No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20110430

time and time again


Una y otra vez - Sergent Garcia (2011)

Bruno Garcia, visto che non lo conoscono in molti, seppure qualche singolo dei suoi Sergent Garcia sia stato ascoltato negli anni passati, lo avvicino sempre, e credo con qualche ragione, a Dani Carbonell dei Macaco e, ovviamente, a Manu Chao, un po' il capostipite del genere che va alla ricerca delle radici della musica latina, senza dimenticare di guardare all'Africa.
Il sesto disco della banda, che autodefinisce la sua musica salsamuffin, e che già, se non li avete mai ascoltati, vi danno un'idea di cosa vi aspetta, si chiama Una y otra vez (Bruno è francese di nascita, vicino al confine con la Svizzera, ma è di padre basco, altro punto di contatto con Manu Chao, ha vissuto i primi suoi anni a Bilbao e a Parigi, poi quando è stato più grande a Barcellona, e canta indifferentemente in francese e spagnolo, mentre quando canta in inglese la pronuncia lo tradisce, ma lo rende divertente), e nasce soprattutto dall'incontro con molti musicisti colombiani. Effettivamente, il reggaeton è ben presente, ma vi assicuro, e vi parla uno che il reggaeton proprio non lo sopporta, che non è che un'idea, molto mescolata con altre; inoltre, di questo genere si va alla radice, che affonda nei ritmi colombiani del passato (ascoltare Mi son mifriend). Naturalmente, mica c'è solo questa di influenze, ce ne sono molte altre: in Ojos inocentes il tango si incontra con il reggae, mentre ne El baile del Diablo i ritmi cubani la fanno da padrone, mentre in En mi mochila, dove Bruno illustra, a livello di testo, un po' la sua filosofia, sembra davvero di essere nell'Africa nera, nello spiazzo di un piccolo villaggio fatto di capanne di fango, ad assistere ad un ballo scaramantico, ma cantato in spagnolo. Bolero de nuevo è una grande ballata caraibica.
Ma, credetemi, quasi tutti i pezzi di questo disco hanno ragione di esistere, danno gioia e mettono voglia di muoversi. Ben fatto!

surfin' USA


Riding Giants – Surf estremo – di Stacy Peralta (2005)

Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: par d'essé a' trepponti

Spettacolare documentario che ripercorre la storia del surf, a partire dalle origini, presumibilmente polinesiane, e poi giù lungo il secolo scorso, i più importanti ‘’spot’’ e gli ‘’insediamenti’’ dei surfisti, alla ricerca dell’onda sempre più alta, dell’impresa più estrema.

Nonostante il lato ‘’filosofico’’ del surf venga toccato solo di sfuggita, e il taglio sia praticamente lo stesso usato per Dogtown And Z-Boys, sempre di Peralta, ricordiamolo, surfista e campione di skateboard, questo Riding Giants risulterà affascinante e appassionante anche a profani totali del surf. Le immagini sono mozzafiato, e la storia coinvolgente.
Colonna sonora, come sempre, di grande spessore rock.
Consiglio a tutti di vederlo in una sala con un grande schermo. Ne godrete.

20110429

Игрок



Il giocatore - di Fedor Dostoevskij (1866)

Nella seconda metà del 1800, Aleksej Ivànovic, narratore della storia, fa parte di una specie di famiglia allargata. E' infatti il precettore dei due figli piccoli di un vecchio generale vedovo, che sta aspettando, insieme al resto della famiglia, la morte della baboulinka, la nonna, che possiede una ricca eredità. Il generale ha anche una figliastra, Polina, della quale Aleksej è innamorato senza esserne ricambiato, e con la quale ha un rapporto quasi da schiavetto. Insieme a loro, nella città termale tedesca di Roulettenburg, famosa oltre che per le acque, per il suo casinò, si muove una compagnia legata da vincoli sospetti e poco chiari. C'è Mar'ja Filippovna, Mr. Astley, un inglese ricco, educato e piuttosto timido, il marchese francese De Grieux (anche se all'inizio è un conte), M.lle Blanche, anche lei francese, che è lì con la madre. Il generale è innamorato di M.lle Blanche, ma è evidente che senza eredità la francesina non lo impalmerà. De Grieux sembra tenere in pugno quasi tutti, escluso Aleksej, che non riesce a comprendere il perché. Polina è la prima che lascia intuire di dovere del denaro a qualcuno, incaricando Aleksej di giocare dei soldi alla roulette per conto suo. Ogni giorno si inviano telegrammi a Pietroburgo, nella speranza che, di ritorno, arrivi la notizia della morte della baboulinka. E invece...







Chiariamo, anche questa volta, che, dato il mio percorso "autodidatta" e poco classico, a proposito di letteratura, è questo il primo (e per il momento unico) libro di Dostoevskij che leggo. Noto che in molti sostengono sia uno dei migliori: non lo metto in dubbio. Di certo, ha una storia quantomeno curiosa, ed, in un certo qual modo esorcizza un problema serio che il russo aveva con il gioco. Esorcizza per modo di dire, visto che ebbe sempre gravi problemi di soldi a causa del suo vizio: almeno, così ci dice la storia.



Lo stile è ovviamente pomposo, formalissimo, adatto all'epoca (l'ho letto nella traduzione di Giacinta De Dominicis Jorio, la prima, del 1959, tra l'altro), ma nonostante ciò scorrevole e perfino divertente, seppur con un retrogusto amaro.



Trasporta correttamente indietro nel tempo, tra manierismi dell'alta borghesia, descrivendo le varie classi sociali, e curiosamente l'intreccio tra persone di diverse provenienze (intesa come nazionalità), inquadrando vizi e virtù che tutto sommato rimarranno indelebili nel corso del tempo.



Resoconto fedele di una patologia che sopravvive, e se possibile aumenta a tutt'oggi, come detto, diverte in superficie, ma, in fondo, è piuttosto amaro: sembra quasi, nel finale, di toccare con mano una sorta di rimpianto.



Pensate che è stato scritto in meno di un mese, per far fronte ai debiti (manco a dirlo) contratti al gioco, ed in contemporanea con la stesura di Delitto e castigo.

The Life and Death of Peter Sellers


Tu chiamami Peter – di Stephen Hopkins (2005)

Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio venacolare: popo' di personaggio dé

Cinebiografia di Richard Henry Sellers, in arte Peter. Difficile per chiunque confrontarsi con le fasi salienti della vita di un genio della comicità, ma non solo (ricordiamoci di quello che, in questa biopic, appare come il suo desiderio più profondo, a parte le donne: Oltre il giardino), il film in questione risulta certamente godibile, ma leggermente tendenzioso e, forse, poco approfondito sia in alcuni particolari (qualche film davvero importante dimenticato o non citato a dispetto di altri, una moglie dimenticata completamente – la prima, e non solo perchè non si vede di persona: Sellers dice chiaramente alla Ekland se vuole diventare la seconda signora Sellers, mentre sarebbe stata la terza -), sia dal punto di vista della caratterizzazione psicologica del grande Sellers.

In effetti, il film insiste sul fatto che Sellers sia un bambinone del tutto vuoto, che viva attraverso i suoi personaggi, e che il suo sfrenato desiderio di interpretare Oltre il giardino sia dettato dal fatto che il protagonista sia un uomo vuoto, felice di essere vuoto.
Nonostante sia arricchito di alcuni colpi di genio, come i titoli di testa, o i travestimenti di Rush/Sellers nei panni dei co-protagonisti che descrivono i loro rapporti col protagonista, forse sarebbe servito un regista più dotato d’inventiva. Il cast invece è pressochè perfetto, Rush strepitoso, la Theron è stupenda (e pensare che la vera Ekland ha preso un avvocato perchè non voleva essere interpretata da lei dato che ‘’troppo alta e troppo anziana, 27 anni contro i 20 di lei quando sposò Sellers’’), la Watson (Anne Howe, moglie) malinconica (meno di altre volte), Lithgow (Blake Edwards) sbruffone e Tucci (Kubrick) inquietante quanto basta; nonostante ciò, rimane l’impressione che da un tale ben di Dio, si sarebbe potuto tirar fuori molto di più.
Nota di merito impossibile da dimenticare al doppiaggio di Rush/Sellers ad opera di Pino Insegno, grandioso.
Certo che Sellers era un genio: osservate la ‘’soluzione’’ che trova quando la Loren lo respinge! Un genio che viveva in un’altra dimensione, probabilmente.

20110428

the humbling



L'umiliazione - di Philip Roth (2010)






Simon Axler è un famoso attore di cinema ma soprattutto di teatro, ormai sessantenne, che improvvisamente, perde il talento. Le sue ultime interpretazioni ricevono accoglienze tiepide e stroncature dalla critica, e lui cade in uno stato di depressione, per così dire "controllata", al punto che decide lui stesso di ricoverarsi in un ospedale psichiatrico per circa un mese (26 giorni). Lì conosce Sybil, l'unica paziente con la quale riesce a relazionarsi, una donna più giovane di lui che è caduta in depressione perché non è riuscita ad esprimere il suo sdegno per il sospetto che suo marito abbia abusato della figlia piccola.



