No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20120731

tutto quello che ero

All I Was - Tremonti (2012)


Disco di debutto versione solista per Mark Tremonti, chitarrista/fenomeno di Creed ed AlterBridge. Il disco è esattamente come ve lo sareste aspettati dal tamarrissimo Tremonti se lo conoscete un minimo. Quello che stupisce, al contrario, sono le sue capacità vocali. Oltre la metà del primo ascolto, sono andato a vedermi chi cantava, sulle note, perché mi pareva uno Scott Stapp solo leggermente meno enfatico. Immaginatevi il mio stupore quanto ho letto che Tremonti interpreta tutte le parti cantate del disco. Il buon Mark ha detto che, essendo lui un songwriter incontinente, si è ritrovato un sacco di materiale che non andava bene per le sue due band, e così ne ha messa in piedi un'altra, togliendosi però lo sfizio di esserne lead guitar e lead vocalist al tempo stesso. I pards in questa sua nuova avventura sono Eric Friedman, chitarra e basso, e Garrett Whitlock, batteria, dei Submersed.
Da molte parti si cataloga il disco come speed metal, etichetta un po' fuori tempo a mio parere, anche se in effetti, episodi come Wish You Well, i passaggi introduttivi delle strofe di You Waste Your Time, o le progressioni della title-track, sono difficili da definire altrimenti. Non mancano però le ballatone: per New Way Out, i componenti delle (altre) due band potrebbero gridare vendetta. Il materiale, in definitiva, non esula granché dalle cose delle due band fondate e condotte dal chitarrista originario di Detroit, Michigan, e quindi non deluderà chi le apprezza, ma effettivamente qui si pesta sul pedale (anzi, a dire il vero Whitlock ne usa due) un po' di più. Le sue influenze, Metallica (quando erano vivi) su tutti, si sentono eccome (Brains suona come un pezzo degli Alice In Chains, nella strofa, forse solo un po' più pesante); nota positiva l'abbondanza di assoli, per lui che di solito risulta abbastanza parco nel rilasciarli, quando si tratta di pezzi di Creed o AlterBridge. Un disco da suonare ad alto volume, che vi divertirà per un po' di tempo, e che poi riporrete educatamente dentro un ideale cassetto delle cose che non servono più. Per chi, come me, ama ancora il buon vecchio metallo, una bella dose di chitarroni ben compressi e assoli da air guitar: allegria!

20120730

una famiglia fuori dall'ordinario

No Ordinary Family - di Greg Berlanti e Jon Harmon Feldman - Stagione 1 (20 episodi; ABC) - 2010/2011


I Powell sono una famiglia media americana. Vivono in California, la madre Stephanie è una affermata ricercatrice scientifica con un lavoro molto ben pagato (e che ha poco tempo da dedicare al resto della famiglia), il padre James detto Jim è un ex pittore trasformatosi in disegnatore di identikit per la polizia (e che sopperisce agli impegni di famiglia verso i due figli, avendo più tempo libero di Stephanie), la figlia maggiore Daphne ha 16 anni, va bene a scuola e non ha grilli per la testa, il figlio minore James detto JJ ha 14 anni, frequenta la stessa scuola di Daphne ma ha qualche problema di apprendimento. Affranto dalla situazione familiare, il troppo poco tempo per essere una famiglia, ma spinto dall'amore che prova ancora verso Stephanie e, ovviamente, verso i figli, Jim approfitta di una missione della moglie in Brasile, per organizzare una gita di famiglia. Sfortunatamente, il piccolo aereo che usano per sorvolare il Rio delle Amazzoni, incappa in una tremenda tempesta, e cade nel fiume. Il pilota muore. Loro quattro si salvano. Al loro ritorno a casa, si accorgono di aver sviluppato dei superpoteri. Jim è fortissimo, Stephanie è velocissima, Daphne può leggere nei pensieri, JJ ha una super-intelligenza.

Una sorta di Fantastici Quattro versione familiare. Tra l'altro, Michael Chiklis (Jim Powell) ha pure interpretato La Cosa/Ben Grimm nelle due versioni cinematografiche dei Fantastic Four (ma noi lo ricordiamo sempre più volentieri nei panni di Vic Mackey in The Shield). Qualche critico ha definito la scelta di Chiklis per questa parte "un caso straordinario di errore di casting": riflettendoci, ho difficoltà a dargli torto. La serie non è completamente da buttare, ma regge poco, e sinceramente non è da rimpiangere data la cancellazione. A parte notare la presenza di Lucy Lawless (Xena), verso la parte finale della serie, e le bellissime presenze fisse di Julie Benz (Stephanie) e di Autumn Reeser (Katie), forse il carattere più divertente è rappresentato da quello interpretato da Romany Malco (Conrad nelle prime tre stagioni di Weeds), che è George.

20120729

stella solitaria

Lone Star - di Kyle Killen (2010)
Miniserie a episodi - Fox

Texas. Bob Allen è un cosiddetto con-man, un truffatore. Ha un ottimo maestro: il padre John, insieme al quale fugge dalle ire delle loro vittime, ormai da tempo immemorabile. Bob, però, sta esagerando: si è costruito due vite parallele, tutte studiate nei minimi particolari. A Houston, è sposato con Cat Thatcher, bella e imponente figlia di Clint Thatcher, un potentissimo imprenditore petrolifero, che guida con mano ferma una compagnia altrettanto potente. Nella scala gerarchico-familiare dei Thatcher, ci sono poi Trammell, il figlio più grande, che non si fida per niente di Bob, e il più giovane Drew, ingenuo ed interessato soprattutto alle ragazze: a lui, Bob sta simpatico. Clint, sorpreso dal successo di Bob, gli offre un posto nell'azienda di famiglia, scontrandosi con le ire di Trammell.
Ma a 400 miglia, a Midland, sempre in Texas, Bob diventa Robert, ed è fidanzato con la giovane e semplice Lindsay; i due convivono, e hanno la benedizione dei genitori di lei. Robert ha venduto quote di una società inesistente agli stessi genitori della sua fidanzata, e a tutti i loro conoscenti. Ma la truffa sta per venire scoperta. Bob, anziché scappare, viene preso da una strana voglia di normalità, solo, sui due fronti. Ed è convinto di poterla mettere in atto. Quindi, anziché lasciare il tavolo, rilancia.

Come vi raccontavo nella recensione di Awake, Lone Star (il simbolo del Texas, anche sulla bandiera) è l'ennesimo progetto di Killen che non ha avuto grande fortuna. Anzi, Lone Star è proprio quello più sfortunato, tra tutti: tra la scheda Wikipedia, e quella su imdb.com, non si riesce a capire neppure quanti episodi sono stati effettivamente girati. Sei, forse sette. Attori che fanno parte del cast che non risultano. Confusione. Tutto questo, perché in realtà Lone Star doveva essere una serie, probabilmente di 10, 12 episodi, ma è stata cancellata appena dopo la messa in onda del secondo episodio. Eppure, il pilot aveva avuto buone recensioni, e un discreto share. Ma a volte non basta.
E' vero, di protagonisti di una serie con una doppia vita, è piena la televisione. Ma a dire la verità, questi due episodi reperibili, quelli andati in onda, non mi sono sembrati così pessimi, soprattutto se li metto a confronto con alcune serie durate una sola stagione. L'intreccio è intrigante, l'idea, seppur non originale, regge. Certo, difficile pensare che nessuno si accorga di qualcosa, ed ovviamente tutto si gioca sul filo del fuorigioco. Ma non mi sarebbe dispiaciuto vedere qualche altro episodio. Magari sempre perché sono uno che si affeziona facilmente.
Gli scenari sono, come accennato, quelli texani, i cieli sono quelli di Friday Night Lights, ma qui siamo nel campo del petrolio. Le regie sono piuttosto regolari. Il collegamento con FNL c'è, ed è uno di quelli che toccano uno dei miei punti deboli: Adrianne Palicki. Lì era Tyra Collette, qui è Cat Thatcher. Ed è sempre molto bella (qui, appartenendo ad un'altra classe sociale, è pure ben vestita). Altro punto forte del cast è Jon Voight: nei panni di Clint Thatcher, sembra la scelta più ovvia. Il protagonista Bob/Robert Allen è affidato a James Wolk: l'abbiamo visto di recente in una parte marginale nella seconda stagione dello Shameless statunitense, ma non è molto conosciuto. Non ha ancora trent'anni, una faccia da bravo ragazzo, forse un po' impersonale, chissà se ce l'avrebbe fatta: non lo sapremo mai. Chissà se in futuro si farà strada: di tempo ne ha. Faccia particolare quella di David Keith, qui nei panni di John, il padre di Bob, espertissimo caratterista visto tante volte (era co-protagonista in Ufficiale e gentiluomo, aveva una piccola parte in Brubaker), qui in ottima forma.
Giusto per curiosità.

20120728

suicide solution

Mad Men - di Matthew Weiner - Stagione 5 (13 episodi; AMC) - 2012


Don Draper è felicemente sposato, è innamorato della nuova moglie Megan, aspirante attrice ma al momento sua segretaria, di origini canadesi-quebecoise (e per questo parla - e canta - anche in francese). La Sterling Cooper Draper Pryce sta lentamente risalendo la china dei debiti, sgomitando nel mercato della pubblicità. Nuovi volti si affermano, e Peggy, sempre irrequieta dentro e fuori dal lavoro, non si sente abbastanza riconosciuta, seppur abbia tracciato una strada. Roger Sterling, pure, è già annoiato anche dal suo più recente matrimonio con una donna molto più giovane di lui, e per giunta bellissima. Lane Pryce sembra quello con più problemi di tutti: esistenziali, nel suo matrimonio, per la sua mancata ambientazione negli USA, di denaro. Non va meglio a Joan, alle prese con un neonato e con un marito assente. Sullo sfondo, Betty sviluppa un disturbo dell'alimentazione, ingrassando visibilmente, e mettendo così a dura prova il suo già precario equilibrio psichico, mentre Sally diventa ogni giorno più grande, e più smaniosa di acquisire libertà d'azione. E che dire di Pete?
























