No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20121231

Davide o Nicola?


Prima di chiudere l'anno, lasciatemi parlare di calcio per un breve momento. Dopo la sofferenza dello scorso campionato, durante il quale era diventato davvero duro assistere alle partite del Livorno, questo campionato cadetto stagione 2012-2013 ci ha riservato, per il momento, una grande e piacevole sorpresa. Parlo al plurale, perché sono convinto che non ci credesse nessuno, prima di cominciare. Una campagna acquisti che non convinceva, una di quelle classiche per il nostro Presidente, tutta scambi e solo guadagni, e per di più l'ingaggio di un allenatore praticamente sconosciuto: Davide (di nome) Nicola (di cognome), ex calciatore (naturalmente anche del Genoa, come piace al Presidente), unica esperienza (da allenatore) al Lumezzane.
E invece, questo non ancora quarantenne, ci ha regalato un girone d'andata difficile da dimenticare, e ci ha ridato la gioia di andare allo stadio. Ha dato un gioco e soprattutto un cuore a questa squadra, ed è uno spettacolo vederlo in panchina (per modo di dire), accompagnando la linea difensiva o chiamando qualcuno dei nostri a marcare un avversario solo mentre lui stesso corre verso quest'ultimo. Tutto questo naturalmente insieme alla squadra, una squadra dove abbiamo visto giocatori rinati, che sembrano i fratelli furbi di quelli dello scorso campionato, e nella quale abbiamo "scoperto" mezzi fenomeni. Possesso palla da Barcellona, rimonte sensazionali, grinta, schemi, azioni fulminanti, gol (anche subiti) a raffica. La gioia del calcio. La partita contro il Sassuolo di mercoledì scorso, oltre a rimanere nella memoria di molti, a livello personale rimarrà anche come la prima, e forse non ultima, alla quale ha assistito anche Alessio, divertendosi parecchio.
Voglio regalare un pensiero anche agli amici dell'Empoli, che stanno disputando un campionato ancora più stupefacente del nostro: dal fondo della classifica alla zona dei play off, e senza cambiare l'allenatore.
Quindi, a questo punto poco importa come finirà. In questi quattro mesi abbiamo goduto molto. Grazie a tutti.

Lemale et ha'halal

La sposa promessa - di Rama Burshtein (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Tel Aviv. Shira Mendelman appartiene, come la sua famiglia, alla comunità chassidica. Ha appena diciotto anni, ma come tutte le donne che appartengono a questa comunità, sa che il suo compito è sposarsi e procreare, e non vede l'ora. I matrimoni sono combinati dai genitori, con l'aiuto del capo rabbino, ed anche questa è una pratica che tutti accettano. Shira sbircia quello che dovrebbe essere il suo promesso sposo, con l'aiuto di sua madre Rivka, al supermercato. Ed è felice, felicissima. La sorella Esther è incinta di nove mesi, ed è sposata con Yohai. Tutte le ragazze single sono affrante, se non riescono a farsi combinare un matrimonio. Ma insomma, Shira è a posto. Poi, all'improvviso, Esther si sente male. E muore, dando alla luce il figlio Mordechai. La famiglia di Shira, così come quella di Yohai, piombano nel dolore. Ma la vita continua, e c'è il piccolo Mordechai da allevare. Dopo poche settimane, Rivka mette a fuoco il fatto che Yohai si sposerà di nuovo; e se, come si comincia a mormorare, si sposerà con un'ebrea che vive in Belgio, si porterà dietro Mordechai. E comincia a tessere la sua tela.

E' abbastanza impressionante l'esordio dell'israeliana, e chassidica (non so se si possa dire così, mi perdonerete nel caso) osservante, Rama Burshtein. La sposa promessa (il titolo inglese, che non sono sicuro sia la traduzione esatta di quello originale ebraico, Fill the Void, "riempire il vuoto", rende molto meglio l'idea) è un film che punta tutto sull'emozione dipinta e trasmessa dai volti, insistendo nei primi piani, ambientando il 95% delle scene in interni, lavorando su fuoco e sul fuori fuoco, "smarmellando" spesso la fotografia degli sfondi. E funziona perché i volti funzionano, non soltanto quello della protagonista Hadas Yaron, quasi alle prime armi, nei panni di Shira, e vincitrice della Coppa Volpi all'ultimo Festival di Venezia, ma anche quelli dei co-protagonisti quali della madre Rivka, interpretata da Irit Sheleg, vero personaggio che funge da burattinaio, e pure quello di Yohai, impersonato da Yiftach Klein. Seppure alcuni passaggi della sceneggiatura siano intuibili, e la messa in scena non favorisca il ritmo, il film, con un minimo di impegno, si lascia vedere, e si apprezza pure. Quel che lascia interdetti è il messaggio. Se, come alcuni critici hanno sostenuto, era un tentativo da parte della regista di illustrare dal di dentro la comunità ebraico-ortodossa, ci riesce si, ma di sicuro non riesce a farla apprezzare ad uno spettatore non ortodosso o laico. Anzi, personalmente ho ravvisato nelle "regole" imposte dal chassidismo, sconcertanti affinità con l'islam più becero e fondamentalista, misogino e maschilista in maniera inaccettabile. Come dire, non di certo una buona pubblicità.

20121230

Inés y la alegria

Inés e l'allegria - di Almudena Grandes (2011)

La storia immortale crea strani effetti quando s'intreccia con l'amore dei corpi mortali, ma quando quest'amore finisce, i destini che insieme hanno saputo disegnare i più barocchi e indecifrabili arabeschi si distendono come corde parallele su un monotono tappeto scuro, il naturale paesaggio delle biografie più anonime.

Una storia d'amore bella ed invidiabile, quella tra Inés Ruiz Maldonado e Carlos de la Torre Sànchez (o Ramiro Quesada Gonzàlez, o Fernando Gonzàlez Muniz), nata durante l'abortita invasione della valle d'Aran da parte dell'esercito del Partito Comunista Spagnolo, e continuata durante l'esilio francese, fino alla conclusione, trent'anni più tardi. E' il pretesto che Almudena Grandes, la cinquantaduenne scrittrice spagnola, autrice di libri che ho trovato molto belli, usa per cominciare un'opera di ampissimo respiro tutta dedicata alla guerra civile spagnola. Ce la spiega lei stessa:

"Inés e l'allegria" è il primo capitolo di un progetto narrativo composto da sei romanzi indipendenti, accomunati dallo stesso spirito e da un titolo: "Episodi di una guerra interminabile".

Sarò onesto: ci ho messo un anno per leggere questo libro. Inoltre, sia il libro, sia il progetto (che, tra parentesi, in patria è già arrivato al secondo capitolo, El lector de Julio Verne, uscito nel marzo 2012), denotano un'ambizione che qualcuno potrebbe giudicare smisurata. Eppure, soprattutto dopo un libro come Cuore di ghiaccio, e tenendo ben presente il pensiero politico dell'autrice (sostenitrice decisa di Izquierda Unida), sono qui a testimoniare che lo sforzo vale la pena.
Seppur spesso ridondante - la prosa della Grandes, quando vuole, sa essere più che prolissa -, Inés e l'allegria è un romanzo storico che mischia verità e invenzione, personaggi davvero esistiti (e importantissimi per la storia della Spagna) a figure più o meno inventate ("Inés e l'allegria" è una storia inventata inserita nella cronaca di un avvenimento storico reale. Per affrontarne la stesura, un modello nuovo per me, ho rispettato alcune regole e mi sono presa qualche libertà.), e con le sue 750 pagine dense d'amore (tra i due protagonisti, tra le altre coppie di loro amici, ma anche della scrittrice per il suo Paese martoriato) e d'amarezza (per trent'anni praticamente persi, per uno spietato dittatore che è riuscito a morire di vecchiaia ancora alla guida della Spagna), inaugura appunto un progetto ambizioso nella maniera migliore: regalando emozioni e coinvolgendo il lettore, riportandolo indietro, in quei tempi bui, ma anche pieni di eroi "normali".

20121229

argonauta

Argo - di Ben Affleck (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Cominciata nel 1978, nel 1979, la rivoluzione islamica iraniana depone lo Scià Reza Pahlavi (solo formalmente, visto che lo stesso Scià era via dall'Iran dal 16 gennaio 1979), e il capo carismatico della rivolta, l'Ayatollah Khomeini, dopo un referendum vinto in maniera schiacciante, dichiarò l'Iran una Repubblica Islamica e, in pratica, accolse la Sharia come legge. Lo Scià, malato di cancro, si recò negli Stati Uniti per curarsi, e in Iran si diffuse un forte sentimento anti-americano, che portò all'assedio dell'ambasciata statunitense da parte dei sostenitori dell'Ayatollah, dopo il rifiuto da parte degli USA, di estradare Pahlavi come richiesto dal nuovo regime iraniano. Il 4 novembre 1979, la folla inferocita fece irruzione nell'ambasciata, prendendo in ostaggio gli addetti (oltre 50). Un piccolo gruppo di funzionari riuscì a fuggire, e si rifugiò nella casa dell'ambasciatore canadese a Teheran, Ken Taylor. Gli iraniani ci misero molto a ricostruire l'elenco del personale, e quindi ad accorgersi che mancavano esattamente sei persone; il governo statunitense (amministrazione Carter) cominciò a lavorare, congiuntamente con quello canadese, alla liberazione di questi sei funzionari, così come, dall'altro lato, trattava per liberare gli oltre 50 ostaggi nell'ambasciata. Il dipartimento di Stato (che coordina la politica estera), riunendosi con alcuni specialisti della CIA, espone i piani per liberare i sei; per la CIA, partecipano alla riunione Tony Mendez, esperto in "esfiltrazioni" (parola probabilmente inventata in italiano, ma che in pratica è il contrario di infiltration, infiltrazione) da paesi critici, ed il suo capo, Jack O'Donnell. Le proposte del dipartimento di Stato vengono bocciate dai membri della CIA, e Mendez, guardando alla tv Anno 2670 - Ultimo atto alcuni giorni dopo, ha un'idea, che sembra a tutti la "migliore delle cattive": simulare la produzione di un film di fantascienza ambientato in location esotiche, e far passare i sei, insieme a Mendez, per la troupe incaricata di visionare i luoghi dove si dovrà girare il film.

