Alma de cantaora - Amparo Sanchez (2012)
In realtà, farei meglio a parlare di dischi ufficialmente usciti nel 2013, direte voi, visto che parlo sempre meno di musica. Ma, in effetti, chi se ne frega della data di uscita, se in Italia in pochi conoscono Amparo Sanchez (nonostante fassbinder se ne sia già occupato in occasione dell'uscita del suo debutto da solista dal suggestivo titolo di Tucson-Habana - prego prendere nota di questa meravigliosa battuta autoironica)?
E quindi eccoci qui alle prese con, appunto, il secondo disco da solista della originariamente cantante e leader degli Amparanoia. Amparo abbandona, si fa per dire, le atmosfere cubane*, ma conserva in parte quelle texano/arizoniane (prendete nota di questo elegante neologismo), per continuare una sorta di viaggio attraverso la musica che se non parla spagnolo, conserva, in qualche modo, un sapore vagamente castigliano. E durante questo viaggio si incontra con una marea di altri interpreti, alcuni noti ed altri molto meno, che la aiutano a tratteggiare un ulteriore affresco, meno immediato ma non per questo meno delicato, intenso ed appassionato di Tucson-Habana, e, se ancora ce ne fosse stato bisogno, la installano definitivamente nella mia personale Hall of Fame musicale.
La title-track è presente in apertura ed in chiusura in versione reggae, ospiti Chalart58, collaboratore assiduo di Amparo, e Bongo Botrako (band di Tarragona), ed è immediatamente un manifesto femminista, usando vari campionamenti di chiacchiere di Margarita Nunez, conosciuta come Abuela Margarita, una sciamana messicana, evidentemente un personaggio interessante. Con La cuenta atràs si possono riconoscere un paio di influenze che già avevamo citato in occasione del primo disco, due suoi amici: Tonino Carotone, per la parte iniziale, diciamo così, zingara, alla Fiorenzo Carpi (l'autore della colonna sonora del Pinocchio televisivo di Comencini), e Manu Chao, che qua mi viene a mente per il ritornello, cantato in francese (fin'ora eravamo rimasti sul castigliano). Il pezzo parla di diritti civili. Pulpa de tamarindo è uno dei pezzi più belli del disco, jazzato, emozionale, caraibico, scritto dalla compositrice cubana (*ve l'avevo detto) Mane Ferret, che, inutile dirlo, ha fatto un gran lavoro. La stessa Ferret torna per il pezzo seguente, Vieja Pasiòn, ed è abbastanza chiaro che, insieme alla Sanchez, le viene facile toccare il cuore della gente. Anche se non vi sembra troppo romantica e triste all'inizio, non la suonate se siete malinconici, datemi retta.
Bella è pure Para tì, con armonici di steel guitar, e decisamente interessante (e, ancora una volta, militante) La flor de la palabra, nata da un testo nientemeno che del Subcomandante Marcos, e durante la quale si nota la partecipazione di Arianna Puello, una rapper dominicana naturalizzata spagnola.
Vueltas è ancora una bella collaborazione, canzone scritta e cantata dal giovane Muerdo, artista anche lui spagnolo, di Murcia, mentre Muchacho è semplicemente una outtakes dal disco precedente, e quindi vede lo zampino dei Calexico.
E qui arriviamo all'altro pezzo micidiale del disco, quel Fuera fiera che è una rumba impreziosita dalla voce ruvida e graffiante di Bebe, quella che i più conoscono per il singolo Malo, e che i meno hanno avuto modo di apprezzare anche come attrice. Non originalissima, ma mica da buttare, Mujer levàntate, scritta e cantata con Jairo Zavala, conosciuto anche come DePedro (già con Amparanoia e Calexico). Delicatissima e sperimentale Free Day, scritta con Howe Gelb dei Giant Sand e cantata in inglese da Amparo (e da Gelb). Chiude (anche se in chiusura in realtà c'è la versione reggae di Alma de cantaora, come abbiamo detto in apertura) Que te pedì, che si apre come Pulpa de tamarindo, ma che è "solo" una bella canzone acustica con Amparo Sanchez che parla d'amore e di dolore col cuore in mano.
Un disco principalmente acustico, ritmato appena quanto basta, fatto di onestà, idee e sentimenti. Un disco che fa vibrare cuore e vene senza bisogno di alzare il volume.
No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.
20130430
20130429
Il Valentino
Borgia - di Tom Fontana - Stagione 2 (12 episodi; Canal Plus) - 2013
1494, Stato Pontificio. Mentre Rodrigo Borgia, papa Alessandro VI, è alle prese con gli intrecci vaticani, le manovre per desituirlo, le sue personali crisi mistiche, l'insofferenza dell'amante Giulia Farnese che si portano dietro quelle della famiglia Farnese tutta, la sua dipendenza dal vitriolo (e, di conseguenza, quella di lei), gli amori dell'amata figlia Lucrezia, le difficoltà finanziarie delle casse vaticane, il figlio Cesare, spogliato dagli abiti cardinalizi per perseguire fama, amore, libertà, conquiste, sta cercando il suo posto nel mondo, senza capire perfettamente da che parte viene questa inarrestabile sete di qualcosa di diverso, di nuovo, di grande. Arriverà alla corte di Francia, laddove incontrerà gran parte di queste cose inseguite da tempo, si convincerà (e lo convinceranno, molti suoi ammiratori) di essere quasi un dio in Terra, ma tutto ciò non arresterà, in lui, la sua sete di onnipotenza.
Con uno slancio di generosità, il vostro recensore preferito stavolta, alzando l'asticella, si è cimentato in un'ulteriore impresa pur di darvi una primizia: mi sono visto l'intera seconda stagione dei Borgia di Tom Fontana nella versione francese, visto che, al momento, è andata in onda solo su Canal Plus, ed arriverà su Sky Cinema, nella versione italiana, a breve.
Ora, ovviamente un certo spaesamento indotto dal doppiaggio (che però era presente anche nella prima stagione, visto che, se non ho capito male, la serie si recita in inglese, e la prima stagione me la sono vista doppiata in italiano), si somma, inutile negarlo, al fatto che, come già accennato, la serie va in onda più o meno contemporaneamente alla terza stagione di The Borgias, che, in maniera diversa, parla delle stesse cose. E giocoforza i personaggi vengono confrontati.
Dopo una prima stagione girata soprattutto in Repubblica Ceca, i produttori stessi, vedendosi alzare il budget, hanno ottenuto di girare spesso in Italia, per questa seconda stagione. Gli esterni, non esattamente per questo motivo (probabilmente semplicemente perché si usano meno i fondali sovrapposti con la computer graphic), ne risentono favorevolmente, mentre per gli interni rimane forte l'impressione di una messa in scena teatrale e profondamente ingessata. A dispetto della storia, che seppur, come sempre, piegata in un certo qual modo per adattarsi alla sceneggiatura, e tra l'altro generando dubbi su come una quantità tale di avvenimenti importantissimi possano essersi svolti nel solo arco di pochi mesi di uno stesso anno (1494), le figure degli attori che impersonano personaggi fondamentali della storia non solo italiana, lasciano ancora una volta a desiderare (e qui, bisogna dirlo, la produzione europea perde fragorosamente contro quella statunitense). Fermo restando l'ottima interpretazione di John Domani nei panni di Rodrigo Borgia - Alessandro VI, è soprattutto Mark Ryder che funge da punto debole, visto che lui interpreta Cesare Borgia, e che questa stagione si incentra soprattutto sulla sua ascesa (le indiscrezioni indicano che la prossima, che dovrebbe essere l'ultima, verterà invece sulla figura di Lucrezia). Si vede che il ragazzo si impegna, ma sarà la sua faccia di c****, saranno i capelli stile spot della L'Oreal, non convince nemmeno per un istante. Rimandando il giudizio complessivo sull'interpretazione della stupenda Isolda Dychauk (Lucrezia Borgia) alla prossima stagione (al momento siamo sul senza infamia e senza lode, pur riconoscendo alla giovane delle alte potenzialità ed una boccuccia inverosimilmente stretta), vorrei soffermarmi su un paio di personaggi marginali, ma storicamente importanti, ai quali il confronto con The Borgias serve per essere distrutti.
Il primo è Niccolò Machiavelli. Qui interpretato dall'anonimo Thibaut Evrard, esce annientato dal confronto con il non conosciutissimo, ma molto intenso Julian Bleach. La seconda è Caterina Sforza. La prova di Valentina Cervi (e, come saprà chi mi conosce, io amo moltissimo questa attrice italiana) viene oscurata da quella di Gina McKee. La colpa è evidentemente da attribuire allo script (e di sicuro The Borgias non è scritto da Hitchcock), ma anche alle direzioni registiche: ecco spiegato, forse, il motivo dell'ingessatura alla quale mi riferisco spesso, sia qui che nella recensione della prima stagione.
Insomma, non è sicuramente facile portare sul piccolo schermo la storia con la esse maiuscola, e di sicuro va dato atto a Canal Plus di essere una rete coraggiosa che prova a stare al passo con i tempi della fiction moderna, ma lascia l'amaro in bocca vedere tanto materiale potenzialmente esplosivo come la storia dei Borgia sprecato così, e con nomi importanti nel cast e nel team di scrittura.
1494, Stato Pontificio. Mentre Rodrigo Borgia, papa Alessandro VI, è alle prese con gli intrecci vaticani, le manovre per desituirlo, le sue personali crisi mistiche, l'insofferenza dell'amante Giulia Farnese che si portano dietro quelle della famiglia Farnese tutta, la sua dipendenza dal vitriolo (e, di conseguenza, quella di lei), gli amori dell'amata figlia Lucrezia, le difficoltà finanziarie delle casse vaticane, il figlio Cesare, spogliato dagli abiti cardinalizi per perseguire fama, amore, libertà, conquiste, sta cercando il suo posto nel mondo, senza capire perfettamente da che parte viene questa inarrestabile sete di qualcosa di diverso, di nuovo, di grande. Arriverà alla corte di Francia, laddove incontrerà gran parte di queste cose inseguite da tempo, si convincerà (e lo convinceranno, molti suoi ammiratori) di essere quasi un dio in Terra, ma tutto ciò non arresterà, in lui, la sua sete di onnipotenza.
Con uno slancio di generosità, il vostro recensore preferito stavolta, alzando l'asticella, si è cimentato in un'ulteriore impresa pur di darvi una primizia: mi sono visto l'intera seconda stagione dei Borgia di Tom Fontana nella versione francese, visto che, al momento, è andata in onda solo su Canal Plus, ed arriverà su Sky Cinema, nella versione italiana, a breve.
Ora, ovviamente un certo spaesamento indotto dal doppiaggio (che però era presente anche nella prima stagione, visto che, se non ho capito male, la serie si recita in inglese, e la prima stagione me la sono vista doppiata in italiano), si somma, inutile negarlo, al fatto che, come già accennato, la serie va in onda più o meno contemporaneamente alla terza stagione di The Borgias, che, in maniera diversa, parla delle stesse cose. E giocoforza i personaggi vengono confrontati.
Dopo una prima stagione girata soprattutto in Repubblica Ceca, i produttori stessi, vedendosi alzare il budget, hanno ottenuto di girare spesso in Italia, per questa seconda stagione. Gli esterni, non esattamente per questo motivo (probabilmente semplicemente perché si usano meno i fondali sovrapposti con la computer graphic), ne risentono favorevolmente, mentre per gli interni rimane forte l'impressione di una messa in scena teatrale e profondamente ingessata. A dispetto della storia, che seppur, come sempre, piegata in un certo qual modo per adattarsi alla sceneggiatura, e tra l'altro generando dubbi su come una quantità tale di avvenimenti importantissimi possano essersi svolti nel solo arco di pochi mesi di uno stesso anno (1494), le figure degli attori che impersonano personaggi fondamentali della storia non solo italiana, lasciano ancora una volta a desiderare (e qui, bisogna dirlo, la produzione europea perde fragorosamente contro quella statunitense). Fermo restando l'ottima interpretazione di John Domani nei panni di Rodrigo Borgia - Alessandro VI, è soprattutto Mark Ryder che funge da punto debole, visto che lui interpreta Cesare Borgia, e che questa stagione si incentra soprattutto sulla sua ascesa (le indiscrezioni indicano che la prossima, che dovrebbe essere l'ultima, verterà invece sulla figura di Lucrezia). Si vede che il ragazzo si impegna, ma sarà la sua faccia di c****, saranno i capelli stile spot della L'Oreal, non convince nemmeno per un istante. Rimandando il giudizio complessivo sull'interpretazione della stupenda Isolda Dychauk (Lucrezia Borgia) alla prossima stagione (al momento siamo sul senza infamia e senza lode, pur riconoscendo alla giovane delle alte potenzialità ed una boccuccia inverosimilmente stretta), vorrei soffermarmi su un paio di personaggi marginali, ma storicamente importanti, ai quali il confronto con The Borgias serve per essere distrutti.
Il primo è Niccolò Machiavelli. Qui interpretato dall'anonimo Thibaut Evrard, esce annientato dal confronto con il non conosciutissimo, ma molto intenso Julian Bleach. La seconda è Caterina Sforza. La prova di Valentina Cervi (e, come saprà chi mi conosce, io amo moltissimo questa attrice italiana) viene oscurata da quella di Gina McKee. La colpa è evidentemente da attribuire allo script (e di sicuro The Borgias non è scritto da Hitchcock), ma anche alle direzioni registiche: ecco spiegato, forse, il motivo dell'ingessatura alla quale mi riferisco spesso, sia qui che nella recensione della prima stagione.
Insomma, non è sicuramente facile portare sul piccolo schermo la storia con la esse maiuscola, e di sicuro va dato atto a Canal Plus di essere una rete coraggiosa che prova a stare al passo con i tempi della fiction moderna, ma lascia l'amaro in bocca vedere tanto materiale potenzialmente esplosivo come la storia dei Borgia sprecato così, e con nomi importanti nel cast e nel team di scrittura.
20130428
l'ascesa del guerriero del calcio
Rise of the Footsoldier - di Julian Gilbey (2007)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Carlton Leach nasce a Canning Town, nell'East London, nel 1959. La sua storia di vita, sempre al di là dei margini della legge, ad esclusione del suo matrimonio e dei suoi sei figli, inizialmente è simile, se si escludono le implicazioni razziali, visto che Leach è bianco, a quella di Cass Pennant (qui, tra l'altro, potete leggere un'intervista di Pennant a Leach, in occasione della presentazione del libro di Leach, Muscle, dal quale è tratto questo film del quale stiamo parlando). Come spesso accade, quando si è borderline, basta poco per passare al lato oscuro. Quello che fece Leach fu proprio questo, passò al lato oscuro; da tifoso del West Ham, membro della Inter City Firm, da buttafuori ben pagato, da appassionato/ossessionato del body building, ad essere uno dei criminali più temuti del Regno Unito, il passo fu, tutto sommato, breve, ed incoraggiato da Pat Tate e Tony Tucker. La sua fu, come recita il titolo correttamente, una inarrestabile ascesa. Oggi, così come Cass Pennant, Leach è una persona non ancora vecchia, che riflette sui suoi errori e ne parla apertamente, vivendo anche di questo. In questo film appare come comparsa durante una rissa.
