica. Sarà come sarà, ma ho letto tre libri del Genovesi, e ci fosse stata una riga che non m'è piaciuta. E sono sicuro che non mi darete retta, che capirete che ovviamente questa recensione non è imparziale, e quindi non leggerete questo libro. Beh, cazzi vostri: non sapete cosa vi perdete. Ancor più che in Versilia Rock City, Genovesi intreccia storie con grande sapienza, stupisce, commuove, risveglia istinti reconditi nel lettore, quelli della giovinezza, quelli dell'infanzia, quelli dei legami familiari. Ti fa persino amare la pesca, a me che non è mai piaciuta, per lo meno, lo ha fatto. Riesce a raccontare una bella, bellissima storia d'amore, senza risultare sdolcinato, mieloso, ripieno di melassa o di cuoricini, senza lucchetti a Ponte Milvio. O anche a descrivere una mutilazione senza nemmeno provare a farti provare compassione o pietà per il personaggio mutilato. Messa così, sembrerebbe un libro serio serio. E invece fa anche molto ridere. Ma molto.
Per finire, non guasta il fatto che la storia sia ben piantata in questa Italia. Con pochi tocchi. Non è poco.
Un bel libro. Un bravo raccontatore di storie.
Muglione, Pisa (è fittizio). Un paese, un posto, nel mezzo a una piana, non lontana dal mare (ma quanto basta), ma invece persa in mezzo a fossi maleodoranti. Tre persone, tremendamente diverse tra di loro, vivono qui. Fiorenzo. Diciotto anni, circa. Gli manca una mano. L'ha persa anni prima, per uno stupido incidente. Ha due grandi passioni: la musica heavy metal e la pesca. E' il cantante dei Metal Devastation, e per loro si avvicina un concerto importantissimo. La passione per la pesca l'ha ereditata da suo padre, che ha pure un negozio di articoli per questo particolare sport; suo padre è il suo unico genitore, la madre è morta qualche anno prima, e gli manca moltissimo. Invece, lui non manca al padre: il padre, ex ciclista, è tutto concentrato sul Campioncino. Ecco il secondo personaggio. Sedici anni, proveniente da un paesino del Molise, dove appunto il padre di Fiorenzo l'ha scovato per caso. Vince gare su gare, senza neppure impegnarsi troppo. Un piccolo campione, difatti. Nessuno però riesce a capire cos'ha dentro. A Fiorenzo, ovviamente, non gliene frega un cazzo. Per ultima, Tiziana. Trent'anni, bella senza rendersene conto, a Muglione c'è nata anche lei, ma da Muglione è fuggita subito dopo il liceo. Si è laureata, poi ha fatto un master all'estero, le si sono spalancate favolose opportunità di lavoro, ha conosciuto persone fantastiche, intelligenti, interessanti, meritevoli. E invece, lei è tornata a Muglione. Per mettere le sue competenze al servizio della comunità che le ha dato i natali. In realtà, per lavorare all'Informagiovani, che di giovani non ne vede nessuno, e diventa immediatamente un ritrovo di vecchi, che giocano a carte e bevono gottini di vino.
Sarà che mi sta simpatico. Sarà che è toscano. Sarà che ama la musica. Sarà come sarà, ma ho letto tre libri del Genovesi, e ci fosse stata una riga che non m'è piaciuta. E sono sicuro che non mi darete retta, che capirete che ovviamente questa recensione non è imparziale, e quindi non leggerete questo libro. Beh, cazzi vostri: non sapete cosa vi perdete. Ancor più che in Versilia Rock City, Genovesi intreccia storie con grande sapienza, stupisce, commuove, risveglia istinti reconditi nel lettore, quelli della giovinezza, quelli dell'infanzia, quelli dei legami familiari. Ti fa persino amare la pesca, a me che non è mai piaciuta, per lo meno, lo ha fatto. Riesce a raccontare una bella, bellissima storia d'amore, senza risultare sdolcinato, mieloso, ripieno di melassa o di cuoricini, senza lucchetti a Ponte Milvio. O anche a descrivere una mutilazione senza nemmeno provare a farti provare compassione o pietà per il personaggio mutilato. Messa così, sembrerebbe un libro serio serio. E invece fa anche molto ridere. Ma molto.
Per finire, non guasta il fatto che la storia sia ben piantata in questa Italia. Con pochi tocchi. Non è poco.
Un bel libro. Un bravo raccontatore di storie.
20120820
inferno e ritorno
Hell and Back Again - di Danfung Dennis (2011)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: o come saranno l'ameri'ani?
Il sergente dei Marines Nathan Harris è stato in Afghanistan. Comandava degli uomini, e se la cavava pure bene. Ma durante una perlustrazione, venne colpito da un cecchino. La ferita si rivelò piuttosto grave, e lo costrinse a una lunga e dolorosa convalescenza. Per non parlare della sindrome da stress post traumatico. A casa, naturalmente, con la moglie Ashley, la sua fidanzata del liceo, che lo accudiva amorevolmente.
Danfung Dennis era un fotoreporter embedded e seguiva la compagnia dove stava Harris; si era portato dietro anche delle telecamere. Ma poi ha deciso di "tornare a casa" con Harris.
Hell and Back Again è il primo lavoro cinematografico di Danfung Dennis, ed è stato nella cinquina dei candidati all'Oscar per il miglior documentario lo scorso anno. Ho letto recensioni che lo esaltavano, una addirittura lo definiva il miglior film di guerra del 2011. Probabilmente, essendo tutte recensioni inglesi e statunitensi, potrebbero essere leggermente falsate da una sorta di contorto spirito cameratesco da alleati. Ma in questo strano documentario, c'è sicuramente qualcosa. L'alternarsi delle riprese che raccontano la convalescenza e la vita di tutti i giorni del soldato Harris, con quelle del suo "lavoro" in Afghanistan, creano uno strano corto circuito.
La parte afgana non è in realtà un film di guerra. Si vedono trattative, soprattutto di Harris con contadini afgani, e non si vede mai il "nemico". Harris sembra un ottimo soldato, fa bene il suo lavoro, una persona intelligente. Si capiscono, tra l'altro, molte cose su quella guerra vista dalla parte dei civili. A casa, Harris sembra un bambino, anche un po' sciroccato. Il matrimonio con Ashley sembra reggersi in piedi con difficoltà, anche se c'è una certa tenerezza. La sola cosa che sembra saper far bene Harris è la guerra. Perfino se usa un videogioco, spara (Call of Duty 4). E si trastulla pericolosamente con la sua pistola. Mai come con questo film, ci si rende conto che la realtà statunitense è così differente dalla nostra. Chissà se riusciremo mai a capirci davvero. Anche se è difficile rimanere impassibili davanti alla sequenza dell'omaggio ai caduti.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: o come saranno l'ameri'ani?
Il sergente dei Marines Nathan Harris è stato in Afghanistan. Comandava degli uomini, e se la cavava pure bene. Ma durante una perlustrazione, venne colpito da un cecchino. La ferita si rivelò piuttosto grave, e lo costrinse a una lunga e dolorosa convalescenza. Per non parlare della sindrome da stress post traumatico. A casa, naturalmente, con la moglie Ashley, la sua fidanzata del liceo, che lo accudiva amorevolmente.
Danfung Dennis era un fotoreporter embedded e seguiva la compagnia dove stava Harris; si era portato dietro anche delle telecamere. Ma poi ha deciso di "tornare a casa" con Harris.
Hell and Back Again è il primo lavoro cinematografico di Danfung Dennis, ed è stato nella cinquina dei candidati all'Oscar per il miglior documentario lo scorso anno. Ho letto recensioni che lo esaltavano, una addirittura lo definiva il miglior film di guerra del 2011. Probabilmente, essendo tutte recensioni inglesi e statunitensi, potrebbero essere leggermente falsate da una sorta di contorto spirito cameratesco da alleati. Ma in questo strano documentario, c'è sicuramente qualcosa. L'alternarsi delle riprese che raccontano la convalescenza e la vita di tutti i giorni del soldato Harris, con quelle del suo "lavoro" in Afghanistan, creano uno strano corto circuito.
La parte afgana non è in realtà un film di guerra. Si vedono trattative, soprattutto di Harris con contadini afgani, e non si vede mai il "nemico". Harris sembra un ottimo soldato, fa bene il suo lavoro, una persona intelligente. Si capiscono, tra l'altro, molte cose su quella guerra vista dalla parte dei civili. A casa, Harris sembra un bambino, anche un po' sciroccato. Il matrimonio con Ashley sembra reggersi in piedi con difficoltà, anche se c'è una certa tenerezza. La sola cosa che sembra saper far bene Harris è la guerra. Perfino se usa un videogioco, spara (Call of Duty 4). E si trastulla pericolosamente con la sua pistola. Mai come con questo film, ci si rende conto che la realtà statunitense è così differente dalla nostra. Chissà se riusciremo mai a capirci davvero. Anche se è difficile rimanere impassibili davanti alla sequenza dell'omaggio ai caduti.
20120819
chez jumbolò
Cous cous e chili con carne, crema di piselli e verdure lesse
Mentre nel pentolino preparate la manata di cous cous precotto come nella ricetta precedente, mettete nel forno a microonde la verdura lessa congelata. Nel frullatore piccolo mettete mezza lattina di piselli da 160 gr. scolati e tritate sommariamente: ne uscirà una sorta di crema. Mentre le verdure sono cotte e il cous cous è quasi pronto, scaldate mezza lattina di chili con carne della Casa Fiesta insieme alla crema di piselli. Disponete nel piatto, mettete un filo d'olio sul cous cous, le verdure e la crema. Sul cous cous, se l'avete, mettete il preparato speziato piccante apposito (harissa). Buon appetito e scusate la foto mossa.
Mentre nel pentolino preparate la manata di cous cous precotto come nella ricetta precedente, mettete nel forno a microonde la verdura lessa congelata. Nel frullatore piccolo mettete mezza lattina di piselli da 160 gr. scolati e tritate sommariamente: ne uscirà una sorta di crema. Mentre le verdure sono cotte e il cous cous è quasi pronto, scaldate mezza lattina di chili con carne della Casa Fiesta insieme alla crema di piselli. Disponete nel piatto, mettete un filo d'olio sul cous cous, le verdure e la crema. Sul cous cous, se l'avete, mettete il preparato speziato piccante apposito (harissa). Buon appetito e scusate la foto mossa.