Dopo il periodo di ricovero, Simon torna a casa, e si ritrova da solo, visto che la moglie lo ha abbandonato per correre al capezzale del figlio avuto dal primo matrimonio, tossicodipendente. Sta leggermente meglio, ma rifiuta ogni offerta di tornare sul palco. Si isola.



L'isolamento è rotto da Pegeen, che lo va a trovare nella sua casa di campagna. Pegeen Mike (il nome completo) è la figlia di una coppia di amici ed ex colleghi attori, che lui ha visto nascere, ma che adesso è una bella donna di circa 40 anni. Pegeen è sempre stata convinta di essere lesbica, ed ha avuto solo relazioni omosessuali, ma adesso...






Vi avverto subito che dovrete prendere questa specie di recensione con le molle, visto che, nonostante la sua sterminata produzione letteraria, nonostante sia considerato un pilastro della letteratura americana contemporanea, questo è il primo libro di Roth che leggo. Per quel che può contare (poco), mi sono fatto un'idea delle sue tematiche vedendo due film tratti da suoi romanzi (La macchia umana dal libro omonimo, e Lezioni d'amore da L'animale morente), e leggendo qualcosa su di lui.



L'umiliazione è un libro scritto in una prosa asciutta ma non arida, che evidentemente affronta temi cari allo scrittore: l'invecchiamento e il desiderio sessuale, oltre naturalmente alla perdita di ogni certezza, come capita al protagonista Simon. Avvince il giusto e scorre bene, è diviso in tre parti ed è piuttosto breve (poco più di 100 pagine), riesce a rendere abbastanza bene l'angoscia del protagonista, ma manca di qualcosa di più profondo. Inoltre, la terza parte, dove le "sperimentazioni" sessuali abbondano, sembra posticcia, messa lì a bella posta per stupire o, quantomeno, per spiazzare, e certi panegirici sul rapporto tra il protagonista, Pegeen e i di lei genitori, risultano a tratti pesanti.



Pur non essendo un esperto, non credo sia l'apice del lavoro di questo scrittore. Ma, di certo, non è così male, e si legge in poco tempo.

l'amore al tempo dell'esercito (israeliano)


Yossi & Jagger - di Eytan Fox (2003)

Giudizio sintetico: si può evitare (2/5)
Giudizio vernacolare: boia, artro che esercito, vello è 'r casino dell'Ardenza, manca la Sitrì

Gli argomenti ci sarebbero tutti per fare un film interessante: l'amore tra giovani in tutte le sue sfaccettature, in particolare l'amore gay dei 2 ragazzi del titolo, i contrasti sulla maniera di vivere la propria "diversità", l'esercito israeliano (tutti i ragazzi in questione sono, appunto, nell'esercito israeliano), le "scaramucce" continue con i palestinesi, quindi, in buona sostanza, la guerra.


In effetti però, il film non convince. La prima parte sembra una puntata di "Mtv Undressed" ; schermaglie sentimentali all'interno di questa piccola "comunità" molto patinata, fin troppo bella, dove tutti si vogliono bene, dove perfino il colonnello, più anziano, che si sbatte una delle soldatesse, non è poi così odiato. Piatto e senza verve, buca lo schermo solo l'attrice che interpreta Yaeli, Aya Steinovitz, innamorata senza speranza di Jagger, già vista in "Matrimonio tardivo", una sorta di Liv Tyler prima maniera (prima della…cura ingrassante).

Nel finale, la tragedia, che non riesce però a toccare gli animi fino in fondo. Lo schema era senz'altro di sfruttare il contrasto tra la "limpidezza" della parte introduttiva con la tragedia finale, ma non ha funzionato.

20110427

rovinati


Musica rovinata - Fratelli Calafuria (2011)

Avete nostalgia dei primi Ministri e non vi dispiace l'elettronica mista al rock? Ecco quello che fa per voi. Segnalatisi (e segnalati) già 3 anni fa con il loro debutto Senza titolo - Del fregarsene di tutto e del non fregarsene di niente, i milanesi (che con quel nome fanno sobbalzare i livornesi), abbandonati dal batterista Tato Vastola rimangono in due (alla batteria su questo disco si alternano Giulio Ragno Favero - One Dimensional Man - e Moreno Ussi - La Crisi -), e tornano con un disco rumoroso, a tratti furioso, demenziale superficialmente ma invece studiatissimo fin nei minimi particolari, che stende già con i primi pezzi, spiccatamente elettro-punk, dopo di che vanno avanti fino alla fine con tecnica sopraffina (perfino nella stesura dei testi) ma senza quasi darlo a vedere.
Spettacolari Disco tropical (featuring Dargen D'Amico), Ilfattodeicdincantati, Musica rovinata, Fare casino, Pezzo giallo, ma pure tutto il resto, probabilmente molto meno d'impatto al primo ascolto, è strutturato e parecchio interessante. Consigliato.

28 days later


28 giorni dopo - di Danny Boyle (2003)

Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: ganzetto

Ritorna l'eclettico Danny Boyle, e questa volta si cimenta con il genere "catastrofista". Lo fa alla sua maniera, ed il risultato è positivo.
Incipit claustrofobico (liberazione di alcune scimmie cavie di laboratorio da parte di un commando animalista, che genera la diffusione immediata del terribile virus) e "risveglio" allucinante (un pony express si sveglia dal coma che gli ha nascosto l'accaduto, esce dall'ospedale e si ritrova a vagare in una Londra deserta, quasi una contraddizione in termini), avviano una prima parte ottima, che tiene assolutamente incollati alla poltroncina solo col terrore.

Il richiamo palese al Romero de "La notte dei morti viventi" porta avanti la storia, insieme alla formazione di un gruppo di sopravvissuti al virus che si coalizzano verso una improbabile salvezza; le riprese in digitale e alcuni "inserti" visivi aiutano l'atmosfera.
Nella seconda parte, come sempre accade nelle storie, ma in particolare in quelle di questo tipo, la sceneggiatura si perde un po', cercando una strada per il finale; c'è tempo per creare una situazione "maschilista" e "militarizzata" disdicevole ma, chissà, veramente, come ci comporteremmo in un frangente del genere?
Non si "sale" nella filosofia, ma il risultato e tutt'altro che da buttare.
Da notare un'ottima soundtrack (Godspeed You! Black Emperor, Grandaddy tra gli altri), il passaggio alla tecnica di ripresa "tradizionale" nell'ultima sequenza (quella, evidentemente, della rinascita della speranza), e, in fondo ai titoli di coda, il ringraziamento ai vigili urbani di Londra per aver tenuto a bada il traffico (tra l'altro, come insegnano i saggi, dando un'occhiata nei Trivia di Imdb.com ci si accorge che, appunto, l'eclettico Boyle non ha "utilizzato" solo i vigili urbani)!

20110426

attaccato con


S.C.O.T.C.H. - Daniele Silvestri (2011)

Settimo disco in studio per il cantautore romano, a mio giudizio fin troppo sottovalutato nel panorama italiano. Ancora una volta mi ritrovo a stupirmi, ascoltando le sue canzoni, per la raffinatezza degli arrangiamenti, levigati e di gran classe, e per i testi, mai banali e sempre, come dire, "sul pezzo".
Partiamo dai pezzi diciamo non originali. Io non mi sento italiano dell'immenso Gaber è il chiaro segno di un ormai irreprimibile sentimento di inadeguatezza, che del resto pervade l'intero disco, seppur condita dalla solita ironia della quale è più che capace. La chatta, parodia "attualizzata" de La gatta di Gino Paoli, alla quale lo stesso Paoli partecipa, è forse l'unico pezzo "leggero" del disco, anche se affronta un tema più che attuale.
Ma, dicevamo, tra i pezzi originali, ci sono delle vere e proprie perle. Che dire dell'iniziale Le navi, un minuto e quarantacinque secondi di emozione piano e voce, venata da una sana malinconia, seguita da una dolcissima Sornione, composta e cantata insieme a Niccolò Fabi, testo amaro che dà subito le coordinate dello stato d'animo che attraversa tutto il lavoro. Bella Acqua stagnante (a livello vocale la prova migliore del disco), divertente Fifty-fifty, interessante Monito(r), chiaramente dedicata al Presidente Napolitano.
Per dire delle altre collaborazioni, Precario il mondo (insieme a Raiz) è un po' la sua Goodbye Malinconia, nel senso che tratta la voglia di andarsene ("non ho più voglia di abitare lo stivaletto"), Questo paese (riflessione pure troppo esplicita già dal titolo) insieme a Stefano Bollani e al suo piano, la discreta Acqua che scorre insieme a Diego Mancino, e il pezzo "teatrale" de Lo scotch, una sorta di dub-reggae che vede insieme niente popo' di meno che Bunna, Peppe Servillo ed Andrea Camilleri, con quest'ultimo che, alla fine, fa venire letteralmente i brividi.
Ancora una volta, tanto di cappello a Silvestri.