Ecco, guardate la foto qui sopra. Si tratta di un fotogramma tratto dal season finale, il tredicesimo e ultimo episodio della quinta stagione, dal titolo The Phantom. Secondo me, c'è tutta la magia di Mad Men (e c'è pure la dimostrazione che Weiner non è solo un grande sceneggiatore, visto che è il regista di questo episodio, pieno zeppo di grandi inquadrature, come questa, e di grandissime scene). Abbiamo atteso quasi due anni, per un notevole problema di contratto, fortunatamente risoltosi con la certezza di questa e di almeno altre due stagioni di Mad Men, per tornare a vedere i pubblicitari di Madison Avenue in azione: l'attesa è stata ampiamente ripagata da una stagione di altissimo livello. E' innegabile che tutto ruoti ancora (e ruoterà fino alla fine, così ha parlato Weiner) attorno al personaggio carismatico di Don, ancora una volta interpretato magnificamente da un Jon Hamm per il quale ormai non riesco a trovare più aggettivi disponibili; ma quante stratificazioni, quanti ganci, quanti argomenti legati alla storia degli USA (e a fatti realmente accaduti), quante storylines che si intrecciano perfide fino a farci perdere (quasi) il filo, quanta critica sociale, quanta umanità, quanta riflessione, quanto stile che c'è in Mad Men.
Se non vedete Mad Men, lasciate perdere: non sapete veramente cosa vi state perdendo. Se, invece, come me, pensate di esserne il fan numero uno, avete tempo altri due anni (almeno) per prepararvi ad un distacco che non sarà affatto facile. Ricordatevi del vuoto che ha lasciato dentro di voi Six Feet Under, e preparatevi per tempo.
Straordinario Mad Men.

20120727

metrico

Synthetica - Metric (2012)


I Metric sono una band canadese; questo è il loro quinto studio-album, e, se ponete attenzione alle colonne sonore delle serie tv che vengono dal Nord America, soprattutto in quelle teen-oriented, potete trovare un pezzo dei Metric in ognuna di queste. Sono adattissimi. Avevo ascoltato, incuriosito proprio da quest'ultimo fatto, i loro dischi precedenti, non trovando troppi motivi di interesse. Adesso, uscito fresco fresco questo nuovo Synthetica, avendolo ascoltato più e più volte, posso darvelo per garantito: i Metric sono una bufala enorme. Nella loro musica non c'è assolutamente nessuna profondità.
Ecco perché, al primo impatto, mi sono meravigliato di trovare un featuring di (nientemeno che) Lou Reed, su The Wanderlust (un pezzo tra i peggiori, tra l'altro). Poi, mi sono ricordato che Lou Reed è anche il colpevole (in parte) di quel capolavoro (sono ironico) di Lulu, insieme ai Metallica, e tutto mi è parso più chiaro. Come spesso penso, bisognerebbe saper andare in pensione quando è il momento.

20120726

la casa che Jack costruì

The House that Jack Built - Jesca Hoop (2012)


Come immaginereste la musica di una persona che tiene un blog dove racconta i suoi sogni (che per giunta ha per titolo una canzone di Tom Waits)? Strana. La risposta è strana, appunto. Scoperta a livello personale nel 2009 con Kismet, forse a causa dell'attenzione a lei rivolta al momento dell'uscita del secondo album Hunting My Dress finì per non parlarvene. Così, tanto per essere strano quasi quanto lei. Il mese scorso è uscito il suo terzo full-length, e il titolo potrebbe ricordare un pezzo dei Metallica (Load) periodo-da-dimenticare, o meglio una canzone di Aretha Franklin; in realtà, il titolo risale a una filastrocca del tipo cumulative o chain tale (come la nostra Macchina del capo, o l'ebraica Had Gadyà - da noi conosciuta per la trasposizione che ne fece Branduardi in Alla fiera dell'est; curiosamente, l'originale somiglia proprio a The House that Jack Built -). Dette queste cose piuttosto inutili, chiariamo ancora qualche futilità su Jesca. Nata nel nord della California da una famiglia di mormoni, ha appreso quindi fin da piccola l'arte del canto. Staccatasi dalla famiglia, ha vissuto nel Wyoming e in Arizona, si mormora anche da homeless, o quantomeno con uno stile homesteader, e pare che sia stata perfino la babysitter dei figli di Tom Waits. Adesso, sembra che si sia stabilita nel Regno Unito, precisamente a Manchester.
Il suo stile, che in altri casi definirei affinato, ma che in questo caso non renderebbe bene l'idea, si basa su una sorta di alternative folk, che si è andato stratificando (e che non ha paura di essere orecchiabile) e, se possibile, complicando, nel corso dei dischi. Non esiste un marchio di fabbrica che identifichi i pezzi di Jesca Hoop, ed ascoltare questo The House that Jack Built ti spiazza in continuazione. I suoi testi sono strani, onirici (e qui si torna al suo blog, in parte), perfino quando parla di sesso (Peacemaker), dolorosi in maniera asimmetrica quando parla del padre morto (DNR); di certo, un'autrice che dedica un pezzo a Banksy (Ode to Banksy, appunto) denota una sensibilità fuori dal comune. Bellissime la title-track, When I'm Asleep, l'iniziale Born To, Hospital (Win Your Love), Pack Animal. Un'artista che sicuramente non ha terminato di sorprenderci.

20120725

la cosa alla ciliegia

The Cherry Thing - Neneh Cherry and The Thing (2012)


Ed eccone un altro, di dischi che squarciano l'indifferenza, in questo 2012. Manco a farlo apposta, ancora una volta frutto di una mente femminile, anche se, ad onor del vero, la signora in questione è qui accompagnata, anche nel monicker, dai tre ragazzoni scandinavi (Mats Gustafsson, sax, svedese, Ingebrigt Haker Flaten, basso, norvegese, così come Paal Nilssen-Love, batteria); i tre, noti come The Thing, sono una band di free jazz che prende il nome da un pezzo di Don Cherry, e debutta proprio rifacendo pezzi suoi, proseguendo con un saccheggio da vari repertori musicali, virandoli nella loro chiave. Riallacciamoci, qui, alla storia della signora in questione: Neneh Mariann Cherry nata Karlsson, venuta alla luce a Stoccolma 48 anni fa, figlia di un percussionista della Sierra Leone e di una pittrice svedese, quest'ultima poi risposata con Don Cherry (eccoci al primo link con i The Thing), quindi suo patrigno. Anche chi fosse stato in ibernazione tra il 1989 e il 2000, conoscerebbe o almeno avrebbe sentito, almeno una volta, 7 Seconds. Ecco, il pezzo è scritto, e cantato, da Youssou N'Dour e dalla signora in questione, ed era incluso nel suo terzo disco, Man, del 1996. Neneh Cherry, dopo aver militato in alcune punk band inglesi, e nei Rip Rig + Panic, debutta come solista nel 1989 con Raw Like Sushi, un disco che, nonostante nasca grazie anche allo stretto legame che la Cherry ha con la scena di Bristol ed i Massive Attack, è distante dal suono trip-hop, personale e decisamente innovativo, partendo dall'hip-hop. Ho spesso pensato che artiste come M.I.A. e Santigold non esisterebbero, se non fosse per Neneh Cherry; ma forse è solo una mia idea. I due dischi seguenti, Homebrew del 1992 e Man del 1996, segnano una direzione meno sfacciata ma elevano la qualità del songwriting e contengono grandi canzoni; per la cronaca, sono stato un grande fan della Cherry. Sparisce dalla circolazione fino al 2006, anno in cui esce Laylow sotto il monicker CirKus, band formata da lei, dal suo secondo marito, produttore e musicista Cameron McVey, la loro figlia e il di lei fidanzato; con il nome CirKus uscirà poi nel 2009 un altro album, Medicine.
Un minimo di storia era necessaria, perché Neneh Cherry rischia di essere sconosciuta dai più giovani, e questo non è bello; è un'artista che ha fatto bei dischi, e che evidentemente non si fa condizionare dai tempi dell'industria musicale, ricercando un percorso personale. Tanto è vero che questo nuovo disco riesce a stupire anche chi, come me, si considera un suo vecchio ammiratore. La voce di Neneh, ben conservata, rappa meno ma rimane un marchio di fabbrica; le cadenze hip-hop, del resto, nel corso già del secondo e del terzo disco avevano lasciato il posto ad un cantato che accompagnava una forma-canzone raffinata. Qua, insieme ad una band che ha tecnica jazzistica superlativa, ma anche un tiro decisamente rock, la forma-canzone viene spesso destrutturata, fino a cose come Dream Baby Dream, cover dei Suicide che molti conoscono perché "usata" spesso live da Bruce Springsteen, che qui diventa una curiosa espansione jazz-psichedelica. Cover, si, perché il disco è infatti composto da sei canzoni di altri musicisti, più un pezzo composto dalla Cherry (Cashback, il cui giro di contrabbasso vi si stamperà dritto nel cervello; è il pezzo di apertura, e la scelta è decisamente azzeccata, è un pezzo che vi travolgerà) ed un altro scritto da Gustafsson (Sudden Movement). Il risultato è a tratti sconvolgente. Si riconosce la voce di Neneh, come detto, ma ci si cala in un altro mondo, fatto di tecnica, di strappi, di scatti e di rilassamenti, si apprezza il jazz come forse mai lo si era fatto prima (parlo del mio punto di vista). Questo disco è un viaggio, ed è definitivamente un viaggio da intraprendere, perché vi ripagherà ampiamente.
La lista dei pezzi, con le relative "origini", comprende, a parte quelli già citati, Too Tough To Die di Martina Topley-Bird (come dire, il cerchio con Bristol si chiude; il pezzo è sinuoso, sincopato, e la voce della Cherry lo interpreta alla perfezione), Accordion del rapper MF Doom (davvero un gran pezzo, forse il più bello del disco; i The Thing saranno portentosi, ma Neneh Cherry canta da dea - beccatevi pure il rap verso la metà del pezzo, micidiale), Golden Heart di Don Cherry (un po' troppo jam-session a mio giudizio, ma ipnotica, quello si), come detto patrigno di Neneh e ispiratore della carriera dei The Thing, Dirt degli Stooges (spiazzante), What Reason Could I Give di Ornette Coleman (contorta ed intrigante), che collaborò a lungo con Don Cherry.
Neneh Cherry è tornata. Personalmente, l'ho attesa a lungo.
Abbiate coraggio, e per una volta mettete da parte i quattro quarti. Uno dei dischi dell'anno, absolutely.

