No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20121130

Summer

E la chiamano estate - di Paolo Franchi (2012)
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)

Italia. Dino e Anna sono una coppia benestante. Stanno insieme da anni ma il sesso non è contemplato nel loro rapporto: lei vorrebbe, ma evidentemente lui non ne è capace. Eppure, Dino ogni sera esce, da solo, e di sesso ne fa a vagonate: locali per scambisti, frequentazione praticamente fissa di una coppia conosciuta in un locale del genere, prostitute di ogni genere, occasionali e fisse. Anna accetta passivamente tutto questo, come se non lo sapesse; rifiuta avances di ogni genere, è una donna piacente, e ogni notte attende quieta che Dino torni a casa da lei, nel loro letto, nella loro casa piena di bianco e di luce, mentre Dino è fuori immerso nel buio della sua esistenza tormentata. Dino è convinto di amare Anna, e, incapace di amarla fino in fondo, si mette alla ricerca di tutti gli ex di lei, invitandoli a contattarla. Trovando solo risposte negative, ottiene solo di essere tradito, alla fine, e per lui rimarrà solo una strada...
Naturalmente incuriosito dalle polemiche che hanno accompagnato il terzo film di Franchi al Festival di Roma, mi sono messo alla visione di questo E la chiamano estate senza ricordarmi che lo stesso Franchi era il regista del deludente Nessuna qualità agli eroi, ma ancora prima, del promettente La spettatrice. Ripensandoci a posteriori, sembra quasi che Franchi si sia "cacato addosso", appunto dopo un debutto più che promettente. E l'impressione è che quando ha inserito pesantemente il sesso nelle sue storie, si sia perso in una spirale senza fine di psicologia da quattro soldi e di simbolismi messi a caso per darsi un tono autoriale.

E la chiamano estate è un film decisamente pretenzioso, fatto di luci e ombre (fuor di metafora), di effetti flou (dentro la casa di Dino e Anna) alternati con riprese col telefonino (le "imprese" di Dino), di simbolismi (come detto prima) che lasciano il tempo che trovano (l'inizio e la fine del film), di un montaggio complesso che sembra messo lì apposta per rendere la storia più complicata, quando in realtà è molto semplice e, diciamocelo, molto poco interessante. Tra l'altro, contrariamente a molti, ai quali l'interpretazione di Jean-Marc Barr (Dino) è piaciuta, io non l'ho apprezzata; secondo me l'attore franco-americano (nato in Germania) non riesce a dare una profondità dolorosa ad un personaggio che dovrebbe trasmettere quantomeno sofferenza. Davvero poco incisiva anche la prova di Isabella Ferrari (Anna), che mi è parsa un po' troppo impegnata a fare la bocca a cuoricino.
Non nego che Franchi sia padrone del mezzo, ma il mezzo deve essere pure riempito da una storia. E questa storia, se possibile, deve interessare lo spettatore, i protagonisti della storia devono trasmettere emozioni. Qua, nonostante si cerchi di trasmettere disperazione, tutto rimane piatto, senza alcuno scossone.

20121129

Le Comte de Monte-Cristo

Il conte di Montecristo - di Alexandre Dumas (1846)

Il 24 febbraio 1815, Edmond Dantès, giovanissimo marinaio a bordo del mercantile Pharaon, sbarca a casa, a Marsiglia. Ha il grave compito di comunicare al suo armatore, l'ottimo Pierre Morrel, che il capitano Leclérc è morto durante la navigazione. Morrel, nonostante la brutta notizia (era legato a Leclérc anche da lunga amicizia), fa intuire a Dantès che sarà lui il futuro capitano della Pharaon, cosa che in pratica è già in atto dalla morte di Leclérc. Ma lo scrivano Danglars, viscido e invidioso, comincia a tramare contro il giovane Edmond. Il marinaio ha infatti fatto scalo all'Isola d'Elba, per consegnare una lettera al gran Maresciallo Bertand, e in quella occasione ha incontrato Napoleone. I due lo hanno anche incaricato di portare per conto loro una lettera confidenziale a Parigi, rassicurandolo che non avrà problemi con la legge per quello (Napoleone è in esilio, e in Francia vige un governo contrario a Napoleone). Edmond racconta la cosa all'armatore, quando lui gli chiede spiegazioni sullo scalo all'Elba, su insinuazione di Danglars. Morrel è più che altro preoccupato per il giovane, ma confida in lui.
Edmond va a far visita al vecchio padre, e lo trova affamato e senza soldi. Aveva un debito col sarto Caderousse, e si è privato del cibo pur di non aver debiti. Edmond lo rincuora e gli dà tutto quello che ha guadagnato, rassicurandolo che non gli farà più mancare nulla. Pur incontrando Caderousse, Edmond non gli manca di rispetto, mentre il sarto non riesce a nascondere la sua cupidigia e l'invidia per il giovane. Edmond si reca poi finalmente tra le braccia dell'amata Mercédès, una giovane e bellissima catalana che vive in povertà al villaggio dei Catalani. La sua bella è con il cugino Fernand Mondego, che odia Edmond perché anche lui è innamorato della cugina. Non solo: Mercédès ha, per l'ennesima volta, durante l'assenza dell'amato, rifiutato la proposta di matrimonio del cugino, alla luce del suo immenso amore per Edmond. I due si riabbracciano e si allontanano per una passeggiata romantica, mentre Fernand, Caderousse e Danglars si incontrano in una locanda lì vicino. I tre iniziano, scherzando ma non troppo, a tramare contro Edmond, tutti e tre invidiosi di lui. Senza quasi rendersene conto, lo condannano ad un destino tremendo. Ma Mondego, Caderousse e Danglars, non hanno fatto bene i conti con la vendetta, che può aspettare anche più di vent'anni.

Così dicendo proruppe in un pianto dirotto. Montecristo le prese una mano e la baciò rispettosamente, ma quel bacio era senza ardore, come se l'avesse deposto sulla mano marmorea d'una statua di santa.
- Vi sono delle esistenze predestinate - riprese ella dopo un po' - alle quali una colpa iniziale rovina tutto l'arco della vita. Io vi credevo morto, e avrei dovuto morire. A che cosa mi servì, infatti, l'aver portato sempre il lutto nel mio cuore? A fare d'una donna di trentanove anni una vecchia di sessanta. A che mi valse, avendovi riconosciuto sola fra tutti, aver salvato la vita a mio figlio? Avrei dovuto salvare anche l'uomo che avevo accettato per marito, per quanto fosse colpevole; invece l'ho lasciato morire. Anzi, ho contribuito alla sua morte con la mia insensibilità e con il mio disprezzo, non ricordandomi, non volendomi ricordare, che si fece spergiuro e traditore per me. E a che pro ho accompagnato mio figlio fin qui, se poi l'ho lasciato partire solo, separandomi da lui e abbandonandolo all'infuocata terra d'Africa? Oh, fui vile rinnegando il mio amore, e come tutti i rinnegati porto sventura a quelli che mi circondano!

Continua, seppur lentamente, la mia camminata sul sentiero della conoscenza, leggi il mio confronto con i grandi classici della letteratura, per coprire le mie innumerevoli lacune in questo campo. A volte, le scintille sono ridicole: in questo caso è bene confessare che quando ho scoperto che Mike Kelley si era liberamente ispirato a questo libro per mettere in piedi la trama di Revenge, uno dei miei guilty pleasures televisivi, e accortomi che in casa avevo il doppio volume comprato con il Corriere della Sera, l'ho subito messo nella pila dei libri da leggere quanto prima. Un periodo particolarmente felice a livello di velocità e voracità nelle letture ha fatto il resto. A parte il fatto che nel libro ci sono alcune parti ambientate a Livorno, fatto che mi ha esaltato non poco (lo ignoravo del tutto, e non ho mai visto una trasposizione televisiva o cinematografica), sono rimasto assolutamente conquistato sia dalla prosa che si rivela estremamente dinamica, seppure ovviamente Dumas usi termini antiquati e giustamente le traduzioni cerchino di rispettare queste scelte, sia dalla trama, che è si, prevedibile sulla lunga distanza (il povero ma bello che viene derubato di tutto che risorge ricco e potente e schiaccia chi aveva tramato per condannarlo all'oblio), ma decisamente ben architettata, supportata da sfondi descritti poeticamente, e da una storia costellata da personaggi indimenticabili. Senza dimenticare la simbologia universale della rivalsa sulla malagiustizia, c'è da riconoscere che Dumas è ottimo anche nel passare in maniera più che disinvolta dall'atmosfera tragica a quella ridanciana, non rinunciando mai alla battuta.
Un migliaio di pagine per un grandissimo romanzo.

- Ah, così? Siete quindi un po' contrabbandiere anche voi, caro Gaetano?
-Che volete, Eccellenza? Si fa un po' di tutto. Bisogna pur vivere.
- Allora siete in relazione con la gente che si trova a Montecristo in questo momento?
- All'incirca. Noi marinai siamo come i massoni: ci riconosciamo da certi segni.
- E credete che non avremo nulla da temere sbarcando?
- Assolutamente nulla. I contrabbandieri non sono ladri.
- Ma i banditi corsi?
- Non è colpa loro se sono banditi: è colpa dell'autorità.
- Come?
- Senza dubbio; li perseguitano per aver fatto la pelle a qualcuno. Come se non fosse nella natura d'un corso il vendicarsi.