Terzo lungometraggio da regista per il bambolotto Ben Affleck, dopo il buon Gone Baby Gone, ed il seguente The Town, che a me non è piaciuto, probabilmente perché sono prevenuto, e invece a molti si. Argo è un buon film, senza dubbio; bel cast senza grandi stelle ma con una sfilza di caratteristi a dir poco eccezionali, curato nella direzione e nella parte tecnica, piuttosto ben scritto. Però ecco, le emozioni, nonostante la storia sia una storia vera e quindi "fatta" di sentimenti forti e realmente esistiti e provati da almeno due, se non tre, popoli, le emozioni, dicevo, scarseggiano. Un filo, appena un filo, di tensione nella decisiva scena dell'aeroporto, con un bel montaggio tra gli eventi che stanno per collidere, ma davvero niente più di un prodotto ottimamente confezionato. I riferimenti di Affleck sono abbastanza chiari, il cinema di Redford e anche quello di Eastwood, ma a mio modesto parere il Ben c'ha ancora da pedalare.
Bryan Cranston (Breaking Bad) è Jack O'Donnell, il sempre eccezionale Alan Arkin è il produttore Lester Siegel, il grande (in tutti i sensi) John Goodman è il make-up artist (truccatore è un po' riduttivo) hollywoodiano John Chambers,  Victor Garber (ve lo ricordate il padre di Sydney Bristow in Alias?) è Ken Taylor, Tate Donovan, Clea DuVall (giovane ma vista tante volte, indimenticabile in Carnivàle), Scoot McNairy (Monsters, adesso sui nostri schermi con Cogan), Rory Cochrane, Christopher Denham e Kerry Bishé sono i sei da esfiltrare, e ci sono anche Kyle Chandler (Friday Night Lights), Chris Messina (ultimamente in The Newsroom), Zeljko Ivanek (Oz, True Blood) e Titus Welliver (presente anche negli altri film diretti da Affleck, per me indimenticabile Jimmy O'Phelan in Sons of Anarchy). Affleck, che come regista omaggia il cinema in generale, con questo film, è il protagonista Tony Mendez, ed è in una curiosa versione capello lungo anni 70/80 e barba; se la cava discretamente, anche se continua, secondo me, a mancare di carisma. La prima scelta di Affleck per la parte di Mendez era Brad Pitt, che ha declinato per altri impegni. Il fatto che si sia sostituito a Pitt vorrà dire qualcosa?

20121228

you and me

Io e te - di Bernardo Bertolucci (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)

Roma, oggi. Lorenzo è un quattordicenne di buona famiglia. Intelligente ma solitario, ha difficoltà a rapportarsi con i coetanei. Probabilmente per questo, è in analisi da uno psicologo. Per non farsi "dare il tormento" dalla madre, Lorenzo si fa dare i soldi per andare in settimana bianca con la scuola, ma in realtà, arrivato il giorno precedente la partenza, e quindi il termine ultimo per consegnare il denaro, lui se lo tiene, non lo consegna. Con questo denaro fa una spesa "mirata", prepara l'enorme cantina nelle fondamenta del palazzo dove abita con la famiglia, stampa una scenata per non farsi accompagnare fino al punto di ritrovo dalla madre, fa finta di avviarsi, poi attende, torna a casa, con uno stratagemma elude il portiere, e si trincera in quel luogo così lontano e così vicino, per una settimana. Pronto per una settimana in solitaria, se si escludono le pressanti telefonate della madre, Lorenzo rimane basito quando, nella cantina, irrompe Olivia. Quasi dieci anni più grande di lui, Olivia è la sua sorellastra; è la figlia di primo letto del padre, che lei odia al pari della madre di Lorenzo, lui per essersene andato, lei per averglielo portato via. Dice di essere lì per cercare delle cose sue, riposte in uno scatolone, ma in realtà non ha un posto dove andare. Inoltre, è in crisi di astinenza. Perché si, è una tossica.

Era stata una facile profezia la mia, quando ho letto il libro (omonimo) di Ammaniti dal quale è tratto questo film. Il problema, credo, è che Bertolucci ha un nome che spaventa i critici, e incute riverenza nel pubblico. Io e te, diciamocelo, è un filmetto. Non riesce a dare maggior spessore psicologico ad una storia ben raccontata, nel libro, e pure tragicamente amorevole (parte che Bertolucci taglia, a torto secondo me, eludendo la fine/inizio, e lasciando solo intuire qualcosa), non riesce a costruire due personaggi epocali, riprova a titillare la parte pruriginosa del pubblico con lo stesso, o quasi, metodo che aveva usato con The Dreamers (e che aveva fregato molti, ma non me), con tentazioni incestuose, affida la parte principale ad un assoluto debuttante (Jacopo Olmo Antinori nella parte di Lorenzo) che, secondo il mio modestissimo parere, si rivela una discreta delusione. Aggiungerei il fatto che la prima parte, quella "in superficie" per intenderci, si rivela decisamente mediocre anche a livello di fotografia, suscitando dentro di me la classica vocina di Stanis che dice "troppo italiano".
Sonia Bergamasco (la madre di Lorenzo) e Pippo Delbono (lo psicologo di Lorenzo) in parti marginali e poco significative, la bella sorpresa viene da Tea Falco (che è realmente anche una fotografa) nella parte di Olivia. Al debutto nel cinema, era apparsa in televisione ne Il giovane Montalbano ed ha una discreta esperienza teatrale; viso intrigante, mi ha ricordato Valentina Cervi (solo che Tea è bionda), e questo per me è un gran complimento.

20121227

Dupa dealuri

Oltre le colline - di Cristian Mungiu (2012)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)

Romania. Vicino ad un paesino, non lontano da Bucarest, dietro le colline, c'è un piccolo, semplice, umile monastero. Lo gestisce, ma forse sarebbe meglio dire lo comanda, un prete ortodosso (davvero molto, molto conservatore) che dalle suore si fa chiamare padre o addirittura papà. C'è poi una madre superiora, totalmente devota ai voleri del prete, e una manciata di giovani suore. Tra queste, c'è Voichita, orfana, cresciuta in orfanotrofio, adesso devota a Dio, al lavoro del monastero e ai dettami del padre. Un giorno, Voichita scende in paese per ricevere la visita di Alina, che torna per un breve periodo dalla Germania, dove da tempo lavora. In breve, lo schema è chiaro: le due ragazze sono state inseparabili ai tempi dell'orfanotrofio, e probabilmente amanti. Alina era quella con un ruolo attivo, fisicamente più prestante di Voichita, la proteggeva anche in maniera manesca. Alina ama ancora con tutto il suo cuore Voichita, ed è tornata per portarla con sé in Germania; ha trovato lavoro per entrambe su una nave da crociera. Potranno così finalmente coronare il loro sogno d'amore, di libertà e di indipendenza, lontano da una terra che ha regalato loro solo stenti. Ma Alina si scontra con la devozione di Voichita, una cosa per lei davvero difficile da intendere. Voichita si è votata completamente a Dio, e la reazione scomposta di Alina, probabilmente da sempre tendente all'isterismo, comincia a causarle problemi all'interno della comunità, e nei confronti del padre. Quest'ultimo ravvisa nella persona di Alina una vera e propria minaccia per la quieta, estremamente povera tranquillità del monastero, e comincia a provarle tutte per allontanare lei, e, se necessario, anche Voichita.

Terzo lungometraggio (escludendo i film a "segmenti") per il rumeno Cristian Mungiu, secondo distribuito in Italia dopo il precedente 4 mesi 3 settimane 2 giorni vincitore di Cannes a suo tempo (anche con questo film il regista ha vinto qualcosa a Cannes quest'anno, e cioè il premio alla miglior sceneggiatura), Oltre le colline, nonostante riprenda almeno un tema portante del film precedente (l'amicizia femminile), è ispirato ad una storia vera, raccontata da Tatiana Niculescu Bran, giornalista e scrittrice, in due libri (il fatto e i libri hanno ispirato anche un'opera teatrale) che documentano l'accaduto, e che fecero molto scalpore in patria. L'approccio di Mungiu è come ce lo ricordavamo, apparentemente spartano ma ispirato a grandi maestri, o quantomeno a registi di grande personalità (Kaurismaki, rispetto al quale ha un tocco molto più drammatico e senza il suo proverbiale sarcasmo, ma in questo caso soprattutto Von Trier, del quale ha l'approccio dogmatico), e ripropone il suo personale punto di vista, e cioè non averne, non schierarsi ma solo raccontare un fatto che dovrebbe essere ridicolo, se non fosse così grave. Un non schierarsi che, nella critica del film precedente, io stesso avevo giudicato un punto debole, ma che dopo una doppietta di lavori così intensi, devo riconoscere essere un tatticismo che costringe lo spettatore a porsi domande e a schierarsi senza preconcetti e per suo conto, per cui un punto positivo.
Tecnicamente coraggioso, con la telecamera che, spesso a mano, insegue i protagonisti, impegnativo e non solo perché dura due ore e mezzo tonde, estremamente drammatico senza risultare melodrammatico e neppure tragicomico, vede anche un cast sconosciuto ma estremamente in parte (le due protagoniste, Cosmina Stratan e Cristina Flutur, rispettivamente Voichita e Alina, hanno vinto a pari merito il premio come miglior attrice sempre a Cannes 2012), evidentemente ben diretto, da questo regista che, ormai è una certezza, continuerà a riservarci film che in qualche modo, ci metteranno alla prova. E questo a me piace.