cassettina 7 - here comes the ballads
Communication - The Cardigans
Sail Away - Randy Newman
Tom Traubert's Blues (Waltzing Matilda) - Tom Waits
Forever I've Known - The Maccabees
Give To Live - Sammy Hagar (live with Van Halen)
Walk You Down - Basia Bulat
Alone - Holly Williams
Roses From My Friends - Ben Harper (live version from Live From Mars)
Love Bites - Def Leppard
Somedays - Neneh Cherry
Candy - Paolo Nutini
Back To December - Taylor Swift
Everything - Neneh Cherry
Massachusets - Aaron Lewis
Scars - Papa Roach
I Can Buy You - A Camp
Seguir Viviendo Sin Tu Amor - Catupecu Machu
Everything But Me - Daughtry
Link alle cassettine precedenti
Sail Away - Randy Newman
Tom Traubert's Blues (Waltzing Matilda) - Tom Waits
Forever I've Known - The Maccabees
Give To Live - Sammy Hagar (live with Van Halen)
Walk You Down - Basia Bulat
Alone - Holly Williams
Roses From My Friends - Ben Harper (live version from Live From Mars)
Love Bites - Def Leppard
Somedays - Neneh Cherry
Candy - Paolo Nutini
Back To December - Taylor Swift
Everything - Neneh Cherry
Massachusets - Aaron Lewis
Scars - Papa Roach
I Can Buy You - A Camp
Seguir Viviendo Sin Tu Amor - Catupecu Machu
Everything But Me - Daughtry
Link alle cassettine precedenti
20120818
strettoia
Narrow - Soap&Skin (2012)
Soap&Skin è, in realtà, una giovanissima (22 anni) ragazza austriaca che risponde al nome di Anja Franziska Plaschg, che nella foto di copertina di Narrow, il suo secondo disco dopo il debutto del 2009 Lovetune for Vacuum, somiglia vagamente alla mia insegnante di ginnastica posturale. E sticazzi (alla romana), direte voi. Come darvi torto. All'epoca del debutto, che ho comunque ascoltato, probabilmente non ero preparato a tale sensibilità classica. Sto invece apprezzando questo secondo lavoro. Pianista e violinista (suona il piano dall'età di sei anni), seppure, per sua stessa ammissione, influenzata in egual maniera dalla musica classica (cita Rachmaninov ma pure Arvo Part) che da quella elettronica, trovo che in questo Narrow la parte classica la faccia da padrone, e che delle sue influenze elettroniche rimanga a malapena l'atmosfera rarefatta che spesso si può trovare in alcuni artisti che abbracciano questa tendenza (se si escludono pezzi come Deathmental e la conclusiva Big Hand Nails Down). Si dice che la morte del padre, avvenuta nel 2009, sia stata determinante per la stesura di questo Narrow: è probabile. L'inserimento della cover di Voyage Voyage (pezzo-tormentone del 1986 della pop singer francese Desireless, cantata in francese come l'originale) è, in qualche maniera, eloquente. Un pezzo fondamentalmente allegro e spensierato diviene un piccolo capolavoro crepuscolare, nelle mani di Anja. Curioso il posizionamento, dopo l'apertura di Vater, un pezzo cantato in tedesco, che già definisce le coordinate del disco, melodie asimmetriche, colonna portante unica fatta dal pianoforte, intreccio armonico di voci in alcuni passaggi, crescendo drammatico nella parte centrale, seguito da una sorta di raccordo musicale, tutto giocato sulle note basse, da brividi, finale dove subentra l'elettronica, in maniera decisa ma parsimoniosa: un bell'ascoltare, al quale naturalmente bisogna essere un po' preparati. Di sicuro la ragazza necessita ancora di un po' di tempo per decidere se procedere sulla strada di amalgamare le influenze classiche con l'elettronica, o tralasciare qualcosa; quel che è vero è che le potenzialità, già espresse, ci sono, e fanno impressione. Wonder il mio pezzo favorito, grande emozione, così come nel ritornello di Boat Turns Toward the Port.
Soap&Skin è, in realtà, una giovanissima (22 anni) ragazza austriaca che risponde al nome di Anja Franziska Plaschg, che nella foto di copertina di Narrow, il suo secondo disco dopo il debutto del 2009 Lovetune for Vacuum, somiglia vagamente alla mia insegnante di ginnastica posturale. E sticazzi (alla romana), direte voi. Come darvi torto. All'epoca del debutto, che ho comunque ascoltato, probabilmente non ero preparato a tale sensibilità classica. Sto invece apprezzando questo secondo lavoro. Pianista e violinista (suona il piano dall'età di sei anni), seppure, per sua stessa ammissione, influenzata in egual maniera dalla musica classica (cita Rachmaninov ma pure Arvo Part) che da quella elettronica, trovo che in questo Narrow la parte classica la faccia da padrone, e che delle sue influenze elettroniche rimanga a malapena l'atmosfera rarefatta che spesso si può trovare in alcuni artisti che abbracciano questa tendenza (se si escludono pezzi come Deathmental e la conclusiva Big Hand Nails Down). Si dice che la morte del padre, avvenuta nel 2009, sia stata determinante per la stesura di questo Narrow: è probabile. L'inserimento della cover di Voyage Voyage (pezzo-tormentone del 1986 della pop singer francese Desireless, cantata in francese come l'originale) è, in qualche maniera, eloquente. Un pezzo fondamentalmente allegro e spensierato diviene un piccolo capolavoro crepuscolare, nelle mani di Anja. Curioso il posizionamento, dopo l'apertura di Vater, un pezzo cantato in tedesco, che già definisce le coordinate del disco, melodie asimmetriche, colonna portante unica fatta dal pianoforte, intreccio armonico di voci in alcuni passaggi, crescendo drammatico nella parte centrale, seguito da una sorta di raccordo musicale, tutto giocato sulle note basse, da brividi, finale dove subentra l'elettronica, in maniera decisa ma parsimoniosa: un bell'ascoltare, al quale naturalmente bisogna essere un po' preparati. Di sicuro la ragazza necessita ancora di un po' di tempo per decidere se procedere sulla strada di amalgamare le influenze classiche con l'elettronica, o tralasciare qualcosa; quel che è vero è che le potenzialità, già espresse, ci sono, e fanno impressione. Wonder il mio pezzo favorito, grande emozione, così come nel ritornello di Boat Turns Toward the Port.
20120817
quello che abbiamo visto dai posti economici
What We Saw From the Cheap Seats - Regina Spektor (2012)
Regina Spektor, nata a Mosca (da una famiglia di origini ebraiche) ed emigrata negli USA a nove anni, giunta al sesto disco da studio, continua secondo me ad essere un "soggetto non identificato", nel senso buono del termine. Ve ne avevo parlato varie volte, e soprattutto la prima volta quando ancora non si conoscevano i suoi dischi, poi in occasione del suo Begin To Hope, e pure del suo penultimo Far. Il suo stile, e qui mi vado a ripetere (e purtroppo a ripetere quel che in molti scrivono su di lei, per inquadrarla), si può senza dubbio avvicinare a quello di due "regine" quali Tori Amos e Fiona Apple; la sua teatralità (ascoltatevi a questo proposito Oh Marcello o Ballad of a Politician), al pari dello stile, che predilige voce e piano, la colloca di diritto "su quella mensola". L'impressione, però, è che le manchi ancora qualcosa per passare da artista interessante a culto, come tutto sommato sono considerate le altre due. Eppure, di personalità ne ha da vendere, e quell'esperienza di supporto ai Kings of Leon nel 2003 linkata poc'anzi lo dimostrava già quasi 10 anni or sono. Non le manca niente, e pure il fatto di inanellare spesso canzoncine catchy [a questo giro Don't Leave Me (Ne me quitte pas) e All the Rowboats, per esempio, in passato furono Better, Eet, Laughing With, Fidelity] non significa che la signorina valga meno. Forse, penso, questo suo perenne rimanere in bilico tra la spensieratezza e la drammaticità, le ha fatto mancare la zampata decisiva, quella verso, appunto, quella sorta di mitizzazione che ti eleva ad, mi ripeto, artista di culto.
Ciò non toglie che pezzi quali Firewood, How, The Party o Patron Saint, siano al tempo stesso semplici, ma davvero molto belli da ascoltare.
Regina Spektor, nata a Mosca (da una famiglia di origini ebraiche) ed emigrata negli USA a nove anni, giunta al sesto disco da studio, continua secondo me ad essere un "soggetto non identificato", nel senso buono del termine. Ve ne avevo parlato varie volte, e soprattutto la prima volta quando ancora non si conoscevano i suoi dischi, poi in occasione del suo Begin To Hope, e pure del suo penultimo Far. Il suo stile, e qui mi vado a ripetere (e purtroppo a ripetere quel che in molti scrivono su di lei, per inquadrarla), si può senza dubbio avvicinare a quello di due "regine" quali Tori Amos e Fiona Apple; la sua teatralità (ascoltatevi a questo proposito Oh Marcello o Ballad of a Politician), al pari dello stile, che predilige voce e piano, la colloca di diritto "su quella mensola". L'impressione, però, è che le manchi ancora qualcosa per passare da artista interessante a culto, come tutto sommato sono considerate le altre due. Eppure, di personalità ne ha da vendere, e quell'esperienza di supporto ai Kings of Leon nel 2003 linkata poc'anzi lo dimostrava già quasi 10 anni or sono. Non le manca niente, e pure il fatto di inanellare spesso canzoncine catchy [a questo giro Don't Leave Me (Ne me quitte pas) e All the Rowboats, per esempio, in passato furono Better, Eet, Laughing With, Fidelity] non significa che la signorina valga meno. Forse, penso, questo suo perenne rimanere in bilico tra la spensieratezza e la drammaticità, le ha fatto mancare la zampata decisiva, quella verso, appunto, quella sorta di mitizzazione che ti eleva ad, mi ripeto, artista di culto.
Ciò non toglie che pezzi quali Firewood, How, The Party o Patron Saint, siano al tempo stesso semplici, ma davvero molto belli da ascoltare.
20120816
gettarlo all'universo
Throw It to the Universe - The Soundtrack of Our Lives (2012)
Ebbot Lundberg, cantante e fondatore della band svedese, ha recentemente dichiarato che questo Throw It to the Universe sarebbe stato il loro ultimo disco: ha aggiunto che "il viaggio è completato". Chissà se sarà vero; quel che è vero è che un altro disco molto bello è uscito in questo 2012, ed è proprio questo della "colonna sonora delle nostre vite", amiconi sia dei Turbonegro che di Nina Persson e dei The Cardigans. Da sempre nella scia del rock sixties e seventies, vagamente psichedelico, sommessamente punk rock e robustamente melodico, in questo Throw It to the Universe non c'è un pezzo inutile o fuori posto. Non dovete certo aspettarvi pennate metallose alla Black Sabbath, bensì sapienti atmosfere rock mescolate a qualsiasi altro genere (in Where's the Rock c'è il flamenco così come lontani echo messicani, tanto per dirne una). Pezzi come Freeride, If Nothing Lasts Forever, What's Your Story?, When We Fall, la title-track e, last but not least, la meravigliosa You Are the Beginning (vi conviene metterla in repeat già dal primo ascolto, fidatevi), potrebbero davvero essere la colonna sonora delle vostre (nostre) vite. Disco leggero ma non per questo meno valido; quando la forma canzone diventa arte. Copertina stupenda.
Ebbot Lundberg, cantante e fondatore della band svedese, ha recentemente dichiarato che questo Throw It to the Universe sarebbe stato il loro ultimo disco: ha aggiunto che "il viaggio è completato". Chissà se sarà vero; quel che è vero è che un altro disco molto bello è uscito in questo 2012, ed è proprio questo della "colonna sonora delle nostre vite", amiconi sia dei Turbonegro che di Nina Persson e dei The Cardigans. Da sempre nella scia del rock sixties e seventies, vagamente psichedelico, sommessamente punk rock e robustamente melodico, in questo Throw It to the Universe non c'è un pezzo inutile o fuori posto. Non dovete certo aspettarvi pennate metallose alla Black Sabbath, bensì sapienti atmosfere rock mescolate a qualsiasi altro genere (in Where's the Rock c'è il flamenco così come lontani echo messicani, tanto per dirne una). Pezzi come Freeride, If Nothing Lasts Forever, What's Your Story?, When We Fall, la title-track e, last but not least, la meravigliosa You Are the Beginning (vi conviene metterla in repeat già dal primo ascolto, fidatevi), potrebbero davvero essere la colonna sonora delle vostre (nostre) vite. Disco leggero ma non per questo meno valido; quando la forma canzone diventa arte. Copertina stupenda.