20121128

The Final Testament of the Holy Bible

L'Ultimo Testamento della Sacra Bibbia - di James Frey (2011)

Non pensavo a niente, solo che amavo quelle persone. Questo era tutto ciò che importava. Che eravamo tutti esseri umani e amavamo altri esseri umani. E questo è Dio. Non un ridicolo vecchio con la barba e la tunica seduto su un trono dorato tra le nuvole. Non un uomo collerico che sa tutto e dice cosa è giusto e cosa è sbagliato. Non un vecchio in Italia che dice cose insensate, o un matto in Sudamerica che giudica tutti. Non un tale in Pakistan convinto di avere il diritto di uccidere, o un tale in Israele convinto di avere il diritto di opprimere. Dio non è una persona o un uomo e nemmeno un essere di qualche genere. Dio è amare altri esseri umani. Dio è trattare tutti quelli che incontri come se li amassi. Dio è dimenticare che siamo tutti diversi e amarci a vicenda come se fossimo tutti uguali. Dio è quello che senti quando c'è l'amore nel tuo cuore. E' una sensazione straordinaria. Ed è il vero Dio. L'unico vero Dio.
Judith

Mariaangeles, Charles, Alexis, Esther, Ruth, Jeremiah, Adam, Matthew, John, Luke, Mark, Judith, Peter. Sono persone comuni. Una Lap dancer, un capocantiere, un chirurgo, un senzatetto, un omosessuale, un rabbino, un agente dell'FBI, due preti cattolico-cristiani, un avvocato d'ufficio, una ragazza solitaria con problemi d'obesità. Ci sono una anche una madre, e una sorella, della stessa persona che tutte le altre hanno conosciuto, anche solo per pochi momenti: Ben. Il suo nome per esteso sarebbe Ben Zion Avrohom. Per Mariaangeles, Ben è un bianco che ad un certo punto, molto basso, della sua vita, va ad abitare nell'appartamento vicino al suo, nel Bronx, e cambia radicalmente la sua vita. Potremmo considerarla la donna di Ben, se non fosse che durante i racconti che ci fanno tutti gli altri personaggi, scopriamo che questo Ben, che tutti gli altri considerano il nuovo Messia, fa tranquillamente sesso con altre persone, uomini e donne. Ma, proprio con l'aiuto di questi racconti fatti da persone radicalmente differenti, si capisce che Ben è una persona senza dubbio fuori dal comune, e che ha alle spalle una storia non del tutto tranquilla. Nonostante tutto ciò, Ben non odia nessuno, non usa la violenza, e, pian piano, compie dei miracoli. Che sia davvero il Messia?

Il quarto, e per adesso ultimo, libro di James Frey, che arriva dopo In un milione di piccoli pezzi, Il mio amico Leonard e Buongiorno Los Angeles, è un oggetto strano, come del resto i suoi precedenti. Se da una parte ci ha quindi abituato appunto a cose strane, Frey non finisce di spiazzare il lettore. Sposta l'azione da Los Angeles (libro precedente) a New York, e dopo aver raccontato di drammi umani, forza di volontà, accettazione del destino, a questo giro, mascherando ancora una volta (ancora non è chiaro se i primi due libri fossero autobiografici oppure no) la storia da reportage e i personaggi da persone reali, prende posizione sulla religione, anzi, sulle religioni, creandone praticamente una nuova: quella dell'amore. Per farlo, ecco che, a suo modo, così come fecero due grandi scrittori ormai defunti, e vi sto parlando di José Saramago in Il Vangelo secondo Gesù Cristo e Gore Vidal con In diretta dal Golgota, riscrive la storia del Salvatore. Lo fa dimostrando la duttilità della sua scrittura, che sta innegabilmente crescendo, impersonandosi via via nei racconti dei personaggi che vi ho citato prima, e descrivendo, con una sorta di montaggio non sempre cronologico, una storia vibrante, con delle pennellate che fanno si che il lettore possa arrivare a credere di star leggendo una storia realmente accaduta. Al tempo stesso, si riflette moltissimo sui dogmi, sulle forzature, su cosa siano diventate oggi le religioni, una volta strumenti di liberazione o, perlomeno, di sollievo da una vita misera, adesso simboli di guerra e d'odio: il contrario di quello per cui vengono spacciate.
Certo, non ci voleva James Frey, per scoprire l'acqua calda: ma un libro può essere un mattone, per costruire una coscienza. Come detto prima, vibrante.

20121127

Jagten

Il sospetto - di Thomas Vinterberg (2012)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)

Lucas è un uomo dalle due facce. Nato e cresciuto in un paesino della Danimarca, è sempre in ottimi rapporti con tutti gli amici d'infanzia. E' un compagnone, sempre pronto allo scherzo, generoso, se c'è da dare una mano è in prima fila. Il divorzio dalla moglie Kirsten lo ha però intristito dentro. Litigano costantemente al telefono, e Kirsten vuole impedirgli di vedere il figlio Marcus, adolescente e comunque attaccato al padre. La cosa fa star male Lucas, che comunque è riuscito a trovare lavoro come educatore presso l'asilo nido locale. A lavoro, nonostante sia l'unico maschio, è attivo, sembra felice di esser contornato dai bambini, e a loro volta i bambini lo adorano, lo attendono fin dai primi minuti di permanenza per fargli scherzi e giocare selvaggiamente con lui. Mentre Nadja, la cuoca dell'asilo, comincia a fare la corte a Lucas, che pare decisamente corrispondere, i piccoli problemi di coppia di uno dei migliori amici di Lucas, Theo, con la moglie Agnes, innescano una situazione dapprima curiosa, che in breve diventa terribile. Lucas in un primo momento trova Klara, la figlia più piccola di Theo e Agnes, sola fuori dal supermercato locale. La bambina si è persa, e i genitori non si sono neppure resi conto. Lucas la accompagna a casa (Lucas e la famiglia di Theo abitano vicinissimi). Pochi giorni dopo, Lucas trova Klara seduta sul marciapiede davanti a casa sua, mentre si sentono le urla di Theo e Agnes che litigano su chi deve portare all'asilo Klara. Lucas si offre di accompagnarla, d'accordo con i genitori. Klara sente nascere un sentimento indescrivibile per Lucas, e, frequentando l'asilo dove Lucas lavora, gli regala un cuore e approfittando di una "mischia" dei bambini con Lucas, lo bacia sulla bocca. Lucas la sgrida, e non dà peso alla cosa. Klara, non considerata dai genitori e delusa da Lucas, prende spunto da uno scherzo pesante del fratello, e racconta una cosa "stupida", gravissima, alla direttrice dell'asilo Grethe. Che, senza pensarci due volte, crede senza il minimo dubbio alla bambina...

Un paio di annotazioni prima di addentrarmi nella critica vera e propria. La prima: Thomas Vinterberg è un genietto del male: ricordatevi che è il regista di quel capolavoro caustico di Festen - Festa in famiglia, e pure di Dear Wendy. Ha compiuto i suoi passi falsi (Riunione di famiglia), ma con questo Jagten (titolo internazionale The Hunt, traduzione corretta dal danese, mentre in Italia diventa Il sospetto, traduzione pure di un film di Hitchcock, Suspicion, del 1941) ci ricorda di essere degno della scuola danese, che tante soddisfazioni ci ha dato e ci sta dando (Von Trier, Winding Refn, Susanne Bier, Anders Thomas Jensen, Ole Christian Madsen). La seconda: Mads Mikkelsen tumefatto è praticamente sinonimo di grande cinema (Le mele di Adamo, Pusher, Valhalla Rising).
Potrebbe quindi sembrare una scorciatoia, come sostiene qualche critico infatti, "addossare" l'intero peso di un film del genere sulle spalle robuste di Mikkelsen, ormai una stella di dimensioni planetarie, dall'indubbia bravura, che continua però a scegliersi copioni fuori dal comune, parallelamente ad accettare proposte dal grande budget. Ma se è innegabile la bravura di Mikkelsen (Lucas), al quale fa da ottima "spalla" Thomas Bo Larsen (Theo), credo si debba sottolineare che il film di Vinterberg, autore assieme a Tobias Lindholm della sceneggiatura, è un prodotto che emoziona e colpisce, tiene lo spettatore per almeno un'ora e mezzo in uno stato di tensione costante, risulta disturbante, mette sottosopra, e per questo merita di essere visto. Bella fotografia tutta su toni autunnali/invernali, inquadrature che lasciano poco spazio ai panorami, che pure sarebbero belli, per scrutare i primi piani dei protagonisti in balìa di emozioni viscerali e squassanti, il film risulta fuori dagli schemi perché non solo garantista, ma pure decisamente dalla parte di chi rimane vittima di un tremendo equivoco, e per una volta non è tenero ed acriticamente dalla parte dei bambini, come se fossero depositari dell'innocenza e della verità assoluta.

20121126

Spartaco

Spartacus - di Stanley Kubrick (1961)
Giudizio sintetico: culto (4/5)

Durante l'ultimo secolo prima di Cristo, uno schiavo nato da una donna nativa della Tracia, chiamato Spartaco, lavora nelle miniere romane della Libia. Spartaco è uno schiavo ma indomabile. Sogna la fine della schiavitù, ed è un generoso per natura: un giorno viene assalito dai soldati mentre tenta di soccorrere un altro schiavo ferito, e ne ferisce uno. Viene quindi incatenato sotto il sole desertico fino alla morte, in modo che serva da esempio. La visita di Lentulo Batiato, proprietario della rinomata scuola di gladiatori di Capua, lo salva. Batiato è immediatamente colpito sia dal fisico che dal carattere di Spartaco, e convince il capo della guarnigione a risparmiarlo per venderglielo. Di ritorno a Capua, Batiato mette in guardia Marcello, l'allenatore degli schiavi, sul carattere del nuovo arrivato; Marcello lo prende di mira. Nonostante ciò, Spartaco si distingue tra i migliori, tanto che dopo qualche tempo, a lui come agli altri più forti viene concessa una donna schiava per passarci la notte in cella. A Spartaco tocca Varinia, che viene dalla Britannia; Spartaco non ha mai avuto una donna, e si rifiuta di giacere per forza con lei; ma nonostante questo, Spartaco è fortemente attratto da Varinia, che non rimane insensibile a sua volta. La visita di Marco Licinio Crasso e del suo amico Glabro, con le rispettive compagne, che richiedono a Batiato un combattimento tra gladiatori a morte, è la scintilla della ribellione degli schiavi. Batiato è dapprima riluttante, un combattimento alla morte non è contemplato dalle regole della scuola, ma cede alla forza dei sesterzi. Il combattimento è tra Spartaco e Draba il negro; quest'ultimo vince, ma non uccide Spartaco e assale i patrizi romani. Viene ucciso dalla guardie. La tensione sale. Il giorno seguente, Spartaco scopre che Varinia è stata venduta a Crasso, litiga con Marcello, e appoggiato da tutti gli altri schiavi, scatena la rivolta. Nasce così l'esercito di Spartaco, e la cosiddetta grande guerra servile. In un primo momento, gli schiavi hanno gioco facile: a Roma è in atto una lotta di potere tra Sempronio Gracco e Crasso.