20121226

Poulet aux prunes

Pollo alle prugne - di Vincent Paronnaud e Marjane Satrapi (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Siamo in Iran, a Teheran, nel 1958. Nasser Ali Khan, un celebre violinista, da sempre in contrasto con la moglie Faringuisse, perde la voglia di vivere: la stessa moglie, in un accesso di rabbia, ha rotto il suo violino preferito. Dopo vari tentativi di rimpiazzare lo strumento, decide di morire. Riflette su come darsi la morte, e alla fine, non essendo mai stato un uomo d'azione, decide che il suicidio non fa per lui: si metterà quindi a letto, e attenderà la morte. Semplicemente.
Sul suo letto di morte, ripercorrerà la sua vita, rendendo lo spettatore partecipe del suo amore enorme per la musica e, soprattutto, per Irane, il suo primo ed unico amore di gioventù, con la quale non ha potuto coronare il suo sogno, ma che è rimasta, come sua musa ispiratrice, nella sua musica, per sempre.

Dopo il travolgente debutto di Persepolis, la Satrapi ed il fido Paronnaud mettono sullo schermo ancora una volta una graphic novel dell'iraniana, ancora una volta omonimo. Abbandonati i disegni, questa volta abbiamo un film con attori in carne ed ossa. Il tono è felliniano, con colori iper-saturi e situazioni grottesche, metafora dell'impotenza dei progressisti iraniani. E' anche una bellissima storia d'amore, forte fino alla commozione, recitata da un grande cast (superbo come al solito Mathieu Amalric nei panni del protagonista Nasser Ali Khan). Affogato forse dentro un tourbillon onirico, il messaggio si perde un po', e il film non convince fino in fondo, nonostante alcuni momenti sia intensi che molto divertenti. Nel cast anche Maria de Medeiros (Faringuisse), Chiara Mastroianni (Lili adulta), Jamel Debbouze (Houshang il mendicante), Isabella Rossellini (Parvine) e la bella Golshifteh Farahani (About Elly) nei panni di Irane.
Ad ogni modo, confidiamo nella coppia Satrapi/Paronnaud, le idee e le suggestioni non mancano.

20121225

police

Polisse - di Maiwenn (2012)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)

Parigi, oggi. All'interno dell'organizzazione della polizia esiste la squadra speciale che si occupa della tutela dei minori, la BPM (Brigade de protection des mineurs). E se pensate che il loro compito sia facile, vi sbagliate di brutto. I componenti, uomini e donne, tutti con le loro storie, convivono tra di loro alternando cameratismo, amicizia ma anche screzi, hanno un superiore comprensivo e bravo nel suo lavoro, ma devono rispondere gerarchicamente ad un funzionario totalmente distaccato e disinteressato. Queste persone, oltre alle loro vite e ai loro problemi di tutti i giorni, lottano ogni giorno con casi di abusi fisici, induzione alla prostituzione, maltrattamenti, dispute tra genitori, violenze domestiche, senzatetto, bambini che non vanno a scuola, che non hanno abbastanza da mangiare. Non è semplice convivere con tutto questo, e la notte dormire tranquillamente.

Improvvisamente, un giorno il funzionario presenta loro Melissa, una giovane, attraente, taciturna fotografa-reporter, che ha il permesso di documentare il lavoro di tutti i giorni della BPM. Anche Melissa ha la sua vita (ha due figlie con un uomo italiano, col quale però non convive e nei confronti del quale pare essere in crisi negli ultimi tempi), ed inizialmente non è accolta a braccia aperte in seno alla squadra. Ma la resistenza iniziale è scalfita un poco alla volta dalla semplicità riservata di Melissa, che finisce addirittura per instaurare una relazione intensa con Fred, un componente di spicco della squadra, anche lui con una compagna ed un figlio a carico. La giovane fotografa viene integrata a tutto tondo, ma contemporaneamente, altri ingranaggi si inceppano, messi a dura prova dal lavoro di tutti i giorni...

Terzo film da regista e sceneggiatrice per la bella Maiwenn, già attrice anche per Besson (Léon, Il quinto elemento). Se i precedenti film erano stato pressoché invisibili, questo, sulla scia del grande riscontro avuto a Cannes 2011, è uscito da noi nel febbraio 2012, sostenuto da un po' di pubblicità, e c'è da dire che vale la pena di dargli un'occhiata. Un po' rozzo, magari volutamente per dargli un tono da realismo, Polisse (da un errore ortografico del figlio, pare) è un film coinvolgente, serrato, emozionale, con un finale che inchioda e sbalordisce come un pugno nello stomaco. Ottimo il cast e le interpretazioni, passabile perfino la prova di Scamarcio. Film notevole.

20121224

del genere umano

I più attenti di voi si ricorderanno questo post dove vi riportavo il mio stupore e la mia ammirazione (nascondendo tra le righe la mia preoccupazione per una possibile ennesima morìa di posti di lavoro) per questa nuova tecnologia.
Ora, non so se è un caso, ma esistono ancora, al mondo, persone alle quali incuriosisce riflettere sul genere umano, ponendosi le classiche domande "chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo"; penso, molto sommariamente, a cose alle quali mi sto interessando ultimamente, ad un programma come Mankind la storia di tutti noi, che ripercorre la storia dell'umanità dal Big Bang ad oggi (un po' come fa il maestro Jared Diamond nel suo libro mai abbastanza osannato Armi, acciaio e malattie), o a una serie come Battlestar Galactica, che immagina fantascientificamente una realtà futura che non si capisce bene, perché potrebbe invece essere il nostro passato, e mette in luce tutti i nostri pregi ma pure tutti i nostri difetti.

Ecco, leggo oggi senza nessuno stupore, che la tecnologia della stampa in 3D è già usata frequentemente per stamparsi armi a casa.
Come dire: l'intelligenza umana non ha limiti, esattamente come l'umana stupidità.
Buon Natale.

amore

Amour - di Michael Haneke (2012)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)

Parigi. Georges ed Anne sono due ottantenni moderatamente agiati, in pensione, ancora innamorati. Entrambi ex insegnanti di musica, colti, intelligenti, vivono in una bella casa arredata un po' retrò, sono gentili, educati, si trattano con rispetto estremo e vanno d'accordo. Sono felici e continuano a coltivare i loro interessi. Una mattina, Anne si "incanta" all'improvviso, mentre fanno colazione assieme; lei non si rende conto di nulla, Georges si preoccupa. Anne ha una prima ostruzione della carotide, deve essere operata. L'operazione non va benissimo, la donna torna a casa in sedia a rotelle, ma curata amorevolmente dal marito, che le promette di non riportarla più all'ospedale, sembra riprendersi. E invece, dopo un primo iniziale miglioramento, la situazione peggiora, poco a poco ma inesorabilmente, verso una prevedibile fine. Georges, che resiste stoicamente fino ad assumere una prima infermiera, poi una seconda, accudisce la moglie con pazienza, umorismo, amore, appunto. La figlia Eva, anche lei musicista, vive all'estero, si fa vedere ogni tanto e vorrebbe dire a Georges cosa fare, la cosa lo infastidisce, ma lo fa presente sempre con rispetto ed educazione.

Rileggevo alcune mie critiche sui film di Haneke, questo regista austriaco nato a Monaco di Baviera che, volenti o nolenti, ha scritto pagine memorabili nella storia del cinema contemporaneo europeo. La proverbiale freddezza a lui accreditata, fa di questo Amour (decisamente e completamente un film d'amore sull'amore, ma pure sulla, diciamo, seconda o terza parte della vita umana, una sorta di riflessione non tanto sulla possibilità dell'eutanasia, quanto sulla dignità di vivere la vecchiaia) un film agghiacciante sul declino del corpo e della mente, un'amara riflessione sull'ineluttabilità della fine della vita umana, in un tempo in cui non si fa altro che essere bombardati da informazioni che ci dicono come restare giovani e che entro poco tempo vivremo fino a 150 anni. Non è un tema nuovo, e magari per questo non è un capolavoro; trovo tra l'altro che una delle cose più brutte, una delle condanne più orribili, sia quella di aver vissuto una bella vita e non potersene ricordare, o non poterne parlare perché qualcuno possa arricchirsi solo ascoltandoti. Un'altra cosa molto brutta è amare tantissimo una persona, ed assistere al suo progressivo sgretolamento. Haneke fa un film con una sceneggiatura esile e senza fronzoli, ma indiscutibile (fatta eccezione per il piccione), ma soprattutto sceglie due attori dalla bravura devastante, che riescono a strappare applausi solo per il fatto di esistere. Certo, Amour non è un film che consiglieresti a chi va al cinema per divertirsi. Ma si sa, qui su fassbinder girano solo persone un po' strane, quindi ve lo consiglio. Regia impeccabile.
Jean-Louis Trintignant è Georges, Emmanuelle Riva è Anne, Isabelle Huppert è Eva. Alexandre Tharaud è Alexandre, l'allievo di Anne, ed è un vero musicista che cura anche le esecuzioni dei molti brani classici del film. Da vedere non foss'altro che per prepararsi alla fine.

