Hot Cakes - The Darkness (2012)
Il ritorno dei (The, mi raccomando) Darkness fa piuttosto cagare, diciamocelo. E' probabile che, rimasti parecchi debiti arretrati, i fratelli Hawkins e i loro pards abbiano deciso di provarci, per vedere di rimediare qualche spicciolo. Sia chiaro, i quattro del Suffolk non sono mai stati i campioni dell'originalità, ma almeno erano divertenti, scanzonati, sboccati, e riuscivano a scrivere canzoni che si dimenticano con difficoltà; anche se, pure questo va detto, già prima dello scioglimento erano in declino al secondo disco (One Way Ticket to Hell... and Back non ha nulla a che vedere con l'ottimo debutto Permission to Land).
E' triste vedere che, così come negli ultimi anni la durata della vita media delle band (che si è ridotta drasticamente), evidentemente spremuti da tour incessanti (del resto, i dischi non si vendono più, quindi non resta che dare concerti a raffica), anche il "ciclo" delle reunion, oggi di gran moda, sta accelerando sempre più. Una volta ci si riuniva dopo 20 anni, poi dopo 10, adesso dopo appena due dischi e una scomparsa prematura (del resto, a parte le droghe e la figa - forse -, un falsetto estenuante come quello di Justin non è che può durare per sempre), ecco una reunion. Roba da matti. Rimango dell'opinione che il modo migliore di riunire una band sia il metodo adottato dai Rage Against the Machine: solo tour, niente pezzi nuovi.
Ma sto divagando. Perché i nuovi (The) Darkness fanno cagare? Perché, credetemi, di questi undici pezzi, di questi 41 minuti scarsi, tra qualche mese, ma forse addirittura già tra qualche settimana, non vi ricorderete assolutamente niente. Anzi, qualcuno che ha ascoltato il disco appena uscito (quasi un mese e mezzo fa), se ne sarà già dimenticato. Dico, volete paragonare She Just a Girl, Eddie con I Believe in a Thing Called Love? O Every Inch of You con Growing on Me? Salvo i soli di chitarra, naturalmente, e qualche sporadico passaggio qua e là, ma mai una canzone intera. Sopravviveremo.
No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.
20120930
20120929
Player One. What is to Become of Us
Le ultime 5 ore - di Douglas Coupland (2010)
Karen viene da Winnipeg; è la segretaria di uno studio di psicologi, ha una figlia adoloscente che sta attraversando la fase emo, divorziata, sta per incontrare Warren, conosciuto on line. Rachel vive lì vicino, in casa dei genitori; alleva topi da laboratorio, e soffre di una serie di disabilità autistiche, a causa delle quali non capisce l'umorismo, le metafore, l'ironia, i comportamenti sociali. A questi si aggiunge la prosopagnosia (l'incapacità di riconoscere i volti). Rachel è bellissima, corpo da modella e viso delizioso; intelligentissima, vuole rimanere incinta per dimostrare a suo padre che lei è un essere umano, contrariamente a quello che le dice sempre lui. Luke è un ex pastore di una chiesa di Nipissing, Ontario. Ha perso la fede, ed ha rubato 20mila dollari dalle casse della chiesa, che ha appena abbandonato. Rick, ex alcolista, divorziato padre di un figlio, e che sta aspettando Leslie Freemont, un guru dell'auto-aiuto, per consegnargli tutti i suoi risparmi ed aderire al suo programma, è il barista del Toronto Airport Camelot Hotel, proprio il luogo dove gli altri tre personaggi si trovano, nel momento in cui il mondo, nel modo in cui lo conosciamo, cambia per sempre: per motivi ancora da chiarire, il prezzo del petrolio va alle stelle, cominciano esplosioni, saccheggi, gli aerei smettono di circolare, il caos si diffonde.
Sarò pure fissato, ma il canadese (nato in Germania), scrittore, saggista, biografo, sceneggiatore e perfino artista visuale, riesce sempre a colpirmi con le sue storie di finzione, con i suoi tocchi personali, la sua propensione al catastrofismo affrontato però con piglio dissacrante, le sue descrizioni così toccanti e al tempo stesso divertenti dei suoi personaggi: è probabilmente vero che sia "uno dei più grandi satiristi del consumismo". Possibili visioni del futuro, il nostro rapporto con la religione, la comunicazione, la tecnologia, i fondamenti del mondo cosiddetto occidentale.