Primo ed unico peplum del mitico Kubrick, Spartacus è tratto dall'omonimo romanzo di Howard Fast del 1951. Il fatto che questo scrittore di origini ebree fosse apertamente comunista (insignito del Premio Stalin per la pace nel 1953) potrebbe già darvi un'idea del tutto. Come se non bastasse, l'adattamento/sceneggiatura fu curata dall'altrettanto mitico Dalton Trumbo (sceneggiatore famosissimo e molto attivo a Hollywood, diresse solo un film, E Johnny prese il fucile, dalla cui storia i Metallica presero spunto per scrivere One, usando estratti del film per il video collegato), fortemente voluto da Kirk Douglas, attore protagonista (Spartaco) nonché produttore, nonostante fosse nella top ten della lista nera del maccartismo. Un altro comunista, quindi. Il quadro si completa con l'assunzione alla regia dell'anarchico pacifista Kubrick, che subentrò al regista designato inizialmente, Anthony Mann, cacciato sempre da Douglas dopo un litigio (secondo Peter Ustinov ed i trivia di imdb.com, la sequenza iniziale delle miniere fu l'unica diretta da Mann). Nonostante quelle che potrebbero sembrare pregiudiziali politiche, Spartacus è uno dei film più famosi della storia del cinema, e fu insignito di 4 Oscar.
Della durata di tre ore abbondanti, Spartacus è un film della cui epica non si può fare a meno, se si ama il cinema. Avanti sui tempi come si conviene per Kubrick, il film mette in mostra alcune scene di battaglia stilosissime per i tempi, dà ampio spazio alla caratterizzazione dei personaggi non immediatamente protagonisti, fa dell'eroe povero una figura mitologica ma ci risparmia il lieto fine, usa l'allegoria politica e le similitudini tra la Roma di 2000 anni fa e le trame politiche odierne, crea scene indimenticabili (quella di "Io sono Spartaco" è storia). I dialoghi sono grandiosi, l'interpretazione di Kirk Douglas è superba, ma pure quelle, molto teatrali, di Laurence Olivier (Crasso), Jean Simmons (Varinia), Charles Laughton (Gracco), Peter Ustinov (Batiato) e Tony Curtis (Antonino), sono da sottolineare. Tre ore spese bene.

20121125

le luci del venerdì sera

Friday Night Lights - di Peter Berg (2005)
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)

La squadra della scuola superiore di Odessa, Texas, i Panthers della Permian high school, è, come dappertutto e soprattutto nel sud degli USA, una roba intoccabile e, al tempo stesso, difficile da gestire. Ragazzi, spesso ragazzoni, di quasi 18 anni appena, trattati come superstar, riempiti di regali, complimenti, pacche sulle spalle, perfino da sconosciuti, quando tutto va bene, sbeffeggiati e fatti causa dell'onta che cala sulla città quando perdono e tutto va male. Coach Gary Gaines ce la mette tutta per tenere a bada gli ego troppo pompati, per pompare quelli troppo modesti ma capaci, ma soprattutto per inventarsi una strategia vincente con un gruppo sicuramente non superlativo. Il suo sogno, come quello di tutti non solo gli atleti, ma anche dei cittadini di Odessa, è vincere il titolo statale, un anello, come da tradizione. Ma il coach sa che non sarà facile. Soprattutto perché, dopo aver puntato tutto sulla velocità, e in particolar modo sul suo running back di punta, James Boobie Miles, Boobie si infortuna in maniera seria verso la fine della prima partita. Si cambia strategia, e puntare su Mike Winchell, il quarterback titolare, ragazzo schivo e devoto alla madre, che lo sta crescendo da sola, e Chris Comer, il running back di riserva, da sempre all'ombra di Boobie, comporterà un lavoro di psicologia oltre che di tattica. E poi ci sono anche Billingsley, Chavez, e il silenzioso Reverendo. Insomma, il collettivo. Perché il football (americano) è un gioco di squadra, in fondo.

Visto dopo la serie omonima, Friday Night Lights il film non esalta più di tanto. C'è però da dire che Berg, che come scritto in occasione della recensione della serie, trae spunto dal libro di H. G. Buzz Bissinger, ha messo in piedi il progetto ed, evidentemente, in seguito si è reso conto che aveva una potenzialità inespressa, passando così a produrre la serie, che ci ha regalato grandi, grandissime emozioni. Difficile quindi giudicare il film, dinnanzi a cotanta emozione. Il confronto è inevitabile, e soprattutto i componenti del cast del film perdono su tutta la linea se paragonati a quelli della serie, Billy Bob Thornton (coach Gary Gaines) compreso, di fronte a Kyle Chandler. Trovo siano state smussate molte cose, lasciando solo un po' d'asprezza nel rapporto tra Billingsley padre (un buon Tim McGraw, proprio lui, il marito di Faith Hill nonché ispiratore del brano omonimo di Taylor Swift) e figlio (Garrett Hedlund, proprio lui, Tron Legacy e prossimamente in On The Road - da Kerouac - di Walter Salles).
Occhio, dunque, perché se come me vi avvicinerete al film dopo esservi esaltati con la serie, potreste rimanerne delusi.

20121124

sulla strada

On The Road - di Walter Salles (2012)
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)

1947, Stati Uniti. Il giovane scrittore Sal Paradiso è bloccato davanti alla prima pagina bianca del suo romanzo. Il tempo passa tra la casa dove vive con la madre, a Ozone Park, Queens, New York, e fuori, discorrendo, bevendo e ascoltando jazz downtown, con l'amico Carlo Marx. Quando i due conoscono, tramite un amico comune, Dean Moriarty, un ladro d'auto con alle spalle l'esperienza del riformatorio, un'enorme voglia di vivere, un grandissimo ascendente sulle donne, con velleità di scrittore e senza un soldo, anche lui grande amante dell'alcool e delle droghe, le loro vite cambiano, e cominciano a girare attorno a quella di Dean. Che però scompare spesso, essendo legato a Marylou, una ragazza di Denver, un luogo da dove viene anche Dean, e dove suo padre è scomparso. Dean fa innamorare Carlo, che ha spiccate tendenze omosessuali, mentre su Sal fa un altro effetto: gli fa venire un'incredibile, irrefrenabile voglia di viaggiare, conoscere il suo grande Paese e magari quelli limitrofi, conoscere le persone in tutti i luoghi che potrà arrivare a visitare. La spinta viene dalla voglia di libertà, dall'impulso a riappropriarsi dei grandi orizzonti, del sogno americano, dalla ribellione verso l'autorità e la cappa di repressione che si sta impadronendo degli USA.

Con tutte le migliori intenzioni, non me la sento a chi ancora non l'avesse visto, di consigliare il nuovo film del brasiliano Walter Salles, che si "rivelò" a noi amanti del buon cinema anni fa con il bellissimo Central do Brasil, e che ringraziammo per non aver fatto un santino della figura del Che con I diari della motocicletta. Stavolta la posta era ancora più alta, ma il risultato è piuttosto misero. La posta, infatti, per chi non lo avesse ancora capito, era quella di portare sullo schermo uno dei libri più famosi dello scorso secolo, uno dei manifesti della beat generation, l'omonimo On The Road (Sulla strada) di Jack Kerouac, quel libro che Kerouac stesso fu costretto a "camuffare", cambiando soprattutto i nomi di molti protagonisti che erano ispirati a personaggi reali, a partire da quello del protagonista, Sal Paradiso, che rappresentava Kerouac stesso. Correttamente, il film mostra i diversi viaggi che costituiscono il corpo del racconto, mostra la vita senza freni dei protagonisti alla ricerca di una libertà che li rendeva assetati, che li faceva bruciare, ci fa ascoltare un'ottima colonna sonora jazzata, ci mostra splendidi panorami e tramonti americani (che siano poi girati in Canada poco importa), ma fallisce decisamente l'obiettivo, che, questo è vero, era troppo difficile da cogliere. L'irrequietezza di una generazione, di un movimento, di quelle menti geniali che già aveva descritto Urlo (film riuscito molto meglio, anche se non ha riscosso grande successo), non si possono racchiudere, a mio parere; un'operazione molto difficile con un'opera di fiction. A volte, è meglio desistere in partenza, ho paura.
Il cast si destreggia onestamente, senza aggiungere niente a quello che già sapevamo di questo gruppo di attori. Devo ammettere però che non ho riconosciuto Amy Adams, un'attrice che trovo bellissima, nei panni di Jane (in realtà il personaggio fu ispirato dalla compagna di Burroughs, Joan Vollmer, quella che fu uccisa dallo scrittore mentre giocava a Guglielmo Tell). Per il resto, Sam Riley è Sal Paradiso/Jack Kerouac, Kristen Stewart è Marylou/Luanne Henderson, Kirsten Dunst è Camille/Carolyn Cassady, il sempre in gamba Viggo Mortensen è Old Bull Lee/William Burroughs, Garrett Hedlund è Dean Moriarty/Neal Cassady, Elisabeth Moss è Galatea Dunkel/Helen Hinkle, l'ottimo Tom Sturridge è Carlo Marx/Allen Ginsberg.

