No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20110228

rime ferite


Wounded Rhymes - Lykke Li (2011)

Secondo disco per la giovane svedese, che abbiamo cominciato a seguire tre anni fa, e che nel frattempo si è fatta grande (ha ormai 25 anni), e lasciatemi dire che questo Wounded Rhymes è un gran bel disco, che segna una notevolissima evoluzione. A partire dalla splendida copertina, Li Lykke Timotej Zachrisson si pone vicino alla connazionale Fever Ray, con alcune suggestioni elettro-dark (già dalle percussioni elettroniche dell'intro dell'opener Youth Knows No Pain, riprese ed estese nella seguente I Follow Rivers, scelta come secondo singolo, ma che, diciamo, fanno un po' da spina dorsale di tutto il disco, arrivando alla conclusiva Silent My Song), ma conservando aperture melodiche notevoli, e mostrando un songwriting di tutto rispetto, lungo tutto il disco.
La voce si è fatta più matura e capace, conservando quel pizzico di lolitismo che non guasta, l'atmosfera è decisamente emozionante. Un disco moderno che però pesca a piene mani dal passato, con pesantissime venature sixties, ricordando a più riprese armonie da grandi voci femminili (e band) di quell'epoca (ascoltare Unrequited Love, Rich Kids Blues o Sadness Is A Blessing per capire all'istante quello che forse non riesco a spiegare bene), strizzando l'occhio qua e là pure alla Bjork più accessibile.
Difficile da catalogare, potrebbe risultare uno dei dischi più interessanti di questo 2011, e lanciare Lykke Li verso un futuro radioso, quantomeno a livello di critica.

quattro fratelli


Four Brothers – di John Singleton (2005)


Giudizio sintetico: si può perdere (1,5/5)

Giudizio vernacolare: fa piuttosto ca'à

Angel, Bobby, Jack e Jeremiah sono quattro fratelli adottivi, due bianchi e due neri, cresciuti in un quartiere degradato di Detroit, da una signora dolce e comprensiva, Evelyn Mercer, che usualmente teneva bambini in affido prima di destinarli a famiglie in cerca di adozione. I quattro in questione nessuno li ha voluti, e lei li ha cresciuti meglio che ha potuto, anche se le loro strade hanno spesso incrociato quelle del carcere e della malavita. Evelyn improvvisamente viene assassinata durante una rapina in una drogheria. I quattro ritornano in città per il funerale e decidono, spinti dal più grande Bobby, di farsi giustizia da soli.

Grandi responsi critici, per un film che a mio giudizio è davvero esile e poco coinvolgente (l’unica arma che una pellicola così violenta, maschilista e poco profonda ha a sua disposizione per piacere). Evidentemente Singleton o è bollito, oppure, guardando bene la sua filmografia, era stato molto sopravvalutato all’esordio con “Boyz ‘n’ the Hood” (del resto, ha diretto anche filmoni quali “Poetic Justice” e “2 Fast 2 Furios”). Western metropolitano? “Il braccio violento della legge” al contrario? Niente di tutto questo. Sceneggiatura di nessuno spessore, caratterizzazione dei personaggi inesistente, direzione degli attori scarsa, ambientazione in una Detroit irreale (probabilmente, come tutti i film degli ultimi tempi, per risparmiare è girato in Canada, ma qui si vede). Moralina finale da vomito.
Si salva Mark Wahlberg, ma può fare meglio, non male Tyrese Gibson (e non l’avrei mai pensato), si fa notare Sofia Vergara, già in “Lords of Dogtown”, ma più per la bellezza che per la bravura. Scadente Andrè Benjamin degli Outkast, da dimenticare gli altri, compreso (e qui la delusione) Chiwetel Ejiofor, di solito molto bravo, evidentemente non adatto a fare il cattivo.
Sonnolento, ma grande colonna sonora, molto “black”.

20110227

you bet


Avendo completato pochi minuti fa la visione dei film candidati agli Oscar più importanti (o meglio, che io ritengo più importanti), quest'anno mi voglio lanciare in una sorta di scommessa/previsione/tifo. Per le categorie suddette, a poche ore dall'assegnazione, vi dirò chi vince secondo me, e per chi faccio personalmente il tifo. I nominati sono qui. Via.

Miglior attore protagonista
Vincerà Colin Firth per Il discorso del re. Io tifo per James Franco, non nello specifico per 127 ore, per il quale è effettivamente candidato, ma perché è molto bravo in generale, ma insomma dai, Colin se lo merita.
Miglior attore non protagonista
Bella lotta. Potrebbero vincere Christian Bale (The Fighter) o Jeoffrey Rush (Il discorso del re). Io tifo per John Hawkes (Un gelido inverno).
Miglior attrice protagonista
Vincerà Natalie Portman per Cigno nero. Io tifo Jennifer Lawrence per Un gelido inverno, ma mi è piaciuta molto anche Michelle Williams in Blue Valentine.
Miglior attrice non protagonista
Ho paura che vinca Helena Bonham Carter per Il discorso del re, ma hanno chance anche Amy Adams (mi farebbe piacere) e Melissa Leo (idem) per The Fighter. Io però, tifo Hailee Steinfeld per Il Grinta.
Miglior regia
Vincerà Tom Hooper per Il discorso del re, ma ha possibilità anche Darren Aronofsky per Cigno nero, e mi farebbe abbastanza piacere.
Miglior film in lingua non inglese
La mia categoria preferita (non solo mia), quella dove di solito ci sono i film migliori. In generale, mi sono piaciuti tutti e cinque i film, e considero il peggiore Biutiful, pensate un po'. Credo che vincerà In un mondo migliore, di Susanne Bier, ma io tifo per La donna che canta, di Dennis Villeneuve.
Miglior film
Penso che vincerà anche qui Il discorso del re. Se dovessi scegliere io, opterei per Un gelido inverno.
Miglior sceneggiatura non originale
Credo che vincerà The Social Network di Aaron Sorkin, e mi farebbe piacere.
Miglior sceneggiatura originale
Anche qui rischia di vincere Il discorso del re, di David Seidler, è una bella lotta, io opterei per una scelta inusuale, e quindi per I ragazzi stanno bene, di Lisa Cholodenko e Stuart Blumberg.

Vedremo tra breve.

stampami qualsiasi cosa


Mentre nel mondo ci si accapiglia ancora per la libertà, e in Italia sulla dignità della donna, il mondo va avanti e si preannuncia un'altra rivoluzione industriale. Ho appena letto un articolo da The Economist di un paio di settimane fa che, all'inizio, mi sembrava una presa in giro. E invece no.
Si stanno mettendo a punto delle stampanti 3D che, in pratica, possono "stampare" qualsiasi pezzo, in plastica, acciaio, legno, perfino di cemento. Si. Avete capito bene. La copertina raffigura un violino, prodotto dall'azienda tedesca Eos, che ha "stampato" le componenti dello strumento e le ha fatte assemblare da un liutaio; Neri Oxman, architetta e designer a capo di un gruppo di ricerca che lavora su nuove tecniche di produzione presso il Media Lab dell'MIT, dopo aver realizzato una vasta gamma di oggetti (dalle sculture alle armature), sta sviluppando un apparecchio capace di calcolare i diversi metodi di fabbricazione dei modelli che le vengono sottoposti. Cioè, non solo esistono stampanti che possono fabbricare dei pezzi solidi, come detto sopra, ma addirittura si punta a dire alla macchina cosa ci serve, e la macchina calcola, decide, e "stampa" il pezzo, decidendo autonomamente la forma dell'oggetto. Non solo: sempre lo staff della Oxman, si sta occupando della costruzione di edifici attraverso macchine che depositano uno strato di cemento dopo l'altro.
Qui di seguito trovate il link all'articolo su The Economist:

Javiera


Mena - Javiera Mena (2010)

Incuriosito da un articolo di El Paìs, sono andato ad ascoltare questo disco di questa cantautrice dance cilena, che pare essere la più conosciuta in Cile, e la cilena più conosciuta all'estero, in questo tipo di circuito, diciamo indie-dance. Javiera Alejandra Mena Carrasco non ha ancora 28 anni, e si avvicina alla musica una decina d'anni fa, attraverso il circuito delle Università e dei Festival autogestiti. Varie esperienze e collaborazioni, suona la chitarra e le tastiere, nel 2006 pubblica il suo primo disco dal titolo Esquemas Juveniles, e nel 2009 viene invitata dai Kings Of Convenience ad aprire i loro concerti in Spagna e Portogallo, con un set acustico basato sul suo primo disco.
Sinceramente, questo (relativamente, perché è del 2010) nuovo disco mi è parso leggermente ingenuo, dal punto di vista dance: qualsiasi italiano dai 40 anni in su, ascoltandolo, può velocemente concludere che almeno a livello musicale, qui questa musica si faceva ed andava per la maggiore negli anni '80. Suoni e arrangiamenti sono tipici di quel periodo.
La voce è soave e senza dubbio carina, ma insomma, per "sfondare" negli States e in Europa credo ci voglia ben altro.
Il pezzo che probabilmente si distacca un po' dal resto è No te cuesta nada, una ballad con un bel pianoforte in evidenza, e qualche divagazione vocale alla Liz Fraser. Chissà, forse è questo lato intimista che andrebbe approfondito maggiormente, innestandolo meglio sull'elettro-pop del resto del disco.