20120815
la fine dell'innocenza
Childhood's End - Ulver (2012)
Davvero una band che non finisce mai di stupire, quella norvegese (anche se c'è chi fa notare, correttamente, che essendoci un membro inglese, Daniel O'Sullivan, ex Guapo ed ex componente live dei Sunn O))), quindi sicuramente influente, andrebbero definiti anglo-norvegesi) degli Ulver (in norvegese, lupi). Dal folk-black metal degli esordi, fino ad arrivare ad una sorta di ambient-art rock, raffinatissimo, elegante, innovativo, e per questo interessante. Non per niente, l'ultima volta che son passati in Italia han suonato al Regio di Parma, per dire. Ricorderete che ve ne parlai, rimanendone impressionato, con il loro precedente Wars of the Roses; adesso, tornano con una delle classiche operazioni ad alto tasso di rischio. Un disco di cover. A conferma del fatto che ormai sono nell'olimpo della musica moderna, il lavoro che ne esce è bellissimo. Gli Ulver si mettono all'opera riscoprendo perle del passato, come recita il sottotitolo dell'opera Lost & Found from the Age of Aquarius, pescando nel periodo che sta a cavallo della fine degli anni '60 e l'inizio dei '70, dal repertorio di band conosciutissime, ma pure di quelle assolutamente sconosciute. Assieme a cover di The Pretty Things (Bracelets of Fingers), 13th Floor Elevators (Street Song), Electric Prunes (I Had Too Much to Dream Last Night), Jefferson Airplane (Today), The Byrds (Everybody's Been Burned), troviamo cose dei The United States of America (Where Is Yesterday), Music Emporium (Velvet Sunsets), Common People (Soon There Will Be Thunder), Gandalf (Can You Travel in the Dark Alone), Bonniwell's Music Machine (The Trap). Il risultato, oltre ad essere tremendamente omogeneo e personale, a dispetto della natura dello stesso, è un disco che potremmo definire di progressive elettronico. E, naturalmente, segna un ulteriore passo in avanti nella carriera degli Ulver. Non vi annoierete certo ascoltandolo. Bellissima Soon There Will Be Thunder, così come struggente è Today, eccezionalmente coinivolgente I Had Too Much to Dream Last Night, personalmente mi è piaciuta tantissimo pure Street Song.
Davvero una band che non finisce mai di stupire, quella norvegese (anche se c'è chi fa notare, correttamente, che essendoci un membro inglese, Daniel O'Sullivan, ex Guapo ed ex componente live dei Sunn O))), quindi sicuramente influente, andrebbero definiti anglo-norvegesi) degli Ulver (in norvegese, lupi). Dal folk-black metal degli esordi, fino ad arrivare ad una sorta di ambient-art rock, raffinatissimo, elegante, innovativo, e per questo interessante. Non per niente, l'ultima volta che son passati in Italia han suonato al Regio di Parma, per dire. Ricorderete che ve ne parlai, rimanendone impressionato, con il loro precedente Wars of the Roses; adesso, tornano con una delle classiche operazioni ad alto tasso di rischio. Un disco di cover. A conferma del fatto che ormai sono nell'olimpo della musica moderna, il lavoro che ne esce è bellissimo. Gli Ulver si mettono all'opera riscoprendo perle del passato, come recita il sottotitolo dell'opera Lost & Found from the Age of Aquarius, pescando nel periodo che sta a cavallo della fine degli anni '60 e l'inizio dei '70, dal repertorio di band conosciutissime, ma pure di quelle assolutamente sconosciute. Assieme a cover di The Pretty Things (Bracelets of Fingers), 13th Floor Elevators (Street Song), Electric Prunes (I Had Too Much to Dream Last Night), Jefferson Airplane (Today), The Byrds (Everybody's Been Burned), troviamo cose dei The United States of America (Where Is Yesterday), Music Emporium (Velvet Sunsets), Common People (Soon There Will Be Thunder), Gandalf (Can You Travel in the Dark Alone), Bonniwell's Music Machine (The Trap). Il risultato, oltre ad essere tremendamente omogeneo e personale, a dispetto della natura dello stesso, è un disco che potremmo definire di progressive elettronico. E, naturalmente, segna un ulteriore passo in avanti nella carriera degli Ulver. Non vi annoierete certo ascoltandolo. Bellissima Soon There Will Be Thunder, così come struggente è Today, eccezionalmente coinivolgente I Had Too Much to Dream Last Night, personalmente mi è piaciuta tantissimo pure Street Song.
20120814
per l'amor di delinquenti e pazzi
For the Love of Thugs and Fools - Bible of the Devil (2012)
Secondo le note del loro sito ufficiale, questo è il sesto full-length per il quartetto rock n' roll metal di Chicago, Illinois; per me è il primo, e devo dire che è un bell'ascoltare. Non c'è solo street rock and roll, come giustamente fanno notare loro, ma c'è, in tutti i loro pezzi, una ricchissima dose di chitarre metallare, con ottimi assoli incrociati, molto old style (spesso molto maideniani), ma efficacissimi. Ricerca della melodia potente e anthemica, sezione ritmica senza troppi fronzoli (ma il basso è molto bello da sentire), ma precisa e ficcante. Tamarri anche con qualche caduta di (non) stile (la strofa di The Parcher sembra quella di Eye of the Tiger dei Survivor, ma il pezzo si riscatta alla grande nel crescendo finale), voci ruvide, i Bible of the Devil sembrano quasi imbattibili quando pestano sull'acceleratore verso superbi mid-tempos [il cambio di tempo di I Know What is Right (In the Night), Night Streets, While You Were Away], e quando giocano a fare i Thin Lizzy (AnyTime, Yer Boy).
Secondo le note del loro sito ufficiale, questo è il sesto full-length per il quartetto rock n' roll metal di Chicago, Illinois; per me è il primo, e devo dire che è un bell'ascoltare. Non c'è solo street rock and roll, come giustamente fanno notare loro, ma c'è, in tutti i loro pezzi, una ricchissima dose di chitarre metallare, con ottimi assoli incrociati, molto old style (spesso molto maideniani), ma efficacissimi. Ricerca della melodia potente e anthemica, sezione ritmica senza troppi fronzoli (ma il basso è molto bello da sentire), ma precisa e ficcante. Tamarri anche con qualche caduta di (non) stile (la strofa di The Parcher sembra quella di Eye of the Tiger dei Survivor, ma il pezzo si riscatta alla grande nel crescendo finale), voci ruvide, i Bible of the Devil sembrano quasi imbattibili quando pestano sull'acceleratore verso superbi mid-tempos [il cambio di tempo di I Know What is Right (In the Night), Night Streets, While You Were Away], e quando giocano a fare i Thin Lizzy (AnyTime, Yer Boy).
20120813
Flickan som lekte med elden
La ragazza che giocava con il fuoco - di Daniel Alfredson (2009)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: o mettitici a discuté con lei
Lisbeth torna a Stoccolma dopo un anno "sabbatico" ai Caraibi. La madre è morta lasciandole una ricca eredità, e lei acquista una casa, che però vuole lasciare ad una vecchia fiamma, attualmente senza fissa dimora. Vuole anche fare una visitina a Bjurman, dato che hackerando il suo pc ha notato dei movimenti sospetti: c'è anche da ricordagli che è lei che comanda. Proprio mentre lo sorveglia, Bjurman riceve una strana visita: un omaccione vuole notizie di Lisbeth. Per Bjurman non c'è pace: dopo la visita dell'omaccione, ecco quella di Lisbeth. Si conclude un accordo: il dvd del suo stupro su Lisbeth per le informazioni su di lei che l'omaccione ha chiesto a Bjurman. Nel frattempo, la redazione di Millennium è concentrata sulla collaborazione temporanea con un giovane reporter, Dag Svensson. Il tema è il traffico di ragazze dall'Est Europa. Dag sta facendo un lavoro incrociato insieme alla sua fidanzata, Mia, che sta preparando una tesi di criminologia sullo stesso tema. Lei si concentra sulle ragazze, lui sui clienti. Roba esplosiva: tra i clienti, uomini importanti e politici. Mikael si raccomanda che i fatti siano verificati, ma la redazione è convinta comunque che valga la pena, quindi Dag è assunto per due mesi: si va avanti verso la pubblicazione del reportage.
Mentre Lisbeth visita vecchi amici, e Mikael porta avanti il suo lavoro e si rilassa con la famiglia, seppur continuando a pensare a Lisbeth, ecco che arriva un fulmine a ciel sereno: Dag e Mia vengono trovati assassinati. La pistola che ha sparato è quella di Bjurman. A casa di Bjurman, la polizia trova lui morto, e sulla pistola le impronte di Lisbeth. Scatta la caccia alla donna, e l'unico che rimane fermamente convinto della di lei innocenza è, naturalmente, Mikael Blomkvist.
Sequel quasi instant di Uomini che odiano le donne, ancora tratto dall'omonimo romanzo di Stieg Larsson. Il regista è il fratello del più famoso Tomas (suoi il bellissimo Lasciami entrare e il raffinato La talpa), e direi che continua senza infamia e senza lode il lavoro onesto cominciato dal danese Niels Arden Oplev. Ha gioco piuttosto facile, c'è solo da gestire un po' di "movimento" in più. Gli attori principali sono gli stessi, subentrano un paio di cattivoni che se la cavano decentemente. Si "conclama" la bisessualità di Lisbeth, che assume così definitivamente il profilo di personaggio pruriginoso e semi-leggendario: Noomi Rapace devasta letteralmente la scena continuamente, il film è decisamente lei. L'intreccio è ancora una volta gustoso, complesso ma piacevole e intrigante. Si cerca di ridurre al minimo la classica legnosità tutta europea nelle scene d'azione, e tutto sommato il risultato è centrato.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: o mettitici a discuté con lei
Lisbeth torna a Stoccolma dopo un anno "sabbatico" ai Caraibi. La madre è morta lasciandole una ricca eredità, e lei acquista una casa, che però vuole lasciare ad una vecchia fiamma, attualmente senza fissa dimora. Vuole anche fare una visitina a Bjurman, dato che hackerando il suo pc ha notato dei movimenti sospetti: c'è anche da ricordagli che è lei che comanda. Proprio mentre lo sorveglia, Bjurman riceve una strana visita: un omaccione vuole notizie di Lisbeth. Per Bjurman non c'è pace: dopo la visita dell'omaccione, ecco quella di Lisbeth. Si conclude un accordo: il dvd del suo stupro su Lisbeth per le informazioni su di lei che l'omaccione ha chiesto a Bjurman. Nel frattempo, la redazione di Millennium è concentrata sulla collaborazione temporanea con un giovane reporter, Dag Svensson. Il tema è il traffico di ragazze dall'Est Europa. Dag sta facendo un lavoro incrociato insieme alla sua fidanzata, Mia, che sta preparando una tesi di criminologia sullo stesso tema. Lei si concentra sulle ragazze, lui sui clienti. Roba esplosiva: tra i clienti, uomini importanti e politici. Mikael si raccomanda che i fatti siano verificati, ma la redazione è convinta comunque che valga la pena, quindi Dag è assunto per due mesi: si va avanti verso la pubblicazione del reportage.
Mentre Lisbeth visita vecchi amici, e Mikael porta avanti il suo lavoro e si rilassa con la famiglia, seppur continuando a pensare a Lisbeth, ecco che arriva un fulmine a ciel sereno: Dag e Mia vengono trovati assassinati. La pistola che ha sparato è quella di Bjurman. A casa di Bjurman, la polizia trova lui morto, e sulla pistola le impronte di Lisbeth. Scatta la caccia alla donna, e l'unico che rimane fermamente convinto della di lei innocenza è, naturalmente, Mikael Blomkvist.
Sequel quasi instant di Uomini che odiano le donne, ancora tratto dall'omonimo romanzo di Stieg Larsson. Il regista è il fratello del più famoso Tomas (suoi il bellissimo Lasciami entrare e il raffinato La talpa), e direi che continua senza infamia e senza lode il lavoro onesto cominciato dal danese Niels Arden Oplev. Ha gioco piuttosto facile, c'è solo da gestire un po' di "movimento" in più. Gli attori principali sono gli stessi, subentrano un paio di cattivoni che se la cavano decentemente. Si "conclama" la bisessualità di Lisbeth, che assume così definitivamente il profilo di personaggio pruriginoso e semi-leggendario: Noomi Rapace devasta letteralmente la scena continuamente, il film è decisamente lei. L'intreccio è ancora una volta gustoso, complesso ma piacevole e intrigante. Si cerca di ridurre al minimo la classica legnosità tutta europea nelle scene d'azione, e tutto sommato il risultato è centrato.