20121123

L'ala ovest

The West Wing - di Aaron Sorkin - 7 stagioni (156 episodi; NBC) - 1999/2006


La Casa Bianca. Il simbolo di tante cose, spesso anche contraddittorie (rileggetevi il quote che scrissi alla fine della recensione della miniserie John Adams). La casa del Presidente degli Stati Uniti d'America, che viene anche definito come il leader del mondo libero. Aaron Sorkin e il suo team analizza il lavoro e la vita di una immaginaria amministrazione democratica, capitanata dal Presidente Josiah Jed Bartlet. La serie inizia a metà del secondo anno del primo mandato di Bartlet; il Presidente ed il suo staff stentano a mettere in marcia il programma prestabilito. Bartlet è l'ex governatore dello stato del New Hampshire, ed è un Premio Nobel per l'economia. Naturalmente preparatissimo sulla materia economica, ha delle difficoltà a gestire i rapporti con le Forze Armate. A dargli una grossa mano, ci pensa il suo Capo dello staff, Leo Thomas McGarry. Ex componente di governi precedenti, veterano del Vietnam, Leo è la persona che ha convinto Jed a candidarsi, il primo che ha visto in lui le potenzialità per guidare il Paese. Un po' alla volta, durante i primi stentati passi della campagna elettorale (che conosceremo attraverso vari flashback), ha messo in piedi uno staff preparato, di persone intelligenti, che col tempo si è affiatato: Claudia Jean CJ Cregg, Portavoce del Presidente, Tobias Toby Zachary Ziegler, Direttore delle comunicazioni, Joshua Josh Lyman, Vice capo dello staff, Samuel Sam Norman Seaborn, Vice direttore delle comunicazioni. Certo, ci sono anche altre figure che non sembrano politicamente influenti, ma che sono comunque importanti e non sempre ininfluenti sulle decisioni importanti: Charles Charlie Young, assistente personale del Presidente, Donnatella Donna Moss, prima assistente di Josh Lyman, la First Lady Abigail Bartlet. Altre si aggiungeranno lungo il cammino, le conosceremo strada facendo.
Ma la politica non è solo intelligenza, e si sa, è fatta di tante cose. The West Wing ce ne mostra moltissime, e durante le sette stagioni per cui è andato in onda fa confrontare l'amministrazione Bartlet con attentati, crisi internazionali, elezioni di medio termine e conseguente nuovo Congresso, scandali sessuali e malattie terminali, bugie verso gli elettori, processi, si deciderà se candidarsi per un secondo mandato, si affronterà una nuova campagna elettorale, addirittura conosceremo il XXV emendamento (e il Presidente sarà sostituito temporaneamente dal capo dell'opposizione). Infine, conosceremo da vicino il meccanismo delle primarie, della campagna elettorale, e quelli del passaggio di consegne, della successione.

Nato dall'idea alla base del film The American President (in Italia Il presidente - Una storia d'amore), uscito da noi nel 1996, diretto da Rob Reiner e sceneggiato da Sorkin, dove il Presidente, interpretato da un gigionesco Michael Douglas, essendo vedovo si innamorava di una lobbysta, e dove Martin Sheen vestiva i panni del Capo dello staff, Sorkin coadiuvato dal fido Thomas Schlamme mette a punto e sviluppa l'apoteosi del walk and talk, facendo camminare e parlare di temi altissimi e di scemenze personali i protagonisti di questa serie dalle dimensioni colossali. In origine, la parte di Martin Sheen, il Presidente Bartlet, doveva essere molto marginale, mentre quella principale doveva essere quella interpretata da Rob Lowe (Sam Seaborn; che curiosamente riprende una parte simile in Brothers and Sisters, ma come repubblicano "di sinistra"); siccome le cose a volte progrediscono da sole, Lowe ha lasciato la serie verso la fine della quarta stagione, forse senza sapere che alla fine l'avrebbe lasciata pure Sorkin (per problemi legati al super lavoro e all'abuso di sostanze stupefacenti), lasciando il tutto nelle mani di John Wells, uno dei produttori esecutivi (adesso sceneggiatore e regista nello Shameless statunitense). Sarò uno dei pochi che lo sostiene, ma seppur perdendo un pizzico di dinamicità, ho trovato molto interessanti anche le stagioni seguite a questo avvicendamento, e veramente avvincenti soprattutto quando la serie si è occupata di primarie e di campagna elettorale.
Naturalmente, oltre ad essere estremamente veritiero sul piano politico e legislativo, The West Wing riserva ampio spazio ai sentimenti confusi di persone che probabilmente somigliano molto a Sorkin, e cioè quelle che si possono chiamare workaholic, che lavorano in politica, in televisione, dedicandosi anima e corpo al lavoro ed avendo di conseguenza pochissimo tempo per coltivarsi una vita propria, sociale e sentimentale (e finiscono per innamorarsi di colleghi e simili). Le storie d'amore mai confessate, covate per anni, sono un classico del romanticismo di Sorkin.
A parte ciò, The West Wing mi è piaciuto moltissimo, e non solo per la parte romance. Devo dire inoltre che dopo averlo visto, gli statunitensi mi rimangono molto più simpatici di prima. Se fossero tutti così, sicuramente staremmo tutti meglio. La serie ci porta nei meandri della politica statunitense, ma contemporaneamente ci fa riflettere costantemente su temi etici altissimi. E' altamente dinamica, crea grande empatia tra lo spettatore e gran parte dei personaggi, i personaggi sono costantemente messi di fronte a dilemmi importanti, e noi con loro. Si imparano delle cose, dei meccanismi legali e politici. Dopo Sports Night, e prima di Studio 60 e The Newsroom, Sorkin alza il livello dei temi trattati, rimanendo al tempo stesso molto "commerciale". E di questo, dovremmo ringraziarlo tutti.
Il cast, a parte i due attori già citati, comprende Stockard Channing (Abigail Bartlet), Dulé Hill (Charlie Young), Allison Janney (CJ Cregg), Janel Moloney (Donna Moss), Richard Schiff (Toby Ziegler), John Spencer (Leo McGarry, morto durante le riprese dell'ultima stagione), Bradley Whitford (Josh Lyman). "In corsa" entreranno Joshua Malina (Will Bailey), Mary McCormack (Kate Harper), Kristin Cenoweth (Annabeth Schott), Jimmy Smits (Matt Santos), Alan Alda (Arnold Vinick), Mary-Louise Parker (Amy Gardner). Tantissime apparizioni, memorabile quella di John Goodman (Glenn Allen Walken), interessante quella di Matthew Perry (Joe Quincy) in un ruolo quasi serio. Tutti dannatamente bravi.

20121122

il destino nelle tue mani

La suerte en tus manos - di Daniel Burman (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)

Argentina. Uriel è un uomo ancora giovane, al quale manca qualcosa. Divorziato, padre di due figli, possiede una finanziaria ereditata dal padre e della quale si vergogna un po', è dipendente dal gioco del poker, sia on-line che dal vivo. Casualmente, dopo anni, incontra di nuovo la sua fidanzata dei tempi della scuola, Gloria. Lei è appena arrivata dalla Francia, dove ha rotto col suo fidanzato. Sono due persone che hanno bisogno e voglia di ricostruire le loro vite. Non che sia una cosa facile; ma perché non provarci?

Nuovissima pellicola dell'argentino Daniel Burman, del quale mi sono occupato a proposito di tutta la sua filmografia in passato. Se vi ricordate, dopo la "trilogia di Ariel", nella quale evidentemente doveva regolare qualche conto con le sue origini, ma durante la quale inizia a sviluppare il tema portante della sua filmografia, e cioè la famiglia, in ogni sua sfaccettatura, in tutti i vari momenti che si possono avere, con tutte le varianti che si possono verificare, c'è stato El nido vacìo, che analizzava quello che accade quando i figli lasciano il nido (appunto), e poi Dos hermanos, un film diciamo sulla vecchiaia. Con questo La suerte en tus manos, si torna un po' indietro, per analizzare cosa può accadere quando una coppia ormai divisa tenta di rifarsi una vita, ognuno per conto suo. Burman, che come sempre scrive la sceneggiatura con il fido Dubcovsky, intreccia il tentativo di ricostruzione di Uriel con il gioco del poker; difficile dubitare che la scelta sia casuale. Il poker come azzardo, bravura ma anche rischio (potrei dirvi anche delle cazzate, visto che non so giocare). Burman dopo la trilogia sta sperimentando attori con i quali non aveva mai lavorato, e stavolta affida i due ruoli principali da una parte alla sempre giovane ma già molto esperta Valeria Bertuccelli (Gloria), qui in Italia conosciuta solo per XXY, dall'altra ad un debuttante di lusso, Jorge Drexler (Uriel), cantautore uruguaiano di origini tedesche che ha vinto pure un Oscar, nel 2005, con il suo pezzo Al otro lado del rio per I diari della motocicletta. Drexler se la cava molto bene, incarnando l'uomo pieno di dubbi e debolezze normalmente messo sullo schermo da Burman. Il film è nel classico stile Burman: divertente, buffo, con una leggerezza immediatamente riconoscibile, ma che non dimentica mai i temi più profondi. L'amore, la vita, la famiglia, gli affetti. Come sempre straordinarie le interpretazioni dei "volponi" Norma Aleandro (Susan, la madre di Gloria; vista nel meraviglioso Il figlio della sposa) e Luis Brandoni (dottor Weiss; di lui vi ho parlato nella recensione di El hombre de tu vida) nelle due parti meno importanti ma fondamentali. Ovviamente interessante la parte musicale, fatta in buona parte di rock ebreo. Inedito in Italia come quasi tutti gli altri film di Burman, meno El abrazo partido - L'abbraccio perduto.