Masjävlar


L’amore non basta mai – di Maria Blom (2005)


Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)

Giudizio vernacolare: la lepre sta dove un la si giudi'a

Mia è una trentenne indipendente, single, ottimo lavoro alla Ericsson, appartamento in centro a Stoccolma, BMW lussuosa fornitale dalla società. Brava sul lavoro, ma, scopriremo, quasi disperata nella vita privata. Reduce da una colossale sbronza, si mette in viaggio per raggiungere il paesino di provincia dove vivono ancora i suoi genitori e le sue sorelle, Eva e Gunilla, oltre a persone che le sono care, e ad altre che ormai non riconosce nemmeno. L’occasione è il settantesimo compleanno del padre. L’accoglienza è fin troppo festosa, ma ben presto verranno alla luce segreti, sotterfugi, gelosie, drammi, incomprensioni, parole mai dette.
Aleggia inoltre la tragedia incombente, ma non sarà quella che tutti si aspettano.

Come di solito accade con i “piccoli” film, poco pubblicizzati e mal distribuiti, lo spettatore attento e curioso, quello che si sbatte e rischia cercando e trovando questo tipo di pellicole, viene ripagato da una visione soddisfacente. Un film fatto col cuore, oltre che con la tecnica, che, sottolineiamo, non manca di certo.
La mano della regista, anche sceneggiatrice, è sapiente sia nel disegnare una storia piena di personaggi, tutti ben definiti, sia nel dirigere gli attori, tutti bravi e dentro la parte. La “spirale” del film è perfetta: inizio che fa pensare a una cosa insulsa, dispiegamento della rete delle relazioni tra i personaggi che fa crescere a dismisura l’interesse, crescendo finale fino al colpo di scena conclusivo, che però cambia almeno tre volte nel giro di un minuto, spiazzando lo spettatore così come spiazza i personaggi protagonisti, e li costringe a ripensare le loro priorità, fino ad allora confuse. Da qui il senso, perfetto per una volta, del titolo.
Qualsiasi cosa succeda, l’amore non basta mai.
Film delizioso, teatrale senza farsene accorgere, fotografia ottimale, momenti grotteschi tipici della filmografia nordeuropea, contenuti agrodolci ma sempre necessari. Lieve riflessione sul senso della vita. E della morte.

20110226

angeli dell'oscurità


Angels Of Darkness, Demons Of Light 1 - Earth (2011)

Per chi non lo sapesse, gli Earth, attivi fin dalla fine degli anni '80, sono la band di Dylan Carlson, l'uomo conosciuto anche per aver comprato l'arma con la quale si è poi ucciso Kurt Cobain. Detto questo, e specificando che sono catalogati alla voce drone doom, ascoltare un disco della band di Seattle è un po' come entrare in una dimensione ipnotica senza assumere droghe.
L'ennesimo disco degli Earth non è un disco eccezionale, o che può far gridare al miracolo, ma ha decisamente il suo fascino vagamente malato.
Profondamente sabbathiani fin dal nome (Earth fu il primo nome adottato da Iommi, Ward, Butler e Osbourne), dividono l'incedere lentissimo e marziale dei brani con i concittadini Melvins, senza però accentare il virtuosismo batteristico, distaccandosene e creando in questo modo una sorta di minimalismo doom metal. Non contenti, la maggior parte dei brani (in questo disco la totalità di essi) è completamente strumentale. Non ci sono, quindi, snodi, ma, come molti correttamente notano, un lungo, fluviale fluire di musica, appunto, marziale, minimale, distorta ma padroneggiata perfettamente, disseminata da armonici e soli chitarristici, quando non di arpeggi.
In questo disco, che avrà una seconda parte prevista per il 2012, è presente una novità: il violoncello di Lori Goldston, già nota al grande pubblico per la sua presenza nell'MTV Unplugged in New York dei Nirvana, ma con un curriculum interessante (da Laura Veirs a David Byrne), che conferisce un mood quasi country al tutto, creando un corto circuito senza dubbio interessante, sottolineato a volte dal tremolo della chitarra di Carlson, come nell'opener Old Black.
Disco adatto per meditare o alienarsi.

criminali


Romanzo criminale – di Michele Placido (2005)


Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)

Giudizio vernacolare: è propio ir caso di di': in che stato siamo dé...

Tra la seconda metà degli anni ’70 e gli inizi dei ’90, la cosiddetta “banda della Magliana” (per chi non lo sapesse, un quartiere di Roma) “dominò” la scena malavitosa italiana. Ogni malavitoso che si rispetti (?!) ha un soprannome, per cui le tre menti di questa banda furono conosciute come il Libanese, il Freddo e il Dandi, e, in pratica, si passarono lo scettro durante gli anni, nell’ordine descritto. Si parte dall’adolescenza, dalla formazione di un’amicizia inscindibile, si passa per la galera, obbligatoriamente, si finiscono i furtarelli e le piccole cose, si passa alle grandi imprese con un rapimento, invece di godersi i frutti si crea una specie di società a delinquere, si passa alla spietata conquista di Roma, si creano le alleanze con la malavita organizzata del Sud Italia, si creano collusioni con i Servizi Segreti deviati, in un momento particolarmente caldo per l’Italia stessa.
Ci sono, immancabili, le passioni e i grandi amori, le vendette, tanto sangue, le capitolazioni, le fughe, le commistioni. Finirà come di solito finiscono queste storie. A pistolettate e con il grosso della verità insabbiato.
Parallelamente, seguiamo il “cacciatore” di una vita: il commissario Scialoja.

Tratto da un romanzo di buon successo, l’omonimo “Romanzo criminale” di Giancarlo de Cataldo, che è anche co-sceneggiatore, Michele Placido mette in scena un’opera ambiziosa e di ampio respiro, con qualche difetto e una presa di posizione piuttosto marcata, forse troppo, ma rispettabile, come nella tradizione dei grandi film di questo genere, che ultimamente anche in Italia riescono ad emergere (pensiamo a “La meglio gioventù” ma anche ai diversi film sul caso Moro, caso che ritorna anche qui).
Ognuno, come è giusto che sia, si farà la sua opinione su questo lavoro, c’è chi rimarrà coinvolto e perfino riuscirà a simpatizzare per i malavitosi, chi troverà il tutto un po’ troppo indulgente verso personaggi che, veramente, hanno sparso sangue per la penisola, chi si concentrerà sulle ipotesi che la sceneggiatura mette sul piatto, quelle di intrecci con lo “Stato parallelo”, con il caso Moro e la strage di Bologna.
L’importante è che si veda, questo film, perché porta la voce e i sospetti di molti su un grande schermo, e poi se ne discuta con distacco o con passione, ma se ne discuta.
Certo, nelle mani di altri registi, una storia come questa avrebbe assunto altre dimensioni, probabilmente troppo “americane”. Forse è giusto che rimanga così. Del resto, è una storia italiana. E, a proposito di italianità confrontata all’americanizzazione, visto il ritmo non altissimo, forse qualche minuto in meno sarebbe stato ben accetto.
Nel cast spiccano, a mio giudizio, su tutti un bravissimo Kim Rossi Stuart nei panni del Freddo. A ruota Pierfrancesco Favino, il Libanese. Accorsi meglio che nelle ultime deludenti prove, ma sicuramente sotto questi citati prima. Conturbante come sempre Anna Mouglalis.
Non è un capolavoro, ma è sicuramente un film interessante.

20110225

interruzioni di energia elettrica a rotazione


Rolling Blackouts - The Go! Team (2011)


Terzo disco per il gruppo di Brighton, come spesso capita il primo per me, e devo dire, sorprendente in quanto variegato, piacevole, danzereccio senza per forza risultare scontato. Il combo concepito dal leader Ian Parton ama smodatamente le atmosfere da film diciamo anni '60, versante avventura, ma al tempo stesso quel mood un po' ye-ye che era, per intendersi, tipico delle Pipettes quando ancora erano ascoltabili; nel caso dei The Go! Team, però, gli arrangiamenti sono sfarzosi, importanti, avvolgenti, e le canzoni sono studiate nei loro passaggi, anche se risultano, all'orecchio dell'ascoltatore, apparentemente semplici. Provate, ad esempio, ad ascoltare un pezzo come Buy Nothing Day: una canzone semplice, carinissima, che ti rimane impressa al primo ascolto, ma che si rivela, all'analisi attenta, profondamente strutturata, da risultare praticamente perfetta. Non è l'unica.

Impressionante il numero di influenze, riferimenti, reminescenze, che si possono trovare e sentire ascoltando più e più volte questo disco.