20120812
due fratelli
Dos hermanos - di Daniel Burman (2010)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: e si fa anco noi vella fine lì
Buenos Aires, Argentina. Marcos e Susana sono due fratelli anziani. La madre è morta da poco. Sono entrambi soli. Marcos è gentile, amabile, probabilmente omosessuale. Susana è una donna vanitosa, flirta in continuazione, vive di espedienti, vorrebbe essere ricca ma in realtà non lo è. Lavora nel campo delle agenzie immobiliari. Vende la casa della madre, dove Marcos aveva accudito per anni la vecchia madre, e convince il fratello ad andare a vivere in Uruguay, dall'altra parte del Rio de la Plata. Marcos non è contento, ma si adegua, e pian piano si fa nuovi amici, si trova nuovi interessi, riesce ad esprimere la sua sensibilità frequentando un corso di teatro. Susana continua a tiranneggiarlo, complice il suo carattere invadente. Sono opposti, si odiano quasi. Ma non possono vivere senza l'altro.
Daniel Burman è un regista ebreo argentino molto interessante, abbastanza conosciuto in patria, ma praticamente sconosciuto da noi. L'unico film, se non sbaglio, che ha ottenuto una distribuzione italiana, fu El abrazo partido - L'abbraccio perduto. Questo è il penultimo suo lavoro, e come praticamente tutti i suoi film, si occupa di famiglia; in questo caso particolare, di persone anziane, che hanno già vissuto una buona parte della loro vita. Burman (del quale ho recensito diversi film, e di altri ancora devo parlarvi) ha un bel tocco, delicato ma buffo, sempre in bilico tra commedia e dramma. Si appoggia a due attori argentini super esperti (e settantenni), che danno vita ad un "balletto" che risponde esattamente al volere del regista: amore e odio, commedia e dramma, alto e basso profilo, gentilezza e prepotenza. Il film ha alti e bassi, ma è delizioso, così come lo sono le prove dei due protagonisti: Graciela Borges (Susana) e Antonio Gasalla (Marcos), davvero due grandi attori, che confermano la grande scuola argentina. Girato tra Buenos Aires e Carmelo, vicino a Colonia del Sacramento, in Uruguay, il lavoro, che non è pirotecnico ma un piccolo film interessante, conferma Burman come un regista attento all'essere umano, da seguire.
Tratto dal libro Villa Laura, di Diego Dubcovsky, partner nelle produzioni di Burman, sia dei suoi film che di altri film argentini, di giovani registi emergenti.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: e si fa anco noi vella fine lì
Buenos Aires, Argentina. Marcos e Susana sono due fratelli anziani. La madre è morta da poco. Sono entrambi soli. Marcos è gentile, amabile, probabilmente omosessuale. Susana è una donna vanitosa, flirta in continuazione, vive di espedienti, vorrebbe essere ricca ma in realtà non lo è. Lavora nel campo delle agenzie immobiliari. Vende la casa della madre, dove Marcos aveva accudito per anni la vecchia madre, e convince il fratello ad andare a vivere in Uruguay, dall'altra parte del Rio de la Plata. Marcos non è contento, ma si adegua, e pian piano si fa nuovi amici, si trova nuovi interessi, riesce ad esprimere la sua sensibilità frequentando un corso di teatro. Susana continua a tiranneggiarlo, complice il suo carattere invadente. Sono opposti, si odiano quasi. Ma non possono vivere senza l'altro.
Daniel Burman è un regista ebreo argentino molto interessante, abbastanza conosciuto in patria, ma praticamente sconosciuto da noi. L'unico film, se non sbaglio, che ha ottenuto una distribuzione italiana, fu El abrazo partido - L'abbraccio perduto. Questo è il penultimo suo lavoro, e come praticamente tutti i suoi film, si occupa di famiglia; in questo caso particolare, di persone anziane, che hanno già vissuto una buona parte della loro vita. Burman (del quale ho recensito diversi film, e di altri ancora devo parlarvi) ha un bel tocco, delicato ma buffo, sempre in bilico tra commedia e dramma. Si appoggia a due attori argentini super esperti (e settantenni), che danno vita ad un "balletto" che risponde esattamente al volere del regista: amore e odio, commedia e dramma, alto e basso profilo, gentilezza e prepotenza. Il film ha alti e bassi, ma è delizioso, così come lo sono le prove dei due protagonisti: Graciela Borges (Susana) e Antonio Gasalla (Marcos), davvero due grandi attori, che confermano la grande scuola argentina. Girato tra Buenos Aires e Carmelo, vicino a Colonia del Sacramento, in Uruguay, il lavoro, che non è pirotecnico ma un piccolo film interessante, conferma Burman come un regista attento all'essere umano, da seguire.
Tratto dal libro Villa Laura, di Diego Dubcovsky, partner nelle produzioni di Burman, sia dei suoi film che di altri film argentini, di giovani registi emergenti.
20120811
Män som hatar kvinnor
Uomini che odiano le donne - di Niels Arden Oplev (2009)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: ir freddo dà alla testa
Svezia. Mikael Blomkvist è un giornalista investigativo, bravo sia in questioni economiche che in quelle che potremmo definire poliziesche. Tendenzialmente socialdemocratico, co-dirige una rivista piccola (redazione formata da quattro elementi), ma, diciamo così, di tendenza. Si occupa di politica, economia, fa le pulci ai potenti, cerca di sputtanarli non col gossip, ma con i fatti: se i potenti rubano, infrangono le leggi, Millennium (questo il nome della rivista) è loro addosso. Ma Wennerstrom, un potentissimo industriale svedese, è probabilmente troppo ammanigliato per ammettere di aver frodato: cita in giudizio Blomkvist per diffamazione, e vince. La rivista deve pagare i danni per una cifra considerevole, e Mikael dovrà andare in prigione per un breve periodo. Mentre attende di scontare la sua pena, Mikael viene avvicinato dall'avvocato di un altro ricchissimo industriale, Henrik Vanger: lo vuole assumere perché indaghi sulla scomparsa dell'amata nipote Harriet, avvenuta 40 anni prima. Anche se Mikael non è convinto, l'offerta è conveniente, e si "adatta" perfettamente alla situazione contingente, non favorevole. Accetta, e si trasferisce sull'isola "privata" dei Vanger, per indagare a fondo. Mikael però, prima di essere contattato per l'incarico, è stato seguito a sua insaputa. Lisbeth Salander entra in gioco: è lei che l'ha pedinato, su commissione. La ragazza, orfana di padre e con la madre malata, affidata ai servizi sociali, passato burrascoso, asociale, atteggiamento e abbigliamento punk, abile motociclista ed hacker altrettanto capace, è alle prese con un cambio di tutore: quello precedente, che lei amava quasi come un padre, ha avuto un infarto, e non riesce quasi più a parlare. Il nuovo tutore, l'avvocato Nils Bjurman, è un pervertito. Un uomo che odia le donne. Non è l'unico.
"Costretto" a vedere questo film svedese, con grande ritardo sulla sua uscita cinematografica, dall'eco colossale avuta dai libri di Stieg Larsson (da cui questo film, ed i seguenti, sono tratti), dall'esistenza di ben due sequel, e dal remake USA di questo primo capitolo, stavolta il mio snobismo di fondo si è sciolto come neve al sole; mi sono abbandonato completamente (tanto che, a stretto giro di posta, mi sono visto anche i due sequel) a questa storia complessa ma girata con un bassissimo profilo, con attori poco o per niente conosciuti, ma molto molto bravi, empatizzando alla grande col protagonista Blomkvist, e godendo della narrazione, che fila liscia a dispetto, come detto prima, di un intreccio piuttosto complesso ed intrigante. Si comprende il successo, dovuto in gran parte al personaggio di Lisbeth Salander, interpretato con grande forza da Noomi Rapace, grazie a questo film ed al resto della trilogia (ha pure rifiutato lo stesso ruolo nel remake statunitense) lanciata verso una carriera che si prospetta luminosa. Onesta l'interpretazione di Michael Nyqvist, nella parte di Blomkvist, e la regia.
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: ir freddo dà alla testa
Svezia. Mikael Blomkvist è un giornalista investigativo, bravo sia in questioni economiche che in quelle che potremmo definire poliziesche. Tendenzialmente socialdemocratico, co-dirige una rivista piccola (redazione formata da quattro elementi), ma, diciamo così, di tendenza. Si occupa di politica, economia, fa le pulci ai potenti, cerca di sputtanarli non col gossip, ma con i fatti: se i potenti rubano, infrangono le leggi, Millennium (questo il nome della rivista) è loro addosso. Ma Wennerstrom, un potentissimo industriale svedese, è probabilmente troppo ammanigliato per ammettere di aver frodato: cita in giudizio Blomkvist per diffamazione, e vince. La rivista deve pagare i danni per una cifra considerevole, e Mikael dovrà andare in prigione per un breve periodo. Mentre attende di scontare la sua pena, Mikael viene avvicinato dall'avvocato di un altro ricchissimo industriale, Henrik Vanger: lo vuole assumere perché indaghi sulla scomparsa dell'amata nipote Harriet, avvenuta 40 anni prima. Anche se Mikael non è convinto, l'offerta è conveniente, e si "adatta" perfettamente alla situazione contingente, non favorevole. Accetta, e si trasferisce sull'isola "privata" dei Vanger, per indagare a fondo. Mikael però, prima di essere contattato per l'incarico, è stato seguito a sua insaputa. Lisbeth Salander entra in gioco: è lei che l'ha pedinato, su commissione. La ragazza, orfana di padre e con la madre malata, affidata ai servizi sociali, passato burrascoso, asociale, atteggiamento e abbigliamento punk, abile motociclista ed hacker altrettanto capace, è alle prese con un cambio di tutore: quello precedente, che lei amava quasi come un padre, ha avuto un infarto, e non riesce quasi più a parlare. Il nuovo tutore, l'avvocato Nils Bjurman, è un pervertito. Un uomo che odia le donne. Non è l'unico.
"Costretto" a vedere questo film svedese, con grande ritardo sulla sua uscita cinematografica, dall'eco colossale avuta dai libri di Stieg Larsson (da cui questo film, ed i seguenti, sono tratti), dall'esistenza di ben due sequel, e dal remake USA di questo primo capitolo, stavolta il mio snobismo di fondo si è sciolto come neve al sole; mi sono abbandonato completamente (tanto che, a stretto giro di posta, mi sono visto anche i due sequel) a questa storia complessa ma girata con un bassissimo profilo, con attori poco o per niente conosciuti, ma molto molto bravi, empatizzando alla grande col protagonista Blomkvist, e godendo della narrazione, che fila liscia a dispetto, come detto prima, di un intreccio piuttosto complesso ed intrigante. Si comprende il successo, dovuto in gran parte al personaggio di Lisbeth Salander, interpretato con grande forza da Noomi Rapace, grazie a questo film ed al resto della trilogia (ha pure rifiutato lo stesso ruolo nel remake statunitense) lanciata verso una carriera che si prospetta luminosa. Onesta l'interpretazione di Michael Nyqvist, nella parte di Blomkvist, e la regia.
20120810
il nido vuoto
El nido vacío - di Daniel Burman (2008)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: è dura mantené viva la fiammella
Buenos Aires, Argentina. Leonardo è un uomo di mezza età, affermato scrittore di libri e di pièce teatrali. E' sposato da anni con la bella Martha, ex studente di sociologia, che ha abbandonato gli studi per dedicarsi alla famiglia. Ma adesso i figli sono diventati grandi, e hanno lasciato il nido costruito dai genitori. Che succede adesso? Succede che i due genitori si devono reinventare, come coniugi e come persone. E ci provano. Ma a Martha riesce decisamente meglio: si rimette a studiare, vuole finire l'università, diventa se possibile ancora più attiva, allegra, piena di vita, fa nuove conoscenze, si gode la vita adulta e matura. Leonardo, invece, è come se inizialmente si chiudesse in se stesso. E' geloso della rinascita della moglie, diventa sospettoso dei suoi comportamenti aperti, ma anche lui flirta, sogna di avere avventure, non riesce a godersi appieno la vita che gli resta, diventa oltremodo snob, è scostante anche con gli amici di sempre. La figlia Julia è andata a vivere in Israele col marito Ianib, ebreo, scrittore anche lui; gli regala il primo libro di suo marito (intitolato come il film), dicendogli che lo ha trovato interessante, e sperando che lo legga, che gli dia qualche dritta, un giudizio, una considerazione. E Leonardo se lo porta in giro, ma non lo apre neppure.