20121121

La generazione

Tutti i santi giorni - di Paolo Virzì (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)

Roma. Guido e Antonia si amano. Tanto. Guido è toscano, timido, coltissimo, contrario ad ogni forma di violenza, impacciato, educato fino allo sfinimento. Antonia è siciliana, selvaggia, appassionata. Si completano, si realizzano. Guido fa il portiere di notte in un grande albergo, Antonia è impiegata in un autonoleggio. Si sono conosciuti ad un concerto di lei, cantautrice, che per passione ancora strimpella e compone, per la gioia di Guido, suo fan numero uno. Vivono in affitto in periferia, ma sono felici. Certo, vorrebbero un figlio. Ma 'sto figlio non viene. E allora si fanno delle analisi. Viene fuori che Antonia ha bisogno di una spintarella: provano con la procreazione assistita. Tutto questo genera pressioni evidentemente ingestibili. Che cosa si fa quando finisce un amore? Ma soprattutto, è davvero finito, questo amore?

Si, sicuramente sono di parte giudicando il livornese Paolo Virzì (ma non sono stato così tenero con suo fratello). Ma quanto è delicato, bello, divertente, appassionato, raffinato e grezzo allo stesso tempo, questo suo ennesimo film? Tanto. Tratto dal romanzo di esordio di Simone Lenzi La generazione (che ancora non ho letto), altro livornese, altro musicista, dalla band livornese Virginiana Miller, Tutti i santi giorni è forse il film meno "politico" di Paolo, che sempre, tra le righe, si schierava con decisione, anche parlando di rapporti di coppia, stavolta parla semplicemente d'amore, seppure alla ricerca di una famiglia. Prende due attori l'uno già solido seppur giovane, quel Luca Marinelli (Guido) che in tre film, questo, L'ultimo terrestre del pisano GiPi e La solitudine dei numeri primi, ha già dimostrato di valere un bel po', e l'altra, Thony (Antonia), al debutto ma che già si prenota per un futuro interessante, e li miscela creando un'alchimia deliziosa, costruendo un contorno fatto di contrasti tipicamente italiani (e non rinunciando all'analisi sociale mascherata da commedia all'italiana). Ho trovato (spoiler alert! non proseguite se non avete visto il film, e pensate di vederlo) il finale del film davvero forte a livello emozionale, perché il personaggio di Guido vince su tutta la linea, anzi, trionfa, con la sola forza dell'amore, della sensibilità, della cultura, dell'intelligenza, della non violenza, e, mi ripeto ma secondo me è importante, dell'educazione e del rispetto. Perdonatemi, ma io l'ho letta così, e non mi vergogno di essermi riconosciuto totalmente in questo personaggio, e di desiderare ardentemente che ogni persona di questo tipo possa, un giorno, trionfare sull'ignoranza e sulla maleducazione.
Molto belle le canzoni (e le scarpe) della stessa Thony, una Joan Wasser de' noantri.

20121120

What to Expect When You're Expecting

Che cosa aspettarsi quando si aspetta - di Kirk Jones (2012)
Giudizio sintetico: da evitare (1/5)

Cinque coppie in attesa. Jules Baxter, star del video-fitness che vince l'edizione statunitense di Ballando con le stelle rimane incinta inaspettatamente di Evan, il suo partner ballerino. Holly, fotografa al delfinario per sbarcare il lunario, in realtà con aspirazioni artistiche, sterile, e il suo compagno Alex, pubblicitario, hanno deciso di adottare, e viene proposto loro un bambino etiope: lei è entusiasta, lui non si sente pronto, e chiede aiuto ad altri padri, una sorta di club del quale fa parte il marito della capa di Holly. Wendy, scrittrice per mamme in attesa e titolare di un negozio di articoli per neonati, sta da un paio d'anni tentando disperatamente di rimanere incinta del primo figlio, col marito Gary Cooper, dentista. Il genio che ha dato quel nome vile al figlio è Ramsey Cooper, ex pilota di auto da corsa, che adesso si è risposato con una donna bellissima e un po' oca, più giovane del figlio, Skyler: anche lei è incinta, di due gemelli. Infine c'è Rosie, una giovane chef che prepara panini su un furgone, che rimane incinta alla sua prima volta con Marco, collega/rivale.

Lo confesso senza timore di sembrarvi gay: l'unico motivo per cui ho guardato questo film in un fine settimana influenzale, è stato per vedere Joe Manganiello, il lupo Alcide Hervaux di True Blood, qui l'idolo del "gruppo di supporto padri" Davis, fare i sollevamenti alla sbarra con una mano sola mentre con l'altra estrae il cellulare di tasca per mostrare agli altri la sua ultima "preda" in Costa Rica, e sentir parlare un paio d'ore in inglese americano. Esattamente. Perché ero ben conscio che Cameron Diaz (Jules), Jennifer Lopez (Holly), Elizabeth Banks (Wendy), la fighissima ma sconosciuta Brooklyn Decker (Skyler), Anna Kendrick (Rosie), seppur belle e piacenti, insieme a Matthew Morrison da Glee (Evan), Rodrigo Santoro (Alex; che fine ha fatto a Hollywood, e pensare che era nel cast di Carandiru!), Ben Falcone (Gary), un Dennis Quaid (Ramsey) ridanciano, Chace Crawford da Gossip Girl (Marco), e perfino Chris Rock (Vic), non sarebbero riusciti a fare di questo film un prodotto decente.
E pensare che Kirk Jones debuttò con il bel Svegliati Ned. Altri tempi, altri luoghi.
Adattamento cinematografico della guida/best seller omonimo di Heidi Murkoff e Sharon Mazel.

20121119

mettersi al riparo

Take Shelter - di Jeff Nichols (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Ohio, cittadina di provincia. Curtis LaForche è un giovane operaio in un cantiere. Ama la bella moglie Samantha, che arrotonda il povero stipendio di Curtis facendo la sarta. La coppia conduce un'esistenza modesta, riempita dalla piccola Hannah, deliziosa ma con un problema di sordità dalla nascita, che obbliga la famigliola a salti mortali per coprire le spese sanitarie. Curtis è una persona seria, a volte troppo. Si potrebbe dire paranoico. Inizia ad avere delle strane premonizioni su tempeste violentissime, catastrofi imminenti. Samantha cerca di riportarlo alla ragione con dolcezza, ma Curtis più passa il tempo più la spaventa. L'uomo inizia a costruire un rifugio sotterraneo in cortile, ed il suo comportamento isola la famiglia dagli altri, generando frizioni sempre più difficilmente sopportabili anche all'interno della coppia.

Il secondo film del giovane regista di Little Rock è ossessivo come il suo protagonista. Non è per niente male. Ben fotografato, mette a stridente contrasto l'estrema tranquillità della provincia statunitense con una persona evidentemente instabile, ma pian piano instilla nello spettatore il sospetto che, nonostante tutto, Curtis sia nel giusto, e tutto quello che sta facendo lo fa per amore delle sue due donne. Lento e inesorabile, Take Shelter è un discreto film di tensione, che si avvale tra l'altro di un ottimo cast.
Nei panni del protagonista Curtis c'è infatti Michael Shannon, un attore ancora giovane ma già con un'enorme esperienza alle spalle, e una decisa predilezione per personaggi disturbati, che riesce ogni volta a rendere affascinanti e molesti al tempo stesso. Accanto a lui una Jessica Chastain (Samantha) dimessa ma sempre bellissima. In una parte marginale troviamo Shea Whigham (l'Eli Thompson di Boardwalk Empire, esperienza che divide con Shannon) nella parte di Dewart, e Ray McKinnon (il procuratore Potter della quarta stagione di Sons of Anarchy) in quella di Kyle.

20121118

The Dark Knight Rises

Il cavaliere oscuro - Il ritorno - di Christopher Nolan (2012)
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)

Gotham City otto anni dopo. La criminalità è scomparsa, il commissario Gordon si sente ancora in colpa per aver coperto Dent e aver incolpato Batman, Bruce Wayne è in depressione. Gordon prepara un discorso per scagionare l'uomo-pipistrello e dire tutta la verità, ma al momento della verità si caga addosso. Wayne si autoreclude nel suo castello, senza rendersi bene conto che stanno per sfrattarlo pure da lì, visto che sta andando in bancarotta. Entra in scena Bane, una sorta di anti-eroe pseudo-comunista: rapisce Gordon e viene in possesso del discorso non pronunciato, venendo così a conoscenza di una parte di verità su Batman,  poi viene ingaggiato dall'affarista senza scrupoli Daggett per attaccare la Borsa. Anche questo fa parte di una serie di manovre che tendono a mandare in disgrazia quel che resta di Batman: Daggett ha ingaggiato anche Catwoman/Selina Kyle per truffare Wayne e subentrargli nel consiglio di amministrazione della Wayne Enterprises. Dopo essere stato abbandonato perfino dal fedele Alfred, Bruce riveste i panni del cavaliere oscuro.

Fedele al mio credo, portabandiera di una crociata contro tutti, ho detestato anche il terzo Batman diretto dal (ex?) fenomeno Nolan. Alla disperata ricerca di dare una profondità burtoniana e, contemporaneamente, una credibilità ma soprattutto un plot dannatamente complicato (e quindi abbastanza ridicolo) da farlo somigliare ad un fumetto, quasi sovrapponesse Inception alla DC Comics, il regista di Memento tende a strafare e, in effetti, strafà. The Dark Knight Rises è un film bolso, ripieno di star che recitano al minimo sindacale (l'unico che dà qualcosa di più è Tom Hardy, ma nella versione italiana è reso letteralmente insopportabile dal doppiaggio di Filippo Timi), con una sceneggiatura che sembra scritta da uno schizofrenico sotto metanfetamina. Visto che Tim Burton ormai fa solo film con Johnny Depp truccato da qualcosa, aridatece Michael Keaton a 'sto punto.