20120724

family matters

Modern Family - di Steven Levitan e Christopher Lloyd - Stagione 3 (24 episodi; ABC) - 2011/2012


Non pensiate che strutturare una serie come Modern Family sia facile: se ve la cavate con l'inglese, provate a leggere il capitolo "critiche e polemiche" sulla scheda Wikipedia. Ci si scontra con stereotipi, ovviamente non solo eterosessuali. Come che sia, terza stagione, ancora di 24 episodi, terminata in maggio, già rinnovato il contratto per la quarta (che ragionevolmente partirà tra settembre ed ottobre), e spettatori in aumento. Fa ancora ridere? Si, fa ancora ridere. Haley sta finendo la high school (e non sappiamo se andrà all'Università), Alex è un po' meno secchiona (ma sempre molto intelligente), Luke fa ancora troppo ridere, e spesso mette in mezzo il povero Manny, il giovane/vecchio. Lily cresce ed è già un personaggio (a volte insopportabile per genitori e parenti), Cameron e Mitchell provano ripetutamente ad adottare un altro figlio. Gloria è sempre una figa stratosferica.
Qui le recensioni delle stagioni precedenti:
prima stagione
seconda stagione

we still Hope

Raising Hope - di Greg Garcia - Stagione 2 (22 episodi; Fox) - 2011/2012


Le avventure strampalate della famiglia Chance continuano, e, almeno così dice il contratto, continueranno fino al 2013 (la terza stagione partirà nell'ottobre 2012). Se avete bisogno di contestualizzare, rileggetevi la recensione della prima stagione. Come quasi tutte le comedy series, tende a perdere forza con l'andare del tempo. Garcia, ripetiamolo, non dimenticato ideatore di My Name is Earl, tra l'altro in questa seconda stagione rischia il tutto per tutto: l'episodio numero 14, dal titolo Jimmy's Fake Girlfriend, fa da boa, per dire che avviene la cosa che ormai un po' tutti i fan aspettavano (devo proprio dirvela?). Da lì in poi, c'è una carta in meno da giocare ogni volta, e si fa un po' fatica a riempire i ventidue minuti di ogni episodio. Ecco spiegato quindi il finale, con un rientro davvero inaspettato.
C'è da dire però, che proprio l'episodio 14 di questa seconda stagione, è delizioso, per dire poco. Un piccolo capolavoro.
Appuntamento quindi al 2 di ottobre, per l'inizio della terza stagione, per chi avrà ancora voglia di seguire la piccola Hope.

20120723

il secondo (Presidente degli Stati Uniti d'America)

John Adams - di Tom Hooper (2008)
Miniserie in 7 episodi - HBO

John Adams, nato nel 1735 e morto nel 1826, sempre a Quincy, Massachusetts, è stato un Padre fondatore degli Stati Uniti (uno dei più influenti), il primo Vice Presidente ed il secondo Presidente degli Stati Uniti (il primo a vivere alla Casa Bianca, ancora in costruzione). Laureato in legge, lavorò come avvocato, rivelandosi un grande oratore, divenendo famoso nella zona di Boston. Si avvicina alla politica quando si rende conto che i movimenti indipendentisti contro gli inglesi sono ormai inarrestabili; si trova però inizialmente a difendere un plotone inglese che aveva sparato sulla folla, facendo delle vittime, perché attaccato. Li fa assolvere, facendo infuriare gli indipendentisti, ma la sua obiettività fa si che le sue opinioni diventino sempre più influenti. Diviene delegato del Massachusetts al primo e al secondo Congresso continentale, spingendo sempre più decisamente per l'indipendenza, e scrive, insieme a Thomas Jefferson, sotto la supervisione di Benjamin Franklin, la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d'America. Suo figlio John Quincy fu il sesto Presidente.

Sceneggiata da Kirk Ellis, che si è basato sul libro del 2001 John Adams di David McCullough (che ha vinto il Pulitzer nel 2002 nella sua categoria), diretta dall'inglese Tom Hooper (Il discorso del re, Il maledetto United), girata in larga parte in Ungheria, John Adams, miniserie andata in onda tra il marzo e l'aprile del 2008, è, non che ce ne fosse ancora bisogno, l'ennesima dimostrazione della grandiosità di una rete come HBO, e del fatto che con i soldi, ma pure con la professionalità, si può fare grandissima televisione, e perfino insegnare la storia. Mentre guardate John Adams, oltre otto ore di minutaggio senza un momento di noia, sempre che siate interessati un minimo all'argomento, non potrete fare a meno di pensare che cosa sarebbe potuto accadere, che ne so, se in Italia la RAI avesse voluto fare una miniserie su Cavour.
Ambientazioni e ricostruzioni a dir poco grandiose, grande attenzione ai dialoghi, un trucco straordinario (ogni volta che vedo uno, o più, come in questo caso, invecchiamenti credibili sullo schermo, ripenso a quello orribile di J. Edgar), una regia e una direzione ottima, e un cast, che ve lo dico a fare, superbo.
Paul Giamatti (sei mesi quasi ininterrotti di lavoro, trucco e costumi: secondo i trivia di imdb.com ha preso solo due giorni liberi) è un immenso John Adams. Laura Linney è la moglie Abigail (una figura saggia e degna di una rivalutazione storica, sicuramente anche lei sarebbe da annoverare tra i Padri fondatori, anche se in quel caso si dovrebbe parlare di Madri), altrettanto grande. Non voglio dilungarmi troppo, ma lasciatemi citare un bravissimo Stephen Dillane (Stannis Baratheon, per intenderci) nei panni di Thomas Jefferson, i suoi "duetti" con Giamatti sono squisiti, un sempre notevole Tom Wilkinson che interpreta Benjamin Franklin, un ingessatissimo David Morse come George Washington, e Danny Huston come Samuel Adams.
Otto ore sono tante, ma il "sacrificio" è ampiamente ripagato. Chapeau, HBO.

Half-fed slaves building our nation's Capitol. What possible good can come from such a place?
(Abigail Adams, riguardo alla Casa Bianca)

20120722

FdM

Morte dei Marmi - di Fabio Genovesi (2012)


Ma insomma, si parlava di shopping al Forte, cosa c'entrano adesso i fiumi del Klondike non lo so. Forse era per dire che lo shop-watching è una passione che richiede grandi sacrifici... perché gli appassionati arrivano dall'entroterra toscano, in massima parte dalle province di Pisa, Lucca e Firenze, e per infilarsi nello struscio del pomeriggio devono partire la mattina, affrontare il casino della Firenze Mare e qualcuno pure il flipper letale della Strada Grande Comunicazione Fi-Pi-Li. Per poi fare la coda al casello e raggiungere le vie del centro, e lì finalmente girare un'ora alla ricerca di un parcheggio. 
Una volta parcheggiata, l'auto diventa il loro camerino. Perché si parte da casa coi vestiti normali, e quelli buoni stanno appesi dietro o piegati nel bagagliaio, così al momento della sfilata sono belli freschi e fanno il massimo della figura. Gli uomini escono e si studiano nella carrozzeria tirata a lucido, le donne restano ancora un minuto a controllarsi nello specchietto retrovisore, l'ombretto intorno agli occhi e nel petto l'ansia che ti prende un attimo prima di andare in scena.
Ma siccome questa è davvero troppa fatica per farsi ammirare solo dagli altri sconosciuti che si aggirano tra le vie del Forte, si rende necessario telefonare a parenti e amici e colleghi, insomma a tutti quelli che stanno da un'altra parte, per fargli sapere che tu non stai da un'altra parte, tu oggi stai a Forte dei Marmi.
E allora il centro diventa un'enorme cabina telefonica all'aperto, dove si attorcigliano le chiamate più pretestuose, con l'unico obiettivo di informare il mondo su dove ti trovi.
E se queste telefonate le ascoltasse un marziano, arrivato qua per farsi un'idea del nostro pianeta, di sicuro resterebbe assai confuso, e nel resoconto ai suoi superiori dovrebbe comunicare che Forte dei Marmi non è solo un paese, ma anche un sacco di altre cose, tra cui:
Uno stato di salute: "Ciao come stai? Io sono a Forte dei Marmi, grazie.
Un rumore prepotente: "Parla più forte che non ti sento, sono a Forte dei Marmi.
Il nome di una persona: "Salve, sono a Forte dei Marmi, posso parlare con Mario?
Il supermercato delle grandi opportunità: "Ti serve qualcosa? Sono a Forte dei Marmi.
E infine un impegno urgente: "Scusami ma non posso stare tanto al telefono, sono a Forte dei Marmi.


In un mondo ideale, il sindaco di Forte dei Marmi dovrebbe proporre il Genovesi per una statua, o almeno una panchina dedicata, cosa che ho scritto all'autore stesso. Si, perché questo spassosissimo libriccino, del quale vi parlo prima di andarvi a parlare, prossimamente, dell'altro suo libro Esche vive, dopo avervi già edotto sul suo Versilia Rock City, è si molto divertente, ma anche un meraviglioso atto d'amore per il suo paese natale. Un atto d'amore che però non fa sconti, perché punta l'indice molto tranquillamente sulla "colonizzazione" del Forte da parte dei ricconi russi e delle celebrità, vere o presunte tali, italiane e non, sulla perdita di identità, su una sorta di svendita selvaggia di un luogo che, però, nel cuore di chi lo abita da sempre, di chi c'è nato, rimane sempre gelosamente suo.