Antecedente a Cass (come detto poc'anzi, altro biopic dedicato ad un ex hooligan, in quel caso a Cass Pennant), questo Rise of the Footsoldier, inedito in Italia, corre sui soliti binari ma si smarca rispetto a quel film per due motivi principali, almeno apparentemente: la cornice razziale, qui inesistente per ovvi motivi, e il lato criminale, qui fortemente presente e, devo dire, ben intrecciata con la provenienza "calcistica" del protagonista. L'atmosfera è perennemente cupa ma non senza quell'ironia tipica inglese, l'inarrestabile ascesa dipinta in maniera fluida e ben rappresentata da un sorprendente Ricci Harnett, londinese intravisto in 28 giorni dopo, e qui calato perfettamente nei panni drammatico-muscolari di Carlton Leach, schizofrenico ed imprevedibile quanto basta. Il film è decisamente violento, e devo dire che non poteva essere altrimenti, la regia dinamica come ci si aspetterebbe da un film del genere, la colonna sonora giusta, il cast di contorno ben amalgamato. Un'altra bella fotografia di un paese che ha vissuto momenti non certo memorabili.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Carlton Leach nasce a Canning Town, nell'East London, nel 1959. La sua storia di vita, sempre al di là dei margini della legge, ad esclusione del suo matrimonio e dei suoi sei figli, inizialmente è simile, se si escludono le implicazioni razziali, visto che Leach è bianco, a quella di Cass Pennant (qui, tra l'altro, potete leggere un'intervista di Pennant a Leach, in occasione della presentazione del libro di Leach, Muscle, dal quale è tratto questo film del quale stiamo parlando). Come spesso accade, quando si è borderline, basta poco per passare al lato oscuro. Quello che fece Leach fu proprio questo, passò al lato oscuro; da tifoso del West Ham, membro della Inter City Firm, da buttafuori ben pagato, da appassionato/ossessionato del body building, ad essere uno dei criminali più temuti del Regno Unito, il passo fu, tutto sommato, breve, ed incoraggiato da Pat Tate e Tony Tucker. La sua fu, come recita il titolo correttamente, una inarrestabile ascesa. Oggi, così come Cass Pennant, Leach è una persona non ancora vecchia, che riflette sui suoi errori e ne parla apertamente, vivendo anche di questo. In questo film appare come comparsa durante una rissa.
Antecedente a Cass (come detto poc'anzi, altro biopic dedicato ad un ex hooligan, in quel caso a Cass Pennant), questo Rise of the Footsoldier, inedito in Italia, corre sui soliti binari ma si smarca rispetto a quel film per due motivi principali, almeno apparentemente: la cornice razziale, qui inesistente per ovvi motivi, e il lato criminale, qui fortemente presente e, devo dire, ben intrecciata con la provenienza "calcistica" del protagonista. L'atmosfera è perennemente cupa ma non senza quell'ironia tipica inglese, l'inarrestabile ascesa dipinta in maniera fluida e ben rappresentata da un sorprendente Ricci Harnett, londinese intravisto in 28 giorni dopo, e qui calato perfettamente nei panni drammatico-muscolari di Carlton Leach, schizofrenico ed imprevedibile quanto basta. Il film è decisamente violento, e devo dire che non poteva essere altrimenti, la regia dinamica come ci si aspetterebbe da un film del genere, la colonna sonora giusta, il cast di contorno ben amalgamato. Un'altra bella fotografia di un paese che ha vissuto momenti non certo memorabili.
20130427
Polonia - Agosto 2012 - 2
La Toscana polacca
Dopo circa una notte a "casa" (Varsavia), quella della domenica, si riparte, lunedì mattina, stavolta lasciando Sylwia ed Eliza, ma portando con noi Marcel, una vecchia conoscenza (già nel 2007 lavorava insieme a Sylwia nell'organizzazione del festival al quale Massi fu invitato, ed io partecipai in veste di accompagnatore), che è a Varsavia in questi giorni ma che in realtà vive e lavora a Londra. Massi deve girare una sorta di mini-documentario sulla Varmia-Masuria, per un filmato che verrà usato durante una serie di concerti in quella regione. L'obiettivo è trovare diversi punti dove riprendere per un discreto minutaggio, così che poi in sede di montaggio Massi potrà usare il materiale anche per l'effetto fast-forward. Quindi, dobbiamo girare, sia in senso video, sia in senso di strade. Probabilmente per l'entusiasmo, percorriamo il tragitto più lungo, raggiungendo il luogo più lontano: dopo aver passato Frombork, cittadina poco abitata ma importantissima, vedremo poi perché, raggiungiamo Tolkmicko, un luogo abbastanza estremo, posto in riva a quella laguna situata ad est di Danzica, interna al Mar Baltico, divisa tra Polonia e Russia (l'exclave di Kaliningrad, per la precisione). Cerchiamo una guesthouse, fissiamo per la notte, e sfruttiamo le ultime ore di luce per fare delle riprese giusto sui due moletti del porticciolo del posto. Proprio mentre piazziamo, il tempo si guasta, il vento soffia forte e dopo un po' inizia anche a piovere. La sensazione di sospensione è forte, e spero di riuscire a renderle un minimo di giustizia con la foto che segue.
Come dice il titolo di questo capitolo, Massi mi riferisce che la Varmia è considerata un po' la Toscana polacca. Molto verde, poche montagne ma molte colline dolci, addirittura una sotto-regione dei laghi, uno sbocco al mare, regione ad indirizzo agricolo. In effetti, già dal tragitto percorso ieri, con l'aiuto di una bella giornata di sole (fino alla nostra fermata per la notte), l'impressione è stata positiva. La sera andiamo a mangiare la pizza in un ristorantino in riva alla Laguna della Vistola, e dopo aver constatato che il paesino è abbastanza deserto, ci ritiriamo.
Il giorno seguente facciamo un po' i turisti (ma sempre con la telecamera pronta) a Frombork. La cittadina in questione è famosa perché Niccolò Copernico visse qui i suoi ultimi anni di vita, e qui morì. Visitiamo anche il museo dove ci vengono ricordati i vari talenti del Niccolò polacco. Ci facciamo delle grasse risate davanti a wurstel e patate, proprio davanti alla cattedrale.
Dopo di che, ripartiamo verso Est, quasi a costeggiare il confine con la Russia. Passiamo da Braniewo, dove poco fuori, fermi al passaggio a livello, scatto queste due foto ad un treno che probabilmente veniva proprio dalla Russia.
Evidentemente, tra un regista (Massi) e un fotografo praticamente professionista (Marcel), mi sento ispirato.
Proseguiamo verso Est, facendo naturalmente diverse fermate, altra bella giornata e altri bei posti che ispirano Massi alle riprese. Arriviamo a Lidzbark Warminski, che possiede un castello con fossato impressionante.
Poi scendiamo verso Sud, sempre con un occhio al panorama, in cerca di un campeggio conosciuto da Massi, sito proprio in riva ad un lago. Il regista ha un'idea per il giorno seguente. Riprese sull'acqua. Arriviamo al campeggio, che è vicino al villaggio di Tumiany, in riva al lago Pisz. Il luogo si preannuncia bello, deserto, ci arriviamo che è buio. Ci sistemiamo e Massi fa qualche ripresa notturna. Poi usciamo per cercare un luogo urbano per mangiare qualcosa. A volte il caso guida gli audaci. Sulla piazza del mercato di Biskupiec, capitiamo per caso al ristorante/pub Na Rynku, e nonostante il menù sia abbastanza classico per la Polonia, i sapori, gli ingredienti, la cura nella preparazione ci colpiscono, tanto che ancora oggi ce lo ricordiamo nettamente. Un applauso e se doveste capitare da quelle parti, mi raccomando.
Il giorno seguente è pieno come gli altri, e mi rendo conto che raccontandoli così non rendo per niente l'idea. Come detto, riprese sull'acqua. Affittiamo un pedalò al campeggio, e ci diamo di pedalata sul lago.
Per circa due ore. Bello. La giornata, manco a dirlo, è splendida.
Dopo, gli altri due pazzi fanno il bagno, per me l'acqua è troppo fredda e passo. Poi lasciamo il campeggio e ci dirigiamo verso Szczytno, dove Marcel ci lascia, prende un autobus e torna a Varsavia, dopo aver pranzato in un bel ristorante (con cameriere carine) in riva al laghetto Domowe Male, gemello (piccolo) dell'altro presente in città, il Domowe Duze. Dopo altre riprese in riva al lago, risaliamo in auto lentamente verso Nord Ovest, fino ad arrivare ad Olsztyn (da noi ribattezzata Olsen Olsen, in onore dei Sigur Ròs), questa propriamente una città. Ripensando a tutti gli avvenimenti che sono entrati in quei giorni, mi domando come sia stato possibile, ma le distanze evidentemente non sono state così proibitive. Ci sistemiamo fuori città, facciamo un po' di spesa (io ho terminato le magliette, quindi ne compro una che non indosserò mai), ci andiamo a rilassare in riva ad uno dei sei laghi che circondano la città (credo sia stato il lago Ukiel), mentre Massi riprende ancora, aspettando il tramonto.
Torniamo al luogo dove passeremo la notte, usciamo per andare in centro per cenare, il centro storico è bello e ben curato, troviamo un ristorante che, scopriamo, chiude la cucina alle nove, ceniamo parlando e poi rientriamo. Il giorno seguente scendiamo verso Sud, ma siamo ancora nella regione dei laghi. Ce ne sono una quantità industriale. Per la notte ci sistemiamo a Dluzek, non prima di aver esplorato una zona isolata e, naturalmente, piena di laghi e corsi d'acqua.
Mentre Massi riprende, e io gli faccio da aiutante (solamente portando il treppiede, e nemmeno sempre, non vi preoccupate), ridiamo, facciamo progetti, parliamo di tutto, come sempre.
Dluzek sono quattro case in riva al lago omonimo. Un luogo abbastanza solitario e delizioso. Un giro intorno al lago, una cena frugale (ma col cuoco Massi non c'è mai niente di veramente frugale), e ci mettiamo in veranda con una birra, un po' di musica, e anche senza volerlo tiriamo le somme di questo "giro". Massi conosceva già, in parte, questa zona, ma anche lui ha scoperto luoghi incantevoli, come me. Domani di buon ora ci rimetteremo in cammino verso sud.
La mattina dopo si riparte, mangiamo qualcosa per strada, facciamo le cose con calma, c'è tempo per altre riprese, e con largo anticipo eccoci a Modlin, che venendo da Nord rimane prima di Varsavia. Massi se ne torna dalla sua famiglia, io riprendo l'aereo per l'Italia.
Dopo circa una notte a "casa" (Varsavia), quella della domenica, si riparte, lunedì mattina, stavolta lasciando Sylwia ed Eliza, ma portando con noi Marcel, una vecchia conoscenza (già nel 2007 lavorava insieme a Sylwia nell'organizzazione del festival al quale Massi fu invitato, ed io partecipai in veste di accompagnatore), che è a Varsavia in questi giorni ma che in realtà vive e lavora a Londra. Massi deve girare una sorta di mini-documentario sulla Varmia-Masuria, per un filmato che verrà usato durante una serie di concerti in quella regione. L'obiettivo è trovare diversi punti dove riprendere per un discreto minutaggio, così che poi in sede di montaggio Massi potrà usare il materiale anche per l'effetto fast-forward. Quindi, dobbiamo girare, sia in senso video, sia in senso di strade. Probabilmente per l'entusiasmo, percorriamo il tragitto più lungo, raggiungendo il luogo più lontano: dopo aver passato Frombork, cittadina poco abitata ma importantissima, vedremo poi perché, raggiungiamo Tolkmicko, un luogo abbastanza estremo, posto in riva a quella laguna situata ad est di Danzica, interna al Mar Baltico, divisa tra Polonia e Russia (l'exclave di Kaliningrad, per la precisione). Cerchiamo una guesthouse, fissiamo per la notte, e sfruttiamo le ultime ore di luce per fare delle riprese giusto sui due moletti del porticciolo del posto. Proprio mentre piazziamo, il tempo si guasta, il vento soffia forte e dopo un po' inizia anche a piovere. La sensazione di sospensione è forte, e spero di riuscire a renderle un minimo di giustizia con la foto che segue.
Tolkmicko |
Come dice il titolo di questo capitolo, Massi mi riferisce che la Varmia è considerata un po' la Toscana polacca. Molto verde, poche montagne ma molte colline dolci, addirittura una sotto-regione dei laghi, uno sbocco al mare, regione ad indirizzo agricolo. In effetti, già dal tragitto percorso ieri, con l'aiuto di una bella giornata di sole (fino alla nostra fermata per la notte), l'impressione è stata positiva. La sera andiamo a mangiare la pizza in un ristorantino in riva alla Laguna della Vistola, e dopo aver constatato che il paesino è abbastanza deserto, ci ritiriamo.
Il giorno seguente facciamo un po' i turisti (ma sempre con la telecamera pronta) a Frombork. La cittadina in questione è famosa perché Niccolò Copernico visse qui i suoi ultimi anni di vita, e qui morì. Visitiamo anche il museo dove ci vengono ricordati i vari talenti del Niccolò polacco. Ci facciamo delle grasse risate davanti a wurstel e patate, proprio davanti alla cattedrale.
La cattedrale di Frombork, dove è sepolto Copernico. La foto l'ho scattata dalla torre adiacente. |
Dopo di che, ripartiamo verso Est, quasi a costeggiare il confine con la Russia. Passiamo da Braniewo, dove poco fuori, fermi al passaggio a livello, scatto queste due foto ad un treno che probabilmente veniva proprio dalla Russia.
Evidentemente, tra un regista (Massi) e un fotografo praticamente professionista (Marcel), mi sento ispirato.
Proseguiamo verso Est, facendo naturalmente diverse fermate, altra bella giornata e altri bei posti che ispirano Massi alle riprese. Arriviamo a Lidzbark Warminski, che possiede un castello con fossato impressionante.
Poi scendiamo verso Sud, sempre con un occhio al panorama, in cerca di un campeggio conosciuto da Massi, sito proprio in riva ad un lago. Il regista ha un'idea per il giorno seguente. Riprese sull'acqua. Arriviamo al campeggio, che è vicino al villaggio di Tumiany, in riva al lago Pisz. Il luogo si preannuncia bello, deserto, ci arriviamo che è buio. Ci sistemiamo e Massi fa qualche ripresa notturna. Poi usciamo per cercare un luogo urbano per mangiare qualcosa. A volte il caso guida gli audaci. Sulla piazza del mercato di Biskupiec, capitiamo per caso al ristorante/pub Na Rynku, e nonostante il menù sia abbastanza classico per la Polonia, i sapori, gli ingredienti, la cura nella preparazione ci colpiscono, tanto che ancora oggi ce lo ricordiamo nettamente. Un applauso e se doveste capitare da quelle parti, mi raccomando.