Avevo quasi ultimato di vedere la filmografia di Burman, e adesso che sto "svuotando gli armadi" ve ne parlo. Vi ho già raccontato di lui più volte, nelle recensioni precedenti. In questo caso vi dirò che, situandosi, questo film, cronologicamente tra Derecho de familia e Dos hermanos, è in pratica il primo dopo la conclusione della "trilogia di Ariel". C'è comunque (più che) una sorta di continuità: in Derecho de familia, il protagonista era alle prese, appunto, con la formazione di una famiglia, chiarendo soprattutto a se stesso le dinamiche padre/figlio. Qua c'è uno dei "passaggi" seguenti: l'uscita dal nido dei figli, la ricostruzione del rapporto moglie/marito (prima di arrivare alla vecchiaia, di cui si parlerà nel seguente Dos hermanos), la crisi di mezz'età, lo sguardo generale (sugli altri, su quello che si è costruito, su cosa si rappresenta). Il film ha un incedere alternato, e punta molto sul protagonista maschile per descrivere l'insicurezza di questo momento della vita. L'attore che interpreta Leonardo, Oscar Martínez (a lungo in coppia, nella vita reale, con Mercedes Morán, la Gloria di El hombre de tu vida), rilascia una prova notevole, ed è supportato, come sempre in maniera impeccabile, dalla (da noi) più conosciuta Cecilia Roth nei panni della moglie Martha.
Sempre in bilico tra commedia e qualcosa di più serio (ma la parte ironica ha sempre il sopravvento), il tono del film riflette lo stile di Burman, sempre leggero davanti alle grandi prove della vita. La critica spreca paragoni con Woody Allen (tra l'altro, la matrice ebraica, propria di Burman, è ancora ben presente, ed il "gancio" è il marito di Julia, e tutta la parte finale del film), e ci può stare; il regista non rinuncia ad intermezzi onirici, a "tormentoni", a temi ricorrenti. Il film risulta comunque godibile. Effettivamente è un peccato che la presenza nel cast di Inés Efron (Julia) non abbia grande minutaggio: speriamo ci sia una prossima volta tra Burman e la Efron.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: è dura mantené viva la fiammella
Buenos Aires, Argentina. Leonardo è un uomo di mezza età, affermato scrittore di libri e di pièce teatrali. E' sposato da anni con la bella Martha, ex studente di sociologia, che ha abbandonato gli studi per dedicarsi alla famiglia. Ma adesso i figli sono diventati grandi, e hanno lasciato il nido costruito dai genitori. Che succede adesso? Succede che i due genitori si devono reinventare, come coniugi e come persone. E ci provano. Ma a Martha riesce decisamente meglio: si rimette a studiare, vuole finire l'università, diventa se possibile ancora più attiva, allegra, piena di vita, fa nuove conoscenze, si gode la vita adulta e matura. Leonardo, invece, è come se inizialmente si chiudesse in se stesso. E' geloso della rinascita della moglie, diventa sospettoso dei suoi comportamenti aperti, ma anche lui flirta, sogna di avere avventure, non riesce a godersi appieno la vita che gli resta, diventa oltremodo snob, è scostante anche con gli amici di sempre. La figlia Julia è andata a vivere in Israele col marito Ianib, ebreo, scrittore anche lui; gli regala il primo libro di suo marito (intitolato come il film), dicendogli che lo ha trovato interessante, e sperando che lo legga, che gli dia qualche dritta, un giudizio, una considerazione. E Leonardo se lo porta in giro, ma non lo apre neppure.
Avevo quasi ultimato di vedere la filmografia di Burman, e adesso che sto "svuotando gli armadi" ve ne parlo. Vi ho già raccontato di lui più volte, nelle recensioni precedenti. In questo caso vi dirò che, situandosi, questo film, cronologicamente tra Derecho de familia e Dos hermanos, è in pratica il primo dopo la conclusione della "trilogia di Ariel". C'è comunque (più che) una sorta di continuità: in Derecho de familia, il protagonista era alle prese, appunto, con la formazione di una famiglia, chiarendo soprattutto a se stesso le dinamiche padre/figlio. Qua c'è uno dei "passaggi" seguenti: l'uscita dal nido dei figli, la ricostruzione del rapporto moglie/marito (prima di arrivare alla vecchiaia, di cui si parlerà nel seguente Dos hermanos), la crisi di mezz'età, lo sguardo generale (sugli altri, su quello che si è costruito, su cosa si rappresenta). Il film ha un incedere alternato, e punta molto sul protagonista maschile per descrivere l'insicurezza di questo momento della vita. L'attore che interpreta Leonardo, Oscar Martínez (a lungo in coppia, nella vita reale, con Mercedes Morán, la Gloria di El hombre de tu vida), rilascia una prova notevole, ed è supportato, come sempre in maniera impeccabile, dalla (da noi) più conosciuta Cecilia Roth nei panni della moglie Martha.
Sempre in bilico tra commedia e qualcosa di più serio (ma la parte ironica ha sempre il sopravvento), il tono del film riflette lo stile di Burman, sempre leggero davanti alle grandi prove della vita. La critica spreca paragoni con Woody Allen (tra l'altro, la matrice ebraica, propria di Burman, è ancora ben presente, ed il "gancio" è il marito di Julia, e tutta la parte finale del film), e ci può stare; il regista non rinuncia ad intermezzi onirici, a "tormentoni", a temi ricorrenti. Il film risulta comunque godibile. Effettivamente è un peccato che la presenza nel cast di Inés Efron (Julia) non abbia grande minutaggio: speriamo ci sia una prossima volta tra Burman e la Efron.
20120809
rullo compressore
Valtari - Sigur Ròs (2012)
Credo proprio che abbia ragione Ian Cohen su Pitchfork quando dice, concludendo la sua recensione sul nuovo disco della band islandese: "Il problema non è che Valtari aspira alla bellezza. I Sigur Ròs hanno dimostrato di poter fare musica indelebile che può essere bella e imprevedibile, bella e melodica, bella e snervante, bella e stimolante. In Valtari vuole essere bella e basta."
Mi pare proprio così. Valtari non è, non può essere un brutto disco. Se la chiesa cattolica fosse davvero nel ventunesimo secolo, e fosse quindi al passo con i tempi (anche con i temi sociali), la musica sacra, quella celestiale, suonerebbe esattamente così. Eppure, è difficile ricordare una delle tracce di Valtari, farsela rimanere in mente, fischiettarla, suonarsela nello stereo virtuale che ognuno di noi ha nella testa.
I Sigur Ròs hanno fatto di meglio. Ma nonostante ciò, Valtari è un bel disco.
Credo proprio che abbia ragione Ian Cohen su Pitchfork quando dice, concludendo la sua recensione sul nuovo disco della band islandese: "Il problema non è che Valtari aspira alla bellezza. I Sigur Ròs hanno dimostrato di poter fare musica indelebile che può essere bella e imprevedibile, bella e melodica, bella e snervante, bella e stimolante. In Valtari vuole essere bella e basta."
Mi pare proprio così. Valtari non è, non può essere un brutto disco. Se la chiesa cattolica fosse davvero nel ventunesimo secolo, e fosse quindi al passo con i tempi (anche con i temi sociali), la musica sacra, quella celestiale, suonerebbe esattamente così. Eppure, è difficile ricordare una delle tracce di Valtari, farsela rimanere in mente, fischiettarla, suonarsela nello stereo virtuale che ognuno di noi ha nella testa.
I Sigur Ròs hanno fatto di meglio. Ma nonostante ciò, Valtari è un bel disco.
20120808
giallo e verde
Yellow and Green - Baroness (2012)
Eccolo qui, con tutte le probabilità, il disco metal dell'anno, e chissà che non risulti in assoluto il disco dell'anno, visto che at the end of the day, dentro di me, come spesso vi ripeto, batte sempre un cuore di metallo. Da Savannah, Georgia, i Baroness, al terzo full length "colorato" (Red Album e Blue Record sono i titoli dei due dischi precedenti), più una manciata di EP, con una superba progressione, si lasciano alle spalle una propensione progressive ma power-sludge alla Isis, per entrare in una dimensione paradossalmente più commerciale, cosa che gli farà sicuramente perdere dei fan, che di certo grideranno al tradimento, alla ricerca di un qualcosa che stia al centro del quadrilatero complessità/melodia/potenza/psichedelia. Non sarà il disco perfetto, questo Yellow and Green, formato da due cd, naturalmente il primo intitolato Yellow e il secondo Green, ma di sicuro siamo di fronte a 75 minuti di grande musica. Un'opera senza dubbio ambiziosa, se volete perfino supponente, ma che lascia spesso a bocca aperta, un disco di quelli che sembrano di altri tempi, non dal punto di vista musicale, tutt'altro, ma da quello della stratificazione: ad ogni ascolto riuscirete a scoprirci qualcosa che vi era sfuggito durante l'ascolto precedente, qualcosa che era stato offuscato da un'altra luminescenza. Ho letto recensioni che ho trovato decisamente ingenerose, tipo quella su Rumore (7 su 10) che a proposito di Green dice "se lo potevano risparmiare", mentre ne ho trovate altre assolutamente esaltanti, tipo quella su Spin (9 su 10), con chicche tipo "Baroness are The Breakfast Club where ButtHead and Daria are Emilio Estevez and Ally Sheedy". Io vi posso assicurare che dopo molti, ma veramente molti ascolti, stento ancora a trovare un pezzo brutto tra i diciotto (si, avete letto bene, 18) che compongono i due dischi.
Green Theme e Board Up the House, accoppiata devastante, con i suoni delle chitarre che ricordano quelle di Kim Tahyil, Take My Bones Away (probabilmente IL pezzo rock dell'anno), Sea Lungs, Psalms Alive, un pezzo che rompe definitivamente i confini del post-metal e lascia basiti, Mtns. (The Crown & Anchor), March to the Sea, credetemi, una roba da far venire il mal di testa, dal ventaglio di influenze, dall'abilità di miscelarle, dalla quantità di citazioni e dalla pulizia delle esecuzioni, dalla potenza miscelata abilmente alla dolcezza, dall'assoluta mancanza di limiti che si ascoltano, ma che si possono anche immaginare per il futuro per una band del genere.
Direi di non perdermi più in ulteriori panegirici: Yellow and Green, se non è il disco dell'anno, poco ci manca. Se tollerate anche solo minimamente i suoni metal, dovete assolutamente ascoltare questo doppio cd. Se non li avete mai sopportati, è arrivato per voi il momento di mettere da parte i preconcetti, e buttarvi a capofitto in un mondo di buona musica. Il nuovo disco dei Baroness è quello che ci vuole.
Masterpiece.