Scritto per la Massey Lectures del 2010, presentato, capitolo per capitolo (e ogni capitolo rappresenta una delle ultime 5 ore), in cinque città del Canada diverse, ogni capitolo è composto dal punto di vista dei quattro protagonisti più un misterioso Giocatore Uno (il Player One del titolo originale), e, ricalcando un po' lo schema del precedente Generazione A, affronta i temi di sempre davanti ad uno scenario apocalittico, non da fine del mondo, bensì da cambiamento del mondo. La lettura è, come sempre, divertente e interessante, i temi alti ma affrontati con la solita graffiante ironia, alla quale corrisponde una scrittura dinamica, attuale e spassosa: prova schiacciante ne è il conclusivo glossario del futuro, che illustra concetti ancora inesistenti, ma che dovranno e potranno esistere, e che quindi necessiteranno di una definizione.
Karen viene da Winnipeg; è la segretaria di uno studio di psicologi, ha una figlia adoloscente che sta attraversando la fase emo, divorziata, sta per incontrare Warren, conosciuto on line. Rachel vive lì vicino, in casa dei genitori; alleva topi da laboratorio, e soffre di una serie di disabilità autistiche, a causa delle quali non capisce l'umorismo, le metafore, l'ironia, i comportamenti sociali. A questi si aggiunge la prosopagnosia (l'incapacità di riconoscere i volti). Rachel è bellissima, corpo da modella e viso delizioso; intelligentissima, vuole rimanere incinta per dimostrare a suo padre che lei è un essere umano, contrariamente a quello che le dice sempre lui. Luke è un ex pastore di una chiesa di Nipissing, Ontario. Ha perso la fede, ed ha rubato 20mila dollari dalle casse della chiesa, che ha appena abbandonato. Rick, ex alcolista, divorziato padre di un figlio, e che sta aspettando Leslie Freemont, un guru dell'auto-aiuto, per consegnargli tutti i suoi risparmi ed aderire al suo programma, è il barista del Toronto Airport Camelot Hotel, proprio il luogo dove gli altri tre personaggi si trovano, nel momento in cui il mondo, nel modo in cui lo conosciamo, cambia per sempre: per motivi ancora da chiarire, il prezzo del petrolio va alle stelle, cominciano esplosioni, saccheggi, gli aerei smettono di circolare, il caos si diffonde.
Sarò pure fissato, ma il canadese (nato in Germania), scrittore, saggista, biografo, sceneggiatore e perfino artista visuale, riesce sempre a colpirmi con le sue storie di finzione, con i suoi tocchi personali, la sua propensione al catastrofismo affrontato però con piglio dissacrante, le sue descrizioni così toccanti e al tempo stesso divertenti dei suoi personaggi: è probabilmente vero che sia "uno dei più grandi satiristi del consumismo". Possibili visioni del futuro, il nostro rapporto con la religione, la comunicazione, la tecnologia, i fondamenti del mondo cosiddetto occidentale.
Scritto per la Massey Lectures del 2010, presentato, capitolo per capitolo (e ogni capitolo rappresenta una delle ultime 5 ore), in cinque città del Canada diverse, ogni capitolo è composto dal punto di vista dei quattro protagonisti più un misterioso Giocatore Uno (il Player One del titolo originale), e, ricalcando un po' lo schema del precedente Generazione A, affronta i temi di sempre davanti ad uno scenario apocalittico, non da fine del mondo, bensì da cambiamento del mondo. La lettura è, come sempre, divertente e interessante, i temi alti ma affrontati con la solita graffiante ironia, alla quale corrisponde una scrittura dinamica, attuale e spassosa: prova schiacciante ne è il conclusivo glossario del futuro, che illustra concetti ancora inesistenti, ma che dovranno e potranno esistere, e che quindi necessiteranno di una definizione.
20120928
Mayis sikintisi
Nuvole di maggio - di Nuri Bilge Ceylan (2003)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: pallosetto
Muzaffer, un giovane regista turco che lavora ad Istanbul, torna al paese d'origine (Yenice, nella provincia di Canakkale) per girare un film con un cast di locali, parenti e amici. Trova i genitori un po' invecchiati, ma col solito piglio e le solite manie: la madre si lamenta di piccoli problemi di salute, il padre, testardo, è in lotta col governo centrale che non gli vuole riconoscere la proprietà, via usufrutto, del pezzo di terra con annesso boschetto, che lui coltiva e cura da tempo immemorabile. Il cugino Saffet lascia il lavoro illudendosi che Muzaffer gliene trovi uno ad Istanbul, mentre un altro cugino, il piccolo Ali, è impegnatissimo a portare in tasca per 40 giorni un uovo, per dimostrare alla madre di Muzaffer che è in grado di gestire se stesso, e soprattutto per ricevere in regalo da lei un orologio "musicale" che desidera più di ogni altra cosa. Muzaffer, aiutato da Saffet, comincia i casting.