milioni


Millions – di Danny Boyle (2005)


Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Giudizio vernacolare: 'nzomma


Damian e Anthony abitano a Manchester, e sono da poco orfani di madre. Il padre Ronnie però, non gli fa mancare niente; anzi, compra una nuova casa in un quartiere più bello e tranquillo (a parte i ladri per Natale, è statistico), e tutti insieme vanno ad abitare lì. Mancano pochi giorni all’ingresso dell’Inghilterra nella moneta unica europea, e Damian è in fissa con la religione; conosce tutti i santi, compresi i loro anni di nascita. Ha visioni su di loro. Si costruisce un rifugio di cartone e si diverte a sentirlo tremare quando passano i treni lì vicino. Un giorno, dopo il passaggio di un treno, il rifugio è distrutto da una pesante borsa (Nike, una mega-marchetta). La borsa è piena di sterline, e restano pochissimi giorni per spenderle. Damian mette al corrente Anthony, che ha le idee più chiare di Damian ed è anche molto meno idealista e sognatore. La cosa, come è ovvio, si complica non poco.

Boyle è eclettico, probabilmente uno dei registi più eclettici che ci siano in giro. Guardate la sua filmografia. Un debutto interessantissimo con un thriller inusuale (Piccoli omicidi tra amici, 1995), il suo capolavoro con una storia psichedelica e adrenalinica di droga (Trainspotting, 1996), un paio di flop americani con storie d’amore strane (Una vita esagerata, 1997, The Beach, 2000), un film fanta-apocalittico niente male (28 giorni dopo, 2003), e adesso un film che pare fatto apposta per le famiglie. Non completamente riuscito, purtroppo.
Colpisce la fotografia, accesa e allegra, un po’ strana per chi considera Manchester grigia, ma è così che l’ha voluta Boyle, perchè è così che la vede lui (come dargli torto, ognuno ha a cuore le proprie radici del resto); colpiscono le acrobazie di regia, i movimenti di macchina e gli effetti di velocità sui fotogrammi, cose che caratterizzano lo stile dell’inglese; colpisce Alexander Nathan Etel, il bambino che interpreta Damian, così come le caratterizzazioni dei bambini in generale; meno quelle degli adulti.
La sceneggiatura, anche se confusionaria (e visionaria), nella prima parte regge bene e diverte, mentre nella seconda affoga verso un finale scialbo.
Un film non riuscitissimo, un regista del quale continuiamo a fidarci.

20110425

caduto



Fallen - Burzum (2011)






Pensavo di parlare male del nuovo disco di Varg Vikernes in arte Burzum, ma mi sono fermato un momento a riflettere se, per caso, questa cosa non fosse una cosa poco intelligente, visto il personaggio (roghi di chiese, assassinio, furto con minacce, possesso d'armi, evasione, paranoia e manie di persecuzione, simpatie naziste, almeno, da quanto risulta).



Scherzi a parte, personaggio seminale del black metal, con una storia tormentata (vedi sopra), senza dubbio però musicista appassionato (a parte fare tutto - Burzum è una one man band - ha continuato a comporre anche in prigione, e siccome non gli è stato permesso di usare gli strumenti "classici", ha inciso due dischi ambient facendo tutto col sintetizzatore), lo stile Burzum è innanzitutto, fuori dal tempo, oggi, chitarre con distorsioni antichissime, seppur taglienti come lame, e struttura dei pezzi iper-ripetitiva, che, se i benevolenti sottolineano essere "ipnotica", in verità può risultare piuttosto pallosa.



Alternanza tra growling a volte davvero invasato, e clean vocals vagamente inquietanti, batteria minimale ma efficace, che contribuisce però a dare un senso quasi amatoriale al suono e all'intera struttura, il disco non è propriamente da buttare, ma sono certo che sia destinato ad un pubblico ristretto.

Carlos - le locandine


Ilich Ramírez Sánchez

Carlos - di Olivier Assayas - Miniserie completa (3 episodi; Canal+) - 2010


Il venezuelano Ilich Ramírez Sánchez, conosciuto come Carlos (nome di battaglia da lui scelto in onore di Carlos Andrés Pérez, presidente venezuelano per due volte non consecutive, e qui c'è subito da chiarire un fatto: questo è quello che il protagonista dice nella miniserie, ma il tempismo non quadra, visto che dalle biografie sembra che abbia assunto questo nome già nel 1970, mentre Pérez sarà eletto per la prima volta nel dicembre del 1973, e la spiegazione con la quale lo stesso Carlos giustifica l'assunzione del nome al Ministro per il Petrolio venezuelano - il fatto che Pérez abbia nazionalizzato il petrolio per far si che il Terzo Mondo potesse svilupparsi al pari del Primo - sembra forzata), è considerato un terrorista/mercenario, mentre lui si considera un combattente comunista (antisionista e convertito all'Islam) per la causa palestinese, ed è attualmente detenuto in Francia, con condanna a vita.

Personaggio dall'ego particolarmente ingombrante, nato nel 1949 a Caracas, chiamato Ilich da suo padre, avvocato marxista, in onore di Lenin (suo fratello si chiama proprio Lenin), studia a Caracas, Londra e Mosca, si addestra per la guerriglia prima a Cuba, poi ad Amman in Giordania in un campo di addestramento del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Entra nello stesso FPLP nel 1973, dove acquista velocemente prestigio e popolarità, anche mediatica.

Nelle sue parole, le sue convinzioni sono assolute. Ma oltre a parlare cinque o più lingue, ad essere un intellettuale e al tempo stesso un ottimo guerrigliero, dichiararsi comunista, antisionista al servizio della causa palestinese, che da sempre, sostenne, doveva internazionalizzarsi, è stato anche un grande viveur, amante delle donne, dei sigari e dei superalcolici. Assayas ci racconta la sua storia dal 1973 fino al suo arresto, nel 1994.



E se anche Assayas, regista, sceneggiatore e critico cinematografico francese di culto, "passa"

alla televisione, qualcosa deve significare. Instillato solo per un momento il seme della polemica,

passiamo al nocciolo della questione. Dallo scorso 21 aprile anche in Italia su FX, arriva la miniserie vincitrice del Golden Globe 2011 (per la categoria mini-serie; le altre quattro nominate erano The Pacific, I pilastri della Terra, Temple Grandin - Una donna straordinaria e You Don't Know Jack - Il dottor morte), e vi dico subito che i tre episodi da quasi due ore ciascuno (il totale è di 333 minuti) sono da vedere. Grandi interpreti, storia intrigante di un personaggio controverso e sicuramente fuori dagli schemi, e un montaggio che non lascia mai tirare il fiato, affascinante da vedere anche nella versione originale (si parlano inglese, arabo, tedesco, spagnolo, francese, ungherese, giapponese, russo e pure si ascoltano un paio di brevi frasi in italiano), per convincervi a vederlo basterebbe che voi vedeste una scena nel secondo episodio: la terribile e nervosa Nada, dopo l'operazione che rese famoso Carlos in tutto il mondo, il sequestro di 60 diplomatici tra cui molti ministri, il 21 dicembre 1975 alla sede OPEC di Vienna, arriva, con un amico, alla frontiera svizzera, dove scatena una sparatoria con relativo inseguimento, il tutto sulle note incalzanti di Sonic Reducer dei Dead Boys.



Assayas è regista muscolare che però non dimentica del tutto i contenuti, al contrario, e porta lo spettatore nelle pieghe di un mondo che adesso, dopo la caduta del Muro, non esiste più, ma che senza dubbio, pur cambiando, chissà cosa ci nasconde, il mondo dei servizi segreti, delle alleanze sotterranee, delle protezioni politico-terroristiche, delle organizzazioni illegali.

Per fare questo, usa un feticcio, che è l'attore venezuelano Edgar Ramírez, che interpreta Carlos con una fisicità stupefacente, da grande attore, che ci costringe da qui in avanti a seguire attentamente i suoi passi. Dimagrisce, ingrassa, parla cinque lingue, interpreta splendidamente questa figura, come detto, quantomeno controversa.

Tutto il resto del cast è perfettamente adatto e diretto (un'altra "scoperta" formidabile è Nora von Waldstatten, che interpreta Magdalena Kopp, la prima moglie di Carlos, madre della di lui figlia Elba, austriaca dalla pelle di porcellana e dai lineamenti quasi inuit, un po' alla Bjork), e in definitiva la mini-serie è godibile e interessante, da guardare con attenzione, facendo caso a tutti i legami, le alleanze politiche, e gli si perdona anche qualche semplificazione di troppo su alcuni fatti pubblici e privati, data l'estensione della storia.