Ci penso mentre arrivo al semaforo prima del viale a mare, nella nebbia vedo solo un bagliore che penso sia il rosso, sospeso nel nulla. Mi sento una cosa strana dentro, la sensazione di stare - nonostante tutto - nel posto giusto. E' questo che mi faceva dormire male quando vivevo a Roma, insieme al casino che veniva dalla strada. Ogni notte mi rigiravo nel letto e sentivo che qualcosa non andava, perché le mie giornate erano piene e interessanti eppure lo capivo così bene che non stavo al posto giusto. Perché ogni persona ha il suo posto, che non è per forza dove sei nato o dove vivono amici e familiari, ma è semplicemente quel posto dove ti senti a posto. E io lo so che sono scemo, però quando torno in Versilia e avvisto il cartello sull'autostrada coll'ombrellone disegnato sopra (esiste davvero, non ci avete mai fatto caso? Nota di jumbolo), e il profilo delle Alpi Apuane che sale ripido verso il cielo, allora mi pare proprio che l'aria diventi migliore, e nella testa mi parte quella splendida canzone di Dave Dudley che fa
Là davanti spunta il mio paese
E se pensate che sia felice avete ragione
Sei giorni sulla strada
E stasera arrivo a casa.

La cosa che mi è molto piaciuto di questo libro piccino, ma nel quale in parte mi sono riconosciuto, visto che anche io sono nato e vissuto in un luogo di cosiddetta villeggiatura, certo non considerato prestigioso come Forte dei Marmi, è la maestria di Genovesi nel raccontare aneddoti (come detto) molto divertenti, e probabilmente (come dice lui in apertura) quasi tutti realmente accaduti, che riassumono la storia degli ultimi decenni del Forte, condannando le colpe in primo luogo degli abitanti e degli amministratori senza voler per questo fare il censore, ma riuscendo, in un bel finale, a dichiarargli ugualmente amore eterno, e a rendere il tutto, in qualche modo, universale. Perché non solo chi è nato al mare, potrà riconoscere una parte di sé, dentro a Morte dei Marmi.
Bravo Fabio.

20120721

nato cattivo

Born Villain - Marilyn Manson (2012)


Ogni volta che penso a Brian Hugh Warner, aka Marilyn Manson, mi viene da sorridere pensando a quelli che ancora oggi lo vedono come un pagliaccio ininfluente, nel panorama musicale. Poco importa se nell'apocalittica Overneath the Path of Misery si diverte a citare Macbeth, o se in Pistol Whipped interpreta uno dei drammi casalinghi dei nostri tempi ("You look so pretty when you cry. Don't wanna hit you but the only thing, between our love is a bloody nose, a busted lip and a blackened eye"). Ottavo disco, primo per la sua personale etichetta, Born Villain si presenta immediatamente in maniera inequivocabile come un ottimo disco di heavy metal industrial, con l'apertura deragliante di Hey, Cruel World ("we don't need your faith, we've got fucking fate"), e con testi che, come sempre, denunciano l'ipocrisia strisciante, e la voce di Manson continua ad essere una delle più oneste (e rabbiose) voci di protesta dei nostri tempi.
Alla chitarra sempre il fido Twiggy Ramirez, al basso il nuovo entrato Fred Sablan, alle tastiere, batteria, programming, e partner di Manson sia nella composizione sia nella produzione, l'ex NIN Chris Vrenna.
Summa di tutte le direzioni musicali intraprese fino ad oggi, questo ulteriore ottimo disco interesserà i più superficiali perché, nella interessante cover di Carly Simon, il classico You're So Vain (dove, chissà, Manson ripensa a qualcuno dei suoi vecchi amori perduti), interpretato tutto sommato in maniera "elegante", suona la chitarra nientemeno che Johnny Depp.
Perdona loro, Reverendo.

20120720

un'altra Terra

Another Earth - di Mike Cahill (2012)


Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: arri'orda varche artro firme ma un è male

New Haven, Connecticut. Mentre Rhoda Williams, che da sempre subisce il fascino dello spazio, festeggia la fine della high school con i compagni, e soprattutto la sua ammissione al MIT, il sogno della sua vita, viene scoperto un pianeta, vicinissimo alla Terra, e che gli somiglia moltissimo, apparentemente. Rhoda, tornando a casa, è completamente distratta dalla visione di questo pianeta, e si scontra violentemente con un auto. Dentro l'auto, una famiglia intera, padre, madre incinta, e primo figlio. Sopravvive solo il padre, e la sua vita è distrutta. Rhoda viene arrestata, e passa quattro anni in carcere. Quando esce, anche la sua vita è completamente da ricostruire. Nel frattempo, gli scienziati hanno scoperto che il pianeta è davvero una sorta di "gemello" della Terra, tanto che l'hanno battezzato Terra 2. Il pianeta è identico al nostro.

Film ben ricevuto al Sundance 2011, e che è valso alla protagonista Brit Marling (che interpreta ovviamente Rhoda Williams) un premio al Sitges Festival, è uscito in Italia qualche mese fa piuttosto in sordina, ma in realtà è un buon film, con una strana atmosfera, sospesa, tesa, rarefatta. Tra l'altro, la Marling, molto amica del regista, è co-sceneggiatrice (così come lo è stata in occasione del debutto sulla lunga distanza come regista di Cahill, il documentario Boxers and Ballerinas, nel quale è accreditata anche come co-regista). Sorregge sulle spalle l'intero film, ben coadiuvata, nella seconda parte, dall'esperto caratterista William Mapother, che interpreta John Burroughs, l'unico sopravvissuto della famiglia coinvolta nell'incidente causato da Rhoda.
Il film può ricordare senza dubbio altre cose, non ultimo Melancholia di Von Trier, ma ha come detto un'atmosfera "sospesa" che avvince lo spettatore, lo coinvolge e lo conduce al finale, forse non così sorprendente, ma in un certo qual modo corretto, l'unico possibile.
Promettente.

20120719

voti

Vows - Kimbra (2011)


Oggi facciamo un piccolo passo indietro, e andiamo ad occuparci di un disco uscito praticamente un anno fa, anche se nel maggio del 2012 è uscita la versione re-release con sei nuovi pezzi. Quando, giusto un anno fa, un sacco di appassionati musicali e non erano incantati da Somebody That I Used to Know di Gotye (del cui album forse un giorno vi parlerò, ma non lo prometto), io, da buon bastian contrario, ma anche da amante delle voci femminili, ho cominciato ad interessarmi di quella che partecipava al pezzo. Sto parlando di Kimbra Lee Johnson, nota come Kimbra, giovanissima (ventidue anni da qualche mese) neozelandese. La ragazzina, diciamolo subito, ha una gran voce, ha esordito giovanissima (nel 2005) in patria, con alcuni singoli molto acerbi, nei quali era chiaramente alla ricerca di una direzione musicale precisa e meno scontata. Con Vows sembra averla finalmente trovata: stiamo parlando di un pop-soul con sorprendenti venature r'n'b di ottima fattura, lontanissimi echi Motown, ma anche sprazzi etnici che, soprattutto nelle parti acapella, mi fanno venire in mente la grande Marie Daulne e le sue Zap Mama (già ben presenti direttamente nell'apertura di Settle Down). La signorina tende a spiazzare, vedi ad esempio le jazzature di The Build Up, dove sembra una Fever Ray più ordinata, per dire, e disseminando qua e là nelle canzoni rumorismi waitsiani (ascoltare al riguardo la hidden track conclusiva, Somebody Please).
I pezzi decisamente più orecchiabili sono praticamente posti tutti in apertura, la già citata Settle Down, l'ultimissimo (e molto molto bello) singolo Two Way Street, la simpatica Cameo Lover, Good Intent, la cover di Nina Simone Plain Gold Ring (rifatta già da Nick Cave in Live Seeds, con un'altra intensità, ovviamente). Mi fermo qui, non perché gli altri pezzi siano inferiori, ma solo perché le versioni "live in studio" di queste cinque canzoni sono presenti nell'edizione speciale Live at Sing Sing Studios, e sinceramente acquistano grande spessore. Personalmente, mi piace molto Withdraw (e magari ve ne siete pure accorti).
Vedremo come si "muoverà" in futuro la neozelandesina, l'attendiamo con interesse.

20120718

news

Non vorrei risultare troppo insistente, ma siccome ho appena terminato di vedere l'episodio 4 della prima stagione di The Newsroom, episodio che mi è parso magnifico, ma sul quale non mi dilungherò perché non voglio arrivare a fare le recensioni degli episodi, vi dico solo alcune cose.
Uno, dovete guardare questa serie.
Due, solo un breve estratto, una parte di un dialogo del protagonista, magari vi convince:
"Per prima cosa, io sono un repubblicano dichiarato (intende il partito repubblicano statunitense). Sembro un liberal perché credo che gli uragani siano causati dall'alta pressione, e non dai matrimoni gay."
Priceless. Pensate solo che gli episodi durano circa un'ora, e i dialoghi sono tutti su questo livello. Speriamo che duri.

Sexografìas

Corpo a corpo (Cronache di frontiera) - di Gabriela Wiener (2012)


Cronache. Storie. Quasi giornalistiche. Quasi. Una visita ai personaggi che popolano il carcere di Lurigancho, a Lima, Perù (considerato uno dei più pericolosi del mondo). Un'esperienza in un club di swingers (scambisti). Una notte nel Bois de Boulogne, a Parigi, regno della prostituzione, insieme al fidanzato di una trans. Sottoporsi volontariamente alla donazione di ovuli a favore di donne che non possono altrimenti concepire. Un'intervista molto calda con Nacho Vidal, l'attore porno spagnolo considerato l'erede di Rocco Siffredi. Qualche giorno nella casa di Ricardo Badani, una sorta di guru peruviano che vive con sei mogli, che dichiarano tutte di essere felicemente innamorate di lui. La sessualità dei maiali. Quella delle bambole. Quella delle donne incinta. Un viaggio tra le prostitute di Lima. Come anche l'autrice si considera una freak (ma si operò). Un'esclusiva intervista ad una delle più famose dominatrix spagnole, unita ad una straordinaria partecipazione della stessa intervistatrice ad uno dei suoi spettacoli. Plus, un viaggio sotto ayahuasca.