Espansione del primo cortometraggio Koza, il regista turco già al secondo lungometraggio dimostra al tempo stesso realismo (utilizzando ancora una volta, così come in Koza ma anche in Kasaba, primo film; proseguirà praticando questo vezzo anche in seguito), ambizione (maneggiando il meta-cinema, girando un film su un regista che sta girando un film) e idee. La sua poetica, spesso ispirata, almeno così salta agli occhi, ai grandi maestri del cinema iraniano, è comunque personale. Cineasta sicuramente di non facile fruizione, usa uno stile pesante, fatto di azioni lente, di camera fissa e inquadrature reiterate, ma fa capire il suo potenziale anche a colpi di umorismo ed ironia. Il distacco dalla provincia, la realtà rurale turca, la saggezza dei vecchi, la ripetitività della vita, i ritmi reali, la recitazione il più possibile naturale, sono i suoi temi di sempre. Regista estremamente low budget, si rivelerà un artista da seguire, non certo da grandi successi al botteghino, ma amato dagli appassionati. Nei primi piani delle facce del padre e della madre, Emin e Fatma Ceylan, c'è la ragione per seguirlo ed il senso del suo cinema.
Film del 1999, in Italia è andato in onda direttamente in televisione nel 2003.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: pallosetto
Muzaffer, un giovane regista turco che lavora ad Istanbul, torna al paese d'origine (Yenice, nella provincia di Canakkale) per girare un film con un cast di locali, parenti e amici. Trova i genitori un po' invecchiati, ma col solito piglio e le solite manie: la madre si lamenta di piccoli problemi di salute, il padre, testardo, è in lotta col governo centrale che non gli vuole riconoscere la proprietà, via usufrutto, del pezzo di terra con annesso boschetto, che lui coltiva e cura da tempo immemorabile. Il cugino Saffet lascia il lavoro illudendosi che Muzaffer gliene trovi uno ad Istanbul, mentre un altro cugino, il piccolo Ali, è impegnatissimo a portare in tasca per 40 giorni un uovo, per dimostrare alla madre di Muzaffer che è in grado di gestire se stesso, e soprattutto per ricevere in regalo da lei un orologio "musicale" che desidera più di ogni altra cosa. Muzaffer, aiutato da Saffet, comincia i casting.
Espansione del primo cortometraggio Koza, il regista turco già al secondo lungometraggio dimostra al tempo stesso realismo (utilizzando ancora una volta, così come in Koza ma anche in Kasaba, primo film; proseguirà praticando questo vezzo anche in seguito), ambizione (maneggiando il meta-cinema, girando un film su un regista che sta girando un film) e idee. La sua poetica, spesso ispirata, almeno così salta agli occhi, ai grandi maestri del cinema iraniano, è comunque personale. Cineasta sicuramente di non facile fruizione, usa uno stile pesante, fatto di azioni lente, di camera fissa e inquadrature reiterate, ma fa capire il suo potenziale anche a colpi di umorismo ed ironia. Il distacco dalla provincia, la realtà rurale turca, la saggezza dei vecchi, la ripetitività della vita, i ritmi reali, la recitazione il più possibile naturale, sono i suoi temi di sempre. Regista estremamente low budget, si rivelerà un artista da seguire, non certo da grandi successi al botteghino, ma amato dagli appassionati. Nei primi piani delle facce del padre e della madre, Emin e Fatma Ceylan, c'è la ragione per seguirlo ed il senso del suo cinema.
Film del 1999, in Italia è andato in onda direttamente in televisione nel 2003.
20120927
signore della guerra
Lord of War - di Andrew Niccol (2005)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: o ull'aveva già fatto arbertone vesto firme vì?