Disco simpatico.

famiglia moderna


Modern Family - di Steven Levitan e Christopher Lloyd - Stagione 1 (24 episodi; ABC) - 2009/2010


Modern Family è un serial creato da due esperti sceneggiatori, soprattutto di televisione (entrambi in Wings), e tratta di una classica famiglia di oggi: il patriarca Jay ha sposato in seconde nozze una donna bellissima di origini colombiane, Gloria, che si è portata dietro il figlio Manny, avuto dal primo marito; i due figli di Jay, a loro volta, hanno messo su famiglia. Claire ha sposato Phil, si completano a vicenda, e hanno avuto tre splendidi figli: Haley, quindicenne che ovviamente scalpita per maggiori libertà, Alex, tredicenne intelligentissima che si diverte a prendere in giro tutti gli altri membri della famiglia, genitori compresi, e Luke, il più piccolo, caratterialmente identico al padre, che pare soffrire di un disturbo dell'attenzione, e spesso appare piuttosto stupido. L'altro figlio di Jay è Mitchell, avvocato gay, che forma una coppia di fatto con Cameron, un simpaticissimo omone cresciuto in campagna; i due decidono di adottare una bambina vietnamita, Lily, e proprio nel pilot tornano con lei dal Vietnam.

Ogni famiglia ha le sue dinamiche, ma nel complesso i tre nuclei si frequentano spesso: ne nascono situazioni sempre interessanti.

Girato con la tecnica del mockumentary (finto documentario), con gli attori che guardano spesso in macchina da presa, e a volte rispondono direttamente a domande "fuori campo" (che si intuiscono ma non si sentono), la serie è spassosa e, in alcuni momenti, travolgente. La forza è tutta nei dialoghi, divertentissimi e folgoranti.

Episodi da 20 minuti, ritmo serrato, unito ai dialoghi, come detto, eccezionali, attori bravi, bambini compresi, e Sofia Vergara, nei panni di Gloria, che insinua nello spettatore maschio il dubbio che possa essere la donna più bella del mondo.

Un buon passatempo. E' in corso, negli USA, la seconda stagione.

20110224

storia moderna


History Of Now - Asian Dub Foundation (2011)


Dodicesimo album per il combo inglese di chiare origini asiatiche. Se i testi sono sempre combat, antirazzisti e socialmente/politicamente impegnati, la spinta propulsiva della loro musica segna il passo già da un bel pezzo. In questo nuovo lavoro, provano addirittura, in sparuti episodi, ad incrociare il loro bhangra-dub elettronico alla patchanka militante (This Land Is Not For Sale), o a dipingere ballate strumentali quasi ambient (Power Of 10), conservando nel resto delle tracce la loro caratteristica "andatura" caracollante, tipica, come detto, della mistura tra ritmi bhangra e la loro estrazione punk lato Clash. Alcuni pezzi risultano felici (Future Proof, Temple Siren), ma è innegabile che i tempi di Naxalite sono lontani.

true grit


Il Grinta - di Ethan e Joel Coen (2011)

Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)

Giudizio vernacolare: è l'anno delle bimbettefenomeno



Verso la fine del 1800, dopo la fine della Guerra Civile Americana, la quattordicenne Mattie Ross, ragazza di campagna della contea di Yell, sempre in Arkansas, si reca a Fort Smith per riconoscere la salma del padre Frank, ucciso per futili motivi dal proprio dipendente Tom Chaney. La ragazzina, che racconta la storia quando ormai è un'anziana zitella, era sorprendentemente determinata e sveglia per l'età. Decisa a vendicare la morte del padre, dapprima contratta con il venditore di cavalli, presso i quali il padre e Chaney si erano recati, per riavere i soldi dei cavalli che alla fine aveva perso (perché rubati da Chaney, che dopo aver ucciso Frank Ross si era dato alla fuga), ed acquistare un nuovo cavallo, dopo di che si reca dallo sceriffo per prendere informazioni sui cacciatori di taglie ufficiali, che circolano nella zona.

Decide che Reuben J. Rooster Cogburn è quello giusto, quello che ha la true grit, e dopo una certa insistenza, lo contratta per riacciuffare Chaney. La cosa sulla quale Cogburn non vuole contrattare, è che Mattie vada con lui nel Territorio Indiano per la caccia. Ma Mattie ha la testa durissima, più dura di quella di Cogburn.

Intanto, anche il Ranger Texano LaBoeuf è sulle tracce di Chaney, per un crimine da lui commesso in Texas.



Mi piacerebbe capire il motivo che ha spinto i fratelli Coen ad intraprendere il terzo adattamento del romanzo omonimo (True Grit) di Charles Portis, ma forse possiamo arrivarci: alla fine, anche loro sono interessati alla Storia e alla formazione di quella grande nazione confederata, che sono gli Stati Uniti d'America, e visto che è stata soprattutto costruita con la violenza, questo si sposa piuttosto bene con una delle loro specialità. Non c'è quindi da aspettarsi, purtroppo, una storia complessa dal punto di vista intellettuale, seppur pregna d'ironia e sarcasmo come era A Serious Man, bensì appunto una riedizione di una storia conosciuta (e, in alcuni punti, anche piuttosto scontata), con una certa atmosfera congeniale, e delle sottolineature che diano il punto di partenza per qualche riflessione.

Un altro motivo per cui i Coen possono aver scelto questa storia, è il personaggio principale (che però è candidata come Best Actress in a Supporting Role, stranezze dell'Academy). Mattie Ross, infatti, sia da quattordicenne, sia da "anziana", incarna un po' lo spirito sbeffeggiatore dei fratelli Coen: parlantina inarrestabile, abile mercanteggiatrice, ironia feroce.

C'è sempre di che pensare, forse perché ci hanno abituato così. La legge e l'ordine di quei tempi, per ricordare le radici e per confrontarle con quelle attuali: sono davvero cambiate le cose? Ma soprattutto: gli uomini con un arma, erano stupidi solo a quei tempi (vedi la scena della "gara" tra Cogburn e LaBoeuf), oppure continuano ad esserlo? O Ancora: un eroe (Cogburn) solo a quei tempi finiva a fare il ... (non ve lo dico, nel caso non conosceste la storia), o ancora oggi è così?

Formalmente inappuntabile (bella fotografia dark, ricostruzioni storiche, costumi compresi, precise e belle da vedere), come pure dal punto di vista della direzione del cast, il film regala anche qualche scena importante: quella già citata poc'anzi, la prima contrattazione tra Mattie e il venditore di cavalli, la penultima prima della chiosa (Cogburn che salva Mattie, per non svelarvi di più rimarrò generico), quasi sovrannaturale, per citarne alcune.

Il cast, oltre ad un sempre più affascinante Jeff Bridges nei panni di Cogburn, assolutamente incomprensibile nella versione originale, a causa della sua pronuncia strascicata, e ad un onesto Matt Damon (LaBoeuf), vede una strepitosa debuttante (sui lungometraggi, aveva però fatto televisione e diversi cortometraggi), Hailee Steinfeld, nei panni della protagonista da giovane, Mattie Ross, che è brava da far urlare al miracolo, e speriamo di rivedere quanto prima alle prese con altri personaggi ed altri film, e due brevi apparizioni di Josh Brolin (Tom Chaney) e di Barry Pepper (Lucky Ned Pepper): in questo caso, meglio Pepper di Brolin, a parer mio.

Nonostante tutto questo, il film non risulta esaltante, soprattutto se confrontato con gli apici della filmografia dei fratelli Coen.

20110223

funk a bestia


Live Album - Grand Funk (1970)


Conosciuti anche come Grand Funk Railroad, dalla Grand Trunk Western Railroad, una tratta ferroviaria che passa dal loro luogo di origine, Flint, nel Michigan, la città natale pure di Michael Moore, raccontata in Roger & Me, inizialmente un terzetto, formato da Mark Farner (chitarra, tastiere, voce), Don Brewer (batteria, voce) e Mel Schacher (basso), sono stati agli albori degli anni '70, una delle più grandi rock band statunitensi, una "risposta" all'invasione che arrivava dall'Inghilterra. Da molti considerati inferiori a queste ultime tecnicamente (ma, sinceramente, se ascoltate i loro dischi capirete che non erano/sono certo dei pivelli), ebbero grande riscontro in patria, e la loro fama arrivò anche da noi.