20121223

Ruby rubacuori

Ruby Sparks - di Jonathan Dayton e Valerie Faris (2012)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)

Stati Uniti. Calvin Weir-Fields è un giovane scrittore. Ha avuto un enorme successo col suo romanzo di debutto, dopo di che è arrivato il blocco dello scrittore. Si sente inutile, e per di più, odia e piange ancora per la sua ex, Lila, che lo ha lasciato qualche anno prima. Suo fratello Harry cerca come può di aiutarlo, di tirarlo fuori dalla spirale che lo sta trascinando nella depressione. C'è solo Scotty, il suo cane, così chiamato in onore di Francis Scott Fitzgerald, che gli tiene davvero compagnia.
Calvin inizia a sognare la ragazza che vorrebbe. La sogna ogni notte. Il dottor Rosenthal, il suo analista, lo sprona a scriverne. Calvin ne costruisce la storia, il nome, la famiglia, da dove proviene, che cosa fa nella vita. La definisce, e lo mette su carta: è l'unica cosa di cui riesce a scrivere. Finché, una mattina, si sveglia, e lei, Ruby, è lì, nella sua cucina. Gli parla, come se fosse da sempre nella sua vita. Lui si impaurisce, chiama Harry, che ovviamente gli dà del pazzo. Ma quando Calvin capisce che lei è reale, è lì, e la presenta a Harry, i due si devono arrendere all'evidenza. Comincia quindi la vita di Calvin con Ruby, la sua amata, sognata, Ruby. Lui, lei, Harry e la moglie Susie, vanno a trovare la madre Gertrude, che vive col suo compagno Mort. Sono tutti felici. Ma più si va avanti, e più si scopre che c'è di più: Calvin, e Harry con lui, si accorgono che Ruby fa qualsiasi cosa Calvin scriva sulla sua bozza di romanzo. Quanto può durare questa situazione?

La coppia Dayton/Faris, che al debutto (dopo una marea di documentari soprattutto musicali) ci hanno regalato quella gemma che è stato Little Miss Sunshine, si affidano ancora una volta ad uno sceneggiatore debuttante: per il debutto toccò a Michael Arndt, stavolta è Zoe Kazan, nipote di Elia, a scrivere questo gioiellino solo all'apparenza surreale, e decisamente delizioso. Curiosamente, ma fino ad un certo punto, Zoe Kazan è anche l'interprete di Ruby, ed è, nella vita, la compagna di Paul Dano (già in Little Miss Sunshine), che qui interpreta il giovane scrittore Calvin Weir-Fields. I due, inutile dirlo, fanno scintille: divertono, appassionano, emozionano, commuovono. La storia, che qualcuno, a ragione, ha paragonato a Pinocchio, è una riflessione sulle difficoltà dei rapporti di coppia, soprattutto quando si comincia a voler cambiare il carattere del partner. E' delicato e divertente, arriva davvero in profondità con eleganza. La cinepresa si muove con grande sapienza, la fotografia è molto bella. Ma, a mio modesto parere, ciò che trasforma un film delizioso in un film imperdibile, è la splendida colonna sonora, curata da Nick Urata; se vi sembra di aver già sentito questo nome, magari proprio qui, è perché Urata è il leader dei Devotchka (e se vi ricordate della loro musica, riconoscerete senz'altro la sua firma).
Nel cast altri grandi nomi: Annette Bening è Gertrude, Antonio Banderas è Mort, Elliott Gould è il dottor Rosenthal. Ci sono anche Chris Messina (Harry), Steve Coogan (Langdon) e, seppur per pochissimo, la splendida Deborah Ann Woll (la Jessica di True Blood) nei panni di Lila.

20121222

demoni della luce

Angels of Darkness, Demons of Light II - Earth (2012)

Registrato nelle stesse sessioni del predecessore, è uscito ad un anno di distanza, e cioè nel febbraio di questo 2012. Vi chiedo scusa se ve ne parlo solo adesso. Probabilmente, anche migliore della parte (o del volume) I, la seminale band di Seattle prosegue il suo percorso artistico unico e direi pure inimitabile, anche perché più che fuori dagli schemi, decisamente anticommerciale. Cinque pezzi, come per il disco precedente, dei quali ben quattro della durata di oltre otto minuti, con il solito incedere lentissimo, ipnotico più che drone, come vengono definiti, poca distorsione e fuzz usato con sapienza e parsimonia, nessuna traccia vocale, il violoncello di Lori Goldson, ormai integrata con la band, a conferire quell'unicità di cui sopra: non ce n'era bisogno per diventare unici, ma per battere strade inesplorate certamente. Un altro disco mediante il quale perdersi e far vagare la mente.
Come nel caso del disco precedente, una copertina stupenda.

20121221

Tarzan su Marte

John Carter - di Andrew Stanton (2012)
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)

New York 1881. John Carter, un anziano soldato dell'esercito confederato, reduce della Guerra Civile, muore improvvisamente e lascia, tra le altre cose, il suo diario al nipote, Edgar Rice Burroughs. Il nipote, curioso, comincia a leggere, e quello che trova scritto è a dir poco incredibile.
Carter è un grande combattente, ma ha sempre avuto difficoltà a schierarsi. La sua storia incredibile comincia infatti quando un colonnello dell'Unione, che lo ha fatto prigioniero, gli chiede di unirsi a loro contro gli Apache; Carter fugge, si ritrova in una grotta dove un alieno lo assale. Lui lo uccide, raccoglie il medaglione che indossava, ripete le parole che ha sentito pronunciargli, e d'improvviso si ritrova in mezzo ad un deserto. Si rende conto che la gravità è diversa da quella normale, e lui è capace di salti impressionanti. Ancora non lo sa, ma è su Marte. O, come lo chiamano gli abitanti, che incontrerà tra poco, Barsoom. Da buon soldato, si ritroverà in mezzo ad una guerra tra due popoli.

Lunghissima storia, quella della trasposizione di John Carter al cinema. Questo personaggio, infatti, è nato dalla penna di Edgar Rice Burroughs (si, ricordate bene, lo stesso che, poco dopo, inventò Tarzan), e per lungo tempo si è pensato di trasportarlo al cinema. Talmente famoso, soprattutto negli USA, che pare Cameron si sia ispirato proprio a lui per Avatar, finalmente la Disney ha messo sul piatto un budget stratosferico in mano allo stesso regista di Nemo e Wall-e, ma il film si è rivelato un flop storico. Ora, la parte tecnico-visiva, a mio parere è indiscutibile, il film accosta piacevolmente attori in carne ed ossa con alieni molto più impressionanti di quelli di Guerre stellari (e molto spesso più divertenti, fulcro del film) in scenari suggestivi e credibili. Il punto debole è quindi da ricercare nella sceneggiatura, non molto fluida nel mostrare una storia effettivamente un pochino complicata, e, forse, in un cast costruito al contrario. Infatti, le due parti principali "umane" sono affidate a Taylor Kitsch (John Carter), l'ex modello canadese che a me personalmente sta simpaticissimo dopo averlo visto nella serie Friday Night Lights (era Tim Riggins), che non se la cava affatto male ma che probabilmente non è ancora universalmente riconosciuto in quanto star, e alla pur bellissima Lynn Collins (Dejah Thoris), che personalmente avevo ammirato non solo esteticamente, ma anche sottolineato per la bravura nel Mercante di Venezia di Radford qualche anno fa, e che sconta lo stesso "peccato" di Kitsch (per lei c'è pure l'aggravante di essere ancor meno conosciuta). I nomi "pesanti" e conosciuti vengono sprecati perché o marginali, o irriconoscibili: Samantha Morton è Sola, Willem Dafoe è Tars Tarkas, Thomas Haden Church è Tal Hajus, Mark Strong è Matai Shang, Ciarán Hinds è Tardos Mors, Dominic West è Sab Than, Bryan Cranston è Powell.

20121220

Liz

Eleanor Rigby - di Douglas Coupland (2005)

Decisi che era giunto il momento di cambiare davanti al videonoleggio, stringendo al petto le cassette di "L'ultima spiaggia", "Bambi", "Voglia di tenerezza", "Com'era verde la mia valle" e "Il giardino dei Finzi-Contini" e fissando la cometa, naso all'insù. Decisi che, invece di chiedere certezze alla vita, adesso volevo la pace. Non avrei più cercato di controllare tutto - era giunto il momento di lasciarsi andare alla corrente. Bastò quell'unica decisione perché la cotta in maglia di ferro che avevo portato per tutta la vita mi cadesse di dosso e mi lasciasse leggera come un gabbiano. Finalmente mi ero liberata.

Vancouver. Liz Dunn è una donna sui quarant'anni, single, sovrappeso, ma soprattutto, sola. Si, sua madre è viva, i suoi due fratelli (una reginetta di bellezza e un agente di una compagnia farmaceutica che compra sangue in giro per il mondo) la vengono a trovare spesso con i suoi nipoti, ha un lavoro noioso e dei colleghi che sopporta male, ma è sola. Ed ha una macchia, nel suo passato, che ha praticamente dimenticato. Non sa che fare della sua vita, in realtà. Fino a quando, quella macchia del suo passato, torna. E cambia la sua vita: incredibilmente, nonostante tutto, in meglio.

"Nancy non ce l'ha fatta a venire. Ti manda i suoi auguri."
"Ringraziala e salutala da parte mia." Era una farsa. Io e la moglie di mio fratello, Nancy, non ci sopportiamo. Una volta, era il giorno del Ringraziamento, le dissi che si profumava troppo. E lei, per tutta risposta, osservò che i miei capelli sembravano un toupet. Da allora il nostro rapporto non si è mai più ripreso. Questo tipo di incrinature può solo aggravarsi.

Qualcuno potrebbe pensare che Coupland sia il mio scrittore preferito. Può darsi. E' certo che trovo abbia una creatività, una vena inventiva che pare inesauribile, oltre ad uno stile unico. In questo romanzo, il canadese nato in Germania affronta il tema della solitudine, oltre a quello della diversità e della sclerosi multipla. Come, a voi scoprirlo leggendo Eleanor Rigby (un pezzo dei Beatles che l'autore ama particolarmente, e che nel libro è l'indirizzo email della protagonista). Però, già dai temi potreste capire che non siamo davanti ad un best seller o a Ken Follett. Coupland riesce sempre a farci ridere, col suo stile caustico e con la sua intelligenza ficcante, ed è capace di affrontare i temi portanti della nostra società romanzando la sue storie in apparenza strampalate: se vi raccontassi in breve tutta la trama di questo libro, rovinandovi la sorpresa, la giudichereste appunto così (strampalata), nello stesso modo in cui potreste giudicare molte altre storie raccontate dall'autore, in altri libri. E, nonostante non sia il suo libro che sarà ricordato maggiormente, anche stavolta ci regala un personaggio straordinario, quello della protagonista, Liz Dunn.