Eccolo qui, con tutte le probabilità, il disco metal dell'anno, e chissà che non risulti in assoluto il disco dell'anno, visto che at the end of the day, dentro di me, come spesso vi ripeto, batte sempre un cuore di metallo. Da Savannah, Georgia, i Baroness, al terzo full length "colorato" (Red Album e Blue Record sono i titoli dei due dischi precedenti), più una manciata di EP, con una superba progressione, si lasciano alle spalle una propensione progressive ma power-sludge alla Isis, per entrare in una dimensione paradossalmente più commerciale, cosa che gli farà sicuramente perdere dei fan, che di certo grideranno al tradimento, alla ricerca di un qualcosa che stia al centro del quadrilatero complessità/melodia/potenza/psichedelia. Non sarà il disco perfetto, questo Yellow and Green, formato da due cd, naturalmente il primo intitolato Yellow e il secondo Green, ma di sicuro siamo di fronte a 75 minuti di grande musica. Un'opera senza dubbio ambiziosa, se volete perfino supponente, ma che lascia spesso a bocca aperta, un disco di quelli che sembrano di altri tempi, non dal punto di vista musicale, tutt'altro, ma da quello della stratificazione: ad ogni ascolto riuscirete a scoprirci qualcosa che vi era sfuggito durante l'ascolto precedente, qualcosa che era stato offuscato da un'altra luminescenza. Ho letto recensioni che ho trovato decisamente ingenerose, tipo quella su Rumore (7 su 10) che a proposito di Green dice "se lo potevano risparmiare", mentre ne ho trovate altre assolutamente esaltanti, tipo quella su Spin (9 su 10), con chicche tipo "Baroness are The Breakfast Club where ButtHead and Daria are Emilio Estevez and Ally Sheedy". Io vi posso assicurare che dopo molti, ma veramente molti ascolti, stento ancora a trovare un pezzo brutto tra i diciotto (si, avete letto bene, 18) che compongono i due dischi.
Green Theme e Board Up the House, accoppiata devastante, con i suoni delle chitarre che ricordano quelle di Kim Tahyil, Take My Bones Away (probabilmente IL pezzo rock dell'anno), Sea Lungs, Psalms Alive, un pezzo che rompe definitivamente i confini del post-metal e lascia basiti, Mtns. (The Crown & Anchor), March to the Sea, credetemi, una roba da far venire il mal di testa, dal ventaglio di influenze, dall'abilità di miscelarle, dalla quantità di citazioni e dalla pulizia delle esecuzioni, dalla potenza miscelata abilmente alla dolcezza, dall'assoluta mancanza di limiti che si ascoltano, ma che si possono anche immaginare per il futuro per una band del genere.
Direi di non perdermi più in ulteriori panegirici: Yellow and Green, se non è il disco dell'anno, poco ci manca. Se tollerate anche solo minimamente i suoni metal, dovete assolutamente ascoltare questo doppio cd. Se non li avete mai sopportati, è arrivato per voi il momento di mettere da parte i preconcetti, e buttarvi a capofitto in un mondo di buona musica. Il nuovo disco dei Baroness è quello che ci vuole.
Masterpiece.
20120807
cieli grigi e luce elettrica
Woods 5: Grey Skies & Electric Light - Woods of Ypres (2012)
Cala il sipario, tristemente, sui Woods of Ypres, creatura del canadese dell'Ontario David Gold, voce e polistrumentista sempre presente nella formazione, morto in un incidente d'auto nel dicembre del 2011, diversi mesi dopo aver ultimato le registrazioni di questo disco assieme a Joel Violette.
Più "elegante" dei precedenti, minor uso di screaming vocals, atmosfere avvolgenti, corali, quasi orchestrali, sicuramente non black metal, ma una sorta di doom "moderno" e quasi sinfonico. Frequenti aperture melodiche, begli assoli, fortemente caratterizzato appunto dalla voce clean di Gold, profonda e suggestiva, un disco metal che definirei adulto, davvero interessante. Tutti i pezzi, anche quelli più brevi, ricordano delle cavalcate. Anche l'aggettivo epico direi che si può usare, in questo caso. Peccato che l'avventura sia terminata, tra l'altro drammaticamente.
Superba la lunga (quasi 11 minuti) Kiss My Ashes (Goodbye).
Cala il sipario, tristemente, sui Woods of Ypres, creatura del canadese dell'Ontario David Gold, voce e polistrumentista sempre presente nella formazione, morto in un incidente d'auto nel dicembre del 2011, diversi mesi dopo aver ultimato le registrazioni di questo disco assieme a Joel Violette.
Più "elegante" dei precedenti, minor uso di screaming vocals, atmosfere avvolgenti, corali, quasi orchestrali, sicuramente non black metal, ma una sorta di doom "moderno" e quasi sinfonico. Frequenti aperture melodiche, begli assoli, fortemente caratterizzato appunto dalla voce clean di Gold, profonda e suggestiva, un disco metal che definirei adulto, davvero interessante. Tutti i pezzi, anche quelli più brevi, ricordano delle cavalcate. Anche l'aggettivo epico direi che si può usare, in questo caso. Peccato che l'avventura sia terminata, tra l'altro drammaticamente.
Superba la lunga (quasi 11 minuti) Kiss My Ashes (Goodbye).
20120806
pagina otto
Page Eight - di David Hare (2011)
Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: che crasse!
Regno Unito, oggi. Johnny Worricker è un agente di lungo corso dell'MI5. Dipende direttamente da Benedict Baron, al quale è legato da qualcosa di più che un rapporto di amicizia: la sua ex moglie si è risposata con lui, e la figlia di Johnny vive con Benedict. Baron, durante una riunione ad altissimi livelli, distribuisce un rapporto delicatissimo; Worricker sottolinea che, in una nota a pié di pagina (a pagina otto), si evidenzia che il Primo Ministro era a conoscenza che l'amministrazione statunitense, ha torturato prigionieri di guerra detenuti in carceri segrete fuori dai suoi confini; lo stesso Primo Ministro inglese era a conoscenza dei luoghi delle carceri. Ciò implicherebbe che lo stesso Primo Ministro non ha condiviso informazioni segretissime con i proprio servizi segreti, informazioni delicatissime che avrebbero potuto salvare delle vite di compatrioti. Baron muore di infarto pochi giorni dopo la presentazione tesissima di questo rapporto; Worricker fa conoscenza con la sua nuova dirimpettaia Nancy, una donna più giovane di lui, affascinante, una sorta di attivista politica che sta cercando di scoprire qualcosa di più sulla misteriosa morte del fratello, e con la quale scopre di avere molte affinità, ma che, data la situazione, potrebbe essere una spia. La collega Jill Tankard non lo spalleggia, anzi, si scopre doppiogiochista e dalla parte del Primo Ministro, che vuole cacciare Worricker e smantellare l'MI5, rimpiazzandolo con un'altra struttura. Anche il Ministro degli Interni Anthea Catcheside viene convinta ad insabbiare il rapporto, mediante una promozione importante. Per finire, Worricker scopre pure di essere stato sorvegliato.
Gran bel lavoro questo Page Eight, pensate, un film per la televisione "ordinato" dalla BBC a Sir David Hare, drammaturgo, sceneggiatore, e a tempo perso pure regista. Suo, ad esempio, il famosissimo adattamento teatrale (da Arthur Schnitzler) The Blue Room, un sacco di altre opere teatrali, le sceneggiature cinematografiche di Il danno (di Louis Malle), The Hours e The Reader - A voce alta, entrambi diretti da Stephen Daldry. Qui si diverte a disegnare (e a dirigere con ottima mano, e con grande classe) una moderna spy-story, con temi attualissimi, mettendo insieme tradimenti, azione, british style, sentimenti amorosi, familiari ed amicali, il tutto miscelato con dovizia. Stilosa anche la fotografia, ottimi gli attori. Il sempiterno Bill Nighy è Worricker (ed è bravissimo), Rachel Weisz è Nancy, Michael Gambon è Baron, Ralph Fiennes è il Primo Ministro britannico. A volte al cinema passano delle vere e proprie schifezze, così come sulla nostra televisione; pensare che nel Regno Unito alla televisione, e soprattutto per la televisione, si commissionano cose del genere, fa venire i brividi.
Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: che crasse!
Regno Unito, oggi. Johnny Worricker è un agente di lungo corso dell'MI5. Dipende direttamente da Benedict Baron, al quale è legato da qualcosa di più che un rapporto di amicizia: la sua ex moglie si è risposata con lui, e la figlia di Johnny vive con Benedict. Baron, durante una riunione ad altissimi livelli, distribuisce un rapporto delicatissimo; Worricker sottolinea che, in una nota a pié di pagina (a pagina otto), si evidenzia che il Primo Ministro era a conoscenza che l'amministrazione statunitense, ha torturato prigionieri di guerra detenuti in carceri segrete fuori dai suoi confini; lo stesso Primo Ministro inglese era a conoscenza dei luoghi delle carceri. Ciò implicherebbe che lo stesso Primo Ministro non ha condiviso informazioni segretissime con i proprio servizi segreti, informazioni delicatissime che avrebbero potuto salvare delle vite di compatrioti. Baron muore di infarto pochi giorni dopo la presentazione tesissima di questo rapporto; Worricker fa conoscenza con la sua nuova dirimpettaia Nancy, una donna più giovane di lui, affascinante, una sorta di attivista politica che sta cercando di scoprire qualcosa di più sulla misteriosa morte del fratello, e con la quale scopre di avere molte affinità, ma che, data la situazione, potrebbe essere una spia. La collega Jill Tankard non lo spalleggia, anzi, si scopre doppiogiochista e dalla parte del Primo Ministro, che vuole cacciare Worricker e smantellare l'MI5, rimpiazzandolo con un'altra struttura. Anche il Ministro degli Interni Anthea Catcheside viene convinta ad insabbiare il rapporto, mediante una promozione importante. Per finire, Worricker scopre pure di essere stato sorvegliato.
Gran bel lavoro questo Page Eight, pensate, un film per la televisione "ordinato" dalla BBC a Sir David Hare, drammaturgo, sceneggiatore, e a tempo perso pure regista. Suo, ad esempio, il famosissimo adattamento teatrale (da Arthur Schnitzler) The Blue Room, un sacco di altre opere teatrali, le sceneggiature cinematografiche di Il danno (di Louis Malle), The Hours e The Reader - A voce alta, entrambi diretti da Stephen Daldry. Qui si diverte a disegnare (e a dirigere con ottima mano, e con grande classe) una moderna spy-story, con temi attualissimi, mettendo insieme tradimenti, azione, british style, sentimenti amorosi, familiari ed amicali, il tutto miscelato con dovizia. Stilosa anche la fotografia, ottimi gli attori. Il sempiterno Bill Nighy è Worricker (ed è bravissimo), Rachel Weisz è Nancy, Michael Gambon è Baron, Ralph Fiennes è il Primo Ministro britannico. A volte al cinema passano delle vere e proprie schifezze, così come sulla nostra televisione; pensare che nel Regno Unito alla televisione, e soprattutto per la televisione, si commissionano cose del genere, fa venire i brividi.
20120805
il pugno dell'asino
Donkey Punch - di Oliver Blackburn (2008)
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: vai vai 'n villeggiatura...
Tre giovani ragazze inglesi, Lisa, Kim e Tammi, vanno in vacanza in una località di mare in Spagna, e vogliono davvero darsi alla pazza gioia. Durante una delle tante bevute, conoscono quattro ragazzi, anche loro inglesi, Sean, Bluey, Josh e Marcus, che le invitano sul loro yacht. Le ragazze accettano.
Sullo yacht, si comincia a flirtare, a bere, a prendere droghe. Mentre quasi tutti fanno il bagno, la conversazione vira sul sesso. Bluey, il più spaccone, nel suo delirio da stallone, descrive una pratica chiamata donkey punch (più o meno "il pugno dell'asino"): mentre l'uomo prende la donna a pecorina ed è vicino all'eiaculazione, deve colpire la donna con un pugno più o meno sul collo, in modo da aumentare a dismisura il piacere sessuale. Più tardi, un paio di coppie (Marcus e Kim, Bluey e Lisa) scendono sottocoperta per passare ai fatti; c'è anche Josh, che dopo un po' inizia a riprendere il tutto con una telecamera. Poi, Bluey lascia il posto a Josh, prende la telecamera, ed inizia ad incoraggiarlo, in modo che colpisca Lisa con un donkey punch. Josh lo fa, ma esagera. Lisa muore sul colpo. Panico. I ragazzi, per coprire il fatto, scelgono di buttare il suo corpo in mare. Le ragazze si oppongono. Inizia un gioco al massacro.