Il giorno seguente è pieno come gli altri, e mi rendo conto che raccontandoli così non rendo per niente l'idea. Come detto, riprese sull'acqua. Affittiamo un pedalò al campeggio, e ci diamo di pedalata sul lago.
Per circa due ore. Bello. La giornata, manco a dirlo, è splendida.
Dopo, gli altri due pazzi fanno il bagno, per me l'acqua è troppo fredda e passo. Poi lasciamo il campeggio e ci dirigiamo verso Szczytno, dove Marcel ci lascia, prende un autobus e torna a Varsavia, dopo aver pranzato in un bel ristorante (con cameriere carine) in riva al laghetto Domowe Male, gemello (piccolo) dell'altro presente in città, il Domowe Duze. Dopo altre riprese in riva al lago, risaliamo in auto lentamente verso Nord Ovest, fino ad arrivare ad Olsztyn (da noi ribattezzata Olsen Olsen, in onore dei Sigur Ròs), questa propriamente una città. Ripensando a tutti gli avvenimenti che sono entrati in quei giorni, mi domando come sia stato possibile, ma le distanze evidentemente non sono state così proibitive. Ci sistemiamo fuori città, facciamo un po' di spesa (io ho terminato le magliette, quindi ne compro una che non indosserò mai), ci andiamo a rilassare in riva ad uno dei sei laghi che circondano la città (credo sia stato il lago Ukiel), mentre Massi riprende ancora, aspettando il tramonto.
Torniamo al luogo dove passeremo la notte, usciamo per andare in centro per cenare, il centro storico è bello e ben curato, troviamo un ristorante che, scopriamo, chiude la cucina alle nove, ceniamo parlando e poi rientriamo. Il giorno seguente scendiamo verso Sud, ma siamo ancora nella regione dei laghi. Ce ne sono una quantità industriale. Per la notte ci sistemiamo a Dluzek, non prima di aver esplorato una zona isolata e, naturalmente, piena di laghi e corsi d'acqua.
Mentre Massi riprende, e io gli faccio da aiutante (solamente portando il treppiede, e nemmeno sempre, non vi preoccupate), ridiamo, facciamo progetti, parliamo di tutto, come sempre.
Dluzek sono quattro case in riva al lago omonimo. Un luogo abbastanza solitario e delizioso. Un giro intorno al lago, una cena frugale (ma col cuoco Massi non c'è mai niente di veramente frugale), e ci mettiamo in veranda con una birra, un po' di musica, e anche senza volerlo tiriamo le somme di questo "giro". Massi conosceva già, in parte, questa zona, ma anche lui ha scoperto luoghi incantevoli, come me. Domani di buon ora ci rimetteremo in cammino verso sud.
La mattina dopo si riparte, mangiamo qualcosa per strada, facciamo le cose con calma, c'è tempo per altre riprese, e con largo anticipo eccoci a Modlin, che venendo da Nord rimane prima di Varsavia. Massi se ne torna dalla sua famiglia, io riprendo l'aereo per l'Italia.
20130426
Polonia - Agosto 2012 - 1
un lupo |
un cervo |
Warszawa, my old town
Agosto. Stavolta "inauguro" il "nuovo" aeroporto, lontano dalla città, come quelli di tutte le metropoli che si rispettino. Il Modlin è stato aperto immediatamente dopo la fine degli Europei del 2012 (organizzati, come ricorderete, congiuntamente da Polonia ed Ucraina), e in teoria doveva essere destinato ad ospitare tutti i voli delle compagnie low-cost (dico in teoria ed uso il condizionale perché, ad esempio, Ryanair ha da poco inaugurato il volo da Pisa verso Varsavia-Chopin, l'aeroporto sito in città, quello dove di solito arrivavo e da dove ripartivo, fino all'anno scorso). L'aeroporto nasce da un vecchio aeroporto militare, e la struttura è nuovissima seppur minuscola. Massi viene a prendermi ed è sempre un piacere. Siccome è un ottimo cuoco e gli piace cucinare, è bello rivedere la casa, Sylwia ed Eliza, e mangiare quello che Massi prepara con le sua manine sante. Il giorno seguente, Massi è impegnato in città, al museo dei treni. Deve girare una sorta di promo per uno spettacolo teatrale sul flamenco; Sylwia, ricordando bene che in quattro volte che sono stato in Polonia e a Varsavia, non sono ancora stato al Museo della Rivolta, mi suggerisce che potrei andare con Massi lì dove deve girare, perché il Museo è vicinissimo, e poi andarmene da solo a visitarlo. Ottima idea, se non fosse che passare il tempo con Massi a me piace, soprattutto mentre gira, e tra parentesi, le protagoniste del promo sono quattro (spero di ricordarmi bene) ballerine, e c'è pure la coreografa, che mi prende subito in simpatia. Morale della favola, rimango tutto il giorno, senza mangiare, aiutando quando posso (a mantenere i pannelli per la rifrazione della luce, a fare ombra), e finisco pure per chiacchierare amabilmente in spagnolo con una delle ballerine, che scopro essere nata in Kazakistan (uno dei due genitori, non ricordo quale, era polacco, retaggio dunque del blocco sovietico). Avendo la passione (che poi è divenuta un lavoro) del flamenco, ha imparato un po' di spagnolo. Insomma, anche questa giornata è andata e domani si parte per il weekend.
un alce |
Quello che resta (dell'immensa foresta che migliaia di anni fa si estendeva su tutta l'Europa)
L'idea è partita non ricordo come, durante una delle quotidiane chiacchierate sul "nostro" forum, una sorta di circolo riservato per pochi intimi. Scopro, ancora, non ricordo come, una cosa che esiste da migliaia di anni. La foresta di Bialowieza è quello che rimane dell'immensa foresta che ricopriva l'Europa intera, e oggi sta a cavallo tra la Polonia e la Bielorussia. La parte polacca è minuscola rispetto a quella bielorussa, ma pare tenuta meglio e maggiormente predisposta al turismo. E quindi, l'amico Massi ha programmato questa due giorni appositamente per me, incastrandola tra due impegni di lavoro, e facendola diventare una mini-vacanza insieme a moglie e figlia (e me). Andiamo in auto, senza fretta, godendoci il panorama e giornate abbastanza clementi nel complesso. Ci fermiamo a pranzare nella tranquillissima Bielsk Podlaski, in un ristorante che fa molto circolo ricreativo ma dove il cibo non è affatto male, e proseguiamo inoltrandoci nell'umido della pre-foresta, per stradine sempre più strette e poco trafficate. Passiamo Hajnòwka, e pian piano riusciamo a trovare il luogo dove abbiamo prenotato. Bisogna prendere una strada sterrata, oltrepassare un villaggio minuscolo (ho contato meno di dieci abitazioni), ed arrivare nella succursale dello stesso villaggio alcune centinaia di metri più avanti. Completamente immerso nella suddetta foresta, una casa di campagna arredata con un gusto discutibile, con un giardino infinito, la padrona di casa ci guida nelle camere e dopo poco ci serve la cena in camera, visto che non c'era spazio al tavolo comune. Siamo a circa cinque chilometri dal confine bielorusso, prima di cena ci inoltriamo a piedi nella foresta e ci coglie un acquazzone: complici gli alberi, ci bagniamo pochissimo. Il silenzio della foresta è di quelli assordanti, di quelli già sentiti, già provati in luoghi estremi (isole Svalbard, Terra del Fuoco, Islanda). In questa foresta sono stati re-inseriti i bisonti europei, già estinti; per vederli nel loro ambiente naturale, la padrona di casa ci spiega che vengono organizzati appostamenti per i quali bisogna svegliarsi alle 4 di mattina. Naturalmente, niente e nessuno assicura la presenza dei bisonti, e quindi passo (e la mattina seguente scoprirò che passa anche Massi). Il giorno seguente andiamo a Bialowieza, laddove si trova un museo e l'antica residenza di caccia degli zar. Siamo ancora più vicini alla Bielorussia: mentre ci beviamo un caffè al bar-ristorante del museo, il roaming sui cellulari capta il segnale BL. Il museo è interessante, e spiega alla perfezione la storia della foresta ed illustra nei particolari la fauna. Si possono fare gite a cavallo o con un trenino. Per vedere gli animali, ci rechiamo in una "riserva". Lo so, non è la stessa cosa che vederli allo stato brado.
Il giorno seguente carichiamo l'auto e ripartiamo verso Varsavia, non prima di visitare le famose querce della foresta. Imponenti e maestose, sono passate attraverso zar, re, imperatori, Guerre Mondiali, fino all'Europa unita dall'Euro. Spettacolo che non lascia indifferenti. Ripassando da Hajnòwka, faccio in tempo ad innamorarmi della cassiera della stazione di servizio dove ci fermiamo a fare rifornimento. Prima di sera siamo di nuovo nella capitale. E la sera ceniamo in un ristorante greco, proprio con vista sul nuovo stadio nazionale che ha da poco ospitato gli Europei di calcio, che mi farà tornare la voglia di Grecia, a dispetto della crisi. Una cena che ricorderemo per molto tempo.
una delle maestose querce |
due zubron |
e finalmente, i bisonti! |
20130425
post del 25 aprile, anniversario della liberazione d'Italia
Dimentichiamoci per un momento un dato fondamentale, che però dice molto di noi e di come siamo finiti nella situazione in cui ci troviamo, e cioè che l'Italia è probabilmente l'unica nazione ad aver terminato ogni guerra che ha cominciato con lo schieramento opposto rispetto a quello col quale era partita. Dato che potrebbe anche non essere vero, ma, se fosse reale, non stupirebbe di certo.
Oggi, per chi ancora non lo avesse realizzato, è il 25 aprile, l'anniversario della liberazione dell'Italia dall'occupazione tedesca, e della fine del fascismo.
Detto questo, vorrei ricordare questo post di cinque anni fa con i numeri delle vittime della Seconda Guerra Mondiale (divisi tra vittime civili e vittime militari).
Infine, vorrei chiudere con questa notizia, che, paradossalmente, è una buona notizia. Il Presidente serbo chiede scusa (ed ammette quindi) per il massacro di Srebrenica: quindi, come detto paradossalmente, un mondo migliore è possibile.
Buon 25 aprile.
Max baldoria
Good Time Max - di James Franco (2007)
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
New York. Max e Adam sono due fratelli dotati di un'intelligenza brillante. A dire la verità, Max è un genio, Adam è "solo" molto intelligente. Ma mentre Adam è una persona equilibrata ed inquadrata, e mette a frutto la sua intelligenza per diventare un medico di buon successo, Max sembra eccellere per la grande capacità di mettersi nei guai. Gli piacciono i soldi, le donne e le droghe, e dopo essersi invischiato con gente molto pericolosa, arriva ad un punto in cui è costretto a lasciare la Grande Mela. E, contrariamente a quanto una persona razionale potrebbe pensare, in qualche modo riesce a convincere il fratello a partire con lui per la costa Ovest. In California, la storia sembra prendere inizialmente un'altra piega. Adam riesce a trovare un lavoro come medico, mentre Max inizia a lavorare in un'azienda informatica. Tutto va abbastanza bene, anche se sono dovuti ripartire da zero, i due fratelli sembrano aver trovato un certo equilibrio. Finchè Max non ricomincia con le droghe...
Terzo film da sceneggiatore e regista per l'attore statunitense oggi trentacinquenne e con all'attivo oltre 80 film da attore, Good Time Max è un film abbastanza scontato, ben fatto e discretamente recitato, ma un po' troppo telefonato nella sua progressione e nelle dinamiche dei due personaggi (dei quali naturalmente quello principale è quello interpretato dallo stesso James Franco, Max).
Alternando momenti che vorrebbero essere divertenti ad altri piuttosto drammatici che però non convincono fino in fondo, il film dimostra una certa mancanza di appeal nella scrittura, e certifica, per il momento, visto che il film è di ormai 6 anni fa ma nel frattempo nessun altro film da sceneggiatore o da regista di James Franco ci hanno incantato o hanno sfondato al botteghino, che quantomeno in questi due altri "ruoli", il ragazzo di Palo Alto ha ancora molto da imparare e da migliorare. Non è tutto da buttare, ma certo non è un film memorabile.
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
New York. Max e Adam sono due fratelli dotati di un'intelligenza brillante. A dire la verità, Max è un genio, Adam è "solo" molto intelligente. Ma mentre Adam è una persona equilibrata ed inquadrata, e mette a frutto la sua intelligenza per diventare un medico di buon successo, Max sembra eccellere per la grande capacità di mettersi nei guai. Gli piacciono i soldi, le donne e le droghe, e dopo essersi invischiato con gente molto pericolosa, arriva ad un punto in cui è costretto a lasciare la Grande Mela. E, contrariamente a quanto una persona razionale potrebbe pensare, in qualche modo riesce a convincere il fratello a partire con lui per la costa Ovest. In California, la storia sembra prendere inizialmente un'altra piega. Adam riesce a trovare un lavoro come medico, mentre Max inizia a lavorare in un'azienda informatica. Tutto va abbastanza bene, anche se sono dovuti ripartire da zero, i due fratelli sembrano aver trovato un certo equilibrio. Finchè Max non ricomincia con le droghe...
Terzo film da sceneggiatore e regista per l'attore statunitense oggi trentacinquenne e con all'attivo oltre 80 film da attore, Good Time Max è un film abbastanza scontato, ben fatto e discretamente recitato, ma un po' troppo telefonato nella sua progressione e nelle dinamiche dei due personaggi (dei quali naturalmente quello principale è quello interpretato dallo stesso James Franco, Max).
Alternando momenti che vorrebbero essere divertenti ad altri piuttosto drammatici che però non convincono fino in fondo, il film dimostra una certa mancanza di appeal nella scrittura, e certifica, per il momento, visto che il film è di ormai 6 anni fa ma nel frattempo nessun altro film da sceneggiatore o da regista di James Franco ci hanno incantato o hanno sfondato al botteghino, che quantomeno in questi due altri "ruoli", il ragazzo di Palo Alto ha ancora molto da imparare e da migliorare. Non è tutto da buttare, ma certo non è un film memorabile.
20130424
l'educazione di Charlie
The Education of Charlie Banks - di Fred Durst (2007)
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Anni '70, New York. Charlie e Danny sono best buddy, ma Mick, un amico di Danny, è un bulletto proveniente da un ambiente decisamente diverso da quello dal quale provengono gli altri due. Nonostante tutto, Charlie è testimone di un pestaggio a cura di Mick, e dopo qualche giorno, messo alle strette, segnala Mick alla polizia.
Tre anni più tardi, Charlie e Danny sono, naturalmente, compagni di stanza al college. Stanno formando il loro carattere e mettendo le basi per il loro avvenire; oltre a ciò, ci sono le prime esperienze con l'altro sesso. Danny è più spigliato, Charlie ha qualche problema. Un bel giorno, però, arriva Mick, che è venuto a visitare l'amico Danny, e l'equilibrio si altera. Mentre Charlie non riesce a capire se Mick è venuto a sapere che fu lui a denunciarlo alla polizia, Mick rimane diversi giorni con loro e la loro cerchia, e sorprendentemente sembra subirne il fascino e cambiare atteggiamento, perfino modo di vestire. La tensione che attanaglia Charlie arriva al top quando Mick inizia a corteggiare spudoratamente, ricambiato, Mary, la ragazza che Charlie sogna e ama silenziosamente, senza riuscire, ormai da tempo, a dichiararsi.