Mi pareva di essere un prigioniero politico. Il cuscino era delle dimensioni di un chewing gum, il materasso aveva lo spessore di un salatino. Mi raggomitolai e in silenzio piansi, facendo una cosa che solo i giovani sanno fare, cioè lasciarsi andare all'autocommiserazione. Una volta passati i trent'anni, si perde questa capacità e invece di sentirsi dispiaciuti per se stessi, ci si inacidisce.

20121219

elefante bianco

Elefante Blanco - di Pablo Trapero (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Villa Virgin è un barrio poverissimo di Buenos Aires, Argentina, nei pressi dell'altro barrio Villa 15 o Ciudad Oculta. Qui si trova la mastodontica struttura chiamata da tutti Elefante Blanco, che doveva essere l'ospedale più grande di tutta l'America Latina, ma non fu mai terminato. Qui opera padre Julián, un cura villero, cioè un prete delle periferie povere. Da qualche tempo gli è stato diagnosticato un tumore al cervello, ma Julián, fedele al motto del mai dimenticato padre Mugica (una figura che meriterebbe di essere approfondita; in breve, un prete con simpatie per il comunismo rivoluzionario - la parrocchia da lui fondata si chiama del Cristo Obrero, Cristo operaio -, assassinato molto probabilmente dalla Alianza Anticomunista Argentina), Señor, quiero morir por ellos, ayúdame a vivir por ellos (Signore, voglio morire per loro, aiutami a vivere per loro), è preoccupato per i fedeli della sua parrocchia. Padre Nicolás è un prete un po' più giovane, che considera Julián il suo mentore, nonché suo confessore. Nicolás è nella parte amazzonica del Perù, e scampa al massacro di una piccola comunità che lui stava aiutando, ma si ammala in maniera abbastanza grave. Julián lo va a prendere, e lo porta con sé a Villa Virgin. Non gli spiega chiaramente cosa vuole da lui, ma lo introduce alle persone che lo aiutano tutti i giorni, tra le quali c'è Luciana, un'assistente sociale che si occupa di una riqualificazione che darebbe delle case ai più bisognosi, mediante un progetto finanziato anche dalla curia insieme al municipio. Nicolás comincia ad adattarsi, a farsi benvolere, i problemi sono tanti e continui, il barrio è pericoloso. Ma si avvicina tantissimo a Luciana, la sua presenza diventa una costante, al punto che...

Nuovo lavoro dell'argentino Pablo Trapero, e soprattutto ultima fatica dell'immenso Ricardo Darín, che rinnova la collaborazione col regista dopo la precedente con Carancho. Il tema è, come avrete senz'altro intuito, l'opera dei nuovi missionari, i preti dei quartieri degradati (qua siamo addirittura oltre, c'è una baraccopoli che è cresciuta attorno ad un'opera mastodontica mai terminata, un po' il simbolo dei fallimenti argentini), la vita in questi agglomerati umani e urbani, e perché no, il celibato dei preti cattolici, e le crisi che anche i più forti, tra di loro, possono avere. Trapero fa un film muscolare, come suo solito, anche violento, descrive con bella mano la vita povera di questo spaccato di umanità, regala momenti di grande cinema (i primi dieci minuti sono impagabili, e purtroppo, promettono una grandiosità che l'interezza della pellicola non riesce a raggiungere), dirige un cast affiatatissimo, dà un discreto ritmo alla storia. Si perde un bel po' nella seconda parte, o meglio nella parte finale, dimostrando di essere un "cavallo" su cui puntare, ma di avere ancora cose da imparare, da rifinire.
Darín (Julián) è sempre grande, anche stavolta, con una prestazione misurata (a parte la sua "scena finale", inguardabile. Incredibilmente, abbiamo trovato un punto debole di questo attore straordinario). E' molto brava Martina Gusman (Luciana), che personalmente trovo pure molto bella, moglie di Trapero; pensare che ha esordito con lui in Nacido y criado nel 2006, dopo di che ha fatto pochissime cose, se si escludono i film del marito (ve ne parlai con Leonera, faceva coppia con Darín in Carancho). Curiosa la scelta di Jérémie Renier per la parte di Nicolás. L'attore belga, che conoscerete se conoscete i film dei fratelli Dardenne, esordì per loro nel 1996 con La promesse, e dopo quello non si è più fermato, scegliendo quasi sempre film difficili e di qualità. Anche in questo caso se la cava molto bene, recitando tra l'altro anche con un castigliano con cadenza francese e qualche inflessione argentina, e incarnando, anche lui in modo misurato, un prete combattuto tra la vocazione, la voglia di aiutare concretamente gli altri, la spavalderia di chi sa di essere nel giusto, e l'attrazione anche fisica verso un'altra persona. Curioso notare, nella colonna sonora, apertura e chiusura riservata a Las cosas que no se tocan, un pezzo degli Intoxicados (se non ho visto male, il leader e cantante Pity Alvarez è presente nei ringraziamenti; il cantante vive vicino a dove si svolge il film), una band porteña particolarissima, sciolta nel 2009, e molto amata in Argentina.
Concludendo, bisogna riconoscere che Trapero gira sempre dei film imperfetti, ma coraggiosi e decisamente ben fatti. Naturalmente, è ignorato dalla distribuzione italiana, pur avendo presentato spesso i suoi film sia a Venezia che a Roma. Pensate che l'unico suo film che è stato distribuito da noi fu il debutto Mondo Grua, del 1999, distribuito nel circuito d'essai nel 2000.

20121218

De rouille et d'os

Un sapore di ruggine e ossa - di Jacques Audiard (2012)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)

Ali (qui diminutivo di Alain) è belga. La cosa che sa fare meglio è tirare pugni. E' sui trent'anni, ed ha un figlio, Sam, di cinque anni, ma non ha mai passato molto tempo con lui. Un bel giorno, all'improvviso, se lo ritrova a carico: la sua compagna scompare. Non avendo granché da fare, Ali, insieme a Sam, raggiunge la sorella, che vive modestamente (fa la cassiera in un supermercato) ad Antibes, sulla Costa Azzurra francese, assieme al proprio compagno. Ali comincia a fare qualsiasi lavoro gli capiti, a partire dal buttafuori, visto il fisico di tutto rispetto. Nella discoteca dove inizia a lavorare, una sera gli capita di "difendere" la bella Stéphanie. Lei è bella, indipendente (vive insieme ad un buono a nulla, ma si capisce che ne ha per poco), e si diverte a provocare gli uomini con la sua bellezza (mettendo in mostra le gambe, soprattutto). E' la coordinatrice dello spettacolo delle orche marine al Marineland di Antibes, e tratta Ali con una certa superiorità. Ali non dà peso alla cosa, e le lascia il suo numero di telefono: non ha mai avuto problemi con le donne. Ma dietro l'angolo, per Stéphanie, c'è un tragico incidente: rimane senza gambe. E naturalmente, molte persone che prima le ronzavano attorno, si allontanano. Nel frattempo, Ali, come avrete capito un tipo molto alla buona, comincia a lavorare per Martial, un tizio che installa sistemi di videocamere sui luoghi di lavoro: i padroni li usano per controllare i dipendenti. Una cosa non del tutto legale, che naturalmente rende bene. Martial, contemporaneamente, si occupa di incontri di boxe a mani nude, anche questi illegali, ed introduce Ali nel giro.
Un bel giorno Stéphanie chiama Ali. Ha bisogno di qualcuno che le faccia compagnia, che le dia una mano per molte cose, non ultimo il sesso. Ali non ci vede nessun secondo fine: come detto prima, è un tipo molto alla buona: potremmo dire un puro, potremmo dire un ingenuo, potremmo dire un mezzo scemo. Ali e Stéphanie cominciano a passare molto tempo insieme. Finché Stéphanie non capisce di volere qualcosa di più.

Audiard è un regista che merita tanto di cappello. Guardate i suoi ultimi quattro film: questo è sicuramente uno dei film più belli visti nel 2012, prima ci ha regalato Il profeta (2010), Tutti i battiti del mio cuore (2005; rileggetevi quello che dicevo a proposito del filo conduttore della sua filmografia), Sulle mie labbra (2001). Stavolta, insieme a Thomas Bidegain (uno che ha delle ottime idee, oltre a scrivere sceneggiature), da una raccolta di racconti del canadese anglofono Craig Davidson (Rust and Bones, che in francese è stato tradotto come Un gout de rouille et d'os, da qui la traduzione italiana) tira fuori questo splendido affresco umano dove due storie ai limiti della disperazione si uniscono, dopo essersi rifiutati, dando vita ad una storia meravigliosa (e dando una famiglia ad un bambino che aveva già sofferto abbastanza). A parte questo, la forza del film sta nella totale assenza di pietismo, e in una fantastica figura maschile (in effetti, la prima cosa è un po' la conseguenza dell'esistenza della seconda), il personaggio di Ali, interpretato in maniera sublime da Matthias Schoenaerts, che con questo film, dopo la sua prova (purtroppo sconosciuta ai più, per la mancata uscita italiana) in Rundskop, si candida ad essere il De Niro europeo. Se contate che l'interprete femminile principale, Stéphanie, è recitata da una Marion Cotillard (che ci teneva ad interpretare un film francese "d'essai", pare perché accusata in patria di essersi troppo "americanizzata", accusa davvero ingiusta a mio parere) sempre più bella e brava, ma che qui dà davvero il meglio, il gioco è fatto.
Nel cast c'è anche il regista Bouli Lanners, nei panni di Martial. Colonna sonora interessante, quasi "sperimentale", a cura di Alexandre Desplat, uno dei numeri uno, con pezzi originali di Lykke Li e Bon Iver. Il film è forte, emozionante, bellissimo.