Questo album dal vivo, uscito dopo tre album in studio, è un disco fantastico quanto a energia, tiro, e tecnica. Se conoscete poco o per niente questa band, vi sentirete tutte quelle inglesi di quell'epoca, naturalmente (Led Zeppelin, Cream, e molte altre), come pure le influenze che hanno lasciato ai posteri; il fatto è che questo calderone dei GFR, fatto di rock, boogie, funk e blues, era fiammeggiante e pieno di libertà; inoltre, probabilmente si distaccava da quello delle altre band tendenzialmente hard rock dell'epoca, per una venatura maggiormente black music, seppure accennata qua e là. E, tralasciando le digressioni strumentistiche, ivi compreso un lungo assolo di batteria in T.N.U.C., anche le canzoni sono belle, potenti, rappresentative dell'epoca, ed ancora oggi Are You Ready, Heartbreaker, Mean Mistreater o Into The Sun, suonano fresche e coinvolgenti.

love and other drugs


Amore e altri rimedi - di Edward Zwick (2011)


Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)

Giudizio vernacolare: come ne' porpettoni, c'è di tutto


Pittsburgh, alla metà degli anni '90. Jamie Randall lavora in un grande negozio di elettronica, ed è uno straordinario affabulatore. Affascina soprattutto donne, di qualsiasi età, ed è quindi un ottimo venditore. Usa questo dono per portarsi a letto molte donne della sua età, e questo causa il suo licenziamento. Rimasto senza lavoro, e avendo studiato medicina, pur senza conseguire la laurea, si fa convincere a diventare informatore farmaceutico, divenendo dipendente della Pfizer. Viene affiancato ad un informatore più esperto, Bruce Winston, e nel frattempo suo fratello Josh litiga con la moglie e va a vivere con lui.

Jamie ingaggia una lotta serrata con Trey Hannigan, informatore della concorrenza (la Eli Lilly, produttrice del Prozac), e capisce che deve entrare nelle grazie del dottor Stan Knight. Frequentando il suo ambulatorio, conosce Maggie Murdock, una bella ragazza, indipendente, artista fotografica che però si adatta a fare molti lavoretti, sicuramente di grande carattere, che lo colpisce (in tutti i sensi), e che è affetta dal morbo di Parkinson precoce. Nonostante un inizio movimentato e battagliero, i due si piacciono, e cominciano a frequentarsi. Entrambi sono convinti assertori del sesso senza coinvolgimento, anche se ognuno per diversi motivi. Mentre Jamie marcia spedito verso una carriera travolgente nel suo campo, Maggie lotta ogni giorno contro i sintomi della malattia. Ma l'amore è dietro l'angolo, ed il suo affacciarsi si abbatterà paradossalmente sulla coppia, come un tornado.



Sbandierato da qualcuno come uno dei film imperdibili della stagione, il nuovo di Zwick, regista di altri polpettoni venati di politically correct quali Defiance, L'ultimo Samurai e Blood Diamond, ma sempre con quel qualcosa di esagerato che non ci fa mai gridare al miracolo, seppure tutti degli ottimi prodotti, anche questa volta non fa eccezione.

Come sempre, il film è infarcito da buone intenzioni: partendo dal libro autobiografico di Jamie Reidy Hard Sell: The Evolution of a Viagra Salesman, il film è un tentativo di denuncia al sistema quasi mafioso, adottato dalle grandi case farmaceutiche, e reso possibile dal sistema sanitario statunitense (vedi uno dei lavoretti di Maggie, quando fa da "guida" ai vecchietti sull'autobus per il Canada, fotografia agghiacciante di questo sistema). Il problema è che dentro a Love and Other Drugs c'è pure, e soprattutto, questa storia tra due persone che, per una ragione o per un'altra, rifuggono i legami sentimentali, appesantita dal fatto che una delle due persone, è afflitta precocemente da una delle malattie degenerative più micidiali che ci siano, soprattutto perché non porta alla morte in breve, ma ti devasta l'esistenza. Ecco quindi fatta la "frittata", che è sempre un po' lo stesso difetto che percorre l'intera filmografia del pur apprezzabile Zwick.

Aggiungiamoci una prova non particolarmente brillante della coppia di attori principali, Anne occhioni da cerbiatta Hathaway e Jake Gyllenhaal, che sembrano quasi aver scelto questo film per scrollarsi di dosso alcuni loro ruoli precedenti che rischiavano di marchiarli per la vita (Il Diavolo veste Prada per lei, I segreti di Brokeback Mountain per lui), e capirete certo anche voi che quello che ne esce, non è certo un film da Oscar.

20110222

I dreamed too much


Ho sognato troppo l'altra notte? - Mauro Ermanno Giovanardi (2011)




Giò (Mauro Ermanno Giovanardi) continua il suo percorso, che pare a ritroso, nella canzone, potremmo dire "canzone italiana" senza troppa paura di sbagliare. Lo fa naturalmente guardando a Luigi Tenco e a Piero Ciampi, ma non solo. Di sicuro, questo suo nuovo disco da solista, suona retrò, nel senso migliore del termine. E' fatto di belle, alcune bellissime canzoni, interpretate con passione e personalità.


Ci sono due cover (entrambe rifacimenti italiani di pezzi in inglese), una delle quali è presente in due versioni. Bang Bang, a sua volta cover dell'Equipe 84 di Bang Bang (My Baby Shot Me Down) di Sonny & Cher, infatti, viene cantata da Giò prima in duetto con Violante Placido, e poi, in chiusura dell'album, da solo, in una versione denominata Ok Corral version; l'altra è Se perdo anche te, cantata da Gianni Morandi ma con il testo riscritto da Franco Migliacci e musica arrangiata da Ennio Morricone, in origine A Solitary Man di Neil Diamond. Su questi due pezzi, c'è da dire che non stonano affatto nell'atmosfera complessiva del disco, soprattutto Se perdo anche te. Non è finita qui: il pezzo d'apertura è Io confesso, la canzone che Giò ha portato a Sanremo con Cesare Malfatti (e accompagnati dalla soprano Susanna Rigacci), sotto il nome La Crus, per una reunion estemporanea, un pezzo dal fascino indubbio, e, vedi sopra, dal mood perfetto per questo disco.


La perla però, è un'altra ancora. La traccia numero quattro, dal titolo Desìo (Il rumore del mondo): un pezzo da brividi forti, una fusione perfetta di testo romantico e poetico, e musica trascinante, seppur ariosa ed avvolgente. Da crooner, per intenderci. Molto belle anche La malinconia dopo l'amore, cantata insieme a Syria, come sempre splendida voce, e Neil Armstrong.

L'intero disco è venato fortemente da arie morriconiane, quasi western, insieme ad arrangiamenti di archi che guardano agli anni '60. Eppure, c'è ancora spazio per musica di questa foggia, se scritta e cantata col cuore in mano, come, mi pare, faccia Giò.

ti lascio


I giorni dell’abbandono – di Roberto Faenza (2005)


Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)

Giudizio vernacolare: 'nzomma

Olga fa la traduttrice di romanzi, è sposata felicemente con Mario, ingegnere edile, vivono in una bella casa a Torino, hanno due figli splendidi. Ma la passione si affievolisce, e Olga lo capisce dalle piccole cose. Un’amica, alla quale confida tutto, dapprima la aiuta a capire che succede, ma, forse, anche ad esasperare la situazione. Mario ha un’altra, e va via di casa. La situazione non è chiara, e Olga entra in uno stato confusionale perenne, che le scombussola la vita e le fa perdere il timone. La risalita sarà dura, e più che l’amica del cuore, la aiuterà il vicino che il marito disprezzava e chiamava zingaro, un musicista slavo timido ed educatissimo.

Faenza è un regista anche interessante, che ci ha però abituato a risultati altalenanti (buono il precedente ‘’Alla luce del sole’’, incompiuto ‘’Prendimi l’anima’’, e, andando indietro, onesto ‘’Sostiene Pereira’’, difficile ma suggestivo ‘’Jona che visse nella balena’’); questo film, anche se non da contestare, come è successo a Venezia, non aggiunge davvero niente alla cinematografia, e si rivela un film in fondo mediocre.
Infarcito di simbolismi, troppi, rischia di apparire oltremodo pretenzioso, si salva, direi, solo grazie ai due protagonisti, la Buy e Zingaretti, bravi e abbastanza intensi, anche se la sottile consistenza della storia non permette nulla di più. Da salvare senz’altro la scena del primo litigio e alcuni scorci della Torino notturna. Anche se quella di ‘’Dopo Mezzanotte’’ di Ferrario aveva una marcia in più.
Non troppo a suo agio Goran Bregovic nei panni dell’attore, interessante la canzone sui titoli di coda, scritta a quattro mani da lui e Carmen Consoli.
Si può evitare.