Debutto alla regia di un lungometraggio per il cantante dei Limp Bizkit, questo film sceneggiato da Peter Elkoff al suo unico lavoro per il cinema (per il resto è uno sceneggiatore di serie televisive), è un discreto lavoro, certamente non perfetto e neppure memorabile, ma comunque vedibile e con qualche motivo di interesse. L'intreccio non è affatto male, la regia accettabile, le prove del cast decenti, con un sempre ottimo Jesse Eisenberg nei panni di Charlie Banks. Per i fan, il personaggio di Mary è interpretato da Eva Amurri (la figlia di Susan Sarandon e Franco Amurri).
Se vi ci imbattete per caso, potete dargli un'occhiata.
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Anni '70, New York. Charlie e Danny sono best buddy, ma Mick, un amico di Danny, è un bulletto proveniente da un ambiente decisamente diverso da quello dal quale provengono gli altri due. Nonostante tutto, Charlie è testimone di un pestaggio a cura di Mick, e dopo qualche giorno, messo alle strette, segnala Mick alla polizia.
Tre anni più tardi, Charlie e Danny sono, naturalmente, compagni di stanza al college. Stanno formando il loro carattere e mettendo le basi per il loro avvenire; oltre a ciò, ci sono le prime esperienze con l'altro sesso. Danny è più spigliato, Charlie ha qualche problema. Un bel giorno, però, arriva Mick, che è venuto a visitare l'amico Danny, e l'equilibrio si altera. Mentre Charlie non riesce a capire se Mick è venuto a sapere che fu lui a denunciarlo alla polizia, Mick rimane diversi giorni con loro e la loro cerchia, e sorprendentemente sembra subirne il fascino e cambiare atteggiamento, perfino modo di vestire. La tensione che attanaglia Charlie arriva al top quando Mick inizia a corteggiare spudoratamente, ricambiato, Mary, la ragazza che Charlie sogna e ama silenziosamente, senza riuscire, ormai da tempo, a dichiararsi.
Debutto alla regia di un lungometraggio per il cantante dei Limp Bizkit, questo film sceneggiato da Peter Elkoff al suo unico lavoro per il cinema (per il resto è uno sceneggiatore di serie televisive), è un discreto lavoro, certamente non perfetto e neppure memorabile, ma comunque vedibile e con qualche motivo di interesse. L'intreccio non è affatto male, la regia accettabile, le prove del cast decenti, con un sempre ottimo Jesse Eisenberg nei panni di Charlie Banks. Per i fan, il personaggio di Mary è interpretato da Eva Amurri (la figlia di Susan Sarandon e Franco Amurri).
Se vi ci imbattete per caso, potete dargli un'occhiata.
20130423
pensando al tempo che passa
Credo sia inevitabile, soprattutto dopo i trent'anni. Quindi, è una cosa che mi capita, non dico spesso, ma insomma. Qualche giorno fa ho condiviso questo pensiero con alcune persone, e adesso voglio farlo con voi.
Sono una persona che col tempo è diventata abbastanza precisa, e spesso intollerante verso certi comportamenti, che non voglio definire incivili, perché l'inciviltà è ben più grave - spero di non aver ancora perso il contatto con la realtà, ma quantomeno poco educati, o poco rispettosi degli altri.
Dunque, quasi ogni giorno vado in piscina; la piscina è "compresa" in una palestra abbastanza grande e frequentata. Negli spogliatoi, grandi e ben tenuti, ci sono decine e decine di armadietti, che chi vuole può pure chiudere a chiave. In questi armadietti c'è posto sia per i vestiti, sia per la borsa, sia per le scarpe. Eppure, molte persone lasciano le scarpe fuori, sotto le panche per sedersi, oppure sopra gli armadietti; qualcuno ci lascia pure le ciabatte per andare in doccia. Ma diversi personaggi, lasciano fuori anche le borse. Ora, finché uno la lascia sopra gli armadietti, chi se ne frega. Ma secondo me, uno che la lascia sopra le panche, è almeno maleducato.
Di solito ultimamente vado a nuotare appena apre la piscina, verso le 8,30. Un paio di mattine alla settimana, c'è pure un personaggio che a me pare buffo, ma magari ha scoperto il segreto della fusione a freddo. Solitamente si spoglia vicino a me, ognuno ha il suo "spot" preferito, soprattutto quando gli armadietti sono tutti liberi. Non ha un buon odore, ma ognuno ha il suo, magari puzzo anch'io e non me ne accorgo. Io mi svesto e vado in piscina più in fretta di quanto faccia lui, e quindi non lo noto, ma siccome nuoto meno di quanto lui stia in palestra, quando torno noto che lui, la borsa, la lascia sopra la panca, davanti all'armadietto che ha occupato. Io non dico niente, ma penso che lui, come altri, sia maleducato. Oltre a questo, mi è capitato di pensare: "Ma pensa un po', questo signore, che avrà pure una certa età, è piuttosto maleducato; tra l'altro, normalmente io quando arrivavo davo il buongiorno, e lui non ritornava mai il saluto - ultimamente è leggermente migliorato, magari era solo timido. E insomma cazzo, ha una certa età e dovrebbe essere più civile, di solito quando si è giovani si tende a fregarsene di più delle regole".
Poi, dopo qualche tempo che pensavo a questa cosa, mi sono ricordato che io ho 47 anni, e che questa persona potrebbe benissimo averne 45 e, con un fisico leggermente peggiore del mio e alcuni particolari che secondo me ti invecchiano un po' agli occhi degli altri, avermi dato l'impressione di essere più vecchio di me, oppure potrebbe averne 35 e stare di merda, e comunque essere più giovane di me.
Proseguendo con questo ragionamento che, mi rendo conto, deve risultarvi piuttosto contorto (a me per niente visto che sono un tipo mediamente contorto, almeno nei ragionamenti; quando invece voglio sintetizzare, a volte mi riesce), ho realizzato che questo meccanismo è una cosa mia, e non so se succede anche a voi. Mi sono accorto che lo uso anche per i capelli. Questa cosa non l'avevo mai detta, perché l'ho messa a fuoco dopo alcune battute "di ritorno": io sono senza capelli, ma faccio battute sui capelli degli altri come se io ce li avessi i capelli. E anche nel caso dell'età, la mia mente agisce in maniera strana: so che non sono più giovane, lo so benissimo, ma reagisco con sorpresa quando le persone più giovani mi si rivolgono con il "lei" (quando invece dovrebbe essere abbastanza normale, e visto che la maleducazione impera, dovrei pure essere lusingato e rispettare qualcuno più giovane che conserva le buone maniere), ma soprattutto, guardo le persone che non conosco come se fossi un sedicenne: dando del lei ed usando un certo timore reverenziale quando queste mi risultino, all'occhiata, più anziane di me, quando invece potrebbero essere mie coetanee o addirittura più giovani e non sembrarlo, sempre ai miei occhi.
La cosa si complica ancor di più quando guardo le donne. A volte, mi capita di vedere ragazze giovani, che ne so, tra i venti e i trenta (ma a volte, a mia parziale discolpa, sapete bene che ci sono sedicenni che dimostrano più di vent'anni), e magari guardarle anche con l'occhio maiale. Poi, all'improvviso, mi sovviene che potrebbero essere figlie di qualche collega, qualche conoscente, e che magari se avvenisse la situazione al contrario (se io avessi una figlia di quell'età e se qualche conoscente/collega la guardasse con l'occhio maiale), non sarebbe esattamente piacevole. E insomma, ogni volta devo ricordare a me stesso che mancano meno di tre anni ad averne cinquanta. E pensare che basterebbe fare una corsetta, e il fiato me lo ricorderebbe immediatamente.
Si è capito qualcosa?
Sono una persona che col tempo è diventata abbastanza precisa, e spesso intollerante verso certi comportamenti, che non voglio definire incivili, perché l'inciviltà è ben più grave - spero di non aver ancora perso il contatto con la realtà, ma quantomeno poco educati, o poco rispettosi degli altri.
Dunque, quasi ogni giorno vado in piscina; la piscina è "compresa" in una palestra abbastanza grande e frequentata. Negli spogliatoi, grandi e ben tenuti, ci sono decine e decine di armadietti, che chi vuole può pure chiudere a chiave. In questi armadietti c'è posto sia per i vestiti, sia per la borsa, sia per le scarpe. Eppure, molte persone lasciano le scarpe fuori, sotto le panche per sedersi, oppure sopra gli armadietti; qualcuno ci lascia pure le ciabatte per andare in doccia. Ma diversi personaggi, lasciano fuori anche le borse. Ora, finché uno la lascia sopra gli armadietti, chi se ne frega. Ma secondo me, uno che la lascia sopra le panche, è almeno maleducato.
Di solito ultimamente vado a nuotare appena apre la piscina, verso le 8,30. Un paio di mattine alla settimana, c'è pure un personaggio che a me pare buffo, ma magari ha scoperto il segreto della fusione a freddo. Solitamente si spoglia vicino a me, ognuno ha il suo "spot" preferito, soprattutto quando gli armadietti sono tutti liberi. Non ha un buon odore, ma ognuno ha il suo, magari puzzo anch'io e non me ne accorgo. Io mi svesto e vado in piscina più in fretta di quanto faccia lui, e quindi non lo noto, ma siccome nuoto meno di quanto lui stia in palestra, quando torno noto che lui, la borsa, la lascia sopra la panca, davanti all'armadietto che ha occupato. Io non dico niente, ma penso che lui, come altri, sia maleducato. Oltre a questo, mi è capitato di pensare: "Ma pensa un po', questo signore, che avrà pure una certa età, è piuttosto maleducato; tra l'altro, normalmente io quando arrivavo davo il buongiorno, e lui non ritornava mai il saluto - ultimamente è leggermente migliorato, magari era solo timido. E insomma cazzo, ha una certa età e dovrebbe essere più civile, di solito quando si è giovani si tende a fregarsene di più delle regole".
Poi, dopo qualche tempo che pensavo a questa cosa, mi sono ricordato che io ho 47 anni, e che questa persona potrebbe benissimo averne 45 e, con un fisico leggermente peggiore del mio e alcuni particolari che secondo me ti invecchiano un po' agli occhi degli altri, avermi dato l'impressione di essere più vecchio di me, oppure potrebbe averne 35 e stare di merda, e comunque essere più giovane di me.
Proseguendo con questo ragionamento che, mi rendo conto, deve risultarvi piuttosto contorto (a me per niente visto che sono un tipo mediamente contorto, almeno nei ragionamenti; quando invece voglio sintetizzare, a volte mi riesce), ho realizzato che questo meccanismo è una cosa mia, e non so se succede anche a voi. Mi sono accorto che lo uso anche per i capelli. Questa cosa non l'avevo mai detta, perché l'ho messa a fuoco dopo alcune battute "di ritorno": io sono senza capelli, ma faccio battute sui capelli degli altri come se io ce li avessi i capelli. E anche nel caso dell'età, la mia mente agisce in maniera strana: so che non sono più giovane, lo so benissimo, ma reagisco con sorpresa quando le persone più giovani mi si rivolgono con il "lei" (quando invece dovrebbe essere abbastanza normale, e visto che la maleducazione impera, dovrei pure essere lusingato e rispettare qualcuno più giovane che conserva le buone maniere), ma soprattutto, guardo le persone che non conosco come se fossi un sedicenne: dando del lei ed usando un certo timore reverenziale quando queste mi risultino, all'occhiata, più anziane di me, quando invece potrebbero essere mie coetanee o addirittura più giovani e non sembrarlo, sempre ai miei occhi.
La cosa si complica ancor di più quando guardo le donne. A volte, mi capita di vedere ragazze giovani, che ne so, tra i venti e i trenta (ma a volte, a mia parziale discolpa, sapete bene che ci sono sedicenni che dimostrano più di vent'anni), e magari guardarle anche con l'occhio maiale. Poi, all'improvviso, mi sovviene che potrebbero essere figlie di qualche collega, qualche conoscente, e che magari se avvenisse la situazione al contrario (se io avessi una figlia di quell'età e se qualche conoscente/collega la guardasse con l'occhio maiale), non sarebbe esattamente piacevole. E insomma, ogni volta devo ricordare a me stesso che mancano meno di tre anni ad averne cinquanta. E pensare che basterebbe fare una corsetta, e il fiato me lo ricorderebbe immediatamente.
Si è capito qualcosa?
20130422
diplomacy in action
La prima rielezione di un Presidente della Repubblica Italiana dal 1946 (si, ogni tanto fa bene rifletterci: abbiamo 67 anni di storia repubblicana), così come ogni evento politico, può generare le riflessioni più disparate, a seconda di come il commentatore la vuole interpretare. Di sicuro ci sono persone ben più accreditate di me per effettuare la riflessione di cui sto parlando, ma questa è la mia.
Il fatto che non fosse mai successo, e che il Presidente Giorgio Napolitano (Berlusconi che esulta, ma che nemmeno troppi anni fa lo definì comunista - a rigor di logica a ragione, visto che è fin'ora l'unico Presidente italiano ad essere stato iscritto al PCI -, è un'immagine stupefacente; e pensare che c'è chi è convinto che fosse una spia degli americani negli ambienti sovietici) abbia 87 anni, a mio giudizio denota, se ce ne fosse ancora bisogno, una totale ingessatura della politica italiana, la sua completa incapacità di rinnovarsi e di guardare avanti: dopo Monti Presidente del Consiglio (manovra interamente voluta da Napolitano stesso) per rassicurare i mercati, si rielegge il Presidente della Repubblica uscente dopo due mesi di comportamenti a livello di asilo da parte di tutti, e dico tutti, gli eletti alla Camera e al Senato, soprattutto i segretari dei partiti e i loro leader (ancora una volta, tutti compresi, nessuno escluso), e si rielegge solo perché se il tira e molla avesse dovuto durare qualche altro giorno ci saremmo, ancora una volta, coperti di ridicolo, come se a livello di ridicolo avessimo ancora un'apertura di credito. Sappiatelo (in caso credeste ancora a Babbo Natale): non ce l'abbiamo, e sinceramente, non so come sia possibile che ogni straniero non ci rida dietro ogni volta che sente pronunciare il nome Italia.
Da martedì prossimo ricominceranno le consultazioni per ulteriori prove di formazione di uno straccio di governo. A beneficio di chi fosse stato sospeso criogenicamente negli ultimi 25 anni, oppure sia giovane, siccome uno dei nomi che stanno circolando è quello di Giuliano Amato, voglio ricordare che lo stesso Amato è stato Presidente del Consiglio dal 28 giugno 1992 al 22 aprile 1993, e ancora dal 25 aprile del 2000 all'11 giugno 2001; durante il suo primo mandato varò il prelievo forzoso del 6 per mille dai conti correnti per risanare la disastrosa situazione economica. Così come Giorgio Napolitano, che aveva dichiarato che non sarebbe stato disponibile per un secondo mandato da Presidente della Repubblica, Amato aveva annunciato il suo ritiro dalla politica il 2 giugno 2008.