Yuri Orlov è il signore della guerra. Arrivato dall'Ucraina quando era ancora piccolo, ha imparato fin da piccolo che per prosperare, bisogna scegliere di lavorare in campi che soddisfano i bisogni basilari dell'essere umano. Infatti, i genitori, stabilitisi a Little Odessa, Brooklyn, mettono su un ristorante, perché "la gente avrà sempre la necessità di mangiare". Sempre da piccolo, Yuri assiste a un episodio che gli fa capire un altro bisogno basilare dell'uomo: le armi. Il suo motto diventa, quindi: "There are over 550 million firearms worldwide circulation. That's one firearm for every twelve people on the planet. The only question is: how do we arm the other 11?" (Ci sono oltre 550 milioni di armi da fuoco in circolazione in tutto il mondo. Questo vuol dire un arma da fuoco ogni dodici persone sul pianeta. L'unica domanda è: come armiamo le altre 11?). Desidera fortemente diventare un grande commerciante d'armi, al punto che, ancora giovane, ad una fiera avvicina quello più conosciuto, Simeon Weisz, chiedendogli di diventare suo socio. Weisz lo deride, e questo è un altro fatto che lo segnerà per tutta la vita. Avvia la sua attività insieme al fratello Vitaly, cominciando con fucili americani della guerra del Libano del 1982, e pian piano, assumendo varie identità, conoscendo dittatori, e via discorrendo, diventa uno dei numeri uno. Fa talmente tanti soldi, che riesce ad inventarsi un fantastico stratagemma per far innamorare una delle modelle più belle del momento, fino a sposarla. Dietro di lui, quasi da subito, l'incorruttibile agente Interpol Jack Valentine.
Ufficialmente approvato da Amnesty International, Lord of War è un buon film nonostante il protagonista sia Nicolas una-sola-espressione Cage. C'è da dire che da Niccol, regista e sceneggiatore neozelandese particolarmente creativo (sue le sceneggiature di Gattaca, S1m0ne, The Truman Show, The Terminal, e pure di questo Lord of War, regista "solo" dei primi due e dell'ultimo, ovviamente), ma comunque mainstream, è lecito aspettarsi qualcosina in più; ma in fondo, è entertainment educativo, per così dire. Si spera, naturalmente, che film come questo servano a sensibilizzare l'opinione pubblica sul fatto che ci sono troppe armi in giro nel mondo. Diciamo pure che come regista, seppure con qualche sbruffonata di troppo (la scena dell'aereo), Niccol è bravo: si capisce già dai meravigliosi titoli di testa (la "vita" di una pallottola: spettacolare). Il resto sono belle facce: Bridget Moynahan è Ava Fontaine, la moglie ex modella di Yuri, Jared 30 Seconds to Mars Leto è Vitaly, il fratello di Yuri, Ethan Hawke è Valentine, l'agente Interpol. C'è anche Ian Holm nei panni di Weisz. Il film è godibile, seppure rimanga sempre un po' troppo superficiale: o almeno, questa è stata la mia impressione. O forse perché (vedi giudizio vernacolare, ma anche la scheda Wikipedia italiana) su questo stesso tema, Finché c'è guerra c'è speranza, di e con Albertone Sordi del 1974, con quel finale, è sempre stato uno dei miei film preferiti. Meno stiloso (ci sono pure 30 anni di distanza, con tutto ciò che ne consegue), ma senza dubbio più efficace.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: o ull'aveva già fatto arbertone vesto firme vì?
Yuri Orlov è il signore della guerra. Arrivato dall'Ucraina quando era ancora piccolo, ha imparato fin da piccolo che per prosperare, bisogna scegliere di lavorare in campi che soddisfano i bisogni basilari dell'essere umano. Infatti, i genitori, stabilitisi a Little Odessa, Brooklyn, mettono su un ristorante, perché "la gente avrà sempre la necessità di mangiare". Sempre da piccolo, Yuri assiste a un episodio che gli fa capire un altro bisogno basilare dell'uomo: le armi. Il suo motto diventa, quindi: "There are over 550 million firearms worldwide circulation. That's one firearm for every twelve people on the planet. The only question is: how do we arm the other 11?" (Ci sono oltre 550 milioni di armi da fuoco in circolazione in tutto il mondo. Questo vuol dire un arma da fuoco ogni dodici persone sul pianeta. L'unica domanda è: come armiamo le altre 11?). Desidera fortemente diventare un grande commerciante d'armi, al punto che, ancora giovane, ad una fiera avvicina quello più conosciuto, Simeon Weisz, chiedendogli di diventare suo socio. Weisz lo deride, e questo è un altro fatto che lo segnerà per tutta la vita. Avvia la sua attività insieme al fratello Vitaly, cominciando con fucili americani della guerra del Libano del 1982, e pian piano, assumendo varie identità, conoscendo dittatori, e via discorrendo, diventa uno dei numeri uno. Fa talmente tanti soldi, che riesce ad inventarsi un fantastico stratagemma per far innamorare una delle modelle più belle del momento, fino a sposarla. Dietro di lui, quasi da subito, l'incorruttibile agente Interpol Jack Valentine.