20110221

scale di luna


Ecailles de lune - Alcest (2010)

Neige, aka Sthepane Paut, francese di Bagnols-sur-Cèze, è titolare del progetto Alcest, attualmente insieme al batterista Winterhalter. Catalogato come black metal shoegaze, l'intenzione di Paut è quella di mettere in musica le sue visioni di bambino, che, a suo dire, lo proiettavano in un mondo parallelo, paradisiaco e da fiaba.
Il suo secondo disco, questo Ecailles de lune, consta di cinque pezzi e un interludio (Abysses), fatti di arpeggi flangerati, mid-tempos robusti, intervallati da accelerazioni black metal, con la voce di Neige che passa da cantati clean sognanti, a growl non frequentissimi, che comunque ricordano la provenienza (appunto) black, produzione pulita e ricerca di melodia costante.
Una proposta particolare, che travalica senza dubbio i confini del black metal.

the number of the beast


La bestia nel cuore – di Cristina Comencini (2005)


Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)

Giudizio vernacolare: fa venì 'r mar di testa

Sabina fa la doppiatrice, ma avrebbe voluto fare l’attrice. E’ una che si accontenta. Sta insieme a Franco, attore di teatro. Franco vorrebbe fare cinema, e quando gli propongono di fare la televisione si rivela titubante: non vorrebbe scendere a compromessi. Accetta soprattutto per Sabina. Sabina ha un fratello, Daniele, che vive e lavora negli Stati Uniti, lì si è sposato con Anne e ha avuto due figli. Torna in Italia di rado. Sabina ha anche un’amica del cuore: Emilia, non vedente, segretamente, ma non troppo, innamorata di Sabina, che non la ricambia a quel livello, ma le vuole molto bene. Sabina è anche molto affezionata a Maria, sua coordinatrice di doppiaggio; Maria è stata mollata dal marito per una ragazza che ha l’età della loro figlia.
All’indomani della morte dei genitori di Sabina e Daniele, a poca distanza l’uno dall’altra, per la stessa malattia, Sabina comincia a fare strani sogni, sogni dove il padre la molesta; segue una progressiva ‘’allergia’’ al contatto fisico, specialmente con Franco. Parte quindi per gli Stati Uniti, deve fare chiarezza e le serve Daniele.

La Comencini trae un film da un suo libro, e ce la mette tutta. Infarcisce il film di personaggi (ben disegnati), storie (intrecciate così così) e argomenti d’attualità, anche scottanti (tanti, forse troppi). Evidentemente, il peso di tutto questo le fa dimenticare di dirigere gli attori, visto che una delle pecche più evidenti di questo film, del quale consiglio comunque la visione, visto il coraggio del linguaggio piuttosto esplicito, come quello di Maria (Una Angela Finocchiaro davvero scoppiettante, in un personaggio reale, tangibile, senza mezze misure, davvero superlativo. Una luce in mezzo a diverse prestazioni incolori), sono le prove degli attori principali (Mezzogiorno, Boni, Lo Cascio, Rocca), poco incisive rispetto alle potenzialità di alcuni di loro.
Anche le reiterate esplosioni di ilarità, affidate soprattutto alle battute della Finocchiaro, a bocce ferme si fa fatica a capire quanto servano al film; ci si diverte, si allenta la tensione che altrimenti sarebbe forte, ma si perde la forza della denuncia.
Qualche forzatura anche nella sceneggiatura, tipo la gravidanza di Sabina.
Nonostante tutto ciò, film coraggioso e rischioso, svolto con diverse pecche.
Un dubbio rimane: il jogging nel parco della Mezzogiorno, è un omaggio a Muccino, una presa in giro, oppure Giovanna ce l’ha per contratto una scena così?

20110220

Naomi about global warming

A parte che io amo questa donna, ma forse ve l'ho già detto, un sunto del punto di vista che condivido sul futuro del pianeta. Da Internazionale, ci sono sottotitoli in varie lingue, ma non in italiano.

back home


Torno a casa a piedi - Cristina Donà (2011)


Ho sempre avuto grande stima di Cristina Donà, fino dai suoi esordi l'ho seguita e vista dal vivo. L'ho paragonata perfino a Mina a livello vocale, ma ho sempre detto che dal vivo, quando prova a fare la spiritosa, non ha i tempi comici e risulta goffa.

Vi chiederete cosa c'entra. Questo nuovo disco, che come al solito la stampa specializzata italiana si è affrettata ad osannare (poi parliamo male degli inglesi che spacciano qualsiasi nuova band rock come i nuovi Led Zeppelin), non è certamente il miglior lavoro della cantautrice nata a Rho, ma contiene qualche pezzo molto, molto bello (Più forte del fuoco, Un esercito di alberi), ai livelli dei suoi migliori, altri discreti (Torno a casa a piedi, Tutti che sanno cosa dire, Aquilone), caratterizzati da arrangiamenti non usuali, rispetto a quello che aveva fatto fino a adesso, arrangiamenti ricercati, con uso di molti strumenti, e altri piuttosto brutti [Miracoli, Giapponese (L'arte di arrivare a fine mese)], dove Cristina sembra proprio che provi a fare la spiritosa, così come dal vivo.

I testi, invece, sono sempre molto interessanti, e questo è sempre stato un suo punto di forza.

E' comprensibile che al settimo disco, si abbia voglia di fare qualcosa di diverso, e non critico la scelta di costruire strutture musicali più complesse, ma queste ultime non bastano per sfornare nuove belle canzoni. E non sempre è domenica.

nine lives


Nove vite da donna – di Rodrigo Garcia (2005)


Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Giudizio vernacolare: bellino

Los Angeles. Sandra è in prigione e non riesce a parlare con la figlia piccola. Diana è incinta, e al supermercato incontra un ex fidanzato con il quale ha avuto una storia intensa, non si vedono da molti anni. Holly torna a casa dopo molto tempo per minacciare il padre che abusava di lei, e mentre lo aspetta ne parla con la sorella Vanessa. Sonia e il marito vanno a trovare degli amici benestanti e finiscono per litigare come al solito. Samantha non riesce a ritagliarsi un momento di privacy in casa, a causa dei genitori che si parlano attraverso di lei. Lorna si presenta al funerale della moglie suicida dell’ex marito sordomuto e si ritrova in una situazione quantomeno imbarazzante. Ruth sta per concedersi una scappatella in un motel, ma succede qualcosa. Camille sta per operarsi al seno e non riesce a controllare gli sbalzi di umore e la paura della imminente mutilazione, rifacendosela col marito. Maggie con la figlioletta Maria si recano a fare l’annuale pic-nic al cimitero, sulla tomba di un congiunto.

Nuovo film per il figlio di Gabriel Garcia Marquez, regista anche di episodi di ‘’Six Feet Under’’ e ‘’I Soprano’’ (ma anche di ‘’Carnivale’’, serie HBO inedita in Italia), co-sceneggiatore anche di ‘’Frida’’. Evidentemente, la struttura ad episodi è l’unica che abbia voglia di sperimentare, visto che il suo precedente film, il delizioso ‘’Le cose che so di lei’’ era così strutturato, come pure ‘’Ten Tiny Love Stories’’, inedito in Italia.
In questo ‘’Nove vite da donna’’ (in originale Nine Lives, nove vite, come i gatti, da qui si spiega, oltre il dialogo dell’episodio finale, la locandina del film) il lavoro è ancora più complicato dal fatto che i nove episodi da 10-12 minuti ciascuno, sono tutti completamente dei piano-sequenza (la macchina da presa non stacca mai), esaltando così, oltre alla bravura delle protagoniste (pochi, pochissimi uomini, anche qui), il virtuosismo del regista. I risultati sono ovviamente alterni, ma ci sono dei momenti davvero alti. Partendo dal presupposto che tutti gli episodi rispecchino spaccati di vita reale, vi rimarranno impresse la Diana interpretata da una intensa Robin Wright Penn, alle prese con un doloroso confronto col passato, una Holly (Lisa Gay Hamilton) disperata ricordando i torti subiti dal padre, una Camille (Kathy Baker) schizzatissima in attesa della mastectomia, con un marito, Joe Mantegna, che cerca invece di mantenere la calma, e l’episodio più grottesco di tutti, quello con Lorna (Amy Brenneman, qualcuno ricorda Giudice Amy?) che ‘’consola’’ l’ex marito al funerale della seconda moglie. Completano il cast Elpidia Carrillo (Sandra; chi non l’ha amata in ‘’Bread and Roses’’?), Holly Hunter (Sonia), Amanda Seyfried (Samantha; era in ‘’Mean Girls’’), Sissy Spacek (Ruth, la madre di Samantha), Glenn Close (Maggie) e la bambina-star Dakota Fanning (Maria).
Personaggi che appaiono in diversi episodi, vezzo tipico del cinema di qualità (Buñuel, Kieslowski, anche se qui siamo una buona spanna sotto), danno un pizzico di interesse in più a queste mini storie appena accennate, che lasciano buona parte del lavoro mentale allo spettatore.
Per appassionati e curiosi.

20110219

il limite del tuo amore


James Blake - James Blake (2011)


Figlio di James Litherland, chitarrista dei Colosseum, una manciata di EP alle spalle, il giovane inglese esce con il suo debutto full length e viene acclamato dalla critica tutta. Come mai? Come al solito, ho cercato di scoprirlo ascoltando il suo disco.

La musica di Blake è figlia di due passioni: l'elettronica applicata al dubstep, e il soul. Riuscite ad immaginarvi una cosa del genere? Se siete incuriositi, James Blake l'album è la risposta.

E' necessario porsi all'ascolto non aspettandosi bombe di energia: l'atmosfera è ambient. Quindi rarefatta, poco ritmata, spesso con la drum machine assente, e la voce filtrata continuamente da un effetto simile al vocoder ma molto meno intenso.