Stranamente, ma nemmeno troppo, in questi giorni su HBO è ripresa la serie Veep, per la sua seconda stagione. Quando stavo riflettendo su queste cose, ed ho visto una delle locandine della seconda stagione di questa serie, ho pensato che nessuna immagine sarebbe stata più appropriata, e quindi, accompagnerò questo post con la suddetta immagine, sperando di farvi almeno sorridere per un attimo.
20130421
giustificato
Justified - di Graham Yost - Stagioni 1, 2, 3 e 4 (13 episodi ciascuna; FX) - 2010/2013
Raylan Givens, come lo descrivono molti dei riassunti di Justified e come pensano molti di quelli che lo incontrano, è un uomo di legge del diciannovesimo secolo, che però è uno U.S. Marshal dei giorni nostri. Nato e cresciuto in Kentucky, cosa che per chi conosce gli USA dovrebbe già spiegare molte cose, agli inizi di questa storia è in servizio a Miami, Florida. Ha dato una sorta di ultimatum ad un boss del traffico di droga: entro 24 ore dovrà lasciare la città, altrimenti lui lo farà fuori. Non propriamente un comportamento da manuale. Eppure, quando lo incontra allo scadere delle 24 ore, mentre lui sta cenando, il malavitoso tenta di sparargli, senza sapere che Raylan è un tiratore come non ce ne sono più (e ricordiamoci della cosa del diciannovesimo secolo). Morale della favola, il boss muore, Raylan viene messo sotto inchiesta per verificare se la sparatoria fosse giustificata, e il suo capo lo trasferisce. Givens, da Miami, viene destinato a Lexington, Kentucky. Esattamente l'unico luogo dove Raylan non avrebbe mai voluto tornare. Troppo vicino ad Harlan, il luogo dove è nato. Scopriremo che il selvaggio Kentucky, terra che mischia religione, armi, droga, fuorilegge come nel diciannovesimo secolo (e dagli), dotata un tempo di una bellezza, appunto, selvaggia, ma devastata dalle miniere, ridotta alla fame da questo tipo di sfruttamento. Scopriremo che Raylan è figlio di Arlo, un fuorilegge ormai vecchio ma ancora stronzo, che è rimasto orfano della madre in tenera età e che è stato cresciuto dalla zia, che poi ha finito per fare coppia con lo stesso Arlo, che ha lavorato in miniera insieme ad altri vecchi amici, questi tutti finiti a fare qualcosa di illegale. Scopriremo infine che Raylan era sposato con Winona, una donna bellissima, e che i due probabilmente ancora si amano, ma che la loro storia era destinata a non durare a causa del lavoro, e soprattutto per come svolge il suo lavoro, lo stesso Raylan. Lo U.S. Marshal Raylan Givens, dunque, torna vicino a casa, sotto il vecchio amico Art Mullen, e quasi immediatamente si ritrova a dover fare i conti con un altro vecchio amico, divenuto un boss del movimento della Supremazia Bianca, Boyd Crowder (una famiglia che ha sempre avuto una faida in corso con i Givens, tra l'altro), mentre fa conoscenza con i suoi nuovi colleghi di lavoro.
Ecco, tanto per darvi un'idea della densità di questa serie, quello che ho tentato di riassumere è contenuto nel primo episodio della prima stagione, durata circa 40 minuti. Potete solo provare ad immaginare cosa ci sia dentro quattro stagioni formate da 13 episodi ciascuna. Non ricordo neppure come mi sono avvicinato a Justified, probabilmente perché era un momento in cui c'era poco al cinema e pure alla televisione. E, vi giuro, come spesso capita non avrei creduto che potesse interessarmi così tanto. Invece, questa serie ispirata a due romanzi e ad un racconto breve dello scrittore e sceneggiatore Elmore Leonard (leggendo la sua scheda vi stupirete venendo a conoscenza di quante delle sue storie sono divenute film), che non ho mai letto ma che sono abbastanza sicuro, adesso, che mi piacerebbe, ti prende ben bene e non ti molla. Oltre al fatto che in qualche modo si capisce un pochino meglio la differenza tra i vari corpi che vegliano sulla legge negli Stati Uniti, illustrandoci le dinamiche spesso piene di attriti, nonché i compiti degli U.S. Marshals, e la descrizione, magari un po' esagerata e caricaturale, ma non essendoci mai stato non mi spingerei a credere sia una bugia, della Bible Belt, della sua gente e del valore della vita in quella zona, Justified ti trafigge e ti affascina per i suoi dialoghi, naturalmente creati da Leonard, ma ricostruiti ed adattati alla perfezione dagli sceneggiatori e messi in scena alla grande da registi capaci e da un cast a volte stupefacente, dialoghi di una finezza, e al tempo stesso grevi e violenti, dialoghi intrisi di cultura letteraria e biblica, dialoghi taglienti e dotati di cinismo ed ironia, dialoghi che risultano essere uno spettacolo nello spettacolo.
Così come affascinante risulta la figura del protagonista Raylan Givens, interpretato magistralmente dall'ottimo Timothy Olyphant, fin'ora relegato a parti non particolarmente rilevanti ma evidentemente degno di altre opportunità, così la sua nemesi, quel Boyd Crowder al quale dà corpo quel Walton Goggins che tanto avevamo odiato per il suo Shane in The Shield; belle anche tutte le altre interpretazioni, da segnalare la presenza di Margo Martindale nei panni di Mags Bennett durante la seconda stagione, e decisamente interessanti le prestazioni di Joelle Carter (Ava Crowder) e pure di Natalie Zea (Winona), decisamente sempre un bel vedere (e sempre con delle bellissime scarpe, tra le altre cose). Sorprendente anche come la serie riesca a caratterizzare benissimo anche i personaggi minori. Davvero ben fatta.
La colonna sonora, sempre misurata, naturalmente ingloba soprattutto country, nei dialoghi a volte ci sono spassosi riferimenti musicali, e, come già vi avevo anticipato tra le righe, ogni tanto fa capolino il clogging.
Raylan Givens, come lo descrivono molti dei riassunti di Justified e come pensano molti di quelli che lo incontrano, è un uomo di legge del diciannovesimo secolo, che però è uno U.S. Marshal dei giorni nostri. Nato e cresciuto in Kentucky, cosa che per chi conosce gli USA dovrebbe già spiegare molte cose, agli inizi di questa storia è in servizio a Miami, Florida. Ha dato una sorta di ultimatum ad un boss del traffico di droga: entro 24 ore dovrà lasciare la città, altrimenti lui lo farà fuori. Non propriamente un comportamento da manuale. Eppure, quando lo incontra allo scadere delle 24 ore, mentre lui sta cenando, il malavitoso tenta di sparargli, senza sapere che Raylan è un tiratore come non ce ne sono più (e ricordiamoci della cosa del diciannovesimo secolo). Morale della favola, il boss muore, Raylan viene messo sotto inchiesta per verificare se la sparatoria fosse giustificata, e il suo capo lo trasferisce. Givens, da Miami, viene destinato a Lexington, Kentucky. Esattamente l'unico luogo dove Raylan non avrebbe mai voluto tornare. Troppo vicino ad Harlan, il luogo dove è nato. Scopriremo che il selvaggio Kentucky, terra che mischia religione, armi, droga, fuorilegge come nel diciannovesimo secolo (e dagli), dotata un tempo di una bellezza, appunto, selvaggia, ma devastata dalle miniere, ridotta alla fame da questo tipo di sfruttamento. Scopriremo che Raylan è figlio di Arlo, un fuorilegge ormai vecchio ma ancora stronzo, che è rimasto orfano della madre in tenera età e che è stato cresciuto dalla zia, che poi ha finito per fare coppia con lo stesso Arlo, che ha lavorato in miniera insieme ad altri vecchi amici, questi tutti finiti a fare qualcosa di illegale. Scopriremo infine che Raylan era sposato con Winona, una donna bellissima, e che i due probabilmente ancora si amano, ma che la loro storia era destinata a non durare a causa del lavoro, e soprattutto per come svolge il suo lavoro, lo stesso Raylan. Lo U.S. Marshal Raylan Givens, dunque, torna vicino a casa, sotto il vecchio amico Art Mullen, e quasi immediatamente si ritrova a dover fare i conti con un altro vecchio amico, divenuto un boss del movimento della Supremazia Bianca, Boyd Crowder (una famiglia che ha sempre avuto una faida in corso con i Givens, tra l'altro), mentre fa conoscenza con i suoi nuovi colleghi di lavoro.
Ecco, tanto per darvi un'idea della densità di questa serie, quello che ho tentato di riassumere è contenuto nel primo episodio della prima stagione, durata circa 40 minuti. Potete solo provare ad immaginare cosa ci sia dentro quattro stagioni formate da 13 episodi ciascuna. Non ricordo neppure come mi sono avvicinato a Justified, probabilmente perché era un momento in cui c'era poco al cinema e pure alla televisione. E, vi giuro, come spesso capita non avrei creduto che potesse interessarmi così tanto. Invece, questa serie ispirata a due romanzi e ad un racconto breve dello scrittore e sceneggiatore Elmore Leonard (leggendo la sua scheda vi stupirete venendo a conoscenza di quante delle sue storie sono divenute film), che non ho mai letto ma che sono abbastanza sicuro, adesso, che mi piacerebbe, ti prende ben bene e non ti molla. Oltre al fatto che in qualche modo si capisce un pochino meglio la differenza tra i vari corpi che vegliano sulla legge negli Stati Uniti, illustrandoci le dinamiche spesso piene di attriti, nonché i compiti degli U.S. Marshals, e la descrizione, magari un po' esagerata e caricaturale, ma non essendoci mai stato non mi spingerei a credere sia una bugia, della Bible Belt, della sua gente e del valore della vita in quella zona, Justified ti trafigge e ti affascina per i suoi dialoghi, naturalmente creati da Leonard, ma ricostruiti ed adattati alla perfezione dagli sceneggiatori e messi in scena alla grande da registi capaci e da un cast a volte stupefacente, dialoghi di una finezza, e al tempo stesso grevi e violenti, dialoghi intrisi di cultura letteraria e biblica, dialoghi taglienti e dotati di cinismo ed ironia, dialoghi che risultano essere uno spettacolo nello spettacolo.
Così come affascinante risulta la figura del protagonista Raylan Givens, interpretato magistralmente dall'ottimo Timothy Olyphant, fin'ora relegato a parti non particolarmente rilevanti ma evidentemente degno di altre opportunità, così la sua nemesi, quel Boyd Crowder al quale dà corpo quel Walton Goggins che tanto avevamo odiato per il suo Shane in The Shield; belle anche tutte le altre interpretazioni, da segnalare la presenza di Margo Martindale nei panni di Mags Bennett durante la seconda stagione, e decisamente interessanti le prestazioni di Joelle Carter (Ava Crowder) e pure di Natalie Zea (Winona), decisamente sempre un bel vedere (e sempre con delle bellissime scarpe, tra le altre cose). Sorprendente anche come la serie riesca a caratterizzare benissimo anche i personaggi minori. Davvero ben fatta.
La colonna sonora, sempre misurata, naturalmente ingloba soprattutto country, nei dialoghi a volte ci sono spassosi riferimenti musicali, e, come già vi avevo anticipato tra le righe, ogni tanto fa capolino il clogging.
20130420
wedding
Dedicato a tutti quelli che pensano che sia una malattia. Continuate a leggere il Levitico, continuate a rimanere nell'antichità: noi ci avviamo nel futuro.
Auguri a Francesca e Maria Silvia, anche se non le conosco. Possiate continuare ad essere felici.
Auguri a Francesca e Maria Silvia, anche se non le conosco. Possiate continuare ad essere felici.
Back to Chicago
Shameless US - di Paul Abbott sviluppata da John Wells - Stagione 3 (12 episodi; Showtime) - 2013
In casa Gallagher si stanno creando nuove situazioni. Jimmy (The Artist/Thief Formerly Known As Steve) vive ormai stabilmente lì con Fiona e tutti i "ragazzi", nonostante Nando, il boss malavitoso brasiliano, insista perché rimanga sposato legalmente con Estefania (naturalmente, Nando insiste con le maniere forti) per far si che la ragazza ottenga la cittadinanza statunitense. Non è una passeggiata per Jimmy, e si capisce fin da subito. Non contento, Nando fa "francobollare" Jimmy da Beto, minuto per minuto.
Frank, intanto, magicamente si risveglia da una delle sue sbronze nientemeno che in Messico, e comincia a provare a passare la frontiera. Sfortunatamente, ma prevedibilmente, è senza uno straccio di documento, per cui viene respinto. Frank è però un uomo dalle mille risorse, troverà il modo. Nel frattempo, Lip, Ian e Mandy continuano a formare uno strano terzetto, anche se Ian si vede di nascosto con Lloyd, il padre di Jimmy, Carl, Debbie e Liam crescono, ognuno con i loro problemi, Sheila e Jody continuano tranquillamente a fare i genitori di Hymie dopo averlo "rubato", Veronica e Kev tirano avanti facendo soft porno on line.
Lo Shameless statunitense prosegue, e scusate se farò un paio (o tre) di paragoni con la versione originale, quella inglese, della quale tra parentesi sta andando in onda l'undicesima, e pare ultima, stagione. Dicevo, prosegue, ed essendo un dramedy, devo dire che ripensandoci adesso, chiusa la stagione e archiviata, quindi, per questo 2013, mi è parso che il drama abbia prevalso decisamente sulla comedy. Anche la versione inglese, in maniera altalenante, aveva momenti drammatici, ma l'atmosfera rimaneve comunque ridanciana. Certo, Frank Gallagher (un sempre straordinario e impagabile William H. Macy), al pari del figlio prediletto (almeno, in questa stagione, dopo lo scontro di Frank con Debbie, esasperata pure lei quasi come Fiona) Carl, e perché no, pure tutta la storyline di Jimmy/Steve alle prese con la sua famiglia "sulla carta", senza dimenticare la coppia esplosiva Veronica/Kev, assicurano un discreto minutaggio ridanciano alla serie, che, e qui mi ripeto, spesso però viene usato come "cuscinetto" tra le altre storylines decisamente più "serie"; se vi state chiedendo dove sia la ripetizione, sta nel fatto che la versione della quale stiamo parlando, a differenza di quella inglese, porta avanti tutte le storylines insieme.
E qui arriviamo al dunque. Se nella versione inglese Fiona, la parte sana della disastrata e disastrosa famiglia Gallagher, scompariva insieme al suo Steve al termine della seconda stagione, qua Fiona rimane ed è decisamente il fulcro vivo della serie, mentre la figura di Frank, stavolta proprio come nella serie inglese, è il personaggio sempre (o quasi) presente, che però funge da satellite, da guastatore, autore di innumerevoli toccata e fuga. Senza anticipare troppe cose a quelli che devono vederla ancora, sappiate che Fiona, la quasi altrettanto impagabile Emmy Rossum (tra parentesi, leggete le prime due righe della sua bio: chissà che l'esperienza personale non l'abbia aiutata a calarsi completamente in questo ruolo), che davvero dà anima e corpo a questo personaggio col quale, soprattutto nel corso di questa ultima stagione, è diventato impossibile non empatizzare fortemente, se non lo era già, diventa definitivamente il centro assoluto di questo Shameless.