Ne esiste anche una versione cinematografica, la cui durata si aggira tra i 165 e i 185 minuti, ma che, se dovesse uscire al cinema in Italia (non ci credo per niente), sconsiglio, dopo aver visto quella estesa e completa.



Per approfondire il personaggio, un'intervista, e un articolo d'epoca del Corriere.

20110424

controversie


Mi sono imbattuto per caso nella bio di Norman G. Finkelstein mentre cercavo notizie su questo libro di Michael B. Oren recensito qualche giorno fa. Personaggio controverso ma interessante, in pratica, ebreo americano, figlio di ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio tedeschi, che contesta continuamente l'atteggiamento israeliano verso i palestinesi.
Qualche giorno fa mi sono imbattuto in un bel documentario trasmesso da Al Jazeera International (da quando ho il digitale terrestre, poco, in assoluto la mia rete televisiva preferita, la migliore) su di lui, dal titolo American Radical. Non ho capito tutto, ma consiglio a chi volesse approfondire di vederselo qui.
Io quanto prima mi procurerò e leggerò il suo L'industria dell'Olocausto: lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei.

andiamo



C'mon - Low (2011)






A parte che una band che rilascia una foto promozionale come quella che ho visto di recente, con loro tre seduti su un divano, dove Mimi Parker (voce e batteria, anche sulla copertina di questo ultimo C'mon) indossa un paio di ciabatte inguardabili, andrebbe odiata solo per questo, mi ricordo distintamente che avevo trattato malissimo il precedente Drums And Guns, disco del quale ricordo solo il titolo, e che di certo non andrò a riascoltarmi per dare ragione a chi immagina che sia rincoglionito, la cosa strana è che questo disco dei Low, il nono, non mi dispiace affatto, seppure siano sempre i soliti lamentosi polentoni di Duluth, Minnesota (città famosa per aver dato i natali pure ad un certo Robert Allen Zimmerman).



Per dire, la lunga cavalcata (sempre lenta eh, per carità) con inizio rumorista Nothing But Heart, un pezzo semplicissimo e perfino scontato, un pezzo che sembra una roba che fai in sala prove per scaldarti le mani, ha un fascino romantico che è innegabile. Così come gli altri pezzi del disco, dove quelli in cui canta Alan Sparhawk (il marito di Mimi, anche alla chitarra) mi rammentano lo spleen dei Madrugada, mentre quelli dove canta la Parker sono forse meno d'effetto, ma alcuni davvero carucci. Non male.

la piscina


The Pool – di Boris von Sychowski 2003

Giudizio sintetico: orrendo (0/5)
Giudizio vernacolare: fa ca'à!

La domanda, come diceva Lubrano, sorge spontanea, e come ha detto chi era con me al cinema: “ma che glieli produce film così?”.
Per terminare il tourbillon di citazioni, come diceva il profeta di Quelo: “La risposta è dentro di te. E purtroppo è sbajata!!”.
Horror movie da campus americano, girato a Praga con cast tedesco (che però sembra americano, tutti carini e glabri i maschietti, tutte fighe le ragazze).

Originalità zero. Dialoghi sotto terra. Suspence zero. Musica zero. Qualche accenno di risveglio dal torpore durante gli assassinii per alcune tecniche di “accoltellamento” particolarmente “fastidiose”.

Meglio gelato e passeggiata.

20110423

fulmine nero


Black Lightning - The BellRays (2010)

Ci credereste che questo è l'ennesimo disco di questa band californiana di Riverside, e che si sono formati attorno al 1990, per arrivare poi al debutto sulla lunga distanza nel 1998? Io stentavo a crederci, non avendone mai sentito parlare, prima che li segnalasse l'amico Filo e li riprendesse pure l'amico Monty.
Quartetto super classico, chitarra (Bob Vennum, marito della cantante, la band nasce proprio come duo), basso, batteria e voce, sono caratterizzati da riff di chitarra molto AC/DC e dalla voce superlativa (e nera, come la proprietaria) di Lisa Kekaula (che ha collaborato pure con i Basement Jaxx), e meritano certamente uno o più ascolti, anche solo per il loro essere orgogliosamente e testardamente indipendenti (ecco perché non li si conosce molto). Naturalmente, dopo i due link "amici" che ho piazzato, c'è poco da aggiungere. O meglio, in effetti qualcosa c'è: il mio personale punto di vista.
Anch'io ho pensato agli Skunk Anansie ascoltandoli, chissà, forse perchè ricordavo la recensione di Monty, forse no, e li ho pensati perché, se dovessi descriverli brevemente, usando una delle cose che le band odiano di più, e cioè che li si accosti a qualcuno di più famoso, direi di immaginare gli Skunk Anansie, appunto, con venature di soul e con una cantante dalla voce che arriva forse meno in alto, ma che risulta senza dubbio più potente, e che, soprattutto, ha la voce di una nera, mentre quella di Skin potrebbe essere di una bianca qualunque, anche se dotatissima.
Il disco in questione presenta dieci tracce, tre delle quali, The Way, Anymore e Sun Comes Down vanno trattate a parte, in quanto, soprattutto la prima e la terza, classicamente soul, con tanto di fiati, tastiere e coretti. Non sono male, intendiamoci. Anymore è una sorta di ibrido di passaggio: una specie di power ballad in cui, appunto, il soul'n'roll elettrico e teso dei BellRays mostra il lato romantico assieme ai muscoli. Gli altri sette pezzi sono divertenti, orecchiabili, ma duri e tiratissimi, a partire dalla title-track posta in apertura come una dichiarazione di intenti. Capaci di anthem rock and roll quali Everybody Get Up, o di potenziali tormentoni singolabili come Power To Burn, la voce della Kekaula fa la differenza. Riesce a fondere da sola il fascino soul con la potenza dell'hard rock. Un ibrido tanto semplice quanto intrigante.

caché


Niente da nascondere - di Michael Haneke (2005)

Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)

Giudizio vernacolare: roba da malati

George è un intellettuale, e conduce con successo una trasmissione televisiva di letteratura molto seguita. E' sposato con la bella Anne, che lavora in una casa editrice di un amico comune, hanno un figlio adolescente, Pierrot, una bella casa, una vita agiata piena di amici colti. Non gli manca niente.
Un giorno, misteriosamente, ritrovano davanti casa una busta di un supermercato con dentro uno strano disegno, fatto con mano bambinesca, e una videocassetta. Nella videocassetta si vede la loro casa ripresa dall'esterno. Le ipotesi si sprecano, ma la tensione si fa sempre più forte man mano che continuano ad arrivare videocassette e disegni strani. Il rapporto tra George e Anne si guasta, così come quello tra i genitori e il figlio Pierrot. George si fa un'idea precisa di chi sia il colpevole e lo minaccia. La storia si complica.

Haneke è uno di quei registi che, a mio parere, va giudicato soprattutto per il suo lavoro globale. E' difficile apprezzare un suo film se non se ne conoscono altri, molto difficile.
Anche questo lavoro contiene una variazione sullo stesso tema portante di tutta la sua opera: la paura. La paura innestata in una situazione assolutamente agiata e benestante, compromette la stabilità anche di persone ragionevoli. Vi basti questo, per apprezzare questo film. Che l'impianto "thriller" non interessi ad Haneke si capisce dal finale, che non vi svelo per ovvi motivi.
Non vi inganni l'apparente piattezza con la quale si susseguono gli eventi, anche i più destabilizzanti: la vita è così, se la si guarda dall'esterno. Anche se Haneke, già con la scena iniziale, meriterebbe un premio per come si prende gioco dello spettatore. Vedere per credere.
Binoche e Auteuil forniscono una prova nella norma, non sopra le righe, a conferma della teoria esposta sopra.
Film fuori dagli schemi, come consuetudine di Haneke. Siete avvertiti.

20110422

love is talking


Paolo Benvegnù + La fame di Camilla, sabato 2 aprile 2011, Firenze, Viper theatre

Lezioni d'italiano si intitola il ciclo di serate/concerti che vede succedersi sul palco del Viper gli artisti e le band italiane più interessanti, attualmente in tour; lezione di concerto, o di stile, si potrebbe intitolare questa serata, che ha come attrazione principale Paolo Benvegnù e la sua band.

Ottima l'affluenza di pubblico, aprono i pugliesi La fame di Camilla, che per me sono una novità, e seppure il loro genere, un indie-pop soffice che richiama un po' la scena britannica, non sia propriamente il mio favorito, si fanno apprezzare. Sono in quattro, formazione classica, basso batteria e due chitarre, dove uno dei due chitarristi canta pure, e, curiosità non da poco, si chiama Ermal ed è albanese di nascita. Nel repertorio dei ragazzi, infatti, anche un pezzo in albanese, Ne doren tende (nel palmo della tua mano), ed un altro che si intitola 28-03-97, data della tragedia della Kater I Rades, il barcone carico di immigrati albanesi che affondò in seguito allo scontro con una nave militare italiana.