Debutto sul lungometraggio cinematografico per l'inglese Blackburn, girato con un budget limitato, Donkey Punch è ovviamente un film fatto e pensato per scioccare, per far parlare di sé anche se lo hanno visto in pochi. Che c'è di male? Niente, credo. Il film non è malaccio, una prima parte che prova ad essere intrigante, la seconda che diventa la classica e prevedibile roulette russa ad eliminazione, gli attori tutti giovani, poco conosciuti, che recitano in maniera decente. Senza troppa infamia e senza troppe lodi.
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: vai vai 'n villeggiatura...
Tre giovani ragazze inglesi, Lisa, Kim e Tammi, vanno in vacanza in una località di mare in Spagna, e vogliono davvero darsi alla pazza gioia. Durante una delle tante bevute, conoscono quattro ragazzi, anche loro inglesi, Sean, Bluey, Josh e Marcus, che le invitano sul loro yacht. Le ragazze accettano.
Sullo yacht, si comincia a flirtare, a bere, a prendere droghe. Mentre quasi tutti fanno il bagno, la conversazione vira sul sesso. Bluey, il più spaccone, nel suo delirio da stallone, descrive una pratica chiamata donkey punch (più o meno "il pugno dell'asino"): mentre l'uomo prende la donna a pecorina ed è vicino all'eiaculazione, deve colpire la donna con un pugno più o meno sul collo, in modo da aumentare a dismisura il piacere sessuale. Più tardi, un paio di coppie (Marcus e Kim, Bluey e Lisa) scendono sottocoperta per passare ai fatti; c'è anche Josh, che dopo un po' inizia a riprendere il tutto con una telecamera. Poi, Bluey lascia il posto a Josh, prende la telecamera, ed inizia ad incoraggiarlo, in modo che colpisca Lisa con un donkey punch. Josh lo fa, ma esagera. Lisa muore sul colpo. Panico. I ragazzi, per coprire il fatto, scelgono di buttare il suo corpo in mare. Le ragazze si oppongono. Inizia un gioco al massacro.
Debutto sul lungometraggio cinematografico per l'inglese Blackburn, girato con un budget limitato, Donkey Punch è ovviamente un film fatto e pensato per scioccare, per far parlare di sé anche se lo hanno visto in pochi. Che c'è di male? Niente, credo. Il film non è malaccio, una prima parte che prova ad essere intrigante, la seconda che diventa la classica e prevedibile roulette russa ad eliminazione, gli attori tutti giovani, poco conosciuti, che recitano in maniera decente. Senza troppa infamia e senza troppe lodi.
20120804
Ciro
Cyrus - di Jay e Mark Duplass (2010)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: e poi siamo noi i mammoni...
John è vicino alla depressione. A diversi anni dal suo divorzio con Jamie, con la quale è rimasto in ottimi rapporti, è sempre più chiuso in se stesso, non ha più vita sociale, è avulso rispetto all'esterno. Jamie gli dà la notizia che ha deciso di sposarsi col fidanzato Tim. Per attutire la reazione, lo invita ad una festa, spingendolo a farsi avanti e a conoscere qualche donna. Dopo una serie di approcci goffi e andati male, casualmente, in una situazione grottesca, conosce Molly: bella, allegra, simpatica, intelligente, disponibile. Tra i due scatta immediatamente qualcosa, cominciano a vedersi sempre più spesso, ma Molly si comporta in modo strano. John, che ha paura di perdere questa magnifica opportunità, segue Molly fino a casa, per capire meglio. E scopre che lei vive insieme ad un altro uomo: il di lei figlio ventunenne Cyrus, aspirante musicista new age, leggermente sociopatico, basicamente mammone, incapace di staccarsi da lei. Ma soprattutto, Cyrus non ne vuole sapere di dividere sua madre con un altro uomo.
Film uscito in sordina in Italia, Cyrus è un'opera di certo non perfetta, ma piuttosto interessante. Sembrerebbe una commedia, e in effetti fa sorridere a tratti, ma spiazza appunto perché il tono è da commedia, ma l'argomento è serio e attuale. Il cast è ottimo, ma le prove recitative non sono il massimo: un problema da correggere per i due giovani registi. John C. Reilly è John, Jonah Hill è Cyrus, la ancora splendida Marisa Tomei è Molly, Catherine Keener è Jamie, Matt Walsh (lo spassoso dottor Matt Saline di Hung) è Tim.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: e poi siamo noi i mammoni...
John è vicino alla depressione. A diversi anni dal suo divorzio con Jamie, con la quale è rimasto in ottimi rapporti, è sempre più chiuso in se stesso, non ha più vita sociale, è avulso rispetto all'esterno. Jamie gli dà la notizia che ha deciso di sposarsi col fidanzato Tim. Per attutire la reazione, lo invita ad una festa, spingendolo a farsi avanti e a conoscere qualche donna. Dopo una serie di approcci goffi e andati male, casualmente, in una situazione grottesca, conosce Molly: bella, allegra, simpatica, intelligente, disponibile. Tra i due scatta immediatamente qualcosa, cominciano a vedersi sempre più spesso, ma Molly si comporta in modo strano. John, che ha paura di perdere questa magnifica opportunità, segue Molly fino a casa, per capire meglio. E scopre che lei vive insieme ad un altro uomo: il di lei figlio ventunenne Cyrus, aspirante musicista new age, leggermente sociopatico, basicamente mammone, incapace di staccarsi da lei. Ma soprattutto, Cyrus non ne vuole sapere di dividere sua madre con un altro uomo.
Film uscito in sordina in Italia, Cyrus è un'opera di certo non perfetta, ma piuttosto interessante. Sembrerebbe una commedia, e in effetti fa sorridere a tratti, ma spiazza appunto perché il tono è da commedia, ma l'argomento è serio e attuale. Il cast è ottimo, ma le prove recitative non sono il massimo: un problema da correggere per i due giovani registi. John C. Reilly è John, Jonah Hill è Cyrus, la ancora splendida Marisa Tomei è Molly, Catherine Keener è Jamie, Matt Walsh (lo spassoso dottor Matt Saline di Hung) è Tim.
20120803
sineddoche
Synecdoche, New York - di Charlie Kaufman (2008)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: si pol vedere ma prima prendete un moment
Caden Cotard è un regista teatrale che vive a Schenectady. Nonostante superficialmente la sua realtà sia invidiabile (una bella moglie con velleità artistiche, una figlia piccola, un percorso artistico - suo - rispettabile), la sua vita sta andando in pezzi, e lui non riesce a capire perché. Sua moglie Adele è sempre più distante, lui ha problemi fisici costanti, e dentro ha un'insoddisfazione galoppante. Le cose proseguono in modo alterno. Adele se ne va per un lungo periodo a Berlino, portandosi dietro la figlia, e lui ci mette un bel po' di tempo a capire che in realtà l'ha lasciato. Ferito e a pezzi, riceve però un premio importante, che gli permette di realizzare un sogno artistico. Decide di buttarsi anima e corpo nella realizzazione di uno spaccato di realtà a grandezza praticamente naturale. In un enorme magazzino di New York, ricrea un quartiere intero, con gli attori che sono incoraggiati e guidati a vivere una sorta di vita parallela: una celebrazione del quotidiano, in grande stile. Mentre Caden è sempre più preoccupato per come la figlia viene cresciuta, visto che praticamente Adele si è messa insieme alla sua migliore amica Maria, la sua realizzazione vive di una vita propria, isolata dall'esterno, e i confini tra realtà e opera d'arte si confondo sempre più, compresa la vita privata e sentimentale di Caden, complicatissima e ai limiti del grottesco.
Charlie Kaufman è proprio quello che state pensando: lo sceneggiatore di Se mi lasci ti cancello, Il ladro di orchidee (dove in pratica dava il nome al protagonista), Human Nature, Essere John Malkovich. Un tipo geniale. Questo film lo rispecchia in pieno, ed è quindi ottimo, ma, dopo averlo visto, si capisce perfettamente anche il perché abbia avuto enormi problemi di distribuzione (tanto è vero che in Italia è ancora inedito). Synecdoche, New York, un gioco di parole tra Schenectady (il luogo dove vive il protagonista) e la sineddoche, figura retorica dove un qualcosa prende il posto di qualcosa d'altro (così come nel film i doppi prendono il posto dell'originale), è, come gran parte dei lavori di Kaufman, una riflessione sul senso della vita che passa attraverso la crisi d'identità, il confronto col senso di mortalità. Metafisico e surrealista, psicanalitico e introspettivo, cervellotico e insicuro, rappresentato credo alla perfezione da un (per l'ennesima volta) eccezionale Philip Seymour Hoffman (Caden Cotard), Kaufman va visto anche se complicato e leggermente inconcludente. Il resto del cast annovera una serie quasi infinita di grandi attrici ed attori, non solo caratteristi, oltre a quello già citato: Catherine Keener, Tom Noonan, Michelle Williams, Samantha Morton, Hope Davis, Jennifer Jason Leigh, Emily Watson, Dianne West, Alice Drummond, Daniel London.
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: si pol vedere ma prima prendete un moment
Caden Cotard è un regista teatrale che vive a Schenectady. Nonostante superficialmente la sua realtà sia invidiabile (una bella moglie con velleità artistiche, una figlia piccola, un percorso artistico - suo - rispettabile), la sua vita sta andando in pezzi, e lui non riesce a capire perché. Sua moglie Adele è sempre più distante, lui ha problemi fisici costanti, e dentro ha un'insoddisfazione galoppante. Le cose proseguono in modo alterno. Adele se ne va per un lungo periodo a Berlino, portandosi dietro la figlia, e lui ci mette un bel po' di tempo a capire che in realtà l'ha lasciato. Ferito e a pezzi, riceve però un premio importante, che gli permette di realizzare un sogno artistico. Decide di buttarsi anima e corpo nella realizzazione di uno spaccato di realtà a grandezza praticamente naturale. In un enorme magazzino di New York, ricrea un quartiere intero, con gli attori che sono incoraggiati e guidati a vivere una sorta di vita parallela: una celebrazione del quotidiano, in grande stile. Mentre Caden è sempre più preoccupato per come la figlia viene cresciuta, visto che praticamente Adele si è messa insieme alla sua migliore amica Maria, la sua realizzazione vive di una vita propria, isolata dall'esterno, e i confini tra realtà e opera d'arte si confondo sempre più, compresa la vita privata e sentimentale di Caden, complicatissima e ai limiti del grottesco.
Charlie Kaufman è proprio quello che state pensando: lo sceneggiatore di Se mi lasci ti cancello, Il ladro di orchidee (dove in pratica dava il nome al protagonista), Human Nature, Essere John Malkovich. Un tipo geniale. Questo film lo rispecchia in pieno, ed è quindi ottimo, ma, dopo averlo visto, si capisce perfettamente anche il perché abbia avuto enormi problemi di distribuzione (tanto è vero che in Italia è ancora inedito). Synecdoche, New York, un gioco di parole tra Schenectady (il luogo dove vive il protagonista) e la sineddoche, figura retorica dove un qualcosa prende il posto di qualcosa d'altro (così come nel film i doppi prendono il posto dell'originale), è, come gran parte dei lavori di Kaufman, una riflessione sul senso della vita che passa attraverso la crisi d'identità, il confronto col senso di mortalità. Metafisico e surrealista, psicanalitico e introspettivo, cervellotico e insicuro, rappresentato credo alla perfezione da un (per l'ennesima volta) eccezionale Philip Seymour Hoffman (Caden Cotard), Kaufman va visto anche se complicato e leggermente inconcludente. Il resto del cast annovera una serie quasi infinita di grandi attrici ed attori, non solo caratteristi, oltre a quello già citato: Catherine Keener, Tom Noonan, Michelle Williams, Samantha Morton, Hope Davis, Jennifer Jason Leigh, Emily Watson, Dianne West, Alice Drummond, Daniel London.