Certo, anche gli ultimi risvolti della storia di Frank mettono una certa curiosità su dove andrà a parare la quarta stagione, che probabilmente partirà a gennaio 2014.
Abbandonata un po' la fotografia sociale del white trash urbano (anche se la parentesi "attivista" di Frank dice molte più cose di un trattato sui diritti delle minoranze), non più una serie roboante ed estrema (seppure non manchino i particolari eclatanti), Shameless US sembra avviarsi sulla strada dell'introspezione necessaria ma negata per mancanza di momenti di relax. Perché sulla tavola bisogna metterci pur qualcosa, e perché l'amore di una madre, evidentemente, può essere uguagliato, e a volte addirittura superato, da quello di una sorella maggiore. Mai come oggi, Fiona for President!
In casa Gallagher si stanno creando nuove situazioni. Jimmy (The Artist/Thief Formerly Known As Steve) vive ormai stabilmente lì con Fiona e tutti i "ragazzi", nonostante Nando, il boss malavitoso brasiliano, insista perché rimanga sposato legalmente con Estefania (naturalmente, Nando insiste con le maniere forti) per far si che la ragazza ottenga la cittadinanza statunitense. Non è una passeggiata per Jimmy, e si capisce fin da subito. Non contento, Nando fa "francobollare" Jimmy da Beto, minuto per minuto.
Frank, intanto, magicamente si risveglia da una delle sue sbronze nientemeno che in Messico, e comincia a provare a passare la frontiera. Sfortunatamente, ma prevedibilmente, è senza uno straccio di documento, per cui viene respinto. Frank è però un uomo dalle mille risorse, troverà il modo. Nel frattempo, Lip, Ian e Mandy continuano a formare uno strano terzetto, anche se Ian si vede di nascosto con Lloyd, il padre di Jimmy, Carl, Debbie e Liam crescono, ognuno con i loro problemi, Sheila e Jody continuano tranquillamente a fare i genitori di Hymie dopo averlo "rubato", Veronica e Kev tirano avanti facendo soft porno on line.
Lo Shameless statunitense prosegue, e scusate se farò un paio (o tre) di paragoni con la versione originale, quella inglese, della quale tra parentesi sta andando in onda l'undicesima, e pare ultima, stagione. Dicevo, prosegue, ed essendo un dramedy, devo dire che ripensandoci adesso, chiusa la stagione e archiviata, quindi, per questo 2013, mi è parso che il drama abbia prevalso decisamente sulla comedy. Anche la versione inglese, in maniera altalenante, aveva momenti drammatici, ma l'atmosfera rimaneve comunque ridanciana. Certo, Frank Gallagher (un sempre straordinario e impagabile William H. Macy), al pari del figlio prediletto (almeno, in questa stagione, dopo lo scontro di Frank con Debbie, esasperata pure lei quasi come Fiona) Carl, e perché no, pure tutta la storyline di Jimmy/Steve alle prese con la sua famiglia "sulla carta", senza dimenticare la coppia esplosiva Veronica/Kev, assicurano un discreto minutaggio ridanciano alla serie, che, e qui mi ripeto, spesso però viene usato come "cuscinetto" tra le altre storylines decisamente più "serie"; se vi state chiedendo dove sia la ripetizione, sta nel fatto che la versione della quale stiamo parlando, a differenza di quella inglese, porta avanti tutte le storylines insieme.
E qui arriviamo al dunque. Se nella versione inglese Fiona, la parte sana della disastrata e disastrosa famiglia Gallagher, scompariva insieme al suo Steve al termine della seconda stagione, qua Fiona rimane ed è decisamente il fulcro vivo della serie, mentre la figura di Frank, stavolta proprio come nella serie inglese, è il personaggio sempre (o quasi) presente, che però funge da satellite, da guastatore, autore di innumerevoli toccata e fuga. Senza anticipare troppe cose a quelli che devono vederla ancora, sappiate che Fiona, la quasi altrettanto impagabile Emmy Rossum (tra parentesi, leggete le prime due righe della sua bio: chissà che l'esperienza personale non l'abbia aiutata a calarsi completamente in questo ruolo), che davvero dà anima e corpo a questo personaggio col quale, soprattutto nel corso di questa ultima stagione, è diventato impossibile non empatizzare fortemente, se non lo era già, diventa definitivamente il centro assoluto di questo Shameless.
Certo, anche gli ultimi risvolti della storia di Frank mettono una certa curiosità su dove andrà a parare la quarta stagione, che probabilmente partirà a gennaio 2014.
Abbandonata un po' la fotografia sociale del white trash urbano (anche se la parentesi "attivista" di Frank dice molte più cose di un trattato sui diritti delle minoranze), non più una serie roboante ed estrema (seppure non manchino i particolari eclatanti), Shameless US sembra avviarsi sulla strada dell'introspezione necessaria ma negata per mancanza di momenti di relax. Perché sulla tavola bisogna metterci pur qualcosa, e perché l'amore di una madre, evidentemente, può essere uguagliato, e a volte addirittura superato, da quello di una sorella maggiore. Mai come oggi, Fiona for President!
20130419
i diari di Carrie
The Carrie Diaries - di Candace Bushnell sviluppato da Amy B. Harris - Stagione 1 (13 episodi; The CW) - 2013
Siamo nel 1984, nel Connecticut, in quelli che gli statunitensi chiamano suburbs. Non lontani da New York, giusto un'ora e qualcosa di treno. Però qui è tutta un'altra musica, anche se, letteralmente, la musica di quegli anni arriva, in lontananza, o nelle camerette di qualche adolescente. La famiglia Bradshaw sta affrontando una gravissima perdita: quella della madre. Il padre Tom, avvocato in uno studio newyorkese, si affanna come può a gestire la situazione: ha due figlie adolescenti, Carrie di 16 anni e Dorrit di 14, e di certo non era abituato a gestire nessun tipo di dinamica con loro. Sarà un lavoro duro.
Dorrit è la ribelle della famiglia, vestita come i punk ed amante di Sex Pistols e Joy Division; sembra in qualche modo godere ad infastidire la sorella maggiore, che secondo lei sta cercando di sostituirsi alla figura materna. Carrie è una ragazzina responsabile, educata, fin troppo con i piedi per terra. Ha due amiche del cuore, Jill Chen detta Mouse, di origini asiatiche, intelligente e studiosa, destinata ad Harvard, e Maggie, figlia di un poliziotto e proveniente da una famiglia non perfetta. Carrie vuole molto bene anche a Walt, il fidanzato di Maggie. Carrie ha due altre grandi passioni: la moda e la scrittura. Vorrebbe fare la giornalista, o la scrittrice, ed è molto interessata ai trend dello stile. E' ancora vergine, così come Mouse e a differenza di Maggie (che però non ha perso la verginità con Walt), e siccome è una che pensa molto, la cosa a volte la mette in difficoltà. E quando nella loro scuola appare Sebastian Kydd, un ragazzo più grande, molto bello, di famiglia molto ricca e, come spesso capita, piuttosto ribelle, tra lui e Carrie nasce subito qualcosa.
So che un 47enne che guarda una serie che negli States va su The CW, per chi ha elementi sufficienti, potrebbe sembrare quantomeno strano. In fondo, CW è una rete che soprattutto manda in onda programmi per adolescenti; eppure, conosco molti della mia età che andavano pazzi per Smallville. Ma andiamo avanti. The Carrie Diaries nasce dalla penna di Candace Bushnell, in pratica Miss Sex & the City (anche qui, una serie che poteva sembrare destinata esclusivamente ad un pubblico femminile, e che invece è diventata un culto anche per i maschietti). Infatti, non so se ve ne siete resi conto, ma la protagonista di questa serie si chiama Carrie Bradshaw: proprio lei. E quindi, così come il libro omonimo, queste vicende sono una sorta di prequel di Sex & the City, e ci fanno conoscere l'adolescenza e le origini di quella che poi sarebbe divenuta la protagonista delle avventure nella Manhattan da bere.
Ora, sinceramente non avrei mai pensato di guardarmi una serie del genere. Eppure, vuoi perché non ne ho mai abbastanza (di serie tv), vuoi perché su serialmente.com, come ormai avrete capito il mio sito di serie tv di riferimento, ne hanno subito parlato bene (sorprendendosi un po'), ci ho provato. Il risultato è stato discreto, devo dire. Buonista fino allo sfinimento (anche se ci sono le droghe, il sesso, la musica che poi sarebbe divenuta di culto), educato, edulcorato, patinato, ingessato, spesso prevedibile, The Carrie Diaries è comunque una visione caruccia, fondata su buoni sentimenti, che prova a descrivere com'era crescere nei suburbs negli anni '80, senza affondare troppo (per tutto il resto che The Americans), e pure come poteva essere per un uomo provare a crescere due adolescenti. E' vero che svacca un po' verso gli ultimi episodi (soprattutto nell'ultimo), complice probabilmente il mancato rinnovo (almeno per il momento) per una seconda stagione, è vero che ha molti difetti e sicuramente non ha niente di filosofico, ma a me ha fatto tenerezza e non ho fatto grande fatica a seguirlo. Risulta sorprendente perché, forse, ci si aspetta qualcosa di molto superficiale: alla fine non è così, per niente.
Il cast, molto giovane, non è eccezionale ma se la cavano tutti abbastanza bene. Come vi ho già detto, il personaggio di Maggie è interpretato da Katie Findlay, già Rosie Larsen in The Killing; Carrie è interpretata dalla diciannovenne AnnaSophia Robb, il personaggio più interessante, forse, è quello di Larissa, messo in scena dall'inglese di origini ghanesi ed iraniane Freema Agyeman.
Siamo nel 1984, nel Connecticut, in quelli che gli statunitensi chiamano suburbs. Non lontani da New York, giusto un'ora e qualcosa di treno. Però qui è tutta un'altra musica, anche se, letteralmente, la musica di quegli anni arriva, in lontananza, o nelle camerette di qualche adolescente. La famiglia Bradshaw sta affrontando una gravissima perdita: quella della madre. Il padre Tom, avvocato in uno studio newyorkese, si affanna come può a gestire la situazione: ha due figlie adolescenti, Carrie di 16 anni e Dorrit di 14, e di certo non era abituato a gestire nessun tipo di dinamica con loro. Sarà un lavoro duro.
Dorrit è la ribelle della famiglia, vestita come i punk ed amante di Sex Pistols e Joy Division; sembra in qualche modo godere ad infastidire la sorella maggiore, che secondo lei sta cercando di sostituirsi alla figura materna. Carrie è una ragazzina responsabile, educata, fin troppo con i piedi per terra. Ha due amiche del cuore, Jill Chen detta Mouse, di origini asiatiche, intelligente e studiosa, destinata ad Harvard, e Maggie, figlia di un poliziotto e proveniente da una famiglia non perfetta. Carrie vuole molto bene anche a Walt, il fidanzato di Maggie. Carrie ha due altre grandi passioni: la moda e la scrittura. Vorrebbe fare la giornalista, o la scrittrice, ed è molto interessata ai trend dello stile. E' ancora vergine, così come Mouse e a differenza di Maggie (che però non ha perso la verginità con Walt), e siccome è una che pensa molto, la cosa a volte la mette in difficoltà. E quando nella loro scuola appare Sebastian Kydd, un ragazzo più grande, molto bello, di famiglia molto ricca e, come spesso capita, piuttosto ribelle, tra lui e Carrie nasce subito qualcosa.
So che un 47enne che guarda una serie che negli States va su The CW, per chi ha elementi sufficienti, potrebbe sembrare quantomeno strano. In fondo, CW è una rete che soprattutto manda in onda programmi per adolescenti; eppure, conosco molti della mia età che andavano pazzi per Smallville. Ma andiamo avanti. The Carrie Diaries nasce dalla penna di Candace Bushnell, in pratica Miss Sex & the City (anche qui, una serie che poteva sembrare destinata esclusivamente ad un pubblico femminile, e che invece è diventata un culto anche per i maschietti). Infatti, non so se ve ne siete resi conto, ma la protagonista di questa serie si chiama Carrie Bradshaw: proprio lei. E quindi, così come il libro omonimo, queste vicende sono una sorta di prequel di Sex & the City, e ci fanno conoscere l'adolescenza e le origini di quella che poi sarebbe divenuta la protagonista delle avventure nella Manhattan da bere.
Ora, sinceramente non avrei mai pensato di guardarmi una serie del genere. Eppure, vuoi perché non ne ho mai abbastanza (di serie tv), vuoi perché su serialmente.com, come ormai avrete capito il mio sito di serie tv di riferimento, ne hanno subito parlato bene (sorprendendosi un po'), ci ho provato. Il risultato è stato discreto, devo dire. Buonista fino allo sfinimento (anche se ci sono le droghe, il sesso, la musica che poi sarebbe divenuta di culto), educato, edulcorato, patinato, ingessato, spesso prevedibile, The Carrie Diaries è comunque una visione caruccia, fondata su buoni sentimenti, che prova a descrivere com'era crescere nei suburbs negli anni '80, senza affondare troppo (per tutto il resto che The Americans), e pure come poteva essere per un uomo provare a crescere due adolescenti. E' vero che svacca un po' verso gli ultimi episodi (soprattutto nell'ultimo), complice probabilmente il mancato rinnovo (almeno per il momento) per una seconda stagione, è vero che ha molti difetti e sicuramente non ha niente di filosofico, ma a me ha fatto tenerezza e non ho fatto grande fatica a seguirlo. Risulta sorprendente perché, forse, ci si aspetta qualcosa di molto superficiale: alla fine non è così, per niente.
Il cast, molto giovane, non è eccezionale ma se la cavano tutti abbastanza bene. Come vi ho già detto, il personaggio di Maggie è interpretato da Katie Findlay, già Rosie Larsen in The Killing; Carrie è interpretata dalla diciannovenne AnnaSophia Robb, il personaggio più interessante, forse, è quello di Larissa, messo in scena dall'inglese di origini ghanesi ed iraniane Freema Agyeman.