Non ricordo precisamente come ho "conosciuto" Gabriela Wiener, se per alcuni dei suoi pezzi tradotti su Internazionale (che ritroviamo anche in questo libro), o leggendo in rete una recensione davvero particolare su Il canto di Paloma (uno straordinario film peruviano dove si racconta la storia di una giovane che, come si usava durante la guerra civile, si posiziona una patata dentro la vagina). Il fatto è che quella della non ancora quarantenne giornalista/scrittrice peruviana, da qualche anno residente a Barcellona, è una voce straordinariamente chiara, onesta, coraggiosa, del cosiddetto giornalismo gonzo, creato da Hunter S. Thompson (le cui storie sono state portate sullo schermo da Johnny Depp, in Paura e delirio a Las Vegas e in The Rum Diary - Cronache di una passione), uno stile che abbandona l'obiettività a favore della soggettività, per cercare di descriverlo in breve.
Wiener predilige argomenti che girino intorno alla sessualità, e devo dire che a mio parere questo è un bene per i lettori maschi, che finalmente possono fruire di un punto di vista femminile onesto, anche se sono sicuro che molte donne possano, forse, sentirsi "liberate" leggendo storie di sesso scritte da una donna che non cerca il porno, bensì un punto di vista reale sull'argomento.
Il libro è a tratti spassoso; lo stile della Wiener è divertente, a volte scoppiettante, sicuramente personale, anche se non dimentica mai l'obiettivo, che centra con risultati alterni, ma sempre interessanti. Astenersi bigotti ed esperti della posizione del missionario.
Il libro è uscito nel 2008 in lingua spagnola (titolo originale, come da titolo del post, Sexografias, "sessografie"), ma da qualche settimana, tradotto da Francesca Bianchi, esce per la casa editrice La Nuova Frontiera.

20120717

Hannibal

Annibale - Un viaggio - di Paolo Rumiz (2008)


"Secondo te siamo pazzi?"
"Tutto questo è magnifico. Se si insegue un mito è normale smarrirsi."
"Ma oggi, il mito non c'è più. Nessuno lo cerca."
"La morte del mito è la cosa più oscena dell'oggi. E' la fine dell'incantamento, dell'immaginazione, del desiderio. Senza quella cosa l'uomo si perde, diventa un grande invalido. Perciò andiamo, siamo sulla strada giusta."


Mi trovo sovente a pensare che ho delle letture troppo "ristrette", nel senso che leggo spesso i soliti autori. Ma non ci posso fare niente, e mi fido del mio istinto: di sicuro, non smetterò mai di leggere le cose che Paolo Rumiz scrive. Resoconto dell'ormai classico viaggio agostano che il giornalista/scrittore/viaggiatore compie per Repubblica dal 2001, questo libro pubblicato nel 2008 (il viaggio era dell'agosto 2007) narra della ricerca, da parte di Rumiz, delle tracce lasciate, in Italia ma anche in Spagna, in Francia, e perfino in Turchia e in Armenia, dal condottiero che ebbe il coraggio di affrontare la Roma Avanti Cristo, mettendole si paura, ma anche, in un certo qual modo, rafforzandola e dandole gloria imperitura perenne.

"Seguimi," gli dice Maharbal, "io ti precederò con la cavalleria, perché i Romani sappiano che sei arrivato prima di sapere che stai per arrivare." Ma Annibale esita, chiede tempo per riflettere sul da farsi. Al che Maharbal gli risponde con una frase immortale: "E' chiaro che gli dèi non danno tutti gli doni a uno stesso uomo. E tu sai vincere, Annibale, ma non sai approfittare della vittoria". Vincere scis, Hannibal, victoria uti nescis.


C'è ben poco da descrivere, se un minimo conoscete Rumiz, questo giornalista triestino che, negli ultimi anni, ci ha insegnato una corretta maniera di viaggiare, sulle tracce di qualcosa di storico o sociale, cercando, con al fianco la storia, recente o antichissima, di trovare qualcosa di noi stessi. Un personaggio in grado di insegnarci, o di re-insegnarci la storia che a scuola non ci appassionava poi così tanto, e nel contempo di citare gli Almamegretta (pagina 119) e Neil Young (pagina 184); senza dimenticare brevi ma illuminanti riflessioni sul presente socio-politico.

Radici cristiane dell'Occidente? Prima delle radici cristiane ci furono le radici grache e romane, fondamento di un concetto di governo basato sul concetto di ius e sulla responsabilità che parte dal basso. Un'idea che fu semmai scardinata dal Cristianesimo, portatore di un'idea teocratica orientale che smantellava i legami trasversali fra élite e gettava i presupposti del culto della personalità, trasformando i capi supremi in "unti del Signore".


Un reporter con uno stile invidiabile e coinvolgente, ruspante ma al tempo stesso coltissimo, che riesce perfino, in un contesto principalmente storico, a farci riflettere perfino sulle differenze tra le guerre di pochi decenni or sono, rispetto a quelle odierne:

Qui (in riferimento ad Anogeia, Creta) nell'aprile del 1944 avvenne uno degli episodi più romanzeschi della Seconda guerra mondiale. Il futuro scrittore di viaggi inglese sir Patrick Leigh Fermor, allora trentenne, venne paracadutato in zona per coordinare la resistenza antinazista e decise una mossa inaudita: la cattura del generale Heinrich Kreipe, comandante della guarnigione a Creta. Un commando di partigiani greci travestiti da tedeschi mise a segno il colpo e nascose l'alto ufficiale in una grotta.
Un giorno Fermor vide che il tedesco, seduto all'ingresso della caverna, guardava incantato il Monte Ida ancora coperto di neve e mormorava in latino versi di Orazio: "Vides ut alta stet nive candidum Soracte", guarda il monte Soratte candido di neve alta. L'inglese, che conosceva bene il greco e il latino, proseguì il verso: "Nec jam sustineant onus silvae laborantes geluque flumina constisterint acuto".
Il tedesco si voltò, stupefatto. "Ach so, herr Major," disse. E Fermor, emozionato: "Jawohl, herr General". Significava: vedi, qualcosa ci accomuna, vecchio mio, anche se siamo nemici. Al che Kreipe, con un sorriso; "Vedo che abbiamo bevuto alle stesse fonti".
"Da quel momento in poi le cose furono diverse fra noi," mi raccontò Fermor sessant'anni dopo. "S'immagini," commentò pensando alla grossolana distruzione del patrimonio iracheno, "quant'erano preparati i militari una volta... Io ero stato mandato in Grecia perché avevo studiato Omero, e Kreipe aveva fatto otto anni di studi classici. Sono cose che non esistono più."


Uno scrittore, o come volete, giornalista oppure viaggiatore, che di sicuro ogni aspirante viaggiatore non deve lasciarsi scappare. Anche se, sono convinto, farebbe bene anche a chi non è così appassionato di viaggi.

20120716

chez jumbolò

Cous cous alle verdure e felafel

Per la serie "le grandi ricette di fassbinder", ecco un piatto, come al solito esotico, che si prepara in massimo 10 minuti.
Preparate un po' di cous cous di quelli precotti (bollite l'acqua con qualche goccia d'olio d'oliva e un pizzico di sale, quando bolle spegnete il fuoco, poi una manata di cous cous, tappate il tutto e lasciate "gonfiare"). Nel frattempo, spadellate una mezza confezione di verdure lesse miste surgelate in busta, aggiungendo un po' di mandorle pelate.
A parte, preparate una busta di falafel Luxor: bagnate il preparato con un poco di acqua, lasciate riposare 5 minuti, poi appallottolate 4/5 polpettine e friggetele in olio bollente.
Quando è tutto pronto, nel centro del piatto adagiate una montagnetta di cous cous, copritelo con le verdure e, se volete, spolverateci sopra un po' d'uvetta passa; collocate intorno i falafel, ed il risultato è, almeno visivamente, di grande impatto.

archibugio

Blunderbuss - Jack White (2012)


Sono almeno due mesi che ascolto e riascolto Blunderbuss, e ancora non ho capito se mi piace oppure no. Personalmente, non credo sia un bene. Che John Anthony Gillis fosse un genio, io, come altri, lo andavo ripetendo da anni, epoca White Stripes, e dopo averli visti alcune volte live mi sono ritrovato a pensare una campagna che lo liberasse da Meg White, che ho sempre visto come una palla al piede per lui. Dopo l'ultima parte della carriera di Jack, mi ritrovo a pensare di aver completamente sbagliato il giudizio (su Meg). Si, provate a rifletterci. Nonostante questo disco sia già da mesi osannato e considerato da eminenti riviste musicali come uno dei migliori del 2012, o altre cose (come quelle con The Raconteurs e con The Dead Weather) siano state salutate con ovazioni da stadio, al momento, quello che rimarrà nella storia universale, sono le cose che Jack ha fatto con i White Stripes, a cominciare dal tormentone di Seven Nation Army "stadizzato".
Detto questo, Blunderbuss è un pentolone elegantissimo e molto (pure troppo) vintage (non fosse altro che per gli strumenti usati), che raccoglie le sterminate influenze di Jack, da Elvis a Dylan, da Dolly Parton ai Led Zeppelin, e via discorrendo lungo tutto l'arcobaleno musicale del ventesimo secolo, con una serie di pezzi che presi singolarmente hanno un grande potenziale, ma che incastonati in un album spiazzano l'ascoltatore denotando una grande eterogeneità. Apprezzerete il disco, lo suonerete per un po', magari qualche settimana, poi lo metterete sullo scaffale virtuale e non lo ascolterete più. E quando sentirete nominare Jack White, partirà immediatamente nello stereo immaginario posto nella vostra testolina, Seven Nation Army. A volte le eredità non sono facili da gestire.