Ufficialmente approvato da Amnesty International, Lord of War è un buon film nonostante il protagonista sia Nicolas una-sola-espressione Cage. C'è da dire che da Niccol, regista e sceneggiatore neozelandese particolarmente creativo (sue le sceneggiature di Gattaca, S1m0ne, The Truman Show, The Terminal, e pure di questo Lord of War, regista "solo" dei primi due e dell'ultimo, ovviamente), ma comunque mainstream, è lecito aspettarsi qualcosina in più; ma in fondo, è entertainment educativo, per così dire. Si spera, naturalmente, che film come questo servano a sensibilizzare l'opinione pubblica sul fatto che ci sono troppe armi in giro nel mondo. Diciamo pure che come regista, seppure con qualche sbruffonata di troppo (la scena dell'aereo), Niccol è bravo: si capisce già dai meravigliosi titoli di testa (la "vita" di una pallottola: spettacolare). Il resto sono belle facce: Bridget Moynahan è Ava Fontaine, la moglie ex modella di Yuri, Jared 30 Seconds to Mars Leto è Vitaly, il fratello di Yuri, Ethan Hawke è Valentine, l'agente Interpol. C'è anche Ian Holm nei panni di Weisz. Il film è godibile, seppure rimanga sempre un po' troppo superficiale: o almeno, questa è stata la mia impressione. O forse perché (vedi giudizio vernacolare, ma anche la scheda Wikipedia italiana) su questo stesso tema, Finché c'è guerra c'è speranza, di e con Albertone Sordi del 1974, con quel finale, è sempre stato uno dei miei film preferiti. Meno stiloso (ci sono pure 30 anni di distanza, con tutto ciò che ne consegue), ma senza dubbio più efficace.
20120926
The Holiday
L'amore non va in vacanza - di Nancy Meyers (2007)
Giudizio sintetico: si può perdere (1/5)
Giudizio vernacolare: quando trombano?
Iris è inglese, Amanda è statunitense. Non si conoscono, ma entrambe ancora giovani e belle, hanno problemi con gli uomini. Entrambe sono state tradite, sono ancora attratte dai loro ex, che però non le meritano. Decidono che hanno bisogno di cambiare aria, per un po'. Navigando in rete, si conoscono virtualmente, e decidono di fare a cambio di casa per un po'. Ognuna parte per la destinazione opposta: Iris va a Los Angeles, nella grande e ricca dimora di Amanda, Amanda nel Surrey, nella piccola ma accogliente casa di campagna di Iris. Mentra Amanda si annoia subito del Surrey, Iris diventa amica di Arthur, un anziano sceneggiatore simpaticissimo, ma che rifugge i riconoscimenti alla sua età, vergognandosi di andare in giro col deambulatore, e Miles, un giovane e divertente compositore fidanzato con una bella attrice. Proprio quando Amanda si è convinta di tornarsene a casa, incontra Graham, il fratello di Iris...
Commedia romantica leggera leggera dall'esperta Nancy Meyers (What Women Want - Quello che le donne vogliono, Tutto può succedere, e più di recente E' complicato), con un buon ritmo e un cast ricchissimo, ma dalla prevedibilità esagerata. Cameron Diaz è Amanda, Kate Winslet è Iris, Jude Law è Graham, Jack Black è Miles, Eli Wallach è Arthur; ci sono anche Edward Burns (Ethan), Rufus Sewell (Jasper) e Shannyn Sossamon (Maggie). Da guardare mentre si fa altro.
Giudizio sintetico: si può perdere (1/5)
Giudizio vernacolare: quando trombano?
Iris è inglese, Amanda è statunitense. Non si conoscono, ma entrambe ancora giovani e belle, hanno problemi con gli uomini. Entrambe sono state tradite, sono ancora attratte dai loro ex, che però non le meritano. Decidono che hanno bisogno di cambiare aria, per un po'. Navigando in rete, si conoscono virtualmente, e decidono di fare a cambio di casa per un po'. Ognuna parte per la destinazione opposta: Iris va a Los Angeles, nella grande e ricca dimora di Amanda, Amanda nel Surrey, nella piccola ma accogliente casa di campagna di Iris. Mentra Amanda si annoia subito del Surrey, Iris diventa amica di Arthur, un anziano sceneggiatore simpaticissimo, ma che rifugge i riconoscimenti alla sua età, vergognandosi di andare in giro col deambulatore, e Miles, un giovane e divertente compositore fidanzato con una bella attrice. Proprio quando Amanda si è convinta di tornarsene a casa, incontra Graham, il fratello di Iris...
