Il giorno dopo, ridendo e scherzando, eravamo a sabato, ed era già passata una settimana. Al mattino, io e Ismail andiamo all'Hell's Gate National Park. Pochi giorni prima, mi dicono che ci sono morti alcuni ragazzi, che erano nella gola (che vedete nella terza e nella quarta foto), e sono stati travolti dall'ondata di piena causata naturalmente dalle copiose piogge. Tutti ci domandiamo che cosa ci stiano a fare i rangers del KWS. Un po' come in Italia (si chiude la stalla dopo che i buoi sono scappati), oggi la gola è chiusa. Lo scenario è comunque interessante, gli animali sono quelli più comuni, non pericolosi, ed è per questo che incrociamo diversi gruppetti di turisti in mountain bike; c'è perfino una relativamente piccola formazione rocciosa, sulla quale si può fare free-climbing. Un altro centro di interesse dovrebbe essere il centro culturale Maasai, accanto al villaggio della stessa tribù, ma, anche prima che me lo dica Ismail, capisco che entrando lì dentro, l'unica cosa da fare sarebbe resistere alle mille offerte di comprare qualcosa. La miseria e l'isolamento è però tangibile; la chiusura della gola fa si che quasi tutti i banchetti di legno che vendono artigianato maasai siano chiusi. L'unica donna che ha il banco "aperto" a malapena parla. Lo spettacolo della gola, anche vista da sopra e non da troppo vicino, è comunque impressionante. Ismail si ferma a chiedere informazioni sia ad una ranger (che sembrava intenta ad imparare ad andare in mountain bike, ma che, sarà il fascino della divisa verde militare, aveva il suo perché), sia a due uomini che sembravano del luogo, e risultano contrastanti, sulla chiusura della gola. Ad ogni modo, non c'è motivo per rischiare. Le zebre iniziano a rimanermi sui coglioni: ce ne sono così tante...
Torniamo a casa, e pranziamo con Susy, che ha finito di lavorare. Decidiamo che è arrivato il momento, anche per me, per andare all'orfanotrofio di Gilgil. In realtà è una sorta di casa-rifugio, non solo per orfani; Gilgil è un'altra cittadina, più o meno della grandezza di Naivasha, sempre sulla stessa autostrada lungo la quale c'è la tenuta dove lavora Susy, solo in direzione opposta. Susy è sempre stata attiva nel campo della solidarietà, e qui, essendo vicina, si è presa a cuore questo posto, oltre a dare una mano a molti ragazzi e ragazze che studiano, anche figli di dipendenti della tenuta. C'è un borsone di indumenti smessi, ma in buono stato, da portare ai bambini, quindi partiamo. Beh, è inutile che ve lo neghi: dopo 15 minuti che ero dentro all'orfanotrofio, con un bambino piccolissimo in braccio, ho stentato parecchio a trattenere le lacrime. E continuavo a ripetermi che il Kenya non è nella top ten dei paesi poveri...
La sussistenza degli abitanti del centro dovrebbe essere sostenuta dallo stato, ma com'è, come non è, molti dei 15/20 bambini sono malnutriti. Non c'è acqua corrente, non c'è elettricità, il gabinetto è esterno e malmesso. Tutti i bambini puzzano, è evidente che l'igiene personale è un optional. E non ve la starò a menare con i loro occhi: nonostante tutto, sono tutti bellissimi. Nelle stanze dove giocano, studiano, dormono, c'è un puzzo infernale. Susy mi sussurra: "che differenza, nascere in un posto o in un altro...". Oltre ai bambini, ci sono una ragazza sui 15 anni, Joice, e una più grande, Susan, che ha pure un figlio (quel piccolissimo che avevo in braccio poco fa). Poi c'è Zacharia, un anziano, che prova a coordinare, ma si sospetta che faccia un po' il furbo. Ci portano le pagelle dei bambini. Ismail le "interpreta", ed eleggiamo i due più meritevoli. Visto che non hanno ricevuto niente dal borsone degli indumenti, li portiamo con noi per comprargli qualcosa. Magari potremmo pure comprare qualcosa da mangiare a tutti. I due piccoli, Jaki e Paul, sembrano muti, robotici, anche se Paul, se lo guardi fisso, sorride. Jaki invece noi. Scendiamo mentre inizia a piovere, per le strade fatte di fango, i bambini hanno delle ciabattine di plastica, entriamo in un minimarket locale, i due sembrano storditi da quel poco che c'è. Prendiamo riso, ugali, carne, saponi. Poi proviamo qualche negozio di abbigliamento, ma ci sono cose troppo ricercate, vistose. Andiamo al mercato degli indumenti di seconda mano, e lì c'è veramente un sacco di gente. Riusciamo a trovare un giubbotto per Jaki (lo vedete nelle foto, si è messa il cappuccio e non se l'è tolto per almeno due giorni), ma non appena si sparge la voce che ci sono due bianchi che comprano, i prezzi lievitano. Io e Susy, insieme a Jaki, dopo che le abbiamo comprato pure un paio di stivalini di gomma, rimaniamo in macchina, Ismail si porta dietro Paul per comprare qualcosa pure a lui, con un po' più di calma. Insegno a Jaki ad usare le foto sul mio telefono, a sfogliarle, e come per magia comincia a parlare senza più smettere, naturalmente in swahili, e devo farmi aiutare da Susy per capire qualcosa. Le insegno a tirare i baci, ma è timida. Torna Ismail con stivalini e giubbotto per Paul (e pure delle mutandine per Jaki... poco prima, mentre io sollevavo Paul e Susy sollevava Jaki per passare sopra ad una pozzanghera, alla bambina sono cadute, e Susy mi ha detto "meno male non hai visto... roba da matti"), e riportiamo i bambini al centro. Ce ne andiamo a cena non senza un certo senso di colpa.
Jaki sorride, finalmente, col suo nuovo giubbottino |
Nessun commento:
Posta un commento