20121117

I diari del rum

The Rum Diary - Cronache di una passione - di Bruce Robinson (2012)
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)

Siamo agli inizi degli anni '60; Paul Kemp, un giovane giornalista, arriva a Puerto Rico e cerca di farsi assumere dal The San Juan Star, ma soprattutto dal capo Lotterman. Ce la fa, non sa precisamente come, e quasi contemporaneamente diventa amico e sodale di Bob Sala, un fotografo senza un soldo con il pallino delle scommesse. Kemp ama l'alcool, e a Puerto Rico il rum abbonda: ma Moberg, altra nuova conoscenza di Kemp, ama l'alcool ancora di più. Le nuove conoscenze di Kemp non sono ancora finite: Chenault è più una visione che una donna. Malauguratamente, è fidanzata con Sanderson, un losco affarista ammanigliato con la politica, che mira a portare Kemp dalla sua parte per "vendere" il suo progetto speculativo nel miglior modo possibile.

Johnny Depp puntava a rendere omaggio ancora una volta al suo amico e mentore Hunter S. Thompson, facendo trasporre al cinema uno dei suoi primissimi romanzi (scritto negli anni '60 ma pubblicato quasi 30 anni dopo, grazie all'aiuto proprio di Depp), in gran parte autobiografico. Purtroppo, la magia di Robinson (sceneggiatore di Urla del silenzio, regista e sceneggiatore di Shakespeare a colazione) pare proprio essere svanita. A quanto ho capito leggendo qua e là, visto che non ho letto il libro, la sceneggiatura dello stesso Robinson conserva poco o niente del libro (per stessa ammissione del regista/sceneggiatore "in sceneggiatura saranno rimaste due o tre battute di Thompson"). Fotografia forse troppo patinata, gag divertenti e l'attrazione fatale tra Kemp e Chenault monopolizzano il tutto, per poi giungere al finale col protagonista trasformato in un eroe civile.
Depp ce la mette tutta (nella versione originale) per somigliare anima, corpo, gesti e modo di parlare a Thompson, Aaron Eckhart (Sanderson), Richard Jenkins (Lotterman) e Michael Rispoli (Sala) sono bravi, Giovanni Ribisi (Moberg) è straordinario, Amber Heard (Chenault) è bellissima, ma il film non è 'sto granché.

20121116

the greatest of all

I più grandi di tutti - di Carlo Virzì (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere ma anche no (2,5/5)

Rosignano Solvay, cittadina di mare ma industriale a 25 km. da Livorno, Italia. Quindici anni fa, da qui venivano i Pluto, una rock band che ha calcato i palchi scalcinati di una parte della penisola, incidendo anche alcuni dischi. Oggi, Sabrina Cenci, bassista tossica, è promessa sposa di un tizio incravattato e ha una bella casa, una giovane signora annoiata. Loris Vanni, batteria, un tipo lento ma buono, ha una ditta di idraulica, una moglie che gli vuole bene e lo sprona, e un figlio delizioso che lo prende in giro proprio perché è un po' lento. Maurilio Mao Fantini, cantante, una volta legato sentimentalmente a Sabrina, è ancora senza una lira, pieno di debiti, costantemente di fuori, ma sempre spavaldo e senza un futuro. Rino Falorni, chitarrista funambolo e vero musicista fa l'operaio e vive con il padre che gli rompe costantemente i coglioni. Odia tutti gli altri tre ex Pluto e si fa i cazzi suoi.
Ludovico Reviglio, un giovane giornalista musicale in sedia a rotelle, con una iniziale inspiegabile ossessione/culto verso i Pluto, riesce a rintracciare Loris. Gli spiega che vuole organizzare un'intervista alla band riunita, e perché no, potrebbe scapparci pure una vera reunion con tanto di concerto. Loris come al solito ci mette un po' a capire, e si mette quindi alla ricerca degli altri, persi di vista da dieci anni.

Devo confessare che c'era molta aspettativa da parte mia verso questo film. I motivi principali sono tre e ve li riassumo brevemente: Carlo, ex componente della band livornese Snaporaz, è il fratello minore di Paolo (per lui compone colonne sonore), stimato regista livornese, ed avevo perso il suo film di debutto L'estate del mio primo bacio, scoraggiato già dal titolo. Mi sentivo un po' in colpa verso di lui, ma non è che ne avessi sentito parlare poi benissimo. Il film è ambientato (e, in parte ma solo in parte, girato) a Rosignano Solvay, il luogo dove sono nato e cresciuto. La storia mi ricorda, molto vagamente, quella della mia ex band (anch'io sono convinto che fossimo "i più grandi di tutti", e ne sono convinto ancora oggi), e, scherzando, avevo raccontato a tutti che il Virzì si fosse ispirato proprio a noi (alla fine, da quanto era grande la cazzata, avevo finito per crederci).
Detto questo, il film è carino, ma ha molti difetti. E quindi, alla fine mi ha un po' deluso. A parte il fatto che la mia cittadina si vede pochissimo, non è certo questo che mi ha deluso. I personaggi, potenzialmente interessanti, sono "interrotti", non approfonditi come si deve, e la storia fa un po' acqua. Lo stile è un po' troppo simile a quello del fratello maggiore, ma (almeno per il momento) non raggiunge quelle vette poetiche, anche se ci prova. Ci sono parecchi momenti morti, viene voglia di spingere il film, tutto alla fine risulta macchiettistico. Però bisogna dare atto a Virzì junior di trattare una storia che potrebbe essere vera, e che solleva il problema della musica rock in Italia (non si può vivere di musica in questo Paese), conoscendo bene il tema. Oltre a questo, simpatiche le prove dei protagonisti (Claudia Pandolfi è Sabrina Cenci, Alessandro Roja - Diaz, Magnifica presenza, Romanzo Criminale la serie - è Loris Vanni, Dario Kappa Cappanera, vero e ottimo musicista, è Rino Falorni, Corrado Fortuna è Ludovico Reviglio, Frankie Hi NRG è il suo aiutante/segretario, Catherine Spaak è la madre), e impressionante la presenza di Marco Cocci, come sapete presentatore tv, non alla prima prova come attore, cantante di lunga data del Malfunk, dotato di una grandissima voce (una delle più belle a livello rock italiano, lo sostengo da sempre), in questo film interpreta una versione avariata di se stesso e buca letteralmente lo schermo.
Se c'è una cosa che vale davvero in questo film, sono proprio i pezzi (quel poco che si riesce a sentire) dei Pluto. Divertenti i titoli di coda, dove Litfiba, Baustelle, Irene Grandi e Vasco parlano dei Pluto. E adesso godetevi Vado al mare: top!

20121115

GOT

The Forgiveness of Blood

La faida - di Joshua Marston (2012)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)

Albania. Nella zona rurale e pre-montagnosa non lontana da Scutari, la vita scorre lenta e lontana quanto basta dalla modernità. Si guarda il Grande Fratello albanese alla televisione ma si gira col carro trainato dal cavallo o dal mulo, e le case hanno tutte (o quasi) l'armatura di ferro per essere rialzate di un piano un po' alla volta, quando ci saranno i soldi. Nik ha diciassette anni, va a scuola, ha molti amici, gli piace la compagna Bardha, e lei sembra ricambiare: il loro rapporto procede, a piccoli, timidi passi, ma procede. Nik ha un suo sogno, aprire un internet café, e ha già individuato il locale adatto. Rudina, la sorella quindicenne di Nik, oltre ad aiutare la madre nelle faccende di casa, va molto bene a scuola, le piace studiare, vorrebbe andare all'università quando sarà il momento. Il capofamiglia Mark provvede al benessere di tutti, compresi il fratellino e la sorellina più piccoli. Però, tra la loro famiglia e quella di Sokul, che possiede le terre circostanti, non corre buon sangue. Mark, che col carretto consegna il pane, per tornare a casa dai lunghi giri per le vendite, passa per una strada sterrata che attraversa i suddetti possedimenti, mentre Sokul e i suoi ogni volta piazzano grosse pietre in mezzo perché non sia transitabile. Il tema viene discusso ogni volta che i due clan si ritrovano al bar del villaggio. Un brutto giorno dalla discussione si passa alla vie di fatto, e Sokul viene accoltellato; Mark fugge sulle montagne, e per le leggi primordiali del Kanun, la faida ha inizio. La famiglia di Mark deve rimanere chiusa in casa, altrimenti quella di Sokul ha il diritto di uccidere uno dei maschi della famiglia. I ragazzi devono smettere di andare a scuola, e Rudina, l'unica alla quale è permesso uscire, si carica sulle spalle la responsabilità di guadagnare e mantenere la famiglia. La soluzione è lunga, a volte ci vogliono anni di mediazione per risolvere questioni come questa. Nik non ha tutto questo tempo. Nik vuole vivere la sua vita.


Chi, come me, aveva amato alla follia Maria Full of Grace, ha dovuto attendere ben otto anni per il secondo film di fiction del californiano Joshua Marston. Devo dire che, visto questo La faida, girato interamente nell'Albania rurale, ne è valso la pena. Il regista scrive la sceneggiatura con Andamion Murataj, ovviamente un locale, mette insieme un cast interamente locale e non professionista, porta alla luce un'usanza (termine inappropriato, visto che è praticamente legge) che pare arcaica e stridente, ma purtroppo non è così, trova delle location che lasciano senza fiato tanto sono belle senza essere pretenziose (e, badate bene, neppure le riprese lo sono, tutto è descritto con naturalezza) in un luogo dimenticato da tutti, anche da noi che siamo i vicini più prossimi, e riesce a mettere sullo schermo un dramma umano dalla forza dirompente e di un'attualità quasi disturbante, il tutto con la massima disinvoltura. Il film ti prende fin dall'inizio, i due personaggi principali, Nik e Rudina, penetrano in profondità nello spettatore, senza isterismi e senza forzature, ma in maniera indelebile. Tristan Halilaj (Nik) e Sindi Lacej (Rudina) potrebbero avere un radioso futuro, e glielo auguro di cuore. Joshua Marston è un grande, e non vedo l'ora che si rimetta al lavoro su un altro progetto fuori dal comune. Perfino il doppiaggio italiano è indovinato.