Commedia romantica leggera leggera dall'esperta Nancy Meyers (What Women Want - Quello che le donne vogliono, Tutto può succedere, e più di recente E' complicato), con un buon ritmo e un cast ricchissimo, ma dalla prevedibilità esagerata. Cameron Diaz è Amanda, Kate Winslet è Iris, Jude Law è Graham, Jack Black è Miles, Eli Wallach è Arthur; ci sono anche Edward Burns (Ethan), Rufus Sewell (Jasper) e Shannyn Sossamon (Maggie). Da guardare mentre si fa altro.
20120925
cambio di strategia
Game Change - di Jay Roach (2012)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: ve lommaginate 'sa succede vi?
Nel 2010, due anni dopo la corsa alla presidenza USA del 2008, Steve Schmidt, stratega di campagne elettorali e di pubbliche relazioni, e nel 2008 a capo del team di John McCain, rilasciò un'intervista al programma 60 Minutes su quella campagna, e specialmente a proposito della scelta di Sarah Palin come vice di McCain. Contro Barack Obama, definito una rockstar, ci voleva una scelta di rottura con la base del partito, ci voleva una persona che catalizzasse nuovi flussi di voto. Ecco quindi che Game Change ci mostra come avvenne la decisione, come fu comunicata all'allora Governatrice dell'Alaska, e come inizialmente si dimostrò talmente agguerrita e carismatica, tanto da far rimontare il loro ticket, nei sondaggi, nei confronti di Obama. Ma alla lunga, sia la totale impreparazione della Palin, soprattutto sulla politica estera, sia l'avventatezza della scelta del team di Schmidt stesso, mostrarono la corda: una serie di gaffes micidiali, da parte della Palin stessa, e la sua instabilità emotiva, fecero crollare un castello di carte.
Tratto dal libro Game Change: Obama and the Clintons, McCain and Palin, and the Race of a Lifetime, dei due giornalisti politici John Heilemann e Mark Halperin, questo film per la tv, ovviamente della HBO (e chi, se non loro?), diretto da Jay Roach (a me ha sorpreso, essendo stato il regista di film buffi, a volte molto buffi, ma tutto sommato sciocchini come i tre Austin Powers, Ti presento i miei e Mi presenti i tuoi?, A cena con un cretino - il remake del francese La cena dei cretini -; ma leggo che è capace anche di cose come Recount, film sulla settimana che seguì le elezioni presidenziali USA del 2000 e sul riconteggio dei voti in Florida, sempre però per la tv, sempre per la HBO) con una buona mano e con un ottimo ritmo, ci racconta un punto di vista su una "parentesi" di storia statunitense recente. Il film è godibile, e al tempo stesso ci porta non tanto dentro al meccanismo politico statunitense (di recente ci aveva pensato, e bene, Le idi di marzo), quanto dietro alle manipolazioni che i politici intentano verso l'opinione pubblica (sempre statunitense, ma la cosa si sta diffondendo, come potete facilmente intuire). Sarà che questo tipo di film, personalmente, mi piace molto, ma ho avuto anche la netta impressione che Roach sia stato anche molto bravo a dirigere gli attori. Anche se un cast del genere dà l'impressione di potersi dirigere da solo. Julianne Moore è una più che convincente Sarah Palin; Woody Harrelson è Steve Schmidt; Ed Harris è John McCain. Sono tutti molto bravi. C'è anche Peter MacNicol (l'indimenticabile "Biscottino", nella versione italiana, di Ally McBeal) nei panni di Rick Davis, altro consulente di McCain; ma nonostante i grossi nomi, quella che mi ha più colpito è stata Sarah Paulson, che interpreta Nicolle Wallace (altra vera consulente). Mi era molto piaciuta in Studio 60 on the Sunset Strip, ed in questo Game Change ho avuto la conferma che è davvero brava.
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: ve lommaginate 'sa succede vi?
