No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20060925

cinematografo


Parliamo di film.

La stella che non c'è, di Gianni Amelio, parte in maniera promettente. Vincenzo Buonavolontà (un Castellitto sempre più Castellitto, nel senso che ormai è conclamato che è uno di quegli attori che adatta qualsiasi personaggio a se stesso, e non il contrario) è un manutentore di una fabbrica siderurgica; una delegazione cinese compra un altoforno in seguito alla dismissione dell'acciaieria in questione. Vincenzo sa che l'altoforno ha un difetto, e lo comunica al capo delegazione, facendo fare una figuraccia a Liu Hua (la debuttante Tai Ling), la traduttrice. Nonostante il capo delegazione sia cortese, se ne frega dei suoi consigli, ma Vincenzo, testardo, risolve il problema e parte per la Cina portando con sé il pezzo modificato e pronto per funzionare e mettere a posto il difetto. Una volta in Cina, scoprirà la difficoltà di comunicare, oltre a quella di rintracciare la fabbrica dove è stato rimontato l'altoforno. Lo aiuterà Liu, che inizialmente rifiuta, visto che per colpa di Vincenzo ha perso il lavoro. Il film si trasforma in un road-movie, attraversa un momento semi-sentimentale quando i due si fermano nel paese natale di Liu, dove la ragazza, si scopre, ha un figlio senza avere un uomo, e nel finale si perde completamente con un epilogo inverosimile e quasi ridicolo. A questo punto, era meglio fare un documentario sulla Cina.
Buoni gli intenti, scarsi i risultati.

Time, il nuovo lavoro di Kim Ki-Duk, ci parla di una coppia (Seh-hee e Ji-woo), nella quale Seh vive nel terrore che il suo uomo si possa disinnamorare di lei, ed è morbosamente gelosa. Decide allora di sottoporsi ad una plastica facciale, per avere un volto completamente diverso e rinnovare l'amore per Ji. L'amato è addolorato per la scomparsa di Seh, quando lei si ripresenta a lui e non viene riconosciuta. Poco a poco Ji si invaghisce, e a quel punto Seh diventa gelosa di se stessa. La rivelazione dell'accaduto scatenerà un finale a sorpresa.
Non c'è dubbio che la trama sia interessante, pur se macchinosa, e il film sia, come sempre quelli di Kim, assolutamente non scontato. Purtroppo, c'è qualcosa che non funziona. Manca un certo afflato poetico, che permeava quasi tutte le sue opere fin qui, sia quelle più delicate, sia quelle più violente; inoltre, i dialoghi, qui forse per la prima volta copiosi, sono ridicoli. Imbarazzanti a tratti.
C'è chi ha parlato di Cronenberg, mentre a me è venuto in mente Lynch, soprattutto quello di Strade Perdute o di Mulholland Drive, ma non c'è la stessa tensione sovrannaturale, il mistero: è tutto troppo freddo.
E', ripeto, apprezzabile l'iperbole sulla natura umana di fronte all'amore folle e alla gelosia, e sono indimenticabili almeno un paio di scene (Seh che piange al tramonto, con l'alta marea, nel parco delle sculture, seduta sulla "loro" scultura preferita, l'intera scenda con la maschera, davvero agghiacciante, tra l'altro, una delle numerose auto-citazioni del regista), ma Kim appare stanco, cosa che già si intuiva nel precedente L'Arco. Forse è il caso che rallenti un poco le produzioni.

The Queen di Stephen Frears è un bel film. Non è particolarmente profondo, anzi, è piuttosto divertente, ma ti lascia quell'amaro in bocca apparentemente immotivato, quello tutto da scoprire riflettendoci a posteriori. Ci illustra "dall'interno" i momenti immediatamente precedenti e susseguenti alla prima elezione di Tony Blair (Michael Sheen divertentissimo) e alla sua nomina a Primo Ministro, ma soprattutto alla morte di Diana Spencer. Per interno deve intendersi la vita della famiglia reale e, in parte, quella della famiglia del Primo Ministro inglese. Ci si ritrova a non sapere per chi parteggiare, visto che le recitazioni e le soggettive riescono a renderci partecipi dei drammi e delle dinamiche psicologiche dei vari personaggi.
Regia classica, con qualche concessione "epica" (i maestosi paesaggi della tenuta reale di Balmoral), recitazione impeccabile con una Helen Mirren (Elisabetta II) fantasticamente nella parte. Vale da sola il prezzo del biglietto.

Little Miss Sunshine, dei coniugi Jonathan Dayton e Valerie Faris, debuttanti alla regia ma esperti videoclippari, è una piacevole sorpresa. Un film all'apparenza leggerissimo, che però si rivela un Bubble (Steven Soderbergh) ambientato in una classe sociale leggermente differente. La famiglia Hoover già da sola invoglierebbe la visione: il padre è un teorico della motivazione, ed ha elaborato la teoria dei 9 passi verso il successo, ma lui per primo non lo ha; il nonno è un depravato che sniffa eroina, il figlio Dwayne è un accanito lettore di Nietzsche, non ha amici e ha fatto voto di silenzio da 9 mesi, fin quando non riuscirà a diventare pilota di jet, la figlia Olive vuole diventare Miss America ma è bruttina, lo zio è il più importante studioso statunitense di Proust, è gay ed è appena scampato ad un suicidio per questioni sentimentali. L'unica che pare normale è la madre, che però rischia di impazzire dentro questa gabbia di matti.
La determinazione di Olive a partecipare al concorso di Piccola Miss California li induce a salire tutti quanti su un vecchissimo furgoncino Volkswagen e a dirigersi verso la terra del sole. Ne succederanno di ogni.
Un cast molto ben allestito (Greg Kinnear, Alan Arkin, Steve Carell, Toni Collette - padre, nonno, zio e madre - più i bravissimi ragazzi Abigail Breslin, Olive, e Paul Dano, Dwayne, strepitoso), una regia quasi invasiva con impennate poetiche (Dwayne steso sul sedile posteriore e in alto i viadotti, la scena finale con i tre "inquadrati" nel lunotto posteriore del furgoncino), e una trama apparentemente incentrata sul mostrare una classica famiglia americana piena di problematiche, una famiglia di quasi-pazzi, che però, si dimostra alla fine tra le più normali, e, anzi, capace di reagire davanti all'imbecillità dominante, fa di questo film un ottimo passatempo. Tra l'altro, si ride parecchio.
Non imprescindibile, ma di questi tempi ce ne fosse.

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