Measurements, il pezzo di chiusura, per darvi un'idea, sembra un classico pezzo dei Neville Brothers rifatto dai Rockets (dopo aver fumato roba forte), a capella; Why Don't You Call Me sembra un remix di un pezzo inedito di Antony & The Johnsons. Il primo singolo estratto, che sta andando fortissimo già da qualche settimana, è la cover di Limit To Your Love di Feist, non troppo modificata, ma adattata al suo stile. Essendo il pezzo già di suo bellissimo, non poteva che fare il botto, spinto da tutto questo hype (sappiamo che gli inglesi sanno essere molto nazionalisti in queste cose).

Tutto il resto è fatto, come avrete facilmente intuito, di pezzi brevi, a volte brevissimi, scarni, venati da questo mood ambient-soul, sicuramente particolare, che necessita di alcuni ascolti, ma che può avvolgere l'ascoltatore e inebriarlo.

a Marrakech


Marrakech Express - di Gabriele Salvatores (1989)

Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: 'nzomma

Quattro amici della generazione "saremo gli ultimi con i ricordi in bianco e nero", si perdono di vista nella tentacolare Milano da bere. Poi, complice un comune amico, Rudy, che viene incarcerato in Marocco, ed invia la sua donna, Teresa, spagnola, a chiedere loro aiuto, decidono di partire in auto alla volta del paese maghrebino. Ognuno si porta dietro i suoi difetti e le intolleranze. Teresa va con loro. Sarà una grande avventura.

Terzo film di un ancora giovane Salvatores, più che un on the road vuole essere un film sull'eterno tema dell'amicizia, caro al regista napoletano di nascita, ma milanese di formazione, e pure sui rimpianti, sui sogni infranti e sulle occasioni perdute. Salvatores si affida ai suoi scudieri di sempre, Abatantuono (Ponchia), Bentivoglio (Marco), Cederna (Paolino) e Gigio Alberti (Cedro), ed il film diventerà un piccolo cult molto più per le gag tra i quattro che per la storia, scritta da Umberto Contarello, Enzo Monteleone e Carlo Mazzacurati, o per il film in se stesso. Non è un caso, se nella loro carriera, i quattro spesso interpreteranno spesso, delle variazioni su quei personaggi.
Alla fine, non è che sia un film così importante, ma probabilmente è servito anche questo, nella maturazione di Salvatores.

20110218

lunare


Moon Landing - Sivert Høyem (2009)

Uscito un paio di anni fa, questo Moon Landing è il terzo lavoro solista per il cantante norvegese dei Madrugada, come vi dissi sciolti dopo l'omonimo disco del 2008 ed un tour, data la morte di uno di loro.

Nonostante sia il suo terzo, come detto, è però il primo che ascolto. Credo sia naturale andare a sviscerare le differenze con i Madrugada, band che a mio parere non ha avuto quello che si meritava (da questo potrete già intuire che il disco a me piace). Ed è complicato trovarle, queste differenze. Se vogliamo, da solista, Hoyem prova ad essere vagamente più "leggero", appena un po' più solare, diciamo più rock e meno dark. Nonostante ciò, direi che decisamente la sua musica si adatta maggiormente ad un giorno di pioggia che a uno di sole, per cercare di darvi un'idea.

La sua voce era e rimane bellissima: profonda, ottimo veicolo di emozioni intense. Le canzoni sono forse prevedibili, ma belle nella loro classicità, e spesso hanno un che di epico (Arcadian Wives, Shadows/High Meseta), o comunque un respiro quasi da arena rock (Belorado, High Society), ma con grande classe.

Un paio di ballate (The Light That Falls Among The Trees, Going For Gold) non originalissime, che però con una voce così sortiscono sempre un certo effetto. Nella title-track (e anche in What You Doin' With Him) si sentono addirittura echi di Mark Knopfler e Dire Straits.

Una voce da conoscere.

superdotato


Hung - di Dmitry Lipkin e Colette Burson - Stagioni 1 e 2 (10 episodi ciascuna; HBO) - 2009/2010



Detroit. La crisi lì ha colpito duro, come Marchionne ci insegna. Ray Drecker è insegnante ma soprattutto il coach (basket e baseball) delle squadre della high school locale. Quando la stessa scuola la frequentava lui, Ray era una specie di leggenda: grande atleta, futuro luccicante. Poi, un infortunio, e fine dei sogni di gloria. Ma era sempre un uomo bello e prestante, e sposò la più bella, la regina delle cheerleaders: Jessica.

Non durò: Jessica da qualche anno ha voluto il divorzio, si è risposata con lo sfigato della scuola, che adesso fa il dermatologo e guadagna bene (Ronnie). Ray è tornato a vivere nella casa dove è cresciuto con i genitori, in riva al lago, una casa stile baita tutta in legno, e i suoi figli, i due gemelli Damon e Darby, sono voluti andare a vivere con lui. Ma a causa di un corto circuito, la casa prende fuoco, e i tre si salvano per miracolo. Con la casa danneggiata per migliaia di dollari, una paga più bassa di quella di un idraulico, e la spada di Damocle dei tagli all'educazione che pende anche sulla sua testa, Ray non sa più cosa fare. Disperato, imbattendosi nella pubblicità di un corso per "diventare imprenditori di se stessi", si reca alla prima lezione, dove l'istruttore sprona gli allievi ad individuare il proprio punto forte, la propria eccellenza, dopo di che gli insegnerà come venderla. Per circostanze che non vi voglio rivelare, grazie a quella che parrebbe un'offesa, Ray mette a fuoco qual è la sua di eccellenza: ha un pene fuori dal comune. Come metterlo "a frutto"? Lo vedrete in Hung.

Dmitry Lipkin, già creatore di The Riches (che ancora non mi ha convinto pienamente), insieme alla moglie Colette Burson, si è inventato questo Hung, magari prendendo spunto da Secret Diary, traghettandolo negli States e ponendolo al maschile. Ma a suo favore depongono l'ambiente e le motivazioni. Infatti, se pure Hung rimane una serie fondamentalmente divertente, la crisi economica e la paura di perdere tutto fa da filo conduttore della storia, forse più del sesso. Non a caso, la serie è ambientata a Detroit, e la sequenza iniziale del primo episodio (della prima stagione) è esplicativa.

Più del protagonista, un Thomas Jane che ricordavo ne Il Punitore, e che risulta perfettamente a suo agio nel dimostrarsi non a suo agio (scusate il gioco di parole) a fare il "secondo lavoro" che si decide ad intraprendere, oltre ad essere un perfetto esempio di maschio medio statunitense, poco informato e molto sportivo, ma fondamentalmente buono, sono i comprimari che ne fanno un prodotto interessante e godibile.

Come succede spesso, sono quasi tutti caratteristi, che difficilmente abbiamo visto al cinema in ruoli da protagonista, se si eccettua Anne Heche, lodevole nei panni di Jessica, la ex di Ray, un po' svampita, rosa da dubbi e nervosa sia per il suo rapporto con l'ex marito, sia per quello con l'attuale marito, ed infine per quello con i due figli.

Jane Adams è Tanya, una delle due "amiche" di Ray. Personaggio complesso che mette in scena perfettamente l'inquietudine del sentirsi fuori posto in questa società. Rebecca Creskoff è una incredibile scoperta, almeno per me. Interpreta Lenore, una donna che di mestiere fa la lifestyle coach (in teoria ti insegna a vivere, in pratica non fa nulla ma vive nel lusso, viene pagata per far spendere soldi ai ricchi), e non ha nessun dubbio: l'antitesi di Tanya. La Creskoff mi ha fatto venire un'idea, poi rivelatasi sbagliata: ad un certo punto ero convinto fosse Christina Hendricks, la Joan Harris di Mad Men, adattata ai giorni nostri, dimagrita e vestita alla moda, ugualmente rossa. Poi invece ho scoperto che è un'altra attrice, ma che in Mad Men fa una piccola parte (Barbara Katz, sul finire della prima stagione, se non ricordo male). A lei si debbono alcune delle scene di nudo più disinvolte, e al tempo stesso eccitanti (non sono le uniche, come potrete facilmente intuire).

Ci sono poi i due figli di Ray e Jessica: Darby, interpretata da Sianoa Smit-McPhee (sorella di Kodi, il co-protagonista di The Road, e figlia di Andy McPhee, caratterista che abbiamo visto ultimamente in Sons Of Anarchy nei panni di Keith McGee), e l'ancor più spettacolare Damon, interpretato da Charlie Saxton, un personaggio che sono sicuro ci regalerà altre perle nelle prossime stagioni. Altro alfa-omega, i due figlio sono il contrario dei genitori: Darby e Damon sono grassi, sfigati, tendenzialmente goth-metal (quando in una scena si intravede uno sticker dei Converge nell'armadietto scolastico di Darby mi sono messo ad applaudire), sicuramente non popolari tra i loro coetanei. Due parole anche per il versatile Gregg Henry (Mike), visto moltissime volte, ultimamente in The Riches, Eddie Jemison (Ronnie) e Marylouise Burke (l'implacabile madre di Jessica, di origini polacche), che contribuiscono alla verve tragicomica della serie. Mi va di citare, tra i personaggi non inseriti nel cast principale, Alanna Ubach, un'attrice comica (e doppiatrice) particolarmente attiva (e brava) nei panni di Yael Koontz, la vicina di casa israeliana di Ray, anche lei protagonista di alcuni siparietti gustosissimi.