Nel 2010, due anni dopo la corsa alla presidenza USA del 2008, Steve Schmidt, stratega di campagne elettorali e di pubbliche relazioni, e nel 2008 a capo del team di John McCain, rilasciò un'intervista al programma 60 Minutes su quella campagna, e specialmente a proposito della scelta di Sarah Palin come vice di McCain. Contro Barack Obama, definito una rockstar, ci voleva una scelta di rottura con la base del partito, ci voleva una persona che catalizzasse nuovi flussi di voto. Ecco quindi che Game Change ci mostra come avvenne la decisione, come fu comunicata all'allora Governatrice dell'Alaska, e come inizialmente si dimostrò talmente agguerrita e carismatica, tanto da far rimontare il loro ticket, nei sondaggi, nei confronti di Obama. Ma alla lunga, sia la totale impreparazione della Palin, soprattutto sulla politica estera, sia l'avventatezza della scelta del team di Schmidt stesso, mostrarono la corda: una serie di gaffes micidiali, da parte della Palin stessa, e la sua instabilità emotiva, fecero crollare un castello di carte.
Tratto dal libro Game Change: Obama and the Clintons, McCain and Palin, and the Race of a Lifetime, dei due giornalisti politici John Heilemann e Mark Halperin, questo film per la tv, ovviamente della HBO (e chi, se non loro?), diretto da Jay Roach (a me ha sorpreso, essendo stato il regista di film buffi, a volte molto buffi, ma tutto sommato sciocchini come i tre Austin Powers, Ti presento i miei e Mi presenti i tuoi?, A cena con un cretino - il remake del francese La cena dei cretini -; ma leggo che è capace anche di cose come Recount, film sulla settimana che seguì le elezioni presidenziali USA del 2000 e sul riconteggio dei voti in Florida, sempre però per la tv, sempre per la HBO) con una buona mano e con un ottimo ritmo, ci racconta un punto di vista su una "parentesi" di storia statunitense recente. Il film è godibile, e al tempo stesso ci porta non tanto dentro al meccanismo politico statunitense (di recente ci aveva pensato, e bene, Le idi di marzo), quanto dietro alle manipolazioni che i politici intentano verso l'opinione pubblica (sempre statunitense, ma la cosa si sta diffondendo, come potete facilmente intuire). Sarà che questo tipo di film, personalmente, mi piace molto, ma ho avuto anche la netta impressione che Roach sia stato anche molto bravo a dirigere gli attori. Anche se un cast del genere dà l'impressione di potersi dirigere da solo. Julianne Moore è una più che convincente Sarah Palin; Woody Harrelson è Steve Schmidt; Ed Harris è John McCain. Sono tutti molto bravi. C'è anche Peter MacNicol (l'indimenticabile "Biscottino", nella versione italiana, di Ally McBeal) nei panni di Rick Davis, altro consulente di McCain; ma nonostante i grossi nomi, quella che mi ha più colpito è stata Sarah Paulson, che interpreta Nicolle Wallace (altra vera consulente). Mi era molto piaciuta in Studio 60 on the Sunset Strip, ed in questo Game Change ho avuto la conferma che è davvero brava.
20120924
come pazzi
Like Crazy - di Drake Doremus (2011)
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: becchi e contenti?
Los Angeles, California. L.A. University. Jacob è un "locale", con la passione della falegnameria, già costruisce mobili artigianali, e sta studiando, appunto, all'università. Anna è una studentessa "di scambio", londinese, con visto di soggiorno in scadenza non appena terminerà gli studi. Si vedono, si conoscono, si innamorano. Ma non di un amore lieve, passeggero, stagionale: il loro è un amore folle, forte, tenace, forse quello vero, profondo. Forse per la vita. Ma, alla fine della scuola, c'è da pensare al fatto che Anna deve tornare in Inghilterra. Ci pensano e ci ripensano, si preparano al momento doloroso, escludono il matrimonio data l'ancor giovane età, i progetti di vita, vogliono prendersi ancora un po' di tempo. Ma, quando si arriva al dunque, Anna decide di violare la legge, e di non ripartire. I due sono felicissimi, e si godono ancora un po' di tempo insieme. Poi, Anna torna a casa, in visita. E dopo qualche tempo torna negli USA. O meglio, ci prova, perché quando arriva a passare i controlli all'aeroporto di Los Angeles, la violazione precedente viene notata, e la ragazza viene rimandata indietro con il divieto di ingresso negli Stati Uniti. Le pratiche per cancellare il "ban" sono lunghe e complesse, per cui, nell'attesa, Jacob ed Anna si devono adeguare alla nuova situazione che li vede innamorati ma separati da un oceano. Il tempo passa, la vita scorre, altre cose accadono, si conoscono persone nuove...