20120715

trattami bene

Tratame bien - di Pablo Lago e Susana Cardozo - Stagione 1 (37 episodi; El Trece) - 2009


Buenos Aires, Argentina. José e Sofìa sono una coppia sposata da oltre vent'anni, con due figli grandi, Helena e Damiàn. Hanno avuto già una crisi, ne sono usciti, ma adesso sono sull'orlo di un'altra crisi. José, di orgogliose origini armene, sta rovinando con i debiti il negozio che ha ereditato dal padre; ha una storia con una cugina, e sta cercando disperatamente di nasconderla a Sofia (i cui affari, al contrario, vanno a gonfie vele), ma la cugina in questione sembra sul punto di uscire allo scoperto. José e Sofia sono entrambi in terapia, e i loro due rispettivi analisti consigliano loro una terapia di coppia, presso un'altra analista ancora. I due accettano. Mentre i due figli cominciano a reclamare le proprie vite, José e Sofia cominciano una nuova avventura, lottando per tenere in piedi la loro storia, le loro vite.

Mentre guardavo i (ben) trentasette episodi da oltre quaranta minuti di questa fiction argentina, pensavo a due cose. Beh, in verità l'ho pensato dopo, perché mentre li guardavo non avevo tempo di pensare: mi stavo divertendo e ero solo curioso di vedere cosa succedeva in seguito. Ad ogni modo, le due cose sono le seguenti. La prima, se mi piacciono perfino le fiction televisive di questo paese, è proprio vero quello che mi dice spesso una cara amica di laggiù, e che mi conosce bene: prima o poi, ti trasferirai qua. La seconda: è un peccato che molti di voi non potranno vedere questa serie, per l'ostacolo della lingua (è ovvio che un prodotto che viene dall'Argentina non ha, neppure in rete, la diffusione, intendo con sottotitoli, di altri prodotti ben più famosi), perché è davvero un ottimo lavoro.
Tralasciamo una fotografia tipicamente televisiva, ma per tutto il resto, tanto di cappello. Una coppia di attori protagonisti esperta e in grandissima forma, Julio Chàvez (José), attore e regista di teatro, praticamente sconosciuto in Italia, ma del quale vi ho parlato recensendo El custodio e Un oso rojo, e Cecilia Roth (Sofia), conosciutissima anche da noi, non fosse altro che per tutti i film che ha fatto con Almodòvar, che danno entrambi una grande prova, una serie di attori di contorno ottimi, e alcune apparizioni di grande prestigio (faccio solo due nomi: Federico Luppi - qualcuno lo avrà visto ne Il labirinto del fauno, La spina del diavolo o in Machuca -, un "grande vecchio" davvero grande, e Leticia Brédice - Nove regine ma anche Segreti di famiglia di Coppola -), momenti di grande ilarità, tormentoni, situazioni difficili a livello di sentimenti, temi di attualità quotidiana nella vita di tutti, e non solo dal punto di vista sentimentale, che però rimane il tema conduttore. Intendiamoci però: non sto parlando di amori e tradimenti "da fiction", bensì di situazioni che risultano credibili al cento per cento.
Non siamo ai livelli delle produzioni statunitensi, ma siccome ognuno deve trovare la propria strada, il proprio stile, credo che Tratame bien sia davvero una bella serie, e che rispecchi le sue origini.

20120714

sorkin

Un reminder importante: è partito ormai da quattro settimane, su HBO, The Newsroom.
Ideato da Aaron Sorkin, con Jeff Daniels ed Emily Mortimer. Ancora una volta, grande televisione, stavolta anche "dal di dentro". Da guardare e ascoltare con grandissima attenzione: i dialoghi di Sorkin sono famosi per essere "a mitraglia".

cassettina 6 - new horizons

If I Had A Cent - The Hives
Coming Up Easy - Paolo Nutini
Send Away The Tigers - Manic Street Preachers
I'll Be Your Man - The Black Keys
Love Removal Machine - Great White
Wild Flower - The Cult
Bring It On - Nick Cave and the Bad Seeds
Alive - P.O.D.
I Need Some Fine Wine and You, You Need to Be Nicer - The Cardigans
So Here I Come - Neneh Cherry
Night City - The Sword
Don't Stop Believin' - Journey
Lifeline - Papa Roach
New Shoes - Paolo Nutini
Don't Leave Me (Ne Me Quitte Pas) - Regina Spektor
Born To - Jesca Hoop
Midnight Shifter - The Hives
You Belong With Me - Taylor Swift


Le cassettine precedenti.

20120713

le ruote di rinvio

The Idler Wheel Is Wiser Than the Driver of the Screw and Whipping Chords Will Serve You More Than Ropes Will Ever Do - Fiona Apple (2012)


Se non conoscete Fiona Apple, non so, forse è il caso che non vi avviciniate neppure al suo nuovo disco. Però, quello che vi voglio preannunciare è che se la top ten del 2011 era fatta principalmente da cantanti soliste, ho paura che quella di quest'anno sarà completamente composta dalle suddette. E non perché tutte facciano la stessa cosa, anzi. Fiona Apple ha oggi 34 anni, ha debuttato nel 1996 con lo splendido Tidal (a 19 anni, quindi), è figlia di una cantante e di un attore, la sua è una famiglia di artisti. E' stata stuprata a 12 anni. Il disco precedente, Extraordinary Machine, fu bloccato per lungo tempo dalla casa discografica. Sono passati ben sette anni da quel disco, e la ragazza di New York non ha perso un briciolo della sua ispirazione, della sua rabbia, del suo cinismo. The Idler Wheel non è un disco facile, è tutto il contrario. Vi occorreranno decine di ascolti per "entrarci" un minimo. Lo stile di Fiona si può definire jazz solo nel concetto, ma trovo che avant-garde le si addica maggiormente. Ribadisco l'accostamento con Tom Waits, che feci già in occasione della recensione di Extraordinary Machine: i rumori di contorno, definiti carnevaleschi da alcuni critici (in senso buono), la modulazione quasi teatrale della (stupenda, ancora una volta) voce. La sofferenza e la durezza che esprime al tempo stesso, invece, me la fa da sempre avvicinare alla migliore PJ Harvey. Ecco, se per caso non conoscete Fiona Apple, provate ad immaginarvi un ibrido del genere. Ascoltate, ad esempio, Regret.
Una parte importante nella riuscita di questo nuovo, complesso ma ottimo disco, mi pare sia da addebitare al co-produttore Charley Drayton, un multi-strumentista, anche lui newyorkese, che sul curriculum annovera collaborazioni con Keith Richards (ecco chiuso il cerchio con Tom Waits), Rolling Stones stessi, The Cult, Neil Young, Johnny Cash, Iggy Pop, Herbie Hancock (solo per citare i più famosi) e moltissimi altri, e che ha suonato quasi tutti gli strumenti che non ha suonato Fiona, ma, a mio parere, imponendo alle parti "movimentate" delle canzoni un incedere interessantissimo e sperimentale alla parte ritmica.
Probabilmente il mio pezzo favorito è Left Alone, una sorta di fuga jazzata dove percussioni e piano si inseguono sul pentagramma, ma l'intero disco, dall'apertura quasi morbida (ma occhio alle apparenze, con Fiona Apple) di Every Single Night, alla chiusura acapella (ma con percussioni sullo sfondo) di Hot Knife, merita ripetuti ed attenti ascolti. Un altro grande disco di questo 2012.

20120712

società di musica radiofonica

Radio Music Society - Esperanza Spalding (2012)


Quarto disco per la dotata bassista-cantante ventisettenne originaria di Portland. Nessuno si ricorderà, ma il disco precedente (con il quale sembra avere, notate il titolo, una sorta di continuità) l'avevo trovato dannatamente noioso: quest'ultimo, almeno sono riuscito ad ascoltarlo qualche volta in più. Non è niente male, se cercate del jazz piuttosto classico, ottimamente suonato, soffice, solo lievemente influenzato dalla bossa nova, cantato da una bella voce, che ha il pregio di non indugiare su inutili virtuosismi, e puntare al risultato. Ideale per fare da sottofondo ad una serata, durante la quale non volete immediatamente rivelare che la vostra band preferita sono i Motorhead.

20120711

cassettina 5 - shake your booty

Enough To Break Your Heart - Imperial State Electric
Night Walker - Black Bananas
Looking Through - Nada Surf
Hiway Nights - Great White
All Kinds Of Kinds - Miranda Lambert
A Veces Vuelvo - Catupecu Machu
If Only You - Basia Bulat
Tainted Love - Marilyn Manson
I Can't Stop Loving You - Van Halen
It's No Good - Depeche Mode
Perth - Bon Iver
Lonely Boy - The Black Keys
Hoppipolla - Sigur Ròs
You Don't Have To Say You Love Me - Dusty Springfield
The Drugs Don't Work - Ben Harper
Withdraw - Kimbra
Io cerco te - Il Teatro degli Orrori
Eyeoneye - Andrew Bird


Le cassettine precedenti.