Lezioni, si diceva. Il concerto di Benvegnù e i suoi si può schematicamente riassumere così: esecuzione del nuovo disco Hermann nell'esatto ordine della tracklist, da Il pianeta perfetto a L'invasore (dove naturalmente il batterista Andrea Franchi rimane da solo sul palco, canta ed imbraccia la chitarra), dopo di che la band rientra per i bis, che naturalmente sono sei pezzi irrinunciabili, due dei quali degli Scisma: Troppo poco intelligente e Rosemary Plexiglas, oltre a La schiena, Il mare verticale, Io e il mio amore e Cerchi nell'acqua.
Lasciando per un momento da parte la bellezza di ognuno dei pezzi che Benvegnù ha scritto nella sua carriera, compreso quelli con gli Scisma, la lezione di stasera viene da un paio di fatti a mio giudizio salienti. Il primo è che, evidentemente, Paolo e i suoi considerando Hermann una sorta di concept sull'essere umano e la sua evoluzione, dalla conquista delle terre allo "sviluppo" dei sentimenti, lo eseguono in ordine. Il secondo è che, mia personale convinzione, non per questo sposata da tutti gli appassionati di musica in generale, si va ad un concerto per avere qualcosa che sul disco non c'è: i concerti dove la band o l'artista in questione ripropone pedissequamente la versione dei suoi pezzi da studio, e la traspone esattamente sul palco, non mi piacciono molto.
Ecco allora la seconda lezione di Paolo Benvegnù e la sua band, tra parentesi, rodata fin nei minimi particolari: ogni pezzo è diverso, ha qualcosa di differente dalla sua versione su disco. Quindi, mentre sullo schermo posto dietro al palco scorrono immagini e scritte inerenti in qualche maniera al contenuto dei testi, le versioni dei pezzi di Hermann, se pur nuove di pacca, hanno piccoli mutamenti, mentre nei bis i pezzi vecchi sono praticamente stravolti. E poco importa se, come succede per Rosemary Plexiglas, l'arrangiamento e la versione proposta proprio non mi piace: Il mare verticale e Io e il mio amore sono spettacolari. Senza contare la superba prova sui pezzi nuovi.
Da sottolineare che, durante l'esecuzione, appunto, di Hermann, Benvegnù non si lascia troppo andare a dialoghi col pubblico, piuttosto numeroso come detto in apertura, mentre invece sbraga decisamente (in maniera simpatica, sia chiaro) durante i bis.
Bravi tutti.

segreto


Confidence – di James Foley (2003)


Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: 'nzomma


Nella tragica penuria d’uscite cinematografiche in questa estate 2003, un film senza troppe ambizioni come questo diventa importante come una secchiata d’acqua fresca addosso, in questo forno globale.
Cast variegato e ricchissimo, con veterani in piccole ma fondamentali parti (Dustin Hoffman, Andy Garcia), emergenti interessanti (Rachel Weisz, Edward Burns che assomiglia sempre di più pericolosamente, soprattutto nell’inespressività, a Ben Affleck…e pensare che è - era? - pure un buon regista!) e caratteristi fenomenali (Paul Giamatti su tutti), struttura a scatole cinesi e flashback, richiami vari (The Snatch, L’inglese ecc.), scorre ottimamente fino alla fine, stentando un po' nella seconda parte.
Si parla di gangster e di truffe. Si può vedere.

20110421

tante risate a Rio de Janeiro


Recensione di Alessio.

Rio - di Carlos Saldanha (2011)

Rio è la storia di un pappagallo che si chiama Blu, che fa un viaggio con la sua padroncina.
Mi è piaciuto perché le situazioni erano buffe, anche quando Blu era in pericolo.
I disegni sono molto belli, ci sono tanti colori, ci sono tante buffe canzoni e musiche.
Erano buffi anche quelli che lo hanno rapito.
Blu e la sua fidanzata sono, nel film, esemplari unici.

Bello! Voto 10+9+10=29 per le risate fatte.

terminatrix


Accabadora - di Michela Murgia (2009)

Sardegna, anni '50. Siamo in un paese chiamato Soreni. Maria, sei anni, è la quarta figlia femmina di Anna Teresa Listru, povera e vedova. Tzia Bonaria Urrai invece è benestante (relativamente, per quella terra e per quell'epoca), anziana (dimostra anche più anni di quelli che ha realmente), vedova "di un marito che non l'aveva mai sposata", e senza figli ("non mi si è mai aperto il ventre").
In base ad un'usanza probabilmente sarda, ma chissà, dettata da un mix di necessità, diseguaglianza sociale e pragmatismo semplice ma efficace, Maria diventa fill'e anima (plurale fillus de anima) di Bonaria. Senza tagliare i ponti con la famiglia biologica, dietro una ricompensa in natura, Maria viene accolta nella grande casa di Bonaria, dove ha una stanza tutta sua (che, inizialmente, fatica ad occupare), e pasti ricchi, se confrontati a quelli che aveva avuto nei sei anni in casa Listru. Come una figlia.
Bonaria fa la sarta, ma in realtà vive di rendita; inoltre, a volte esce di notte. Maria ci metterà un po' a capire perché.

Come spesso mi capita, forse per snobismo, forse per evitare una sorta di pressione, ho atteso pazientemente che l'eco dei premi vinti da questo libro diventasse sordo, e l'ho letto. Non mi aspettavo un libro così snello (164 pagine), e, non so perché, neppure una storia ambientata in una Sardegna del passato. Nonostante qualche giustificata critica (mancato approfondimento della relazione tra Maria e Bonaria, "fuga" in continente, storia semi-sentimentale in quel di Torino), il mio giudizio su questo lavoro della scrittrice che, ricordiamocelo, ha esordito con il libro Il mondo deve sapere, che ha ispirato, ad oggi e a mio modesto parere, il miglior film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti, è ampiamente positivo.
La Murgia ha il merito di usare una bella prosa, al tempo stesso forbita, arcaica e, molto sottilmente, velata di sardo, tra l'altro riuscendo sia con i dialoghi, sia con il semplice racconto, a forgiare frasi che sembrano scolpite nel marmo, e provenire dritte dalla saggezza popolare, a trasportare il lettore in una realtà non così distante, ma avvolta da una sorta di misticismo cattolico in salsa quasi stregonesca, ad affrontare, con lo "stratagemma" dell'accabadora, il tema dell'eutanasia, e perché no, perfino dell'adozione, con la "rivelazione" dell'usanza dei fillus de anima. I personaggi del libro hanno "la terza elementare" ma rivelano un'umanità profonda e commovente, e spesso l'autrice, così come si farebbe in un film con bravi attori, lascia parlare il non detto. Per questo, le critiche alla brevità e all'eventuale approfondimento del rapporto principale della storia, quello tra Maria e Bonaria, potrebbero anche trovare risposta in una scelta precisa della scrittrice.
Breve ma intenso, e pure discretamente profondo, un lavoro che lascia sperare in un radioso futuro letterario per questa sarda dalla faccia simpatica, che, pare di capire, è stata lei stessa fill'e anima (inoltre, il libro è dedicato A mia madre. Tutt'e due.).

les fleurs du Coran


Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano – di François Dupeyron (2003)

Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)

Giudizio vernacolare: bellino

Se, quando uscì, si fosse andati a vedere questo film caricati da tutta l’attesa che la stampa vi aveva messo sopra, se ne sarebbe usciti delusi.

E’ un film molto semplice, con una storia, tutto sommato, senza scossoni, anche se a raccontarla non sembrerebbe (famiglia disgregata, infanzia fra le battone, morte di un genitore…).
Forse, mi sono detto alla fine, il succo è tutto lì, nella semplicità dell’arabo, nella sua assoluta mancanza d’ipocrisia, particolarità che lo fa entrare così bene in sintonia con il minorenne protagonista.
Forse un manuale per trattare con i giovani? Non ne ha l’arroganza. Magari un piccolo suggerimento.

20110420

six days of war


La guerra dei Sei giorni. Giugno 1967: alle origini del conflitto arabo-israeliano - di Michael B. Oren


Quando, parecchi anni fa, comprai questo libro, non mi sono minimamente interessato su chi fosse l'autore. Il libro è del 2002, e l'autore è un ebreo nato negli USA, professore universitario, storico, saggista, editorialista, ed infine attualmente, ambasciatore israeliano negli USA. E' stato pure un soldato israeliano, per la precisione un paracadutista, ed è stato in prima linea nella guerra del Libano del 1982, dopo di che, nella guerra del Libano del 2006, e nella guerra Israele-Gaza del 2008/2009, ha assunto compiti di portavoce militare.