20121217

Alì Blue Eyes

Alì ha gli occhi azzurri - di Claudio Giovannesi (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Ostia, oggi. Nader ha 16 anni, parla romanesco, è nato e vissuto vicino al Grande Raccordo Anulare, ma la sua famiglia è egiziana: sua madre parla solo arabo, suo padre (benzinaio, curiosamente, ma nemmeno troppo, come il padre rumeno di Il rosso e il blu) parla un italiano stentato. Ha una sorella più piccola, che esce di casa solo per andare a scuola. Nader ha un grande amico, Stefano. Suo compagno di scuola, con lui passa tutto il tempo che non passa con la fidanzatina, Brigitte. Nader ha un vezzo: usa le lenti a contatto azzurre. E ha un paio di problemi: il fatto che abbia una fidanzata, soprattutto italiana, lo porta ad un punto di rottura con la famiglia; il padre è meno deciso, ma la madre è irremovibile. E una notte, provando a rientrare ben oltre la mezzanotte, la madre lo lascia fuori di casa. Alì comincia a vivere dove può. Nel frattempo, Stefano, lasciato dalla rispettiva fidanzatina che sta provando disperatamente a riprendersi, trascina Nader in imprese di volta in volta più pericolose. Prima una rapina, che va a buon fine, e con i soldi della quale Nader compra una modesta ma impegnativa fede per Brigitte, poi una lite furibonda, in discoteca, con un giovane rumeno che stava corteggiando l'ex fidanzata di Stefano, che termina con un danno irreparabile. I due diventano un obiettivo, e Stefano, che sembra godere a complicarsi la vita, mette il carico da undici su un'amicizia in bilico...

Alì ha gli occhi azzurri, una sorta di proseguimento fiction del precedente lavoro di Giovannesi, il documentario Fratelli d'Italia (dove Nader Sarhan, il Nader di questo film, era uno dei protagonisti), è un buon film, che mantiene ciò che il trailer promette. Il titolo è una citazione pasoliniana, e l'approccio a basso budget, la camera a mano, gli attori ruspanti e poco esperti, addirittura l'abolizione del ciak all'inizio dei girati, potrebbe far definire il film un esempio di neo-neorealismo. E' un film coraggioso, perché va a fondo nell'affrontare i problemi che la seconda generazione degli immigrati, o meglio la prima generazione di figli di immigrati, e mette a nudo le loro profonde contraddizioni così come sottolinea le nostre, quelle degli italiani, ovviamente (vedi le famiglie di Stefano e di Brigitte). E' un film duro, crudo, che arriva a mostrarci fastidiosi paradossi per sollevare il velo sull'Italia che stiamo vivendo, spesso facendo finta di non vedere (il top: la scena dell'amico rumeno che Nader e Stefano costringono ad andare con una prostituta rumena per poi rubarle i soldi). Fluido e ben scritto, con recitazioni convincenti, soprattutto da parte dei giovani attori del castAlì ha gli occhi azzurri è un film che mi fa pensare di aver conosciuto un altro regista italiano molto interessante.

20121216

Garibaldi fu ferito

Il comandante e la cicogna - di Silvio Soldini (2012)
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)

Torino, Italia, oggi. Leo è un napoletano qui trapiantato, che conduce una piccola impresa idraulica. Il suo fido collaboratore è Fiorenzo, un immigrato cinese perfettamente integrato, controllato telefonicamente da sua moglie, che è convinta dell'ossessione del marito per le donne dal seno prosperoso. Leo è sempre giovane, ma già vedovo di Teresa, con la quale, però, è convinto di comunicare, sempre di notte, dopo le 4. La moglie discute con lui sull'educazione dei figli, gli racconta sommariamente della vita nell'aldilà, ed è "drogata" dall'odore del caffè. Leo ha, infatti, due figli: la maggiore Maddalena, già in età da fidanzatini, il più piccolo Elia, già adolescente ma introverso, svagato nei confronti della scuola ma per niente disinteressato ai grandi temi della vita. Elia si pone, e pone agli altri, domande filosofiche, esistenziali, legge di argomenti che il padre a malapena comprende, e ruba teste di pesce e rane, quando i soldi della paghetta non glielo permettono. Elia è "amico" di una cicogna, che ha chiamato Agostina. La incontra nei prati della periferia, le porta appunto pesci e rane, le parla, e pretende di comprendere quello che l'animale gli dice. Durante un furto al supermercato, Elia conosce Amanzio, un corpulento personaggio fuori dal comune, che pratica espropri di merce scaduta (nello stesso supermercato), si erge ad educatore sociale verso operai che sostituiscono insegne vecchie per metterne di nuove o apostrofa madri che trattano male i figli. Parla per citazioni ed aforismi, vive in affitto in una specie di magazzino ed ha affittato la sua casa (la differenza tra gli affitti gli permette di vivere senza troppi lussi, ma non si nega le prostitute) a Diana, una giovane, timidissima, insicura artista, che è sempre in affanno nei pagamenti. L'apparizione su internet di un video di Maddalena che pratica sesso orale al suo fidanzatino, che la tradisce esibendola al pubblico ludibrio virtuale, porta Leo, disperato nel difendere il benessere dei figli, e sempre convinto di essere in affanno per la mancanza della moglie, nello studio dell'avvocato Malaffano, la cui segretaria è vicina di casa di Leo. Malaffano è un classico maneggione, che aiuta più che altro truffatori in cravatta. Mentre nello studio lavora Diana, che anche lei disperata per soldi accetta di affrescare una parete con una jungla pacchiana commissionatale dall'avvocato, Leo viene "adescato" dallo stesso Malaffano: curerà gli interessi di Leo e della figlia, facendo sparire il video da internet e chiedendo danni di migliaia di euro alla famiglia dell'ex fidanzatino, gratis, se Leo accetterà di fare da prestanome in una transazione che lui neppure comprende. Sullo sfondo, le statue dei grandi d'Italia, osservano disgustate la corruzione e il malaffare italico, e ne parlano tra di sé o tra loro.

Personalmente, mi dispiace assegnare un'insufficienza a Soldini, regista italiano da sempre dedito ad illustrare anime limpide, la parte migliore del nostro Paese, e le sue pochezze. Ma siccome è lecito chiedere qualcosa di più ogni volta, debbo riconoscere una certa ridondanza in questo Il comandante e la cicogna, di simbolismi e di stereotipi visti mille volte, troppa carne al fuoco e, contemporaneamente, una forma onirica che si scontra con una certa approssimazione tecnico-visiva. Spesso, la semplicità nella sceneggiatura giova ad un cinema semplice nei mezzi; non è proprio questo il caso. Inoltre, se si vuole giocare con i sogni, bisogna saperli mettere in scena degnamente, e quasi sempre ci vuole un budget importante. La corsa in bicicletta di Elia è piuttosto esplicativa: risulta talmente posticcia da farci sorridere (in questo caso non è un complimento).
Il cast, dove spicca naturalmente un Mastandrea (Leo) che sta lavorando tantissimo e con una media qualitativa altissima, vede pure Alba Rohrwacher (Diana), Luca Zingaretti (Malaffano), Claudia Gerini (Teresa), Giuseppe Battiston (Amanzio, personaggio che strappa sorrisi più volte), e una fugace apparizione di Giuseppe Cederna. Le voci delle statue sono di Pierfrancesco Favino (Garibaldi), Gigio Alberti (Cazzaniga), Neri Marcorè (Leonardo Da Vinci, Giacomo Leopardi, Giuseppe Verdi); la colonna sonora è della Banda Osiris, e ad un certo punto stanca. Sui titoli di coda, gli stessi collaborano con Vinicio Capossela, per il pezzo intitolato La cicogna.
Da salvare, è un mio pallino, il lavoro sulle inflessioni dialettali, accettabili finalmente. Mastandrea da napoletano, la Gerini da genovese, dimostrano che uno che si consideri attore deve avere anche questo nel suo bagaglio.

20121215

profezie

Hey Nostradamus! - di Douglas Coupland (2007)

In genere quand'ero a scuola mi stampavo in faccia un sorriso tranquillo e composto. Non lo facevo perché volevo essere amica di tutti, né per evitare di farmi dei nemici, ma semplicemente perché era più facile e non mi costringeva ad interagire. Un sorriso blando è come un semaforo verde a un incrocio: ti fa piacere quando lo vedi, ma te ne dimentichi non appena lo superi.
Cheryl, 1988

Nel 1988, in una scuola di Vancouver Nord, tre studenti si armano e decidono di fare una strage. Cheryl, che in segreto si era sposata con Jason, rimane uccisa. 1999: Jason, che è sopravvissuto, uccidendo uno degli assassini ma non riuscendo a salvare Cheryl, dopo 11 anni è un uomo solitario, semplice, che cerca ancora di elaborare quanto male gli abbiano fatto quegli eventi. Inizialmente fu visto come un sospetto, poi come un eroe. Questa cosa porta alla rottura tra i suoi genitori, quindi ad altri traumi, che per lui e per la sua famiglia, però, non sono ancora finiti. Scrive una lettera ai suoi nipoti, i figli del fratello maggiore Kent, morto in un incidente d'auto. Nel 2002, Heather, l'unica donna che è riuscita a far trovare un minimo di pace a Jason, che è ormai scomparso senza lasciare traccia, tiene un diario per fronteggiare la perdita. Heather conosce Allison, una medium, che incredibilmente riesce a dirle delle cose che solo Jason conosceva, e contemporaneamente le rivela quelli che paiono proprio messaggi di Jason. Allo stesso tempo, Heather riconsidera il suo rapporto con Reg, il padre di Jason, con il quale fino ad allora ha avuto una relazione difficile. Nel 2003, Reg, che stringendo il suo rapporto con Heather, e riconsiderando i suoi innumerevoli sbagli del passato, soprattutto nel suo rapporto con la famiglia, è molto cambiato, nel disperato tentativo di riavere indietro almeno uno dei suoi due figli, scrive una lettera a Jason, con l'intenzione di farne copie e affiggerle sugli alberi di una foresta nella quale è convinto che si sia nascosto il figlio.