20121114

Le prénom

Cena tra amici - di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)

Parigi, casa di Pierre ed Elisabeth. Probabili elettori di sinistra, radical-chic, la casa piena di libri e due figli dai nomi quantomeno particolari, Apollin e Myrtille, dati quasi a sottolineare la loro intellettualità. Pierre è professore alla Sorbona, Elisabeth "solo" insegnante in una scuola pubblica. Come spesso accade, la coppia sta aspettando gli amici di sempre per una cena, i ragazzi sono a letto (non sono ancora le nove di sera). Dopo un fattorino che consegna pizze a domicilio, che suona al loro campanello per errore, cominciano ad arrivare gli invitati. Arriva Claude, elegantissimo, amico d'infanzia, quasi adottato dalla famiglia di Elisabeth, famoso trombonista d'orchestra, un classico "democristiano", uno che non si schiera mai, non prende posizione, dopo di che arriva Vincent, il fratello di Elisabeth. Vincent, agente immobiliare di innegabile successo, elettore di destra, guidatore di SUV, non coltissimo, è soprattutto interessato ai soldi, ma non manca di senso dell'umorismo, ed è un buon diavolo, oltre che essere amico di una vita. Mentre attendono la moglie di Vincent, Anna (sempre in ritardo), che lavora nel campo della moda, Elisabeth rifinisce la cena e i tre uomini cominciano a parlare. Vincent comunica agli altri che Anna è incinta di un maschietto. Tutti felici a congratularsi. Ma Vincent, subito dopo, comunica anche che lo chiameranno Adolf. Pierre è sbigottito, per ovvie ragioni ideologiche, Vincent sostiene che si è ispirato ad un famoso libro francese (e quindi la pronuncia sarà Adòlf, e tutti capiranno), Pierre ribatte che non lo capirà nessuno e che non può fare una cosa del genere, Claude, ovviamente, non prende posizione. Inizia una serata che si preannuncia bollente.

I due sceneggiatori francesi trasportano al cinema una loro commedia teatrale, che è stata naturalmente avvicinata a Carnage, e con due lire (cinque attori e un paio di comparse, praticamente tutto girato in interno) costruiscono un film da 109 minuti durante il quale si ride per almeno 100. Non ci sarebbe nient'altro da aggiungere, se non che è l'ora di smetterla con i campanilismi (e le scimmiottature, o i remake), rimboccarsi le maniche (come italiani), e fare buoni film. Come questo.
Raffinato e dozzinale al tempo stesso, autoironico, molto divertente, recitato alla grandissima. Vedetelo.

20121113

red & blu

Il rosso e il blu - di Giuseppe Piccioni (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere ma anche no (2,5/5)

Roma, un liceo qualunque in un quartiere qualunque. L'inizio di un nuovo anno scolastico. La preside Giuliana arriva presto e piazza i rotoli di carta igienica nei bagni: li ha portati personalmente, da casa. E poi arrivano i professori, annoiati, demotivati, a parte quelli giovani. Il professor Fiorito ci fa da guida, con la voce fuori campo ci racconta il perché questo Paese non può andare da nessuna parte: perché i suoi giovani non capiscono niente, sono vuoti, rappresentano il nulla. Eccoli che arrivano, con i cellulari e gli iPod sempre nelle orecchie, assolutamente disinteressati alla conoscenza. Ma "quello nuovo", il professor Giovanni Prezioso, non la pensa alla stessa maniera. E' un supplente, ci prova con tutte le sue forze, pensa di doverli salvare. Eppure, tra lui e Fiorito non c'è antipatia. E nella sua classe, Prezioso vede tante storie. Pure la preside si ritrova, suo malgrado, a fraternizzare più del dovuto con un alunno particolarmente sfortunato.

Giuseppe Piccioni trasferisce al cinema il libro Il rosso e il blu, cuori ed errori nella scuola italiana di Marco Lodoli; non ho letto il libro, ma sono abbastanza sicuro che sia un buon libro, Lodoli è bravo. Piccioni una volta era una promessa, oggi mi viene da aggiungere "non mantenuta". I suoi film hanno buoni spunti, ma sono perennemente in bilico su un, passatemi la figura paradossale, baratro di mediocrità. Pensate cosa sarebbe stato questo film senza il professor Fiorito interpretato da quel fenomeno di Roberto Herlitzka, un attore settantacinquenne (75) che sta lavorando a più non posso (indice di cosa, secondo voi?). Una perdita assoluta di tempo e di denaro. Piccioni è pure sfavorito dal fatto che la scuola è da sempre uno dei temi più inflazionati, nel cinema; forse bisognerebbe vietare di fare film su questo tema (ma poi penso a un Monsieur Lazhar oggi, o ad un Breakfast Club ieri, e taccio - senza scomodare L'attimo fuggente -). E comunque, siamo qui. Scamarcio (Prezioso) ce la mette tutta per diventare un attore vero, e per fortuna non è ancora diventato insopportabile come Accorsi, la Buy recita sempre la stessa parte sia che interpreti un'insegnante, una psicologa o una drogata, e via così. Meno male che i rumeni in Italia cominciano a diventare attori, oltre che muratori (Ionut Paun - Adam - e Alexandru Bindea - il padre benzinaio - mi sembrano le note migliori del film), sia detto senza ironia.
Insomma, come direbbe voi-sapete-chi, troppo italiano.

20121112

la prima donna

Eva - di Kike Maíllo (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Spagna 2041, la robotica ha fatto progressi: c'è chi ha perfino robot da compagnia, con le vaghe sembianze di un gatto. Alex Garel, per esempio, ne ha uno. Si possono scegliere, come opzione da far modificare al robot stesso, vari gradi di empatia col padrone. Alex non è un tipo qualunque, bensì il miglior programmatore di robot conosciuto sul pianeta. Torna a casa richiamato e allettato dall'amica ed ex collega Julia, per creare una nuova linea di robot bambini, con intelligenza e simpatia avanzatissime. La sua città natale, avvolta costantemente nella neve immacolata, conserva ferite amare ed elettrizzanti novità. La casa dei genitori, intatta e solo un po' impolverata, viene rimessa a posto dal robot Max, fornitogli gratuitamente dall'Università per la quale lavora. Poi c'è Lana, il vecchio e forse mai sopito amore di gioventù: come sia finita tra di loro solo la storia ce lo rivelerà. Lana è sempre bella e desiderabile, ma adesso è sposata con David. Quest'ultimo non è solo un vecchio amico: è il fratello minore, e sempre considerato meno intelligente (ma più affidabile), di Alex. Mentre è alla ricerca di un modello da usare per il nuovo robot bambino, Alex si imbatte in una bambina bella, simpatica, vispa ed intelligente. Eva. Il suo stupore è massimo quando scopre che Eva non è altro che sua nipote, la figlia di Lana e David.

Debutto sul lungometraggio per il catalano Maíllo, grande appassionato di robotica, Eva è un film più che dignitoso, che lascia intravedere personalità e buone cose. Fantascienza con i piedi ben piantati nel presente, immersa in uno scenario rassicurante (fino ad un certo punto), con buoni effetti speciali e con un cast interessante. Sceneggiatura non scintillante ma neppure da buttare, bella fotografia, il film si lascia vedere senza zoppicare troppo e lascia un buon sapore ma di che riflettere. L'ottimo Daniel Bruhl (che avevamo visto in da protagonista in Goodbye Lenin! e in Salvador, e in parti minori in grandi produzioni statunitensi quali The Bourne Ultimatum e Inglorious Basterds) è Alex; Marta Etura (la compagna del grande Luis Tosar, con lui anche in Cella 211) è Lana; Alberto Ammann (anche lui in Cella 211) è David; Lluís Homar (il grande Mateo Blanco/Harry Caine de Gli abbracci spezzati) è il divertente Max. Ma la sorpresa del film è la giovanissima, bellissima e spaventosamente brava Claudia Vega, che recita nei panni di Eva: spettacolare, vale il prezzo del biglietto.

20121111

pietas

Pietà - di Kim Ki-duk (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Cheonggyecheon, Seoul. Lee Kang-do è il riscossore dei debiti per conto della malavita. E' spietato, non fa sconto alcuno; non ne trae grandi vantaggi, vive in maniera spartana, senza lussi di sorta. Durante uno dei suoi giri di riscossione, una donna comincia a seguirlo senza dire una parola. Lo segue incessantemente, nonostante lui si innervosisca e la respinga più e più volte. Dopo qualche tempo, lei gli rivela che è sua madre, la donna che lo ha abbandonato. Gli chiede perdono. Kang-do si arrabbia ancora di più, maltratta la donna, inveisce contro di lei, le intima di andarsene, ma lei ogni volta torna. Alla fine, Kang-do si arrende, ed abbraccia la madre ritrovata. Inizia un processo di redenzione per lui. Ma la donna viene rapita. Il dolore, lo stesso, più o meno, che provavano le sue vittime, è per lui devastante.