20130418
signori fuorilegge e signore losche
Outlaw Gentlemen & Shady Ladies - Volbeat (2013)
Con ancora nelle orecchie il precedente Beyond Hell / Above Heaven, visto che li ho scoperti da pochissimo grazie al supporto disinteressato dell'amico Monty, mi sono avvicinato al nuovissimo disco della band danese, il loro quinto. Dopo un iniziale spaesamento dovuto alla ricerca delle influenze country e rockabilly indicate dai soliti presunti scribacchini specializzati, mi sono calato nel caleidoscopio musicale dei Volbeat, autori di un sound che innanzitutto deve tantissimo ai migliori Metallica, ma non tralascia mai e poi mai la ricerca delle armonie avvolgenti e dei ritornelli catchy. Dopo l'intro strumentale e vagamente flamenco di Let's Shake Some Dust, la temperatura si fa subito rovente con Pearl Heart; si parte così, tra chitarre sferraglianti e che sprizzerebbero metallo se avessero i pori, quella voce un po' da crooner heavy metal piacione, e, come detto, belle melodie. Già da subito, nell'assolo di chitarra, si sentono influenze rock and roll, ed il tutto compone un insieme brillante, robusto, naturalmente destinato agli amanti del metal classico con vedute ampie, e, oserei dire, spesso gioioso ma senza essere punk rock. Non del tutto lineari, nel senso buono, i Volbeat riservano sorprese: quando sembrano essersi assestati su una sorta di arena rock leggermente più pesante, ecco le influenze metallichiane con Dead But Rising (ascoltate quella ritmica che conduce al chorus, come sempre molto bello, che potrebbe essere addirittura dei Diamond Head), con Doc Holliday (dopo l'intro di banjo) e con Our Loved Ones posta in chiusura, oppure Room 24, con la partecipazione dell'indimenticabile King Diamond ed il suo falsetto, o ancora The Hangman's Body Count, in pratica una cover di 2 Minutes to Midnight degli Iron Maiden, o My Body, stavolta davvero una cover, ma, pensate degli Young the Giants, Black Bart, una cavalcata speed metal con armonici da steel guitar, il divertissement di Lonesome Rider, in duetto con Sarah Blackwood dei Walk off the Earth.
A mio giudizio piccoli capolavori Cape of Our Hero, Lola Montez e The Sinner is You, talmente belle da far venire la pelle d'oca. E, devo dirlo, la voce di Michael Poulsen spacca.
Una mia nuova passione, scoperta in ritardo: i Volbeat.
Con ancora nelle orecchie il precedente Beyond Hell / Above Heaven, visto che li ho scoperti da pochissimo grazie al supporto disinteressato dell'amico Monty, mi sono avvicinato al nuovissimo disco della band danese, il loro quinto. Dopo un iniziale spaesamento dovuto alla ricerca delle influenze country e rockabilly indicate dai soliti presunti scribacchini specializzati, mi sono calato nel caleidoscopio musicale dei Volbeat, autori di un sound che innanzitutto deve tantissimo ai migliori Metallica, ma non tralascia mai e poi mai la ricerca delle armonie avvolgenti e dei ritornelli catchy. Dopo l'intro strumentale e vagamente flamenco di Let's Shake Some Dust, la temperatura si fa subito rovente con Pearl Heart; si parte così, tra chitarre sferraglianti e che sprizzerebbero metallo se avessero i pori, quella voce un po' da crooner heavy metal piacione, e, come detto, belle melodie. Già da subito, nell'assolo di chitarra, si sentono influenze rock and roll, ed il tutto compone un insieme brillante, robusto, naturalmente destinato agli amanti del metal classico con vedute ampie, e, oserei dire, spesso gioioso ma senza essere punk rock. Non del tutto lineari, nel senso buono, i Volbeat riservano sorprese: quando sembrano essersi assestati su una sorta di arena rock leggermente più pesante, ecco le influenze metallichiane con Dead But Rising (ascoltate quella ritmica che conduce al chorus, come sempre molto bello, che potrebbe essere addirittura dei Diamond Head), con Doc Holliday (dopo l'intro di banjo) e con Our Loved Ones posta in chiusura, oppure Room 24, con la partecipazione dell'indimenticabile King Diamond ed il suo falsetto, o ancora The Hangman's Body Count, in pratica una cover di 2 Minutes to Midnight degli Iron Maiden, o My Body, stavolta davvero una cover, ma, pensate degli Young the Giants, Black Bart, una cavalcata speed metal con armonici da steel guitar, il divertissement di Lonesome Rider, in duetto con Sarah Blackwood dei Walk off the Earth.
A mio giudizio piccoli capolavori Cape of Our Hero, Lola Montez e The Sinner is You, talmente belle da far venire la pelle d'oca. E, devo dirlo, la voce di Michael Poulsen spacca.
Una mia nuova passione, scoperta in ritardo: i Volbeat.
20130417
Los amantes pasajeros
Gli amanti passeggeri - di Pedro Almodóvar (2013)
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Giudizio tecnico: Dorcel Airlines meets Flight
Il volo della compagnia Peninsula diretto da Madrid a Città del Messico ha un problema, causato da due operatori di terra distratti (marito e moglie, mentre il marito toglie i "tacchi" che fermano le ruote, la moglie gli rivela di essere incinta, e lui lascia uno dei fermi accanto ad una ruota, che viene così risucchiata dal carrello); a causa di ciò, i piloti sono costretti a richiedere un atterraggio di emergenza su una pista di un aeroporto disponibile, che tarda a liberarsi. Nel frattempo, l'equipaggio droga tutta la classe economica per far dormire i passeggeri, e cerca di far passare il tempo a quelli della business, mentre l'aereo gira in tondo su Toledo. In business ci sono dei personaggi niente male, ma l'equipaggio non è da meno.
C'era da aspettarselo: anche Almodòvar è in parabola discendente. Dopo averci fatto ridere sguaiatamente, commuovere ed emozionare, perfino riflettere sull'educazione cattolica, vinto Oscar, deliziato fino a Los abrazos rotos, è franato ingloriosamente col seguente La piel que habito, e adesso che, con questo ultimo Los amantes pasajeros, cercava, forse, di tornare agli antichi fasti, quelli precedenti al film, forse, della maturità, Todo sobre mi madre, cade rovinosamente riuscendo a risultare una caricatura di se stesso quando era caricaturale volutamente, un po' come quelle band ormai bollite che, con una frase che è diventata un (bellissimo) luogo comune, si ritrovano a fare le cover band di se stesse.
Ancora una volta, ma stavolta lo voglio dire apertamente, non posso essere più d'accordo col giudizio sapiente, laconico e semi-telegrafico dell'ormai amico Dantès.
Scusate la ripetizione, ma ancora una volta all'uscita mi è venuto forte il sospetto che il doppiaggio italiano abbia peggiorato la situazione, già alquanto compromessa. E, come ho detto durante al mini-dibattito scaturito nell'atrio del cinema con la gestrice ed i suoi collaboratori, dopo che la stessa signora cercava di spiegarmi che il film non le era piaciuto perché troppo volgare, uno dei problemi è che Pedro, l'amato Pedro, al contrario non riesce ad essere abbastanza volgare, ma solo un po' sboccato (seppure i balletti gay siano notevoli, c'è da dirlo, e Carlos Areces/Fajas, lo straordinario pagliaccio triste Javier di Balada triste de trompeta, sia quasi irresistibile): non dimentichiamoci che sempre Pedro è uno che è riuscito a mostrare una che si caga addosso (non metaforicamente) in uno dei suoi primissimi film.
Ad ogni modo, se tu dovessi "risorgere", Pedro, noi ti aspettiamo. Al cinema.
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Giudizio tecnico: Dorcel Airlines meets Flight
Il volo della compagnia Peninsula diretto da Madrid a Città del Messico ha un problema, causato da due operatori di terra distratti (marito e moglie, mentre il marito toglie i "tacchi" che fermano le ruote, la moglie gli rivela di essere incinta, e lui lascia uno dei fermi accanto ad una ruota, che viene così risucchiata dal carrello); a causa di ciò, i piloti sono costretti a richiedere un atterraggio di emergenza su una pista di un aeroporto disponibile, che tarda a liberarsi. Nel frattempo, l'equipaggio droga tutta la classe economica per far dormire i passeggeri, e cerca di far passare il tempo a quelli della business, mentre l'aereo gira in tondo su Toledo. In business ci sono dei personaggi niente male, ma l'equipaggio non è da meno.
C'era da aspettarselo: anche Almodòvar è in parabola discendente. Dopo averci fatto ridere sguaiatamente, commuovere ed emozionare, perfino riflettere sull'educazione cattolica, vinto Oscar, deliziato fino a Los abrazos rotos, è franato ingloriosamente col seguente La piel que habito, e adesso che, con questo ultimo Los amantes pasajeros, cercava, forse, di tornare agli antichi fasti, quelli precedenti al film, forse, della maturità, Todo sobre mi madre, cade rovinosamente riuscendo a risultare una caricatura di se stesso quando era caricaturale volutamente, un po' come quelle band ormai bollite che, con una frase che è diventata un (bellissimo) luogo comune, si ritrovano a fare le cover band di se stesse.
Ancora una volta, ma stavolta lo voglio dire apertamente, non posso essere più d'accordo col giudizio sapiente, laconico e semi-telegrafico dell'ormai amico Dantès.
Scusate la ripetizione, ma ancora una volta all'uscita mi è venuto forte il sospetto che il doppiaggio italiano abbia peggiorato la situazione, già alquanto compromessa. E, come ho detto durante al mini-dibattito scaturito nell'atrio del cinema con la gestrice ed i suoi collaboratori, dopo che la stessa signora cercava di spiegarmi che il film non le era piaciuto perché troppo volgare, uno dei problemi è che Pedro, l'amato Pedro, al contrario non riesce ad essere abbastanza volgare, ma solo un po' sboccato (seppure i balletti gay siano notevoli, c'è da dirlo, e Carlos Areces/Fajas, lo straordinario pagliaccio triste Javier di Balada triste de trompeta, sia quasi irresistibile): non dimentichiamoci che sempre Pedro è uno che è riuscito a mostrare una che si caga addosso (non metaforicamente) in uno dei suoi primissimi film.
Ad ogni modo, se tu dovessi "risorgere", Pedro, noi ti aspettiamo. Al cinema.
20130416
iu to pia
Utopia - di Dennis Kelly - Stagione 1 (6 episodi; Channel 4) - 2013
Regno Unito, in un futuro (forse) molto ma molto prossimo. Mentre al Ministero della Salute si sta decidendo come spendere i soldi dei contribuenti, e Michael Dugdale, un funzionario anziano del Ministero non sa come uscire dalla spiacevole situazione nella quale si è cacciato, rendendosi ricattabile, una strana coppia entra in un negozio di comic books molto fornito in cerca di qualcosa non molto chiaro. Nel frattempo, in rete cinque persone entrano in fibrillazione quando vengono a conoscenza che esiste il seguito di The Utopia Experiments, una graphic novel che è ormai un oggetto di culto. E' Bejan che dà la notizia, e propone agli altri quattro fedelissimi un incontro. I quattro accettano. Tre di loro si presentano, e cominciano a fraternizzare. Sono Ian, un quasi trentenne annoiato dalla vita e dal suo lavoro di merda che vive ancora con la madre, Becky, una giovane quasi laureata, orfana di entrambi i genitori, convinta che la graphic novel in questione c'entri qualcosa con la misteriosa malattia degenerativa contratta dal padre, e Wilson Wilson, un nerd di origini arabe, teorico della cospirazione, che crede ciecamente a tutto quello che la graphic novel racconta, e che ha passato anni a cancellare ogni minima traccia di sé in rete. Gli altri due sono fermati da cause di forza maggiore: Bejan, l'originale possessore dell'unico esemplare di Utopia II, viene "visitato" dalla strana coppia del negozio di comics, e "suicidato" dal terrazzo del suo attico, e Grant, il quinto "membro", un ragazzino di 11 anni che vive in un quartiere popolare con una madre sempre ubriaca, assiste alla scena. La strana coppia, Arby e Lee, che chiaramente operano su direttive che vengono da una potente organizzazione interessata a non far diffondere l'esistenza del manoscritto, si accorgono della presenza del ragazzino, e cominciano a dargli la caccia. Ma che cosa hanno di straordinario i due Utopia? Sembrano essere dei fumetti fanta-apocalittici, ma in realtà, stanno solo annunciando i disastri che verranno, sotto forma di epidemie indotte dall'uomo...
Maledetti inglesi. Dopo il genio di Charlie Brooker, una segnalazione del sempre puntuale ed informatissimo sito serialmente.com mi ha messo sulle tracce di Dennis Kelly e del suo recentissimo Utopia, andato in onda tra gennaio e febbraio 2013 su Channel 4, e che devo dire non ha niente da invidiare, e al tempo stesso ricorda un po', il Black Mirror di Brooker, con la differenza che Utopia è una serie con trama orizzontale (e non fatta da episodi autoconclusivi come BM), che ha già guadagnato il rinnovo per una seconda stagione. Scenari urbani con un vago sentore apocalittico, molto molto british, colonna sonora elettronica ed intrigante, molte facce nuove nel cast, affiancate a qualche viso già visto e addirittura a Stephen Rea (La moglie del soldato) nei panni di Conran Letts.
Una sceneggiatura contorta ma affascinante, fantapolitica ma non troppo, un ritmo che fa sentire braccato anche lo spettatore, personaggi spietati e dal particolarissimo respiro che oserei definire dall'epicità western ma ben piantati nelle dinamiche moderne, ci regalano una serie, tra l'altro fotografata in maniera impeccabile, davvero avvincente, che consiglio a tutti tranne che a quelli un po' deboli di stomaco, perché c'è violenza in grande abbondanza.
Indimenticabili ed imperdibili i personaggi di Arby (Paul Ready) e di Jessica Hyde (Fiona O'Shaughnessy), grande lavoro anche quello drammaticissimo di Paul Higgins (Michael Dugdale), già in chicche quali Red Road, In The Loop e The Thick of It, ottimo il giovanissimo Oliver Woollford nella parte di Grant Leetham.
Regno Unito, in un futuro (forse) molto ma molto prossimo. Mentre al Ministero della Salute si sta decidendo come spendere i soldi dei contribuenti, e Michael Dugdale, un funzionario anziano del Ministero non sa come uscire dalla spiacevole situazione nella quale si è cacciato, rendendosi ricattabile, una strana coppia entra in un negozio di comic books molto fornito in cerca di qualcosa non molto chiaro. Nel frattempo, in rete cinque persone entrano in fibrillazione quando vengono a conoscenza che esiste il seguito di The Utopia Experiments, una graphic novel che è ormai un oggetto di culto. E' Bejan che dà la notizia, e propone agli altri quattro fedelissimi un incontro. I quattro accettano. Tre di loro si presentano, e cominciano a fraternizzare. Sono Ian, un quasi trentenne annoiato dalla vita e dal suo lavoro di merda che vive ancora con la madre, Becky, una giovane quasi laureata, orfana di entrambi i genitori, convinta che la graphic novel in questione c'entri qualcosa con la misteriosa malattia degenerativa contratta dal padre, e Wilson Wilson, un nerd di origini arabe, teorico della cospirazione, che crede ciecamente a tutto quello che la graphic novel racconta, e che ha passato anni a cancellare ogni minima traccia di sé in rete. Gli altri due sono fermati da cause di forza maggiore: Bejan, l'originale possessore dell'unico esemplare di Utopia II, viene "visitato" dalla strana coppia del negozio di comics, e "suicidato" dal terrazzo del suo attico, e Grant, il quinto "membro", un ragazzino di 11 anni che vive in un quartiere popolare con una madre sempre ubriaca, assiste alla scena. La strana coppia, Arby e Lee, che chiaramente operano su direttive che vengono da una potente organizzazione interessata a non far diffondere l'esistenza del manoscritto, si accorgono della presenza del ragazzino, e cominciano a dargli la caccia. Ma che cosa hanno di straordinario i due Utopia? Sembrano essere dei fumetti fanta-apocalittici, ma in realtà, stanno solo annunciando i disastri che verranno, sotto forma di epidemie indotte dall'uomo...