La durata di circa 28 minuti ad episodio contribuisce a renderlo un prodotto snello e da gustarsi come caramelle, ottimo anche dal punto di vista tecnico/visivo. Curiosità: il pilot è stato diretto da Alexander Payne (A proposito di Schmidt, Sideways - In viaggio con Jack), nella seconda stagione l'episodio Beaverland vede alla regia Lisa Cholodenko (The Kids Are All Right, Laurel Canyon). I titoli di testa sono eccezionali, sulle note della splendida I'll Be Your Man dei Black Keys.

Non mi è piaciuta la piega presa dal rapporto tra Ray e Jessica verso la fine della seconda stagione, ma la terza, che dovrebbe cominciare verso fine giugno 2011, ci dirà se era funzionale al proseguimento, o meno. Per il momento, il bilancio delle prime due stagioni è positivo.


20110217

Black Swan


Domani esce anche questo film. Ve ne ho parlato qui

Winter's Bone


Esce domani. Ve ne ho parlato qui

love boat


La stessa barca - 24 Grana (2011)


Sesto disco in studio per i napoletani, prodotto da Steve Albini. C'era molta attesa, tra gli appassionati, e secondo il mio punto di vista, il risultato è proprio quello che ci si poteva aspettare.

La musica dei 24 Grana è difficilmente incasellabile, ed è questa la loro bellezza, unita ai testi, piccoli affreschi urbani densi di poesia cruda, pienamente napoletana. Non c'è solo il reggae-dub mischiato al rock più orecchiabile: ci sono tutta una serie di reminescenze degli anni '80, a partire dall'hardcore-punk, più nell'attitudine che nella forma musicale, fino ad arrivare alla new wave e a tutto quello che è post rispetto a quegli anni.

Batteria bella gonfia nei suoni, chitarre sporche quanto basta, basso preciso, e la voce di Francesco Di Bella con un risalto appropriato. Una manciata di canzoni cantate a volte in dialetto, a volte in italiano (con quel bell'accento inconfondibile, sentite come pronuncia la zeta di alzerò in Cenere), completamente da amare.

C'è l'imbarazzo della scelta: canzoni movimentate (La stessa barca, Stop!, Ce pruvate Robè, Malevera, davvero intrigante quest'ultima), sostenute (Salvatore, Ombre), più riflessive (Turnamme a casa, Germogli d'inverno, bellissima, Oggi rimani laggiù, evidente omaggio ai CSI e a Ferretti, ancora una volta un pezzo emozionante).

Un disco molto interessante, che non venderà molto, ma piacerà a chi, nella musica, cerca qualcosa di più che un ritornello da fischiettare sotto la doccia.

l'isola


The Island – di Michael Bay (2005)


Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)

Giudizio vernacolare: ganzetto

Poco prima del 2020, una catastrofe (ecologica?) ha contaminato l’intero pianeta. Si vive al chiuso, si lavora in catena di montaggio, si devono rispettare certe distanze tra un individuo e l’altro, l’ordine è al centro delle preoccupazioni della collettività. Lincoln 6 Eco ha un’intelligenza acuta, e soffre di incubi strani. E’ amico, e stranamente attratto, da Jordan 2 Delta. I due non riescono a definire la loro attrazione. Lincoln ha anche un sacco di dubbi sulla veridicità della cosiddetta contaminazione del mondo esterno. E qualcuno si chiede anche dove finiscano i tubi dove tutti i giorni iniettano delle siringhe di soluzioni liquide.
Lo scopo principale della vita sembra essere quello di vincere la lotteria; i vincitori saranno premiati lasciando la vita lavorativa, e andranno sull’isola: l’unico luogo che, pare, sia rimasto incontaminato. Si scoprirà invece, una realtà completamente diversa.

Michael Bay questa volta fa centro. Se si guarda la sua filmografia (Bad Boys, The Rock, Armageddon, Pearl Harbor), non ci si poteva aspettare granchè E invece il film è un ottimo compendio di colossal, azione, citazioni, fantascienza, problematiche sociali e inni alla vita. Inoltre, è un bel vedere anche per gli occhi, anche se la regia è classico-moderna (leggi video-clip style). A livello di azione, la scena dell’inseguimento al camion che trasporta le ruote da treno è da ricordare. Un paio di ‘’marchette’’ clamorose (su tutte quella a favore di CK, si ripropone senza vergogna lo spot con la Johansson protagonista; simpatica però la sovrapposizione cinema/realtà, già portata in auge da Ocean’s Twelve di Soderbergh).
Buono il cast; bravino McGregor nella doppia parte. Scarlett divina, Buscemi low profile.
Il finale, se vogliamo, è un po’ la parte difettosa. Raffazzonato, allungato oltremodo. Bella però la scena ‘’corale’’ conclusiva (se si esclude la riproposizione della barca del sogno/incubo di Lincoln).
Colossal gradevole.

20110216

straniero


Stranger - Valient Thorr (2010)


Stranger è il quinto disco dei Valient Thorr, combo di Chapel Hill, il secondo prodotto da Jack Endino tra l'altro. I Valient Thorr sono brutti e sporchi (ho avuto occasione di vederli live prima dei Dillinger Escape Plan), sembrano dei bikers senza moto, e sembrano sempre molto ubriachi.

Ma, per dire, questo disco è pieno di energia, positiva senz'altro.

Vengono dal metal, e si sentono influenze maideniane, ma la base dei loro pezzi è semplice rock and roll, con chitarre metalliche. Cori che echeggiano il punk californiano, aperture melodiche che occhieggiano ai migliori Kiss, passaggi sincopati che aggiungono un pizzico di asimmetricità, ruvidezza che potrebbe piazzarsi a metà tra lo stoner rock e JSBX, parti strumentali piuttosto ricercate. Il disco non è affatto male.

Dal vivo hanno un'energia notevolissima.

S.A.M.C.R.O.



Sons Of Anarchy - di Kurt Sutter - Stagioni 1, 2 e 3 (13 episodi ciascuna; FX) - 2008/2010