Detto questo quindi, non c'è da attendersi un punto di vista super partes, anche se, come si dice a volte, "la storia la scrive chi vince" (a parte in Italia, dove la storia la scrive chi vince le elezioni, e non le guerre, ogni riferimento alla polemica sui libri di testo di qualche giorno fa è voluto). Addirittura, il libro di Oren, premiato come libro storico dal Los Angeles Times, e divenuto quasi un best-seller negli USA, è stato duramente criticato da Norman G. Finkelstein, storico ebreo statunitense atipico (da sempre critico contro "L'industria dell'Olocausto", considerato persona non grata in Israele dal 2008 per la durata di 10 anni).

Premessa quindi la parzialità della narrazione di Oren, seppure l'autore citi centinaia di fonti anche arabe, a supporto della sua monumentale ricostruzione, per me che, nato solo un anno prima degli eventi, ero da sempre molto curioso a proposito di questa guerra continuamente citata, e che senza dubbio ha lasciato un grosso segno sul Medio Oriente, il libro è servito.

Nonostante la marea di note, che, si sa, complicano un po' la lettura, rendendola non propriamente scorrevole, lo stile di Oren è intrigante, e riesce a creare una grandiosa attesa spiegando i fatti antecedenti allo scoppio della guerra, dopo di che passa ad uno stile incalzante, che proietta il lettore man mano sui tre fronti del conflitto.

Le figure storiche "ricostruite" nel libro, quelle che hanno in qualche modo "partecipato" agli eventi, Gamal Abd el-Nasser, Lyndon Johnson e tutto lo staff della Casa Bianca, Hussein di Giordania, Aleksej Kosygin, Moshe Dayan, Yitzhak Rabin, Levi Eshkol, e molti, molti altri ancora, prendono vita, interagiscono, creano lo scenario e l'azione.

Letto tenendo conto che probabilmente, la ragione sta nel mezzo alle parti, il libro è un ottimo modo per saperne di più, sull'inizio di alcune controversie arrivate fino ai giorni nostri (il Golan, la Cisgiordania), come pure sulle dinamiche arabo-israeliane, senza dimenticare una sguardo sulla Guerra fredda e le relazioni USA-URSS, sia tra di loro, sia con il mondo arabo.

Dirty Pretty Things


Piccoli affari sporchi - di Stephen Frears (2003)


Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: tutto 'r mondo è paese


Buon film, questo di Frears, che ci mostra uno spaccato della Londra contemporanea e sotterranea, abitata e mossa da immigrati soprattutto clandestini, con uno sguardo esattamente a metà tra il cinema finto sporco di Guy Ritchie e il cinema militante di Ken Loach.

Del resto però, non credo gliene possiamo fare una colpa, visto che, per raccontare le ingiustizie sociali e la disperazione di chi, pur di vivere degnamente, accetta di farsi togliere un rene, non è necessario essere minimali.

L'importante è, come in questo caso, avvincere e interessare lo spettatore con una storia di ordinario sfruttamento messa sullo schermo con notevole eleganza.


Buona la prova di tutto il cast; in gran forma Sergi Lopez nei panni dell'aguzzino, piacevole scoperta Chiwete Ejiofor protagonista maschile, leggermente a disagio ma non troppo nel ruolo semi-drammatico la faccina troppo dolce di Audrey Tautou.

Buona visione.

20110419

divino selvaggio


Alela Diane & Wild Divine - Alela Diane (2011)


Se riuscite ad immaginare qualcosa di più noioso di Norah Jones, fatemi sapere. Purtroppo, mentre ascoltavo per l'ennesima volta questo terzo disco della cantautrice di Nevada City (città natale pure di Joanna Newsom), e cercavo di capire chi mi ricordasse con la voce, mi è apparsa la figura della Jones, e tutto ha assunto un tono peggiore.

A dire il vero, il disco era già poco convincente. Il folk americano, o direttamente l'americana, non è qualcosa che ti esalta immediatamente. Qui non c'è niente di veramente interessante, se non una manciata di buone canzoni, non eccelse, con qualche variante che sfocia quasi nel jazz (Heartless Higway), ed altre variabili che però non accendono passioni.

Le sfumature della voce di Alela ricordano, quando modula, anche quella di Dolores O'Riordan.

Non è un brutto disco. Però è abbastanza anonimo.

abbiamo il papa


Habemus Papam - di Nanni Moretti (2011)

Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Giudizio vernacolare: un affonda


Città del Vaticano: è appena morto il papa polacco. Dopo le esequie, il conclave si riunisce. Cominciano le votazioni, mentre fuori i fedeli si accalcano in attesa del nuovo pontefice, e i giornalisti trattano la cosa come se fosse un evento sportivo, con i favoriti e le percentuali.

Le prime due sono fumate nere: i "favoriti" pressappoco si equivalgono. Alla terza votazione, improvvisamente, i voti si orientano quasi tutti su un cardinale fino ad allora mai votato, il Cardinal Melville, che reagisce incredulo, quasi non rendendosi conto di quello che sta accadendo. Viene dunque eletto papa, ma quando il Cardinale protodiacono lo annuncia per la Benedizione Urbi et Orbi, dalla loggia di San Pietro, Melville viene assalito dal panico, e tutto si ferma, perché, in pratica, il conclave non è concluso, i Cardinali non possono avere contatti con l'esterno, e Melville appare bloccato.

Vista la situazione di stallo, viene convocato d'urgenza uno psicologo, "il più bravo", tale Brezzi, che è però impossibilitato a fare qualcosa in breve tempo. Il portavoce di Stato prende quindi la situazione in mano: Brezzi rimane confinato insieme ai Cardinali, isolato dal resto del mondo, e Melville, in "incognito", viene portato dalla ex moglie di Brezzi, altra psicoanalista, anche lei molto accreditata. Ma pure lei non può fare miracoli in breve tempo. Uscito dallo studio, il nuovo papa dice al portavoce che ha bisogno di fare una passeggiata, e durante questa...


Nuovo film per Moretti, che ha già scatenato polemica, che è già divertente così a raccontarlo. Anzi, mi viene quasi da dire che è più divertente raccontato che visto. Ma, come si suol dire, andiamo con ordine.

Molto ben fatto dal punto di vista tecnico, soprattutto nella parte vaticana, con un inizio fatto con immagini di repertorio (il vero funerale di Wojtyla) alternate a riprese aeree di San Pietro e Città del Vaticano, una sontuosa ricostruzione della Cappella Sistina (a Cinecittà) per il conclave, meno incisivo quando si esce dal Vaticano e leggermente deficitario nelle scene affollate, il nuovo Moretti è divertente, fa sorridere, non ridere (ma del resto, la sua cifra stilistica è questa), e poggia su due interpreti che recitano splendidamente la loro parte, attorniati da grandi caratteristi. Moretti stesso, nei panni dello psicologo Brezzi, interpreta il suo solito personaggio (e sicuramente talune fisse sono decisamente sue, nel senso che ce le ha pure nella vita vera), impostato, ateo, cavilloso, pungente, ma decisamente spassoso, e fortunatamente la sua parte viene limitata dall'altra, quella sontuosa di Michel Piccoli nei panni di Melville, davvero straordinario nella sua sofferenza non fisica, ma perfettamente espressa con il viso e con il corpo. Questi due personaggi diventano le linee guida, i due registri del film, quello comico (Brezzi) e quello esistenziale (Melville), che si alternano.

Ora, l'idea, come detto in apertura, è interessante, oltre che divertente. Ma il film, nonostante abbia già letto che qualcuno lo accoglie come un capolavoro, a mio giudizio ha diversi difetti, pur rimanendo un film che si lascia guardare senza troppi sforzi, addirittura anche per chi non è propriamente un morettiano.

Il "palleggio" delle due linee guida di cui sopra, sembra impedire l'approfondimento di entrambe, che pur hanno spunti che lasciavano presagire grandi cose: il confronto tra lo psicologo ateo e i Cardinali, le frecciate pungenti di Brezzi, l'idea del torneo di pallavolo (poi rovinosamente sciupato da un'eccessiva durata e una sovrabbondanza di ralenti: passa così dall'essere potenzialmente il punto più alto del film, ad essere in verità il momento più noioso), la dipendenza dei Cardinali dai farmaci, le loro ossessioni, mentre dall'altra parte c'è la paura dell'enorme responsabilità, il guardarsi indietro, la riflessione, appena accennata, se non si sia scelto una strada tutto sommato facile e spianata, per rivalsa rispetto ad una delusione cocente nelle proprie aspirazioni reali, il contatto con la gente "normale" raffrontato ad una vita agiata, seppur in qualche maniera ascetica, che allontana non poco da quella "di tutti i giorni".