Maledetti inglesi. Dopo il genio di Charlie Brooker, una segnalazione del sempre puntuale ed informatissimo sito serialmente.com mi ha messo sulle tracce di Dennis Kelly e del suo recentissimo Utopia, andato in onda tra gennaio e febbraio 2013 su Channel 4, e che devo dire non ha niente da invidiare, e al tempo stesso ricorda un po', il Black Mirror di Brooker, con la differenza che Utopia è una serie con trama orizzontale (e non fatta da episodi autoconclusivi come BM), che ha già guadagnato il rinnovo per una seconda stagione. Scenari urbani con un vago sentore apocalittico, molto molto british, colonna sonora elettronica ed intrigante, molte facce nuove nel cast, affiancate a qualche viso già visto e addirittura a Stephen Rea (La moglie del soldato) nei panni di Conran Letts.
Una sceneggiatura contorta ma affascinante, fantapolitica ma non troppo, un ritmo che fa sentire braccato anche lo spettatore, personaggi spietati e dal particolarissimo respiro che oserei definire dall'epicità western ma ben piantati nelle dinamiche moderne, ci regalano una serie, tra l'altro fotografata in maniera impeccabile, davvero avvincente, che consiglio a tutti tranne che a quelli un po' deboli di stomaco, perché c'è violenza in grande abbondanza.
Indimenticabili ed imperdibili i personaggi di Arby (Paul Ready) e di Jessica Hyde (Fiona O'Shaughnessy), grande lavoro anche quello drammaticissimo di Paul Higgins (Michael Dugdale), già in chicche quali Red Road, In The Loop e The Thick of It, ottimo il giovanissimo Oliver Woollford nella parte di Grant Leetham.
20130415
Kos (Greece) - April 2013
Warning: this post, for the first time in the history of this blog, will be published in English for the benefit of some people I met during this short stay, and maybe that will read it.
I'm getting old, and you know this. I needed to disconnect from work, I found a flight at a ridiculous price, and I went for three days to the island of Kos, Greece, an island that I didn't know. Since there were only three nights, I allowed myself the luxury of a five star hotel with adjoining spa. In the end, I was never out of the hotel: I got the sun, I had massages, I took advantage of the sauna and hammam. So, after three days, I still not known Kos. Still, I was able to know some wonderful people, and I had some good discussions on Europe, and on other things less current but not less important.
Greece, like Italy anyway, is in crisis: along the way to the airport dozens of shops, department stores, factory outlets, all incomplete, with no workers at work, for obvious lack of liquidity. Yet, everyone I've known, they try to remain optimistic.
A big thank you and see you soon with all the staff of Aqua Blu Hotel in Kos, my friend Jorgos (see you in Corfu), and the two "Vikings" Sissel and Trond, an unforgettable couple.
Sometimes, you need just a little. Or rather, sometimes you just have to look around to find extraordinary people.
Kos (Grecia) - aprile 2013
Attenzione: questo post, per la prima volta nella storia di questo blog, sarà pubblicato anche in inglese, a beneficio di alcune persone che ho conosciuto durante questo breve soggiorno, e che forse lo leggeranno.
Sto invecchiando, e questo lo sapete. Avevo bisogno di staccare dal lavoro, ho trovato un volo ad un prezzo ridicolo, e sono andato per tre giorni all'isola di Kos, in Grecia, un'isola che non conoscevo. Visto che erano solo tre notti, mi sono concesso il lusso di un hotel a cinque stelle con annessa SPA. Alla fine, non sono mai uscito dall'hotel: ho preso il sole, mi sono fatto fare massaggi, ho approfittato della sauna e dell'hammam. Quindi, dopo tre giorni, Kos non l'ho conosciuta. Eppure, sono riuscito a conoscere alcune persone splendide, e ad avere delle belle discussioni sull'Europa, e su altre cose meno attuali ma non meno importanti.
La Grecia, come l'Italia del resto, è in crisi: lungo la strada per l'aeroporto decine di negozi, grandi magazzini, outlet, tutti incompleti, con i lavori fermi, per evidente mancanza di liquidità. Eppure, tutti quelli che ho conosciuto, cercano di rimanere ottimisti.
Un grazie di cuore e un arrivederci a presto a tutto lo staff dell'hotel Aqua Blu di Kos, all'amico Jorgos (ci vediamo a Corfù), e ai due "vichinghi" Sissel e Trond, coppia indimenticabile.
A volte basta davvero poco. O meglio, a volte basta guardarsi intorno, per trovare persone straordinarie.
Sto invecchiando, e questo lo sapete. Avevo bisogno di staccare dal lavoro, ho trovato un volo ad un prezzo ridicolo, e sono andato per tre giorni all'isola di Kos, in Grecia, un'isola che non conoscevo. Visto che erano solo tre notti, mi sono concesso il lusso di un hotel a cinque stelle con annessa SPA. Alla fine, non sono mai uscito dall'hotel: ho preso il sole, mi sono fatto fare massaggi, ho approfittato della sauna e dell'hammam. Quindi, dopo tre giorni, Kos non l'ho conosciuta. Eppure, sono riuscito a conoscere alcune persone splendide, e ad avere delle belle discussioni sull'Europa, e su altre cose meno attuali ma non meno importanti.
La Grecia, come l'Italia del resto, è in crisi: lungo la strada per l'aeroporto decine di negozi, grandi magazzini, outlet, tutti incompleti, con i lavori fermi, per evidente mancanza di liquidità. Eppure, tutti quelli che ho conosciuto, cercano di rimanere ottimisti.
Un grazie di cuore e un arrivederci a presto a tutto lo staff dell'hotel Aqua Blu di Kos, all'amico Jorgos (ci vediamo a Corfù), e ai due "vichinghi" Sissel e Trond, coppia indimenticabile.
A volte basta davvero poco. O meglio, a volte basta guardarsi intorno, per trovare persone straordinarie.
20130414
Severance
Severance - Tagli al personale - di Christopher Smith (2007)
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
La Palisade Defence è una società che produce armi, sempre più necessariamente sofisticate e micidiali per la lotta senza quartiere al terrorismo su scala mondiale. Un gruppo di lavoro della filiale inglese, guidato dal capo ufficio Richard, sta viaggiando su un autobus attraverso le montagne dell'Ungheria, per un weekend di lavoro in un lodge di lusso. Le cose cominciano a prendere una strana piega quando si scopre che la strada è bloccata a pochi chilometri dall'albergo da un albero caduto in mezzo alla strada. L'autista si rifiuta di imboccare la strada alternativa, sterrata, e se ne va col bus lasciando tutti i componenti del gruppo di lavoro a piedi. Cominciano le frizioni tra i protagonisti, visto che il gruppo è decisamente eterogeneo, ma tutti si avviano a piedi fino al lodge. Arrivati a destinazione, la costruzione si rivela vecchia e decisamente fatiscente. Richard convince tutti ad entrare, con una certa difficoltà, ma del resto l'ora è tarda e tutti sono stanchi. All'interno, le sorprese non sono finite, anzi, in un certo senso stanno per cominciare. Si scopre un archivio di documenti della Palisade scritti in russo, Harris, quello che ha scoperto i documenti, rivela che aveva già sentito parlare di questo alloggio che sarebbe stato, molti anni prima, un manicomio criminale, i cui abitanti sarebbero stati uccisi dal gas nervino fornito dalla società per cui loro lavorano, Jill, un'altra impiegata, racconta un'altra versione, nella quale il luogo sarebbe stato un centro di rieducazione per criminali di guerra russi, sterminati anch'essi dal gas nervino della Palisade. In entrambe le versioni, qualche sopravvissuto avrebbe dichiarato di volersi vendicare della società per cui loro lavorano. Mentre Steve cerca di sdrammatizzare inventandosi un'altra storia, stavolta con risvolti piccanti, viene trovato un dente umano nella carne con la quale il gruppo sta cenando. Neppure la notte risulta tranquilla, e quindi l'indomani, a malincuore, Richard decide che è meglio richiamare l'autista e andarsene. Non sarà facile.
Secondo lungometraggio per l'interessante regista inglese, questo Severance ha, a differenza dei seguenti Triangle e Black Death, uno spiccato humour macabro, molto british, un bel ritmo e una buona dose di splatter che piacerà ai cultori del genere. Cast poco conosciuto e abbastanza diligente, il film è vedibile e può piacere, proprio per questo binomio apparentemente contraddittorio tra horror e comicità. Non da buttare.
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
La Palisade Defence è una società che produce armi, sempre più necessariamente sofisticate e micidiali per la lotta senza quartiere al terrorismo su scala mondiale. Un gruppo di lavoro della filiale inglese, guidato dal capo ufficio Richard, sta viaggiando su un autobus attraverso le montagne dell'Ungheria, per un weekend di lavoro in un lodge di lusso. Le cose cominciano a prendere una strana piega quando si scopre che la strada è bloccata a pochi chilometri dall'albergo da un albero caduto in mezzo alla strada. L'autista si rifiuta di imboccare la strada alternativa, sterrata, e se ne va col bus lasciando tutti i componenti del gruppo di lavoro a piedi. Cominciano le frizioni tra i protagonisti, visto che il gruppo è decisamente eterogeneo, ma tutti si avviano a piedi fino al lodge. Arrivati a destinazione, la costruzione si rivela vecchia e decisamente fatiscente. Richard convince tutti ad entrare, con una certa difficoltà, ma del resto l'ora è tarda e tutti sono stanchi. All'interno, le sorprese non sono finite, anzi, in un certo senso stanno per cominciare. Si scopre un archivio di documenti della Palisade scritti in russo, Harris, quello che ha scoperto i documenti, rivela che aveva già sentito parlare di questo alloggio che sarebbe stato, molti anni prima, un manicomio criminale, i cui abitanti sarebbero stati uccisi dal gas nervino fornito dalla società per cui loro lavorano, Jill, un'altra impiegata, racconta un'altra versione, nella quale il luogo sarebbe stato un centro di rieducazione per criminali di guerra russi, sterminati anch'essi dal gas nervino della Palisade. In entrambe le versioni, qualche sopravvissuto avrebbe dichiarato di volersi vendicare della società per cui loro lavorano. Mentre Steve cerca di sdrammatizzare inventandosi un'altra storia, stavolta con risvolti piccanti, viene trovato un dente umano nella carne con la quale il gruppo sta cenando. Neppure la notte risulta tranquilla, e quindi l'indomani, a malincuore, Richard decide che è meglio richiamare l'autista e andarsene. Non sarà facile.
Secondo lungometraggio per l'interessante regista inglese, questo Severance ha, a differenza dei seguenti Triangle e Black Death, uno spiccato humour macabro, molto british, un bel ritmo e una buona dose di splatter che piacerà ai cultori del genere. Cast poco conosciuto e abbastanza diligente, il film è vedibile e può piacere, proprio per questo binomio apparentemente contraddittorio tra horror e comicità. Non da buttare.
20130413
turisti
Turistas - di John Stockwell (2007)
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Mentre sono in viaggio in Brasile, alcuni gruppetti di turisti di lingua inglese ma provenienti dai quattro capi del mondo, Stati Uniti, Regno Unito, Australia, vengono compattati e bloccati dall'incidente dell'autobus sul quale viaggiavano. Cercando di sfruttare il contrattempo, scendono ad una vicina spiaggia, decisamente bella, e scoprono che c'è un bar che abbonda di alcolici a buon prezzo, e da abbondanza di "fauna" locale decisamente di facili costumi. Senza pensarci troppo, il gruppo formato da otto persone, maschi e femmine, si buttano nella mischia e si fanno contagiare dall'allegria tipica dei brasiliani.
La mattina seguente, un brutto risveglio li attende: si rendono conto che due di loro sono scomparsi, e di essere stati drogati e derubati di tutto. Alex, Pru, Bea, Finn, Amy e Liam, si mettono alla ricerca dei due scomparsi e di un modo per tornare alla civiltà. Durante il loro percorso, incontrano un ragazzo del luogo, Kiko, conosciuto la sera prima, che si offre di guidarli fino ad un luogo dove potranno contattare qualcuno che li possa aiutare. Ma...
Premesso che il film in questione ha suscitato un vespaio di polemiche e una sorta di incidente diplomatico (se avete visto il film, immaginatevi come abbia potuto reagire il governo brasiliano; se non lo avete visto, sappiate che parla di leggende metropolitane, tipo "mi son svegliato in un fosso e mi mancava un rene", quindi reazioni di protesta del tutto giustificate), il film diretto da uno dei comprimari di Tom Cruise in Top Gun ha il pregio di essere decisamente esagerato, e quindi di riuscire a scioccare con una storia quasi assurda, ma davvero inquietante. Protagonisti troppo belli per essere veri, ma non guasta visto che sono spesso svestiti: Josh Duhamel è Alex, Melissa George è Pru, Olivia Wilde è Bea. Per le recitazioni ripassare un'altra volta.
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Mentre sono in viaggio in Brasile, alcuni gruppetti di turisti di lingua inglese ma provenienti dai quattro capi del mondo, Stati Uniti, Regno Unito, Australia, vengono compattati e bloccati dall'incidente dell'autobus sul quale viaggiavano. Cercando di sfruttare il contrattempo, scendono ad una vicina spiaggia, decisamente bella, e scoprono che c'è un bar che abbonda di alcolici a buon prezzo, e da abbondanza di "fauna" locale decisamente di facili costumi. Senza pensarci troppo, il gruppo formato da otto persone, maschi e femmine, si buttano nella mischia e si fanno contagiare dall'allegria tipica dei brasiliani.
La mattina seguente, un brutto risveglio li attende: si rendono conto che due di loro sono scomparsi, e di essere stati drogati e derubati di tutto. Alex, Pru, Bea, Finn, Amy e Liam, si mettono alla ricerca dei due scomparsi e di un modo per tornare alla civiltà. Durante il loro percorso, incontrano un ragazzo del luogo, Kiko, conosciuto la sera prima, che si offre di guidarli fino ad un luogo dove potranno contattare qualcuno che li possa aiutare. Ma...
Premesso che il film in questione ha suscitato un vespaio di polemiche e una sorta di incidente diplomatico (se avete visto il film, immaginatevi come abbia potuto reagire il governo brasiliano; se non lo avete visto, sappiate che parla di leggende metropolitane, tipo "mi son svegliato in un fosso e mi mancava un rene", quindi reazioni di protesta del tutto giustificate), il film diretto da uno dei comprimari di Tom Cruise in Top Gun ha il pregio di essere decisamente esagerato, e quindi di riuscire a scioccare con una storia quasi assurda, ma davvero inquietante. Protagonisti troppo belli per essere veri, ma non guasta visto che sono spesso svestiti: Josh Duhamel è Alex, Melissa George è Pru, Olivia Wilde è Bea. Per le recitazioni ripassare un'altra volta.
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