Il ritorno del regista coreano, che negli ultimi anni ha affascinato tantissimi amanti di cinema, me compreso, dopo la crisi seguita a Bimong e la catarsi di Arirang, è stato osannato da gran parte della critica, vincendo il Leone d'Oro all'ultima Mostra di Venezia. Film ruvido anche visivamente, girato in sobborghi miseri e sporchi, esasperando visioni ributtanti e violente, estremista nel messaggio (i soldi ci disumanizzano), è come al solito furbo dal punto di vista della sceneggiatura, ma ancora non mi convince appieno. Le emozioni che questo pur grande regista era solito riuscire a regalarmi, non sono ancora ritornate ai livelli di Indirizzo sconosciuto, Real Fiction, Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, L'isola, Bad Guy, Ferro 3, questo almeno a mio modesto parere; anche se Kim rimane lo stesso spavaldo bad guy, un passo avanti alla provocazione di chiunque altro.

20121110

Cold Gin

La scorsa settimana sono stato un paio di volte al cinema, ed impazzando la promozione del nuovo film di 007, Skyfall, mi sono imbattuto in questo spot (devo riconoscere, eccezionale):

Il pezzo e la tipa che cantano mi hanno incuriosito. Ho cercato. Lei è Gin Wigmore e viene dalla Nuova Zelanda. Ho ascoltato i suoi due album, e, a differenza di Lana Del Rey, che "sponsorizzai" a scatola chiusa, e che poi mi ha sonoramente deluso col suo Born to Die uscito nel gennaio dei 2012, questa grintosa Kiwi mi pare aver già le idee molto chiare.
Il video del pezzo utilizzato nello spot è questo, la canzone trovo sia irresistibile.

20121109

il re animale

King Animal - Soundgarden (2012)

Beh ascoltare, anche per giusta curiosità da fan, secondo me va ascoltato (è, per quelli che fossero stati ancora da concepire negli anni '90, o per chi arrivasse proprio adesso da una missione spaziale durata 25 anni, il disco in studio di riunione di una band che aveva pubblicato l'ultimo disco nel 1996). Sufficiente è sufficiente. Però non lo definirei un disco epocale. E' un tentativo di ricreare certe sonorità, ma i pezzi spesso scimmiottano roba vecchia (Eyelid's Mouth è la nuova Fell on Black Days, Blood on the Valley Floor è la nuova Room a Thousand Years Wide, e così via) e non rimangono scolpiti nelle tavole della legge del ruock, almeno per il momento. C'è una flessione nella parte centrale (Taree, Attrition, Black Saturday, il pezzo di cui vi parlerò tra poco, mi convincono meno), e, dovrei anche avere i crediti dei pezzi per argomentare meglio le critiche pezzo per pezzo, c'è un pezzo in particolare, che non è brutto, ma che su un disco col monicker Soundgarden non ci sta proprio; andrebbe bene su un disco targato Chris Cornell. Sto parlando di Halfway There: ecco, se uno a cui piace Jesus Christ Pose cominciasse ad ascoltare King Animal da questo pezzo, potrebbe sembrargli quasi pop, e mollare lì. Da Bad Motorfinga, i Soundgarden sono cambiati, ricercando una strada diciamo intellettual-musicale rock mainstream, e hanno rilasciato Superunknown e poi Down on the Upside, che sono album strani, ma belli, meno rocciosi, secondo me, di Motorfinga, ma validi, anche se non con quel fascino ruvido. Qui, con King Animal, è come se fossero ripartiti, cercando di fare un bignami. Bisogna però precisare che Been Away Too Long e Non-State Actor sono una gran doppietta iniziale (naturalmente inferiore a Rusty Cage/Outshined), ed insieme alla maggior parte delle canzoni di questo disco, sono pezzi che, se li ascolti bene, sono molto belli, complessi, ben suonati, abbastanza duri, con bei suoni che adesso paiono un po' vintage ma che a me, a noi, piacciono tanto, e con tutti quei tempi dispari e controtempi, marchio di fabbrica mattcameroniano, che ci fa bagnare. Tahyil è sempre in buona forma, Shepherd ci dà dentro al solito, Cornell è diventato un po' una fighetta e si aiuta molto più di prima con echi, reverberi e diavolerie varie, ma insomma, ci ricorda quando eravamo giovani e con i capelli. E se regoli il volume abbastanza alto, puoi pure godere. Ma, un po' come l'orgasmo a cui noi maschietti siamo abituati, descritto con grande destrezza e divertimento da Paolo Hendel nei suoi memorabili spettacoli teatrali confrontato con quello femminile (quello maschile era solo un picco, quello femminile un'intera catena montuosa, come profilo), dura poco.
La parte positiva è questa: i Soundgarden sanno ancora suonare molto bene. Sono ancora musicalmente attivi, per così dire. Mettiamoci (mettetevi) al tavolino, e cerchiamo (cercate) di scrivere canzoni memorabili, senza cercare di blandire la grande massa musicale. E' giusto, come sempre, alzare il tiro con i grandi, pretendere di più. Chissà che non riescano a farcela di nuovo. Per il momento, ci accontentiamo di questo King Animal.

20121108

irrompe l'alba

The Twilight Saga: Breaking Dawn Part 1 - di Bill Condon (2011)

Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Giudizio vernacolare: boia, ce l'ha' fatta da'dai!

E finalmente, arriva il giorno: Edward e Bella si sposano. Alice euforica fa la wedding planner con grande successo, e la cerimonia, che si svolge a villa Cullen, è da favola. Nel frattempo, Jacob, che dall'incazzatura dopo aver ricevuto la partecipazione è scappato un paio di mesi in Canada (naturalmente senza maglietta), arriva vestito casual e da tenero amico diventa peggior nemico (salvo ridiventare miglior amico e mascotte di casa Cullen sempre nel giro di una pellicola), rischiando di rovinare il giorno più bello della vita dei due innamorati. Che, noncuranti, dopo la cerimonia, tra applausi e lacrime di genitori, partono per una luna di miele iper-esclusiva prima a Rio de Janeiro, poi su un'isola ancor più esclusiva di proprietà Cullen. E lì, finalmente, d'accordo con la mormonissima creatrice del franchise letterario, finalmente, dopo ben tre film e mezzo, scopano. E naturalmente, Edward riempie di lividi Bella e riduce in polvere la camera da letto. Il risultato è che Bella rimane immediatamente incinta, con il feto che viaggia a velocità supersonica, non essendo mica umano, davanti alla crescente preoccupazione di Edward, che capisce, non si sa come, che questo essere succhierà la vita dalla sua amata. I due tornano a casa Cullen, nascondendo la gravidanza ai più, per assistere Bella nel miglior modo possibile (non dimentichiamolo: Carlisle è un luminare della medicina), ma la cosa non sfugge a Jacob. Il branco si divide, e nel frattempo Bella deperisce a vista d'occhio.

Si torna un passo indietro con il tuttofare Condon (Kinsey, Dreamgirls), che mette in scena una cerimonia che più pacchiana non si può (e ce la propina per mezzo film), dopo di che, nella seconda parte, ci riserva, grazie al suo art department, mette in scena l'unica nota rilevante, e realmente impressionante, di questa pellicola: il deperimento di Kristen Stewart a causa del feto. Il corpo di Bella appare anoressico grazie ad un particolare make-up unito a tecniche di ripesa e modifiche al computer per il viso, e ad un impressionante manichino a grandezza naturale (mi sono visto pure gli extra del dvd!) identico alla Stewart, ma, appunto, anoressico. Ancora inguardabili gli effetti speciali, leggi i lupi, ancora di rilievo la colonna sonora.
E adesso siete pronti per l'uscita dell'ultimo capitolo della saga il prossimo mercoledì.

20121107

triangolo

Triangle - di Christopher Smith (2009)

Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: da mar di testa

Jess è una bella e giovane ragazza madre, che sta crescendo da sola Tommy, un bambino autistico. Greg, un qualcosa-più-che-amico, capisce che la donna ha bisogno di staccare, di un po' di tempo per se, e possibilmente di un po' di intimità con lui. La invita dunque a farsi un giro sulla sua barca, ma essendo un gentiluomo, la invita a portare anche il figlioletto Tommy. Al momento di partire, Jess esita e gli dice che Tommy è a scuola. Quindi, insieme a loro due e ad altri amici, Downey, Sally, Heather e Victor, partono. Purtroppo, dopo poche ore di navigazione, il gruppo viene sorpreso da una strana tempesta, e la barca si rovescia. Aggrappati a quel che resta, cadono nel terrore, finché non passa lì vicino un grande transatlantico; la grande nave rallenta e si avvicina. Il gruppo sale. Ma la nave sembra completamente vuota. Jess inizia ad avere dei déjà-vu, tutti insieme esplorano la nave, poi iniziano a separarsi, e quando si incontrano nuovamente si accusano reciprocamente di assalti reciproci; cose molto strane continuano ad accadere, finché il gruppo viene assalito da una figura incappucciata, che spara loro addosso. Si sottintende che l'azione si svolga nel Triangolo delle Bermude.

L'ottimo inglese di Bristol Christopher Smith si sta proponendo già da qualche anno come uno dei registi emergenti più interessanti, provenienti dalla perfida Albione. Dopo il suo debutto del 2005 con Creep - Il chirurgo, nel 2006 sforna l'ottimo Severance - Tagli al personale, del quale parleremo prossimamente. Nel 2010 (da noi nel 2011) viene conosciuto ancor di più con l'horror medievale Black Death - Un viaggio all'inferno, ma nel 2009 aveva fatto uscire, inedito in Italia, questo Triangle, un ibrido horror, sovrannaturale e psicologico fatto a spirale. Anzi, una spirale strana, che termina dove era cominciata. Vi ho già detto troppo, ma vi assicuro che Triangle è un film complesso, ossessivo, ripetitivo a bella posta per generare un senso di instabilità e claustrofobia persino nello spettatore. Serrato e ben fotografato, recitato discretamente da un pugno di giovani rampanti molto poco conosciuti, insieme alla protagonista, la bella Melissa George (Jess), vista tra l'altro in Turistas (ne parleremo), 30 giorni di buio, In Treatment, Lie To Me. Regista da seguire molto attentamente questo Smith.