20120710

nato e cresciuto

Born and Raised - John Mayer (2012)


Devo confessare che presto sempre attenzione alle annotazioni che i pochi, ma appassionati, lettori di questo blog mi fanno. Una di queste, è stata che spesso, io e un altro paio di amici (Monty e Filo), recensiamo gli stessi dischi a breve distanza. Quindi, negli ultimi tempi ci faccio attenzione, a meno che non ci sia un disco del quale devo parlare, perché secondo me è molto importante (e quindi, per dire, se qualcuno dei due amici avesse parlato del disco di Santigold, me ne sarei fregato). Fatta questa premessa, ho atteso quasi un mese dalla recensione che Monty ha scritto sul quinto disco del ragazzone americano del Connecticut. Un po' perché ne aveva parlato lui, un po' perché ho preferito ascoltare prima altre novità, e un po' perché un primo sommario ascolto non mi aveva impressionato granché.
Un'altra cosa, che tra l'altro dico spesso, è che per "entrare" nei dischi, negli ultimi anni, ho bisogno di una chiave d'accesso, che spesso è una canzone. E, sempre con quel suddetto primo ascolto, non l'avevo trovata. Oggi, invece, è arrivata. Come dal nulla. E mi ha trapassato il cuore, un po' come aveva fatto Belief, dal suo terzo disco Continuum, pezzo quella volta segnalatomi dall'amico Emiliano, che non sarà un espertone, ma sulla musica spesso ci prende.
E allora. Il pezzo in questione si intitola Shadow Days, ed oltre ad essere una bellissima canzone, semplice e diretta, ha il pregio di avere un testo di quelli che, con una sorta di trasfigurazione personalissima, raccontano di una vita che quasi vorrei aver vissuto, ma arriva ad una conclusione identica a quella alla quale sono arrivato io (su di me; lo so, non si capisce niente, ma siccome io mi sono capito, vi affido questo pensiero quasi criptico, nella speranza che mi capiate ugualmente). Per dire, che quando arriva al chorus, e sento Mayer che canta "I'm a good man, with a good heart, had a tough time, got a rough start, but I finally learned to let it go. Now I'm right here, and I'm right now, and I'm open, knowing somehow, that my shadow days are over, my shadow days are over now", sapete già cosa mi succede. E non posso farci assolutamente niente.
Il resto del disco è più che piacevole, e come già detto, Mayer mi ricorda moltissimo gli stili "surf" di Jack Johnson e Donavon Frankenreiter, ma con quel tocco country-folk in più, ed un songwriting sicuramente più variegato. Come se anche le sue canzoni fossero adatte ad essere suonate e cantate intorno ad un falò sulla spiaggia, ma anche in altri contesti. Adeguatamente rifinito, Born and Raised è un classico disco che non inventa niente, ma di sicuro non ti rompe i coglioni. Anzi.

20120709

scopamici

Friends with Benefits - di Scott Neustadter e Michael Weber - Stagione 1 (13 episodi; NBC) - 2011


Chicago. Sara, Riley, Ben, Aaron e Julian (nella foto da sinistra a destra), sono un gruppo di amici molto uniti tra di loro, ma hanno tutti dei problemi relazionali. Al punto che Ben e Sara diventano friends with benefits, scopamici. E Riley e Aaron sono sul punto di farlo. Ma tutti quanti sappiamo cosa succede quando si fa sesso spergiurando che non ci saranno conseguenze sentimentali.

Gli sceneggiatori di (500) giorni insieme, l'ho scoperto quando stavo facendo qualche ricerca per scrivere la recensione in proposito, hanno scritto anche una serie tv: questa. E casualmente, dico sul serio, l'ho vista proprio nel periodo in cui ho visto il film. La serie è un midseason replacement (così abbiamo imparato anche questo), ed era probabilmente destinata a non durare. Sono andati in onda 12 episodi in tv, ed uno, l'ultimo, è disponibile su iTunes, Amazon.com e Netflix.
La serie è carina e godibile, recitata da un manipolo di giovani attori che si danno da fare per avere un futuro, e può essere un passatempo relativamente divertente. Ma non ne sentiremo di certo la mancanza.
Direi che così può bastare.

20120708

come si cambia

Probabilmente non ve ne importerà niente, ma i blog servono a questo, alla fine. Ieri sera ho visto una cosa che mi ha fatto riflettere.
Vi ho già detto, qualche volta, che mio nipote è un po' la mia finestra sul futuro. Dunque, ieri sera, come l'anno passato, sono andato a vedere l'esibizione di karate della scuola che lui frequenta, alla festa parrocchiale. Quando l'ho visto, mi sono accorto che aveva una sorta di taglio alla moicana. Ho chiesto a mia sorella se gli aveva fatto "la cresta": mia sorella è parrucchiera. E lei mi ha detto "si, l'ha vista a Balotelli, e ha detto che la voleva anche lui, e che tiferà sempre per l'Italia".

Domenica scorsa sono terminati gli Europei di calcio di Polonia/Ucraina; mi sono visto tutte, ma proprio tutte le partite. Seppure il livello tecnico non sia stato eccelso, il calcio mi piace proprio; e poi questi eventi sono belli. E, tra le altre cose, il calcio deve piacermi davvero, visto che anche quest'anno ho resistito allo spettacolo offerto dal Livorno. L'Italia ha perso in finale, presa a pallonate da una Spagna troppo forte, troppo più forte di tutti, una nazionale che ha vinto gli Europei di quattro anni fa e i Mondiali di due anni fa. Tifavo per l'Italia? Moderatamente. Ci sono rimasto male? Nemmeno un po'. Vi ricorderete che la Nazionale di Lippi non riuscivo proprio a farmela rimanere simpatica. Ho letto, anche da fonti che considero spesso condivisibili, aspre critiche al cosiddetto tifo contro. Non mi va di discutere: ognuno è libero, in questo campo, di pensarla come gli pare. Due anni fa ero davvero arrabbiato, e mi rimanevano antipatici un sacco di componenti della squadra. Adesso molto meno, ma odiare la Nazionale del Paese dove sono nato, cresciuto, e dove vivo, mi è servito ad essere più obiettivo, e a starci molto meno male. E' vero che, se l'Italia avesse vinto, non avrei goduto quanto godetti nel 1982, non sarei sceso in strada a festeggiare, non sarei andato a fare il bagno di notte avvolto in un bandierone tricolore comprato per l'occasione (al mercatino americano di Livorno). Non fa niente, ho imparato che nella vita le cose davvero importanti sono altre, e c'è un tempo per ogni cosa.
Prandelli mi sembra una persona per bene. I calciatori di oggi sono dei tamarri ai livelli dei protagonisti di Sons of Anarchy, ma lo sono tutti, di tutte le nazionali. Balotelli è un gran bel calciatore, con una testa che spesso sembra vuota. Va bene così: come diceva Frengo-e-stop di albanesiana memoria, il calcio è un gioco-gioco. Va bene che a mio nipote piaccia SuperMario. Va bene che io sia molto tiepido verso la Nazionale. Ognuno deve fare la sua strada. Anche per quanto riguarda il calcio.

20120707

a cosa serve un orso?

?Para que sirve un oso? - di Tom Fernàndez (2011)


Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: firmetto, però posto esagerato

Antartide. Guillermo, biologo che ha molto a cuore il problema del surriscaldamento globale, sta conducendo studi in proposito, ma capisce che a nessuno importa molto. Decide quindi di lasciare la ricerca, e di tornare a casa. Li c'è Josephine, la donna di origini inglesi che ha cresciuto lui e suo fratello quando sono rimasti orfani, che continua a prendersi cura della casa di famiglia. Nel frattempo, il fratello Alejandro si è ritirato in un bosco nelle Asturie, insieme al suo apprendista statunitense Vincent. Alejandro è uno zoologo, ed è deciso a salvare il suddetto bosco dalla cementificazione imminente. Il piano è dimostrare che in quel bosco vivono ancora gli orsi bruni, che una volta erano numerosi, ma che adesso sono quasi scomparsi. Tutti i metodi da lui messi in atto, decisamente arcaici ed anticonvenzionali, non sembrano funzionare. Josephine obbliga Guillermo ad andare a trovare il fratello, nella speranza che questi convinca il biologo a non mollare. Nel delizioso paesino vicino all'accampamento di Alejando e Vincent, vive Natalia, una giovane vedova di un alpinista, con la figlia Daniela, piccola ma già con un forte spirito di avventura e curiosità. La sua maestra elementare è la bella Rosa, poco sensibile alle tematiche ambientali. Natalia è veterinaria, e conosce Alejandro.

Vi dirò la verità: sono andato a cercarmi questo "piccolo" film spagnolo esclusivamente per vedere Oona Chaplin (Talisa Maegyr nella seconda stagione di Game of Thrones) all'opera, e parlante castigliano. Come vi ho già detto, la signorina è nipote del grande Charlie, ed è spagnola, seppur giramondo e di madre anglo-statunitense (Geraldine, appunto, la figlia di Charlot). Secondo lungometraggio del regista spagnolo, è una commedia a sfondo ecologista, modesta senza dubbio, ma non per questo da buttare. Recitata più che dignitosamente da un cast ricco, che pare divertirsi un mondo, ha il merito del messaggio, e, grazie alla bella fotografia, di mostrarci in tutta la sua meraviglia la regione asturiana. Si fanno quattro risate, non ci sono battute grossolane, parolacce o gag volgari, è adatto anche ai bambini.
Josephine è interpretata da Geraldine Chaplin (tutto in famiglia), la bella Oona è la maestrina Rosa, Guillermo è Javier Càmara, da noi conosciuto per Parla con lei, Fuori menù e molti altri film spagnoli, Alejandro è Gonzalo de Castro, un bravissimo attore teatrale, Natalia è Emma Suàrez, vista in molti film di Julio Medem, Vincent è lo statunitense Jesse Johnson, e Daniela è la piccola Sira Garcìa, al debutto ma convincente e simpaticissima.