Lega i due registri la parte di Jerzy Stuhr (il portavoce), che si inventa anche una delle trovate buffe del film, una situazione dalla quale scaturisce il momento più bello: quando il Vaticano (e non solo) si riempie delle note di Todo cambia, nella eccezionale versione di Mercedes Sosa (in realtà l'originale è del cileno Julio Numhauser).

Come detto prima, tutti bravi i caratteristi che circondano questi tre attori, soprattutto quelli che interpretano i vari Cardinali. C'è pure Margherita Buy nei panni dell'analista ex moglie di Brezzi, anche se continuo a non capire come mai deve esserci, nella stragrande maggioranza dei film italiani.

Film che mi ha lasciato un che di irrisolto, potenzialmente devastante sia nel registro introspettivo che in quello divertente, ma che non riesce ad affondare né in un senso, né nell'altro.

20110418

cosa ti aspettavi?


What Did You Expect From The Vaccines? - The Vaccines (2011)


Debutto interessante questo dei londinesi The Vaccines, che, per farla breve, si ispirano ai Ramones quanto i Glasvegas, nel senso che ne riprendono la semplicità essenziale, nonché la bellezza delle armonie sia nelle strofe che nei ritornelli, senza estremizzare la velocità di esecuzione, e arrangiando in maniera più piena e più "densa", vagamente più dark, il tutto.

Volendo, si possono trovare pure sfumature nu-new wave (alla Interpol o alla White Lies) seppur vaghe. C'è però da sottolineare che il mood generale è felice, e non depressivo, anche parecchio sixties-oriented.

Le canzoni sono buone, anche se a lungo andare un po' monocordi. Blow It Up, Wetsuit, Norgaard, Post Break-Up Sex, ossia la "parte centrale" del disco, le migliori.

I, robot


Io, robot - di Alex Proyas (2004)


Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)

Giudizio vernacolare: una discreta zotta


Chicago 2035, la U.S. Robotics sta per lanciare il suo nuovo prodotto nel campo dei robot, e punta a sistemarne uno ogni cinque abitanti; il dottor Lanning, ingegnere nel campo e creatore delle tre leggi della robotica, che legano ogni robot al servizio e alla salvaguardia dell'essere umano, muore apparentemente suicida, ma lancia dei messaggi al detective Spooner, robofobico ma "bionicamente modificato", che inizia ad avere più di un sospetto che la sua paranoia sia fondata.

Lo aiuterà a sventare una vera e propria rivoluzione, l'assistente del dottor Lanning, dottoressa Calvin, ma non solo.


Storia intrigante (non per niente l'ha scritta Asimov), straordinario impiego di computer graphic ed effetti speciali, marchettoni colossali per alcuni grandi marchi (Audi WV e All Star su tutti), il film è un polpettone prevedibile e semi-ironico, che, nonostante le premesse (in cosa differiamo dalle macchine?), non arriva mai in profondità.

Will Smith non aiuta il decollo, e risulta, alla fine, molto meno espressivo del robot Sonny.

20110417

appartenere


Belong - The Pains of Being Pure at Heart (2011)


Più o meno, è lo stesso discorso fatto per gli Yuck. Andiamo con ordine: secondo disco, dopo il debutto omonimo del 2009, per i TPOBPAH, così facciamo prima, da New York. Coordinate: Smashing Pumpkins con meno trasporto emozionale, e una voce (Kip Berman molto più melliflua, coerente con i gusti college-rock, e anche un po' Dawson's Creek), insieme ad un pacco ben fornito di attitudine (non si sa quanto onesta) di shoegazing (al punto che sono catalogati pure alla voce nu-gaze), di quello innocuo, che non fa male, e che parla di amori adolescenziali. Potremmo discutere sul mio essere controverso davanti a questo tipo di temi, ma adesso non parliamo di me. Canzoncine carinissime, per carità, ma tutte già sentite.

Per chiudere, indovinate un po' chi c'è, oltre a tre maschietti in perfetto stile indie-nerd, nella formazione? Alle tastiere e voce, la graziosa Peggy Wang, naturalmente di origini orientali.

Mi pare di aver detto tutto.

il villaggio


The Village - di M.Night Shymalan (2004)


Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)

Giudizio vernacolare: un è male


Villaggio tranquillo in una vallata, fine 1800; non esiste il denaro, si fa tutto in comune, le decisioni vengono prese dagli anziani. Le uniche regole, oltre al rispetto reciproco, sono non inoltrarsi nel bosco che circonda la vallata e sotterrare ogni cosa sia colorata di rosso, il colore considerato del male. Nel bosco ci sono le creature innominabili, il patto è: ognuno stia nel proprio territorio.

Una situazione grave porta alla necessità di far attraversare il bosco a qualcuno, per arrivare alla città: molte cose si riveleranno diverse da come apparivano.


Oggigiorno bisogna stare accorti ad usare la parola genio; non saprei però come definire altrimenti questo film se non geniale. Shymalan riesce a spiazzare lo spettatore, anche se troverete un sacco di gente che vi dirà il contrario, facendovi immedesimare in qualcuno della piccola comunità, umanizzandola con gli svantaggiati, gli esuberanti, gli ombrosi, i saggi, i casinisti, i furbetti, creando situazioni anche insulse o sciocche, costringendovi a dare un senso, a scovare quale sia la metafora giusta, addirittura a chiedervi se non stia finalmente compiendo un enorme passo falso.

Gioca a scatole cinesi con voi, rivelando troppo presto i colpi di scena, costringendovi ad immaginarne un altro. Eppure è tutto così semplice...ma perchè non ci ho pensato prima?Arrivano i titoli di coda, e vi rendete conto che è riuscito ad inquietarvi, ad avvolgervi con grazia, anche con un po' di preoccupazione, ma sempre senza urlare. Parlando come la guardia che lui interpreta, che si vede in faccia solo mediante un riflesso.

Poi la metafora si fa più chiara: faremo davvero questa fine?

Cast importante, William Hurt che finalmente dopo decenni azzecca un film, ma menzione speciale per Adrien Brody che fa lo scemo del villaggio in maniera davvero convincente.

20110416

canottiere

L'immagine di Laurent Gbagbo in canottiera, con un espressione stordita, che viene arrestato, dopo mesi di resistenza e di opposizione al risultato delle elezioni ivoriane, che avevano visto vincere il suo sfidante Alassane Ouattara, mi ha dato, nell'immediato, la sensazione del crollo del potere. Eppure, se si va a leggere la storia degli ultimi anni della Costa d'Avorio, la cosa non è poi così chiara, ed effettivamente, qualche sospetto sulla reiterazione di una sorta di neo-colonialismo francese, può saltare all'occhio.
E' davvero difficile capire cosa accade davvero nel mondo, nonostante questa sia l'epoca della globalizzazione anche dell'informazione.
Guardate cosa sta accadendo in Siria e in Bahrein. Perché l'O.N.U. non interviene? Troppo pericoloso? Perché, a pensarci bene, anche lì c'è il petrolio, ed entrambe sono ex colonie o protettorati: rispettivamente, di Francia e Inghilterra.
Ecco, so che mi sto addentrando in un ragionamento complicato, controverso (rispetto ad opinioni che ho espresso solo pochi giorni fa), e probabilmente, inesatto soprattutto perché non sono un esperto.
Mi vengono dei dubbi sull'intervento in Libia, che tra l'altro non sta dando i risultati sperati. E' normale avere dei dubbi, su temi devastanti come questi. Chi decide quale democrazia è quella giusta? E' davvero dura.
Ognuno, poi, ha i suoi problemi. A Gaza certo hanno problemi ben peggiori, ma sentire ogni giorno un Primo Ministro che attacca il potere giudiziario, di certo non contribuisce ad infondere fiducia nel proprio paese. Assistere ad una maggioranza che critica il proprio sistema educativo (individuando perfino dentro i libri di storia il nemico), tra l'altro come se non fossero loro a gestirlo, ti fa passare la voglia di riprodurti (ammesso che uno ce l'abbia, questa voglia). Questa storia poi, che nel nostro Paese non solo sopravvivono, ma prosperano e quasi dettano legge i famosi comunisti, comincia a diventare inquietante. Ho sentito dire che mangiano i bambini. Sono preoccupato per mio nipote.
Speriamo solo che alla Francia non girino i coglioni, e che decida di bombardarci. Perché, come diceva Paolo Conte, i francesi s'incazzano. Noi, al limite, raccontiamo le barzellette.

fesso


Yuck - Yuck (2011)

Debutto dei londinesi Yuck che già in molti ci vogliono spacciare come next big thing, ma che a me paiono semplicemente dei nostalgici che avranno vita breve. Nostalgici di cosa? Soprattutto dei Dinosaur Jr, ma probabilmente non li hanno avvertiti del fatto che, bene o male, i dinosauri sono sempre in piedi. A partire dall'apertura con Get Away, siamo in piena macchina del tempo, oppure anche dentro una fotocopiatrice, fate voi. E, andando avanti con la scaletta, lo sbigottimento non si ferma.
Certo, piaceranno a molti. Perché quello stile, è accattivante, oltre che inconfondibile. Peccato manchi la voce da ubriaco di J Mascis, e certi arrangiamenti siano ruffiani e smussati dalla provenienza british. Potete poi divertirvi ad inserire un'altra sfilza di band dei '90 nelle influenze più o meno palesi.
Il sospetto che sia una colossale montatura, aumenta quando si spulciano le note della band. Due ex Cajun Dance Party (un disco, poi morti), ci riprovano reclutando (in un kibbutz, che fa sempre molto figo) un simpaticone sovrappeso con i capelli afro (o alla Mars Volta, o alla Napo Orso Capo) e una sfiziosa giapponesina. Poi aggiungono un tocco di mistero con un membro fantasma, che altri non è se non la sorella di uno dei due strateghi.
Ascoltatina veloce, poi via nel cestino, che rimettiamo su Green Mind.

alatriste


Alatriste - Il destino di un guerriero - di Agustín Díaz Yanes (2006)



Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)

Giudizio vernacolare: allora un ci s'ha solo ora 'r vizzio di fa la guerra!