Continuavano ad arrivarci dei drink, Barb continuava a berli e, una volta atterrati, non si reggeva più in piedi. Portarla da un gate all'altro all'aeroporto internazionale di Los Angeles fu come cercare di spingere un carrello della spesa pieno di palloncini in una giornata di vento.
Jason, 1999

Mi rendo conto che corro il rischio di non essere più imparziale nei confronti di Coupland. Ogni suo libro, che come potete controllare dalle recensioni leggo in ordine sparso e non cronologico, mi piace, mi piace molto. Questo, secondo alcune fonti, è stato fin'ora il più acclamato dalla critica. Chi lo sa. Quel che è certo, è che tra tutte le voci artistiche che hanno tentato di analizzare, metabolizzare ed elaborare il lutto causato da una strage, quella di Coupland è senza dubbio la più originale, e nello stesso tempo, conserva il suo stile caustico, ironico, ficcante, uno stile che tiene conto di tutti i maggiori temi dei nostri tempi, amore, sesso, rapporti familiari, religione e preghiera, dolore. Anche questo libro è costruito a più voci, ma come potrete intuire dal breve riassunto che ho scritto sopra, non in ordine cronologico. Coupland fa parlare prima una delle vittime, da morta, un po' come fa Alice Sebold in Amabili resti, e poi fa parlare altre tre persone legate a quella precedente come in una catena di Sant'Antonio, in ordine cronologico, illustrando prima (con Cheryl) i sentimenti che sono stati castrati con la strage, e poi i danni che ne derivano per le persone che sopravvivono. Ma ci sono speranze, possibilità, c'è uno spiraglio di redenzione.
Un ulteriore bel libro, divertente e profondo insieme.

Gli inverni trascorrevano nella pioggia a preparare i campi; sono stato educato all'idea che l'opposto del lavoro sia il furto, non l'ozio.
Reg, 2003

20121214

Trouble with the Curve

Di nuovo in gioco - di Robert Lorenz (2012)
Giudizio sintetico: da evitare (1,5/5)

Georgia, USA. Gus Lobel è uno scout di baseball che lavora per gli Atlanta Braves. Nonostante sia molto rispettato per la sua bravura, comincia ad avere un età, ha un carattere intrattabile, ed ha da qualche tempo seri problemi di vista. L'amata moglie è morta giovane, lui non si è più risposato, sua figlia Mickey è un avvocato di successo, che è cresciuta senza il di lui affetto: l'uomo l'ha fatta crescere ad alcuni parenti, e adesso, dopo tanti anni, il rapporto tra i due non è dei più semplici.
I giovani scout, che si aiutano con i dati ed usano soprattutto il computer, soprattutto il rampante ed arrogante Philip Sanderson, mettono in dubbio le capacità di Gus di apportare contributi sostanziali al team, e l'opportunità di fargli continuare a valutare potenziali acquisti molto costosi. Gus viene incaricato di verificare le effettive capacità di un giovane battitore particolarmente strafottente, Bo Gentry, ma Pete Klein, amico di vecchia data di Gus e dirigente dei Braves, comincia ad avere qualche dubbio anche lui, nonostante gli voglia un bene dell'anima. Invita Mickey a seguirlo, a stargli accanto, mentre la donna è ad un punto fondamentale della sua carriera. Inizialmente titubante, soprattutto per il carattere ruvido del padre, Mickey rinuncerà alla sua carriera per aiutare il padre non solo nel lavoro.

Ecco, a volte anche un appassionatissimo di cinema, quale mi reputo, si fa gabbare. E' il caso di questo Di nuovo in gioco (l'originale Trouble with the Curve si capisce vedendo il film, oppure intendendosene di baseball): la presenza di Clint Eastwood (Gus) e della deliziosa Amy Adams (Mickey) mi stuzzicavano senza darmi sicurezze. Mi aspettavo un filmetto, ma mi sono ritrovato una vera delusione, difficile da sopportare se non fosse stato per quelle decine di minuti nei quali mi sono immaginato fidanzato con la stessa Adams, soprattutto quando indossa stivali.
Lorenz è al debutto (così come lo sceneggiatore Randy Brown) come regista titolare, dopo aver fatto da secondo molte volte allo stesso Eastwood. La regia è accettabile, ma la sceneggiatura è veramente insipida e tremendamente prevedibile. Un film scontato, ma per fortuna mi aspettavo poco. Dimenticavo: c'è anche Justin Timberlake. E sticazzi?
Amy, ti amo lo stesso.

20121213

distacco

Detachment - Il distacco - di Tony Kaye (2012)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)

New York, USA. Henry Barthes è un insegnante. Un supplente, più precisamente. Gli viene assegnato un incarico di un mese presso una high school, la cui preside è Carol Dearden, già sull'orlo di una crisi di nervi, vessata continuamente dai superiori per gli scarsi risultati. Intorno alla preside, una schiera di insegnanti frustrati, collaboratori vicini al crollo, studenti impertinenti fino all'eccesso che non mostrano il minimo rispetto per chi dovrebbe insegnar loro i fondamentali della vita e della cultura. Henry ha un approccio personale e coinvolgente, ma anche lui ha i suoi problemi. Viene da un'infanzia non propriamente felice, e l'unico componente della sua famiglia è il nonno, ormai quasi completamente demente, che è ricoverato in un hospice, dove lui lo va a trovare quasi ogni giorno. Henry è un uomo solo che veste un'armatura di insensibilità, per nascondere la sua vera natura. Per un paio di sere di seguito si imbatte in Erica, una prostituta praticamente bambina; dopo averla respinta, soccombe alle sue richieste di qualcosa da mangiare, e la fa entrare a casa sua. La giovanissima ragazza si installa così a casa di Henry, e comincia a far parte della sua povera routine, proprio mentre lo stesso Henry viene approcciato da una collega, la bella Sarah.

Tony Kaye è il regista di American History X, film del 1999 divenuto (a ragione) oggetto di culto. Dopo alcuni film persi nei meandri della distribuzione ed un documentario sul dibattito riguardante l'aborto, ritorna sui nostri schermi con un film sicuramente fuori dal comune. Detachment è girato con molta camera a mano, e alterna una sorta di intervista/flusso di coscienza del protagonista in primissimo piano, che riflette sul suo io e sul suo modo di concepire l'insegnamento, con la storia vera e propria; non mancano intermezzi, chiamiamoli così, su alcuni dei collaboratori di Henry, e su una delle sue alunne, momenti personali e solitamente tristi, di sfogo e frustrazione. Una sorta di collage sullo stato decrepito e rovinoso della scuola statunitense, dove la figura del protagonista è il punteruolo che serve a scalfire la superficie e ad entrare dentro una situazione, senza dubbio estremizzata, ma che riesce a descrivere in maniera forte e decisa, come solo i più grandi riescono a fare. Aiutato da un cast fatto da nomi abbastanza importanti, che accettano ruoli marginali rilasciando comunque ottime prove (Marcia Gay Harden è la preside Dearden, suo marito è interpretato da Bryan Cranston, James Caan è il signor Seaboldt, Lucy Liu è la dottoressa Parker, Christina Hendricks è Sarah, Blythe Danner è la signora Perkins, Tim Blake Nelson è lo stralunato signor Wiatt), da una sorprendente Sami Gayle (16 anni) nei panni di Erica, e da un Adrien Brody (Henry Barthes) in forma "da Pianista", Kaye ci regala un film senza dubbio impegnativo da vedere, ma che al tempo stesso riesce a trasmettere un'inquietudine che possiamo far nostra (visto che pure la scuola italiana non naviga in acque migliori). Detachment è un film introspettivo, raffinato nei riferimenti letterari, pessimista, ma probabilmente necessario alla riflessione. Menzione particolare per Betty Kaye, la figlia del regista, che nella parte di Meredith ci fa sentire tutti in colpa.

20121212

babbo è un idolo

Papá es un ídolo - di Juan José Jusid (2000)
Giudizio sintetico: da evitare (1/5)

Argentina. Pablo è un ex sciatore professionale di grande successo, che ha dovuto abbandonare le piste per un grave infortunio; vive da padre single col figlio Martín, cucciolo sensibile, intelligente e divertente che non gli dà preoccupazioni. La moglie Melina lo ha abbandonato anni prima, scomparendo e senza voler sapere niente del bambino che era molto piccolo allora. A Pablo la cosa fa sempre un po' male, ma riesce a conviverci per amore di Martín. Decide di portare il piccolo sulle piste di sci, soprattutto per allontanarsi dai ricordi dolorosi e per passare un po' di tempo a divertirsi spensierati. Si recano dunque in Spagna, sulla Sierra Nevada, dove per l'appunto, sono in programma delle gare di sci a livello internazionale. Qui, padre e figlio fanno conoscenza con Angela e Vicky, madre e figlia spagnole, verso le quali Pablo e Martín hanno immediatamente una spiccata simpatia. Chissà che per Pablo non sia arrivato il momento di scongelare il cuore. Martín ci spera: gli duole vedere suo padre triste dentro. Inaspettatamente, al seguito della nuova sensazione dello sci internazionale Mauricio, ecco che arriva Melina, nello stesso hotel dove alloggiano Pablo, Martín, Angela e Vicky, che stanno diventando affiatati. Melina non è altro che la madre di Martín, ex moglie di Pablo, e adesso è fidanzata con Mauricio, appunto. Pablo non si vuole far vedere, ma sarà inevitabile. E' a quel punto che, mossa da quell'innato istinto materno, Melina inizia a far conoscenza con Martín, giustamente voglioso di poter finalmente passare un po' di tempo con la madre. Pablo, destabilizzato, inizia a temere di poter perdere l'affetto del figlio.