Non so perché, ma come già vi ho anticipato nella recensione di The Shield, mi sono ritrovato a pensare questo SOA come una sorta di spin-off della serie ideata da Shawn Ryan. Tanto è vero che, avendo iniziato a vedere la prima stagione contemporaneamente a The Shield, ho deciso di fermarmi, vedermi tutto lo scudo, e poi proseguire con SOA.
Brevemente, perché penso ciò. Perché Sutter, dopo Ryan, in The Shield era quello più impegnato e attivo (produttore, sceneggiatore). Perché SOA è ambientato in una cittadina fittizia, Charming, ma immaginata nella Valle di San Joaquin, nella California interna e centrale, quindi non lontana da Los Angeles, e le gang che girano intorno ai Sons, per comprare armi e/o commerciare droghe, potrebbero benissimo essere quelle di The Shield in (breve) trasferta.
Perché molti attori e attrici recitano in entrambe le serie. Addirittura, il personaggio interpretato da Jay Karnes (in The Shield era il detective Wagenbach, in SOA è l'agente federale Scott Kohn), sembra un po' la versione deviata di quello da lui stesso interpretato in The Shield (il potenziale molestatore, che a mio giudizio era in nuce dentro la testa di Wagenbach). E non finisce qui: c'è chi (Maureen Ryan su Tvsquad) ha sottolineato la vicinanza del personaggio dell'agente June Stahl (interpretata in maniera superba da Ally Walker, già in The Shield fugacemente, ma soprattutto in Tell Me You Love Me) a quello di Vic Mackey.
Perché Sutter prende la lezione di Ryan e la innesta su una storia che ha un respiro quasi medievale, ma trasportata ai giorni nostri, attingendo a piene mani, come ammesso da lui stesso, e puntualizzato da critici attenti, dalle tragedie shakespeariane (Kevin McDonough su Southcosttoday), acutizza l'uso machiavellico della trattativa, del doppio gioco, delle trame segrete, tessendo una tela complessa, facendo a volte un uso smodato del colpo di scena inaspettato, piazzando tranelli allo spettatore (l'episodio 13 della terza stagione, NS, è
paragonabile al 12 della settima e ultima di The Shield, Possible Kill Screen). Tutto questo, in uno scenario dal fascino born-to-be-wild del mondo degli outlaw bikers, un mondo a parte fatto di regole, appunto, medievali, gerarchie incontrovertibili, riti di iniziazione. Le sottotrame sono infinite, ma il punto di partenza è l'animo inquieto del protagonista, Jackson Jax Teller, una sorta di Kurt Cobain moderno (jeans con cavallo basso) e fisicato, vicepresidente del club, figlio di uno dei nove fondatori John Teller, e di sua moglie Gemma, che dopo la morte di John si è sposata con Clarence Clay Morrow, altro fondatore e attuale presidente.
Jax comincia a nutrire dei dubbi sulla conduzione del club, e sulla sua stessa vita, quando si ritrova padre di Abel, che appena nato deve lottare tra la vita e la morte, avuto dalla ormai ex moglie Wendy (Drea De Matteo, Adriana La Cerva in The Sopranos, così anche questo collegamento è fatto), tossicodipendente incallita. S.A.M.C.R.O. (Sons of Anarchy Motorcycle Club Redwood Original), dietro la copertura del grande garage/officina Teller-Morrow, traffica armi, principalmente. Le compra dall'IRA (i collegamenti dei Sons con l'Irlanda sono fortissimi, e verranno fuori pian piano), e le rivende alle gang di Los Angeles, preferibilmente agli One-Niners (o Niners), che appaiono anche, indovinate un po', in The Shield.
I dubbi sono acuiti dal ritrovamento di una bozza di un libro, scritto da suo padre, dove John, con stato d'animo triste e contrariato, esponeva la sua grande delusione sul fatto. Il club da lui creato insieme all'amico e compagno reduce dal Vietnam, Piney, sull'onda di una costola del movimento hippy (non per niente si chiama figli dell'anarchia), stava diventando solo una banda di fuorilegge, incapaci di far funzionare il cervello, dediti esclusivamente all'occhio per occhio, dente per dente. Questo lo porta ad entrare in contrasto con Clay e la sua stessa madre.
Tutto ciò si svolge, come detto, a Charming, dove i Sons sono praticamente i padroni della città, legati a doppio filo al Chief of local Police Wayne Unser (amico d'infanzia di Clay e Gemma), insieme al quale riescono a tenere fuori droga e crimine, e pure il progresso e le grandi speculazioni, che porterebbero un numero maggiore di poliziotti e maggior attenzione.
Sutter, quindi, si spinge ancora più in là di Ryan con The Shield: oltre ai poliziotti corrotti che fanno accordi con i malavitosi, qui si arriva al potere praticamente in mano direttamente a questi ultimi. Ma il potere logora, anche chi lo ha, e vedendo Sons Of Anarchy si può intuire.
Molto più levigato a livello visivo (fotografia, direzione), rispetto a The Shield, Sutter e il suo team confezionano un prodotto ambizioso, fuori dagli schemi per gli argomenti trattati (il discorso fatto per Ryan e The Shield qui si può ripetere ed estendere: dal punto di vista politico, è un serial repubblicano, che cerca l'empatia verso dei fuorilegge che cercano di sostituirsi alla giustizia, oppure è democratico e si pone delle domande?), piuttosto violento ed animale, passatemi il termine, ma intrigante e coinvolgente, con qualche tempo morto di troppo (in diversi episodi si allunga decisamente il brodo), ma tutto sommato da vedere.
Colonna sonora naturalmente rock-oriented, con Monster Magnet e Black Keys (spolpatissimi dalla tv, a dire il vero) su tutti, ma pure con rifacimenti di grandi classici.
Cast ben scelto, tutto fatto da bravi caratteristi (Clay Morrow, per dire, è impersonato da Ron Hellboy Perlman), dove pure a chi piacciono gli ometti avrà di che gioire, visto che il protagonista è il bonazzo Charlie Hunnam (già in Queer As A Folk), nei panni di Jax, che non se la cava affatto male. Sutter si ritaglia una particina interessante: è Big Otto. Comparsate da segnalare: Adam Arkin (Ethan Zobelle), Q'orianka Kilcher (vi ricordate la meravigliosa Pocahontas di The New World? Qui è Kerrianne, la figlia di Chibs), il leggendario Henry Rollins (è AJ Weston), e addirittura Stephen King (cameo rapidissimo ma indimenticabile, nella terza stagione).
Se devo essere sincero, mi hanno colpito molto Ryan Hurst (Opie) e Dayton Callie (Wayne Unser), oltre alla bellezza strana di Maggie Siff (Tara Knowles), che avevamo già apprezzato marginalmente in Mad Men (era Rachel Menken). Tra l'altro, se avrete occasione di vederlo in originale, sia Perlman, sia Hunnam che Hurst, hanno delle voci molto belle.
In settembre dovrebbe partire la quarta stagione, e la verità è ancora molto lontana...

20110215

stagioni


Seasons Of My Soul - Rumer (2010)


Se siete pronti per farvi spezzare il cuore da una nuova, magica voce femminile, ecco a voi Rumer, nata a Islamabad in Pakistan e cresciuta in Inghilterra. Prendete questo suo dischetto di debutto, e mettete subito la traccia sette, intitolata Thankful, oppure la quattro, Take Me As I Am. Poi ascoltate anche il resto, che può farvi sognare, a meno che non cerchiate del black metal.

Molto belle anche Healer (che parrebbe una cover, ma non sono riuscito a capire di chi, i crediti dicono che l'ha scritta un certo Churchill) e Blackbird.

Divenuta amica di Burt Bacharach (che è una sua forte influenza), colpito dalla sua voce, e che le ha scritto alcuni pezzi, finiti in un EP, Sarah Joyce in arte Rumer in onore della scrittrice Rumer Godden, canta dell'ottimo pop raffinato che non ha la pretesa di essere jazz, ed è molto meno noiosa di Norah Jones, per darvi un'idea; ci sono reminescenze seventies, anche di qualcosa più indietro, il disco è piacevolissimo, levigato, forse troppo, e la sua voce è delicatissima e perfino raffinata. Molti l'hanno accostata a Karen Carpenter e a Laura Nyro.

E' presto per gridare al miracolo, quindi intanto godiamoci questo debutto, e aspettiamo il suo prossimo lavoro.

Gianni


Gianni e le donne - di Gianni Di Gregorio (2011)

Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Giudizio vernacolare: storia d'un mezz'omo

Roma oggi. Gianni è un baby pensionato annoiato. Sua moglie lavora, e gli lascia commissioni spicciole da fare, sua figlia lo adora ma è in pena perché vorrebbe lasciare il fidanzato ma non sa mai trovare il momento. Nel frattempo, questo fidanzato si è installato in casa loro, e Gianni lo tratta come un figlio. Soprattutto, Gianni è alla mercé della madre, ultranovantenne, nobile decaduta a livello finanziario, ma che conserva le stesse abitudini di quando era ricca, vivendo nella villa alle porte della capitale, giocando a carte con le amiche, offrendo spuntini che sfamerebbero un battaglione, e bottiglie di champagne costose, facendosi assistere da una badante polacca 24 ore al giorno, ma chiamando il figlio in continuazione per qualsiasi banalità, spacciandola come urgentissima.
L'amico avvocato Alfonso, lo stuzzica, vedendolo appassire, sul versante sentimental-sessuale: gli dimostra che tutti quelli come lui, hanno l'amante. Non credendoci, ma arrendendosi poi all'evidenza, Gianni ingaggia allora una personale lotta per sentirsi di nuovo vivo, attraverso la ricerca di almeno un'avventura galante, con una donna che non sia sua moglie.

Altra grande, grandissima delusione, questo secondo lungometraggio di Gianni Di Gregorio, che mi aveva colpito moltissimo due anni e mezzo fa, con il suo folgorante debutto Pranzo di Ferragosto.
Il protagonista, ancora interpretato da lui stesso, è in pratica lo stesso Gianni del film precedente, con l'unica differenza che in questo ha una famiglia sua, e la madre (ancora la stessa spettacolare Valeria De Franciscis, classe 1915, scoperta proprio da Di Gregorio e "lanciata" col film precedente) possiede ancora qualcosa.
Ma questa volta c'è qualcosa che non funziona, e nonostante le buone intenzioni, e la durata snella (un'ora e mezzo), ci si annoia pure e i 90 minuti sembrano almeno due ore. Le buone intenzioni sono quelle con cui il regista, che firma la sceneggiatura insieme a Valerio Attanasio, prova a sviscerare le problematiche dell'uomo davanti all'invecchiamento, alla decadenza del corpo in confronto al desiderio sessuale, al senso di inutilità e di "trasparenza" rispetto alle altre persone, alla noia del nullafacente, al complicato rapporto con le donne a tutte le età.
Sono, forse, argomenti che andrebbero affrontati con un po' di semplicità in meno. La leggerezza che si evince da questo lavoro, e che era il punto di forza del lavoro precedente, si rivela inadatta in questo caso.
Si apprezzano ancora la poeticità dello sguardo verso una Roma non spettacolare, ma sempre bella, ma lo schema un po' ripetitivo del film lo fa sembrare, come detto poc'anzi, più lungo di quel che è in realtà, e piuttosto noioso, nonostante le recitazioni molto spontanee, come sempre (a volte un po' troppo, si nota qua e là che molti attori non sono professionisti).
Il punto si coglie, ma il film non riesce a trasmettere emozioni forti, o divertimento che vada più in là di qualche sorriso distribuito in alcuni momenti simpatici.
Peccato.