Diego Alatriste y Tenorio, detto Capitano Alatriste, nato in Spagna nel 1582, è un grande spadaccino e un coraggioso guerriero, fedele al re di Spagna Felipe IV. In tempo di pace, vive di espedienti e di saltuari incarichi particolari che possono risolversi esclusivamente con la spada. Durante la Guerra dei trent'anni, nei Paesi Bassi, mentre combatte contro gli olandesi, l'amico fraterno Lope Balboa viene ucciso. In punto di morte, l'amico gli chiede di occuparsi del figlio Íñigo. Al ritorno in patria, oltre a prendersi cura di Íñigo e a coltivare la sua relazione con Maria de Castro, attrice di teatro desiderata da tutta Madrid, riceve l'incarico di uccidere due stranieri eretici, ma Alatriste non convinto, li risparmia. Qui cominceranno i suoi guai, anche se i due stranieri che risparmia sono il futuro re d'Inghilterra e il duca di Buckingham.


Colossal tra i più costosi girati con capitali spagnoli (superato solo ultimamente da Agora), si basa sui primi 5 romanzi (ce n'è stato poi un altro, dopo la lavorazione del film) di Arturo Pérez-Reverte dedicati a questa figura inventata (Alatriste), ma basata su studi dell'epoca e, addirittura, ispirato fisicamente ad una figura che appare nel quadro La resa di Breda di Velazquez, Alatriste è un po' un tentativo mal riuscito di cavalcare l'enorme successo editoriale che ha avuto la saga scritta.

Nonostante un cast prezioso ed internazionale, Díaz Yanes non convince, così come non ci aveva convinto col suo film precedente Nessuna notizia da Dio, del 2001, anche quello con un cast importante, ma che, come film, risultava imperfetto, seppur interessante come idea. Alatriste, forse complice il tentativo di "pressarci" dentro ben cinque libri, nonostante pure l'alto budget, non convince neppure a livello di sfarzosità, in quanto anche le scene di battaglia, o la Madrid del Siglo de Oro non convince e non entusiasma.

Poca fluidità nel susseguirsi degli eventi, poco ritmo, molta staticità, anche se apprezzabile la ricerca pittorica nella quale il regista e il direttore della fotografia si richiamano palesemente ai quadri di Velazquez (vedi origine di Alatriste); Pérez-Reverte ha dato una mano alla stesura, soprattutto consigli, ma la sceneggiatura è dello stesso regista.

Ci rimane il rammarico di una prova a filo di gas perfino di Viggo Mortensen (Alatriste), che nell'originale recita tranquillamente in castigliano, complice l'infanzia trascorsa in Argentina, e la bellezza imperfetta di Ariadna Gil (María de Castro, che Mortensen dopo questo film si è "portato dietro" per Appaloosa). Poco ficcante la prova di Enrico Lo Verso (Gualterio Malatesta), impacciato pure con la lingua (castigliana). Il tutto, segno evidente di una certa difficoltà nella direzione generale del cast.

20110415

the indian clerk


Il matematico indiano - di David Leavitt (2007)


Questo libro, al momento ultima fatica dello scrittore di Pittsburgh che si divide tra la Florida, dove insegna, e la Toscana, dove passa una buona parte del suo tempo insieme al suo compagno, è un piacevole (alla lettura) racconto (abbastanza lungo, 593 pagine), ispirato ad una storia vera (anzi, diciamo almeno due): quella del matematico indiano Srinivasa Ramanujan (1887-1920), a detta degli esperti uno dei pochi geni storicamente riconosciuti dalla matematica, e del matematico inglese Godfrey Harold Hardy (1877-1947), il suo "scopritore", per farla breve.

L'impresa di Leavitt, oltre a quella di riuscire ad elaborare un romanzo (che ha un incipit piuttosto complesso, e che può risultare scoraggiante) dal grande fascino storico, utilizzando non solo le due figure citate prima, ma molte altre, alcune delle quali se possibile ancora più famose, è quella, più terra terra, di riuscire a rendere in un certo qual modo affascinante la matematica e ciò che gli gira intorno (un po' l'intenzione di Hardy con il suo Apologia di un matematico), nottate davanti alla lavagna comprese.

Non c'è solo questo; il libro, scritto come sempre in maniera elegante, ma che non disdegna scendere pure verso la cruda descrizione del sesso, quasi sempre omosessuale (ma, forse per rispettare la definizione di Hardy dettata dal collega di una vita John Edensor Littlewood, altro protagonista della storia, di "omosessuale non praticante", in questo libro, rispetto agli altri di Leavitt, di sesso ce n'è davvero poco), riesce perfettamente sia a calare il lettore nell'atmosfera inglese dei campus, così come in quella di Londra, o di altre cittadine meno affollate, sia a dipingere bene lo stato d'animo degli inglesi verso la Prima Guerra Mondiale.

Non ultimo, il tema da sempre caro a Leavitt, quello dell'omosessualità. Più che struggenti, più che tormentati, i sentimenti di Hardy al riguardo. Molto ben descritte anche le poche figure femminili della storia, sia quelle inglesi che quelle indiane. Notevoli, appunto, pure le brevi parentesi indiane.

Un libro sul quale l'autore, si vede, ha lavorato molto, non solo di fantasia (nelle note finali spiega punto per punto quali siano le storie vere e quali quelle completamente inventate), e che, come detto, parte in maniera un po' macchinosa, ma che quando si dipana diventa scorrevole, piacevole ed interessante, e ci fa riconoscere il "vecchio" David Leavitt, anche se, bisogna ammetterlo, meno "minimalista gay" e più romanziere.

shattered glass


L'inventore di favole - di Billy Ray (2003)


Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Giudizio vernacolare: chiamatela ghinnia di 'ulo dé


Stephen Glass fu protagonista nel 1998 negli USA di un caso giornalistico clamoroso; autore di articoli molto apprezzati, collaboratore di Rolling Stone, George, Harper's e soprattutto del The New Republic (la rivista ufficiale dell'Air Force One, come si dice negli USA), simpatico, divertente, affabile, conquistatore di colleghi con la sua gentilezza e disponibilità squisita; si scoprì, in seguito ad un suo articolo su un hacker che dopo aver scardinato il sito di un grande gruppo informatico veniva assunto dallo stesso, che Glass era l'inventore della quasi totalità dei suoi pezzi. Non c'era niente di vero nella sue storie, tantomeno le fonti che a volte citava.


Film dall'incedere lento, che si rivela interessante e godibile, grazie alla regia del debuttante Ray (finora sceneggiatore), che non giudica il personaggio, ma ricostruisce minuziosamente la storia e l'ambiente (per la sceneggiatura si è avvalso di alcuni personaggi veri della storia), e alle interpretazioni, misurate dei non protagonisti (numerosi, giovani e interessanti), mirate quelle dei due protagonisti (Christensen e Sarsgaard).

Il tutto, alla fine, dipinge un ritratto impietoso di Glass, meschino e schiavo dell'arrivismo, al punto da far sospettare una patologia psicotica, ma senza mai renderlo antipatico allo spettatore; agghiacciante ancor di più, alla luce del fatto che ha fatto i miliardi scrivendo poi un best-seller sulla sua storia.

Impressionante davvero il fatto che Glass usasse la sua gentilezza per un piano a lunga scadenza. Da notare, ancora una volta, l'impatto perduto del titolo nella traduzione; l'originale, Shattered Glass, gioca col cognome del protagonista e il suo significato, vetro, indicandone la rottura.

Per essere un prodotto americano, conserva i canoni estetici medi ma abbassa i toni ed alza i contenuti. Consigliato.


PS Nota per gli amici: in questo film c'è Rosario Dawson.