Mi sono messo a vedere questa pellicola spinto dalla simpatia verso Guillermo Francella, notissimo attore argentino, soprattutto comico, che in Italia abbiamo apprezzato per la sua parte tragica (cosa che ha stupito anche gli argentini) in Il segreto dei suoi occhi. Come saprà chi segue il blog, non è il primo lavoro di Francella che vedo, visto che quando posso seguo il cinema e, ultimamente, anche un po' di televisione argentina. E' certo però che la sensazione che ho avuto vedendo questo film, è stata di imbarazzo. Mi ha ricordato un po' i nostri vacanze di natale, senza dubbio meno volgare, questo è vero, ma di una melensaggine difficile da digerire. E vedere Francella in mezzo a un branco di attori e attrici tipicamente televisivi fa quasi piangere. Intendiamoci, Guillermo ha fatto moltissima tv, forse è famoso proprio per quella, ma ha decisamente una marcia in più. Di sicuro, questo film è uno degli episodi dei quali può andare meno fiero. Buffo notare che la sceneggiatura è di Marcos Carnevale, sceneggiatore e regista di alcune cose più interessanti; ve ne parlerò in seguito.

20121211

Pensione Oskar

Pensionat Oskar - di Susanne Bier (1995)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Svezia. La famiglia Runeberg, marito, moglie e tre figli di varie età, vive vicino a Stoccolma, in un ordinato quartiere con casette a schiera, giardino e posto auto. Posto fisso, orari programmati, tra Rune e Gunnel è rimasto un grande rispetto, ma di sicuro la passione, se c'era, è rimasta un ricordo. E' soprattutto per cercare di ravvivare la fiamma, che Rune organizza una bella vacanza estiva di famiglia al mare, sull'isola di Gotland. Presso la Pensione Oskar, affittano un bungalow, partono riempiendo l'auto di tutto l'occorrente, e alla fine eccoli pronti per rilassarsi e divertirsi. Ma Rune, anziché dedicarsi alla famiglia e a Gunnel, da quando si incrocia con Petrus, un giocoliere che funge da uomo tuttofare alla pensione, non riesce a resistergli, e passa tutto il suo tempo in sua compagnia. Questa cosa, che lui capisce benissimo non giova alla situazione, anzi, la peggiora, però lo fa sentire come non si era mai sentito prima...

Il terzo lungometraggio per il cinema della regista danese, premio Oscar nel 2011 con In un mondo migliore (categoria miglior film in lingua non inglese), è una storia che sembra uscita dalla penna di un giovane David Leavitt, raccontata in maniera quasi grottesca. Il tono, anche delle recitazioni, è farsesco, fa molto ridere, ed alterna momenti di disperazione dei protagonisti che sembrano non poter resistere alle loro pulsioni, pur rendendosi perfettamente conto che non stanno agendo in maniera "rispettabile". Perfino la fotografia è talmente carica di toni grigi che risulta buffa da tanto non è credibile, ma in alcuni momenti impressiona. Si ride, a denti stretti, si prova pena per il protagonista. Nel cast tutti perfetti sconosciuti per noi, ma un paio di loro (Stina Ekblad, qui Gunnel, e Philip Zandén, qui il sovrintendente della pensione) li rivedremo speriamo prossimamente nel nuovo film della Bier, dal titolo provvisorio internazionale di All You Need Is Love.

20121210

still steel

Acciaio - di Stefano Mordini (2012)
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)

Piombino, potrebbe essere qualche anno fa ma pure adesso. Anna e Francesca sono due amiche di quelle che difficilmente riescono ad immaginare di perdersi, un giorno. Frequentano ancora le scuole medie, e flirtano con i ragazzini solo perché vedono che di solito si fa così. Ognuna di loro ha un vuoto in famiglia. In casa di Anna il padre non c'è, non si sa dove sia e quando tornerà, la madre si dà da fare per tirare avanti come può, il fratello più grande Alessio lavora in acciaieria, la grande "mamma" della cittadina toscana, e non riesce ad immaginare un futuro diverso da quello. Francesca non ha fratelli, ma ha una madre sottomessa e un padre che pare più un despota che un familiare. Mentre le due bambine diventano donne, l'acciaieria passa di padrone in padrone licenziando di continuo e destabilizzando gli abitanti del territorio. L'equilibrio tra Anna e Francesca si rompe quando Anna si sveglia una mattina e trova in casa Mattia, un amico del fratello.

E' la solita, vecchia storia: quando ti capita di leggere un libro che ti piace, che poi diventa, o è già diventato, un best seller, non ti aspettare niente quando lo traspongono sullo schermo, perché potresti rimanere davvero deluso. Sinceramente, stavolta c'era pure un'aggravante che poteva pregiudicare il mio personale giudizio: Mordini aveva esordito nel lungometraggio di fiction con Provincia Meccanica, un film che si era meritato un giudizio vernacolare del tenore di "fa veramente ca'à" nonostante la presenza di Valentina Cervi e dei Mogwai nella colonna sonora. Vi posso assicurare che ce l'ho messa tutta per non (appunto) pre-giudicare, ma nonostante il mio impegno, quello di Mordini non è risultato sufficiente. Il libro in questione è l'omonimo Acciaio di Silvia Avallone, che mi piacque perché ruvido, realistico e un po' pruriginoso, e Mordini, che ha steso la sceneggiatura insieme a Giulia Calenda e alla stessa Avallone, non riesce a rendergli giustizia come dovrebbe. Lo stile di Mordini è riconoscibile, e seppur sia encomiabile l'ennesimo tentativo di distaccarsi da un qualcosa di "troppo italiano", finisce per far risultare la storia sfilacciata, e non solo perché taglia parti importanti e "censura" in gran parte il carattere del padre di Francesca, che a me era (dis)piaciuto nel libro (una sorta di orco che riceve una punizione quasi divina), ma soprattutto per il suo modo di staccare all'improvviso le scene, non riuscendo ad imprimere fluidità alla storia. Manca, insomma, qualcosa alla sufficienza, nonostante le prove di un sempre ottimo Michele Riondino (Alessio), una sorprendentemente accettabile Vittoria Puccini (Elena; anche la storia tra i due, nel film, soffre di poco approfondimento), ma soprattutto le straordinarie recitazioni delle due piombinesi debuttanti, Matilde Giannini (Anna) e Anna Bellezza (Francesca), due talenti naturali (e due bellezze in erba, soprattutto la prima) che avrebbero meritato un film migliore. Peccato.

20121209

Seven Psychopaths

7 psicopatici - di Martin McDonagh (2012)
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)

Siamo a Los Angeles, tra le altre cose la città del cinema. Marty è uno sceneggiatore che ha avuto successo, ma sta avendo dei problemi a terminare la sua ultima sceneggiatura che parla di sette psicopatici. In realtà, sono più che problemi: non ha scritto altro che il titolo. La sua crisi colpisce anche il suo rapporto con Kaya, la sua ragazza; il fatto che Billy, il miglior amico di Marty, cerchi di sollevare il morale dello sceneggiatore non aiuta per niente. Eppure, sarà proprio la vita incasinata di Billy che servirà a Marty per ritrovare l'ispirazione. Infatti, l'amico coinvolge Marty nella sua strampalata attività, che porta avanti insieme ad Hans: i due rapiscono cani, e poi chiedono il riscatto. Si sa, in una società tendenzialmente opulenta può succedere pure questo. Ma in una città così grande, con tanta povertà ma anche tanti soldi, c'è naturalmente chi cerca di fare soldi con crimini ben più gravi del rapimento dei cani. E quindi, quando Billy ed Hans rapiscono lo shih tzu di Charlie, un boss malavitoso piuttosto violento, Marty capisce di aver trovato il primo dei sette psicopatici di cui dovrebbe parlare la sua sceneggiatura ancora da scrivere.

Sarà che spesso ho più sonno di pomeriggio che dopo cena, ma se non fosse stato per la presenza di Olga Kurylenko (Angela, la donna di Charlie) prima, e di Tom Waits (Zachariah) poi, mi sarei fatto una dormita rigenerante. Si, perché nonostante la fotografia abbagliante, la violenza roboante, i continui cambi di ritmo e capovolgimenti di fronte, il meta-cinema, il funambolismo della regia, i dialoghi tarantiniani, un cast spettacolare e ricchissimo (utilizzato al minimo sindacale), dove neppure l'ennesima prestazione sopra le righe di Woody Harrelson (Charlie) è capace di riscattare un film che fa dell'aggressione allo spettatore la sua arma più potente. 7 psicopatici è, secondo me, tanto fumo e niente arrosto, ed è perfino un passo indietro rispetto al debutto In Bruges, che, ripensandoci alla luce di questo nuovo film, assume un significato diverso confrontato con la sorpresa dell'epoca. Sembra che McDonagh, così come ad esempio Guy Ritchie (che però almeno un paio di buoni film li ha fatti), si prefigga di ripercorrere le orme di un Tarantino che non c'è più, cercando di sfoderare tutti i trucchi del cinema di quel genere, in un tourbillon di situazioni grottesche miste a violenza più o meno gratuita.
Si dovrebbe capire che non mi è piaciuto molto, e che non lo consiglio.