20120706

padrona della mia finzione

Master of My Make-Believe - Santigold (2012)


Ed eccolo, finalmente, (modalità luogo comune on) l'attesissimo secondo album (modalità luogo comune off) di Santi White, the artist formerly know as Santogold, e adesso, a causa di una controversia sul nome, conosciuta come Santigold. Sono passati praticamente quattro lunghi anni dal suo debutto, che mi impressionò non poco (non solo a me, evidentemente), e devo ammettere che ero decisamente curioso di ascoltare le sue nuove cose. La terribile prova, a mio parere, è superata con un buon voto: Master of My Make-Believe è, fino ad ora, una delle migliori cose ascoltate nel 2012. Ve lo dico così, senza pensare troppo alle conseguenze. Con Bjork che si palesa solo ogni tanto, e una notevole normalizzazione della musica, c'è assoluto bisogno di chi osa, chi mescola (non solo) le carte, e se ne esce con dischi del genere.
L'apertura è affidata al singolo che ha preceduto di svariati mesi l'album (ma io, con il mio snobismo che a volte schifa anche me stesso, me ne sono tenuto ampiamente alla larga): GO!, cantato insieme a nientemeno che Karen O degli Yeah Yeah Yeahs, quindi un'altra ragazza terribile, e le cose sono subito molto chiare. Elettronica a manetta, ritmi incalzanti, beat veloci, suoni e voci in loop. E il buonumore, non perché il disco diverta, bensì perché quando c'è della buona musica tutto sembra migliore, si impossessa dell'ascoltatore. Santi, però, non è una tipa che dimentica, o non sa scrivere, delle buone melodie. Ecco quindi che si prosegue con una serie di brani che martellano elettronicamente, introducono patterns metallici, ma risultano melodicamente accattivanti, e sui quali la stessa Santi cambia registro, mostrandoceli tutti, indovinandone altrettanti. Disparate Youth rallenta, God From The Machine ancora di più, ma diventa marziale e genera una grande atmosfera, Fame, primo pezzo dove c'è lo zampino di Dave Sitek (TV on the Radio) parte sincopata e poi si apre in un gran bel chorus, Freak Like Me le somiglia un poco, e, seppur inferiore, fa muovere tutto il corpo come una sorta di dub secco e fortemente elettronico.
Su This Isn't Our Parade c'è ancora Sitek che scrive, e c'è da dire che questo pezzo electro-dark risulta uno dei più belli del disco. Potrebbero essere i Japan versione low-fi, ma certo la voce di Santi ci porta in una dimensione del tutto distante. Non meno valida, sia chiaro. Ma ecco che improvvisamente, un inizio che potrebbe essere da ballata pop, se non fosse così scarnificata, ci introduce dentro il pezzo che è davvero il più bello del disco, quello che spesso risulta la chiave d'accesso, quello che anche se ti addormenti al sole mentre lo ascolti in cuffia, ti rimane in testa pure se dormivi. The Riot's Gone potrebbe essere un classico già tra qualche mese. Se, soprattutto in questi ultimi due pezzi, vi sembrerà che la voce di Santi somigli a quella di Karen O, non stupitevi: su questi, oltre che su altri due, c'è la firma di Nick Zinner, chitarrista degli Yeah Yeah Yeahs (e siamo davvero dalle parti della loro Maps). Difficile proseguire, ma Pirate In The Water torna sul buon dub e non è poi malaccio, The Keepers è una cavalcata elettronica ma di gran classe, e sicuramente rientra tra i pezzi migliori (dopo GO!, Big Mouth e Disparate Youth sarà il prossimo singolo), Look At These Hoes è un breakbeat divertentissimo. Chiude la già citata Big Mouth, un altro pezzo estremamente vario e sincopato, che ad un certo punto parte per la tangente e diventa un carnevale di percussioni incessanti e sintetizzatori che strombazzano come impazziti.
Sia Santi-ficato il suo nome.

20120705

l'assenza

The Absence - Melody Gardot (2012)


Si si si, siamo pure d'accordo, che c'è forse troppo "mondo", troppe influenze, tra le più disparate, nel terzo disco di Melody Gardot. C'è naturalmente l'amata bossa nova, ma, oltre al produttore brasiliano (Heitor Pereira) c'è molto altro Brasile (soft samba come l'iniziale, e già splendida, Mira, pezzi strappamutande - ma educati - come Se voce me ama, che se fosse di Caetano Veloso sarebbe già un classico), c'è una roba jazz chiamiamola old school come Goodbye (con l'immancabile Jesse Harris), c'è il sapore afrocaraibico di Iemanja, c'è un retrogusto di milonga nel finale di Impossible Love, c'è una cosa quasi waitsiana come If I Tell I Love You, ci sono due pezzi, lenti, traboccanti di cuori spezzati, relativamente classici, meravigliosamente interpretati, come  So We Meet Again My Heartache e My Heart Won't Have It Any Other Way. Ma, dico, che classe!
Ascoltatelo, questo disco. E non per fare i fighi, facendo finta di averlo per caso nel lettore cd dell'auto, e bullarvi con le donne. Ascoltatelo per voi. For your own pleasure.
Ti amo, Melody. Anche se non sei quella sulla copertina.

20120704

The Marriage Plot

La trama del matrimonio - di Jeffrey Eugenides (2011)


Dalla finestra videro un elicottero atterrare sulla spiaggia. Nel parcheggio c'erano i furgoni di tre canali televisivi satellitari. Si vestirono in fretta e furia e corsero all'auditorium, dove appresero che in Nobel non era stato assegnato a Michael Zolodnek, bensì a Diane MacGregor. Tutti i posti a sedere nell'anfiteatro erano già occupati dai giornalisti e dallo staff di Pilgrim Lake. In piedi in fondo alla sala, Madeleine e Leonard guardarono Malkiel scortare Diane MacGregor fino a un podio coperto da una selva di microfoni. La scienziata indossava un vecchio impermeabile e stivaloni di gomma, esattamente come le poche volte che Madeleine l'aveva vista portare a passeggio il suo cane barbone nero sulla spiaggia. Aveva fatto un tentativo di sistemarsi un po' i capelli bianchi per la conferenza stampa. Questo dettaglio, insieme alla corporatura minuta, la faceva sembrare una bambina, nonostante l'età. Sorrideva e ammiccava, sopraffatta. Iniziarono le domande:
"Dottoressa MacGregor, dov'era quando le hanno dato la notizia?"
"Dormivo. Proprio come in questo momento."
"Potrebbe dirci di che cosa trattano i suoi studi?"
"Potrei. Ma poi sareste voi a dormire."
"Come impiegherà il denaro?"
"Lo spenderò."


1982. I laureandi della Brown University, a Providence, Rhode Island, stanno per avere la loro cerimonia, dopo di che lasceranno i loro ricordi per prendere la loro strada nel mondo. Tra loro c'è Madeleine Hanna, una bella ragazza WASP "la cui vita amorosa non è mai stata all'altezza delle proprie aspettative". E' irrimediabilmente romantica, e pure un po' fuori tempo: rimane attaccata ai romanzi inglesi dell'epoca Vittoriana, mentre intorno a lei tutti leggono Barthes e Derrida, e studiano lo strutturalismo. Ed è l'unica a non aver capito che il suo ultimo fidanzato, il lunatico, strano ma affascinante Leonard Bankhead, soffre di profonde crisi depressive. Soffrendo, ma avendo ormai deciso di essere legata a Leonard, anche perché folgorata da Frammenti di un discorso amoroso (si ama l'amore più dell'amato), dopo aver realizzato la malattia dell'amato, decide di rimanere al suo fianco, di "guarirlo". Nel frattempo, e non da poco tempo, bensì dall'inizio della loro permanenza alla Brown, Mitchell Grammaticus, continua a struggersi d'amore per Madeleine, e a sperare, un giorno, di sposarla. Appassionato di teologia, eccelle nella materia, e, essendo l'interesse di Madeleine rivolto a Leonard, decide che la sua personale ricerca di spiritualità è l'unico altro interesse che ha, al momento. Parte quindi, dopo la laurea, per un viaggio attraverso l'Europa, per arrivare, alla fine, in India. Chissà se Madeleine e Leonard rimarranno insieme. Chissà se Mitchell rivedrà Madeleine.

Fu durante una di quelle passeggiate che scoprì la Friends Meeting House. Si era fermato a leggere il cippo storico vicino all'ultimo albero sopravvissuto del campo di battaglia. A metà del testo si era reso conto che la "Quercia della libertà" commemorata del cippo era stata uccisa da un parassita anni addietro, e che l'albero attuale era solo un rimpiazzo, di una varietà più resistente alle infestazioni di insetti, meno bello e più piccolo. Una lezione di storia in sé che valeva per molte cose americane. Riprese a camminare lungo la strada di ghiaia fino al parcheggio alberato nel precinto dei quaccheri.


Ognuno ha le sue fisse personali. Jeffrey Eugenides è una delle mie, a livello letterario. Ricordo che, anni fa, andando a Roma in treno per un concerto, capitai nello scompartimento con uno dei redattori storici di una famosa rivista musicale italiana, che mi disse di essersi dedicato, negli ultimi anni, più alla critica letteraria che a quella musicale; dopo aver convenuto con me, che sostenevo l'importanza fondamentale di American Psycho di Bret Easton Ellis nella letteratura degli ultimi 25 anni, mi chiese cosa stessi leggendo. Era Middlesex, il secondo libro (in dieci anni) di Eugenides: lui stava organizzando una sua intervista (oltre ad andare a vedere lo stesso concerto a cui ero diretto). Ho letto Le vergini suicide, il suo debutto del 1993, appena uscì: Eugenides era "sponsorizzato", così come Donna Tartt, dallo stesso Ellis e da McInerney (ho raccontato questa storia talmente tante volte che mi sono venuto a noia da solo). Non mi delusero, anzi. Il film della Coppola (Il giardino delle vergini suicide) gli diede una certa notorietà. Il suo secondo libro, uscito a quasi dieci anni di distanza, il già citato Middlesex, è a mio parere uno dei libri più belli degli ultimi anni. Questo La trama del matrimonio, uscito nel 2011, non è probabilmente altrettanto bello, ma è senza dubbio la dimostrazione di quanto questo scrittore sia capace di raccontare l'amore in ogni sua più recondita sfaccettatura, e di creare personaggi talmente vivi che, come capita alla fine di ogni bel libro, il lettore ne sente immediatamente la mancanza. Intriso di cultura letteraria, più omaggiante che autocompiacente, meno "storico" del precedente, ma non meno capace di disegnare un passato prossimo e tratteggiarlo in modo vivido e quasi visibile, capace di invenzioni geniali (il personaggio citato in apertura di recensione, Diane MacGregor, che i più informati dicono essere ispirato alla figura reale nonché premio Nobel Barbara McClintock), dolentemente autobiografico (leggete la sua bio), questo libro vibra d'amore e di quel dolore "passeggero" delle prime delusioni della vita adulta, quelle delle quali sempre si dice "un giorno rideremo di tutto questo". Poco meno di cinquecento pagine da divorare col cuore in mano, ma durante le quali non mancheranno i sorrisi. Il finale è uno dei più belli mai letti. Che deve fare di più uno scrittore?

Nessuno si innamorerebbe se non avesse mai sentito parlare dell'amore.