20120802
la grande C
The Big C - di Darlene Hunt - Stagioni 1, 2 e 3 (13, 13 e 10 episodi; Showtime) - 2010/2012
Cosa succede quando a un'insegnante quarantenne timida, riservata moglie e madre di un sobborgo provinciale del Nord degli USA, una donna intelligente e ancora piacente, ex sportiva, che ha problemi a relazionarsi col figlio adolescente, e che si sente trascurata dal marito, sempre un po' bambino, e che la dà per scontata, viene diagnosticato un melanoma ad uno stadio piuttosto avanzato? Ce lo mostra, o meglio, prova ad immaginarlo Darlene Hunt nel suo The Big C.
E' vero, il cancro si era già visto in Breaking Bad, e questo ripetersi dei temi potrebbe far pensare, a quelli che vedono sempre il bicchiere mezzo vuoto anziché mezzo pieno, all'appassirsi della vena creativa degli sceneggiatori televisivi, così come già capitato (la "malattia", tanto per rimanere in tema, è conclamata ormai da qualche anno) per quelli di Hollywood, che ormai non sanno far altro che remake e film tratti da comic books. Ma se in BB il viraggio è verso la crime-story, in questo prodotto di Showtime si prova a rimanere leggermente più con i piedi per terra (seppure le avventure di Walter White siano plausibili, ma un pochino forzate), e anche se si cerca soprattutto il divertimento, sono sempre risate piuttosto amare.
Sarà per l'esperienza personale, vissuta seppure di "rimbalzo", con il cancro, ma ho trovato interessante sia la serie, che lo sviluppo, arrivato alla terza stagione, e che è attualmente in attesa della possibilità del rinnovo del contratto per una quarta.
Naturalmente, gran parte della riuscita della serie va alla coppia di protagonisti. Oliver Platt, nei panni di Paul, il marito inizialmente immaturo, grande quanto il suo fisico, e Laura Linney che interpreta la mattatrice malata Cathy, sempre grandiosa. Da non sottovalutare la presenza di un ottimo John Benjamin Hickey, a me sconosciuto fino ad oggi, nei panni di Sean, il fratello di Cathy, un tipo decisamente alternativo, e dell'altrettanto ottima, ma non sconosciuta (è stata l'imponente - si potrebbe insinuare che sia una serie di "pesi massimi" - protagonista di Precious), Gabourey Sidibe, nei panni dell'allieva di Cathy Andrea.
Cosa succede quando a un'insegnante quarantenne timida, riservata moglie e madre di un sobborgo provinciale del Nord degli USA, una donna intelligente e ancora piacente, ex sportiva, che ha problemi a relazionarsi col figlio adolescente, e che si sente trascurata dal marito, sempre un po' bambino, e che la dà per scontata, viene diagnosticato un melanoma ad uno stadio piuttosto avanzato? Ce lo mostra, o meglio, prova ad immaginarlo Darlene Hunt nel suo The Big C.
E' vero, il cancro si era già visto in Breaking Bad, e questo ripetersi dei temi potrebbe far pensare, a quelli che vedono sempre il bicchiere mezzo vuoto anziché mezzo pieno, all'appassirsi della vena creativa degli sceneggiatori televisivi, così come già capitato (la "malattia", tanto per rimanere in tema, è conclamata ormai da qualche anno) per quelli di Hollywood, che ormai non sanno far altro che remake e film tratti da comic books. Ma se in BB il viraggio è verso la crime-story, in questo prodotto di Showtime si prova a rimanere leggermente più con i piedi per terra (seppure le avventure di Walter White siano plausibili, ma un pochino forzate), e anche se si cerca soprattutto il divertimento, sono sempre risate piuttosto amare.
Sarà per l'esperienza personale, vissuta seppure di "rimbalzo", con il cancro, ma ho trovato interessante sia la serie, che lo sviluppo, arrivato alla terza stagione, e che è attualmente in attesa della possibilità del rinnovo del contratto per una quarta.
Naturalmente, gran parte della riuscita della serie va alla coppia di protagonisti. Oliver Platt, nei panni di Paul, il marito inizialmente immaturo, grande quanto il suo fisico, e Laura Linney che interpreta la mattatrice malata Cathy, sempre grandiosa. Da non sottovalutare la presenza di un ottimo John Benjamin Hickey, a me sconosciuto fino ad oggi, nei panni di Sean, il fratello di Cathy, un tipo decisamente alternativo, e dell'altrettanto ottima, ma non sconosciuta (è stata l'imponente - si potrebbe insinuare che sia una serie di "pesi massimi" - protagonista di Precious), Gabourey Sidibe, nei panni dell'allieva di Cathy Andrea.
intelligentoni
The Big Bang Theory - di Chuck Lorre e Bill Prady - Stagioni 3, 4 e 5 (23, 23 e 24 episodi; CBS) - 2009/2012
Bisogna ammetterlo: le ultime tre stagioni di TBBT sono meno esplosive delle prime due. Il motivo è piuttosto chiaro: tre dei quattro cervelloni hanno una ragazza. E si sa, i legami ti tengono al guinzaglio. Ma bisogna riconoscere anche un'altra cosa: il coraggio degli autori, nel provare a diversificare la serie. Queste, a mio parere, sono cose che vanno apprezzate. Tirando le somme, The Big Bang Theory fa ancora molto ridere. E Jim Parsons (il dottor Sheldon Cooper) è sempre straordinario.
Qualcosa d'altro da aggiungere? Guardatelo, e ridete.
Bisogna ammetterlo: le ultime tre stagioni di TBBT sono meno esplosive delle prime due. Il motivo è piuttosto chiaro: tre dei quattro cervelloni hanno una ragazza. E si sa, i legami ti tengono al guinzaglio. Ma bisogna riconoscere anche un'altra cosa: il coraggio degli autori, nel provare a diversificare la serie. Queste, a mio parere, sono cose che vanno apprezzate. Tirando le somme, The Big Bang Theory fa ancora molto ridere. E Jim Parsons (il dottor Sheldon Cooper) è sempre straordinario.
Qualcosa d'altro da aggiungere? Guardatelo, e ridete.
20120801
sobborgatorio
Suburgatory - di Emily Kapnek - Stagione 1 (22 episodi; ABC) - 2011/2012
Tessa è una quindicenne di New York, che vive da sola con il padre George: la di lei madre li ha abbandonati anni or sono. George, architetto, sempre preoccupato di fare la cosa giusta per l'educazione ed il bene di Tessa, un bel giorno trova in camera della "bambina" una scatola di preservativi: decide immediatamente di trasferirsi nei sobborghi. Tessa è orripilata dall'idea, e lo diventa ancora di più quando il trasloco arriva a termine: acconciature fuori dal tempo, madri con le tette rifatte, colori pastello, pratini all'inglese, compagni di scuola assolutamente superficiali. Come sopravvivere?
Suburgatory ha avuto critiche opposte: c'è chi ha accusato la Kapnek (Hung, Parks and Recreation) di non avere idea di come si vive nei suburbs, e chi invece ha scritto che aveva capito tutto. Leggete qua. Non ne ho idea: non sono mai stato nei sobborghi statunitensi, devo fidarmi, anche se devo dire onestamente che pensavo che la "fauna" descritta da Suburgatory fosse più tipica della zona di Los Angeles. Il punto, però, probabilmente non è questo. La serie ha naturalmente dei riferimenti, qualcuno dice addirittura dei plagi: il personaggio di Tessa, interpretato in maniera gagliarda e decisamente convincente da Jane Levy, che abbiamo visto nei panni di Mandy nella prima stagione di Shameless USA, è stato "accusato" di ricalcare quello di Emma Stone in Easy Girl. Io dico, e se anche fosse? Ben venga.
Il dualismo tra cittadini e abitanti della ricca periferia è evidentemente un tema sentito; diverte, non è così netto come si potrebbe pensare, viene sfumato via via che la serie va avanti. Il rapporto padre single/figlia adolescente è un altro tema evidentemente caro agli statunitensi, ed è affrontato con buffa delicatezza. Jeremy Sisto (George) è davvero divertente. Altri temi interessanti sono affrontati "lateralmente", e gli sceneggiatori provano a porvisi sempre in maniera "dolce" (vedi il coming out). La serie è abbastanza divertente, in definitiva; il finale di stagione lascia intravedere la possibilità di una svolta semiseria, che sinceramente non credo sia possibile, ma staremo a vedere: la seconda stagione ci sarà.
Da segnalare alcuni personaggi incredibilmente divertenti. Quello di Lisa, la dirimpettaia di Tessa. E' interpretato da Allie Grant, la piccola Isabelle di Weeds (vista anche in Fanboys). Dalia, l'opposto di Tessa e pure di Lisa, interpretata da Carly Chaikin. E poi Dallas (che mi fa uno strano effetto, mi fa ridere ma anche arrapare nello stesso istante in cui appare sullo schermo), la madre di Dalia, interpretata da Cheryl Hines, che dà vita ad uno dei migliori personaggi comici visti ultimamente in televisione.
Tessa è una quindicenne di New York, che vive da sola con il padre George: la di lei madre li ha abbandonati anni or sono. George, architetto, sempre preoccupato di fare la cosa giusta per l'educazione ed il bene di Tessa, un bel giorno trova in camera della "bambina" una scatola di preservativi: decide immediatamente di trasferirsi nei sobborghi. Tessa è orripilata dall'idea, e lo diventa ancora di più quando il trasloco arriva a termine: acconciature fuori dal tempo, madri con le tette rifatte, colori pastello, pratini all'inglese, compagni di scuola assolutamente superficiali. Come sopravvivere?
Suburgatory ha avuto critiche opposte: c'è chi ha accusato la Kapnek (Hung, Parks and Recreation) di non avere idea di come si vive nei suburbs, e chi invece ha scritto che aveva capito tutto. Leggete qua. Non ne ho idea: non sono mai stato nei sobborghi statunitensi, devo fidarmi, anche se devo dire onestamente che pensavo che la "fauna" descritta da Suburgatory fosse più tipica della zona di Los Angeles. Il punto, però, probabilmente non è questo. La serie ha naturalmente dei riferimenti, qualcuno dice addirittura dei plagi: il personaggio di Tessa, interpretato in maniera gagliarda e decisamente convincente da Jane Levy, che abbiamo visto nei panni di Mandy nella prima stagione di Shameless USA, è stato "accusato" di ricalcare quello di Emma Stone in Easy Girl. Io dico, e se anche fosse? Ben venga.
Il dualismo tra cittadini e abitanti della ricca periferia è evidentemente un tema sentito; diverte, non è così netto come si potrebbe pensare, viene sfumato via via che la serie va avanti. Il rapporto padre single/figlia adolescente è un altro tema evidentemente caro agli statunitensi, ed è affrontato con buffa delicatezza. Jeremy Sisto (George) è davvero divertente. Altri temi interessanti sono affrontati "lateralmente", e gli sceneggiatori provano a porvisi sempre in maniera "dolce" (vedi il coming out). La serie è abbastanza divertente, in definitiva; il finale di stagione lascia intravedere la possibilità di una svolta semiseria, che sinceramente non credo sia possibile, ma staremo a vedere: la seconda stagione ci sarà.
Da segnalare alcuni personaggi incredibilmente divertenti. Quello di Lisa, la dirimpettaia di Tessa. E' interpretato da Allie Grant, la piccola Isabelle di Weeds (vista anche in Fanboys). Dalia, l'opposto di Tessa e pure di Lisa, interpretata da Carly Chaikin. E poi Dallas (che mi fa uno strano effetto, mi fa ridere ma anche arrapare nello stesso istante in cui appare sullo schermo), la madre di Dalia, interpretata da Cheryl Hines, che dà vita ad uno dei migliori personaggi comici visti ultimamente in televisione.
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