Non è certo un film trascendentale, questo inedito Like Crazy. Ma c'è da dire che chi, come ad esempio chi vi scrive, ha un debole per le storie d'amore, può essere dapprima incuriosito, e durante la visione può addirittura essere soddisfatto, sia pure in un modo masochistico, dal (ben) quarto lungometraggio del giovane (meno di 30 anni) regista di Orange, California. Masochistico perché in un amore così, ci deve essere per forza una componente che spinge a farsi del male per conto proprio. Ma si sa, così è spesso la vita.
Tocco lieve, telecamera che si disimpegna discretamente, film fatto dai due attori protagonisti, giovani ma che reggono piuttosto bene. Lui, Jacob, è Anton Yelchin, oggi 23enne, nato a Leningrado ma emigrato negli USA all'età di sei mesi, debutta a 11 anni con E.R., tanta tv e ultimamente lo abbiamo visto con Mel Gibson in Mr. Beaver, e con Colin Farrell in Fright Night. Lei, Anna, è Felicity Jones, deliziosa 29enne inglese di Birmingham con molta tv alle spalle pure lei, vista in Page Eight e in Hysteria (era la sorella di Maggie Gyllenhaal). Entrambi con l'espressione contrita per tutta la seconda parte del film, ma del resto è quello che gli chiedeva il regista. C'è pure la già leggendaria Jennifer Lawrence (candidata all'Oscar per il film precedente, Un gelido inverno, e fidanzata con Yelchin in Mr. Beaver, curiosamente), nella parte di Sam, il terzo (o quarto) incomodo.
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: becchi e contenti?
Los Angeles, California. L.A. University. Jacob è un "locale", con la passione della falegnameria, già costruisce mobili artigianali, e sta studiando, appunto, all'università. Anna è una studentessa "di scambio", londinese, con visto di soggiorno in scadenza non appena terminerà gli studi. Si vedono, si conoscono, si innamorano. Ma non di un amore lieve, passeggero, stagionale: il loro è un amore folle, forte, tenace, forse quello vero, profondo. Forse per la vita. Ma, alla fine della scuola, c'è da pensare al fatto che Anna deve tornare in Inghilterra. Ci pensano e ci ripensano, si preparano al momento doloroso, escludono il matrimonio data l'ancor giovane età, i progetti di vita, vogliono prendersi ancora un po' di tempo. Ma, quando si arriva al dunque, Anna decide di violare la legge, e di non ripartire. I due sono felicissimi, e si godono ancora un po' di tempo insieme. Poi, Anna torna a casa, in visita. E dopo qualche tempo torna negli USA. O meglio, ci prova, perché quando arriva a passare i controlli all'aeroporto di Los Angeles, la violazione precedente viene notata, e la ragazza viene rimandata indietro con il divieto di ingresso negli Stati Uniti. Le pratiche per cancellare il "ban" sono lunghe e complesse, per cui, nell'attesa, Jacob ed Anna si devono adeguare alla nuova situazione che li vede innamorati ma separati da un oceano. Il tempo passa, la vita scorre, altre cose accadono, si conoscono persone nuove...
Non è certo un film trascendentale, questo inedito Like Crazy. Ma c'è da dire che chi, come ad esempio chi vi scrive, ha un debole per le storie d'amore, può essere dapprima incuriosito, e durante la visione può addirittura essere soddisfatto, sia pure in un modo masochistico, dal (ben) quarto lungometraggio del giovane (meno di 30 anni) regista di Orange, California. Masochistico perché in un amore così, ci deve essere per forza una componente che spinge a farsi del male per conto proprio. Ma si sa, così è spesso la vita.
Tocco lieve, telecamera che si disimpegna discretamente, film fatto dai due attori protagonisti, giovani ma che reggono piuttosto bene. Lui, Jacob, è Anton Yelchin, oggi 23enne, nato a Leningrado ma emigrato negli USA all'età di sei mesi, debutta a 11 anni con E.R., tanta tv e ultimamente lo abbiamo visto con Mel Gibson in Mr. Beaver, e con Colin Farrell in Fright Night. Lei, Anna, è Felicity Jones, deliziosa 29enne inglese di Birmingham con molta tv alle spalle pure lei, vista in Page Eight e in Hysteria (era la sorella di Maggie Gyllenhaal). Entrambi con l'espressione contrita per tutta la seconda parte del film, ma del resto è quello che gli chiedeva il regista. C'è pure la già leggendaria Jennifer Lawrence (candidata all'Oscar per il film precedente, Un gelido inverno, e fidanzata con Yelchin in Mr. Beaver, curiosamente), nella parte di Sam, il terzo (o quarto) incomodo.
una goccia di Chanel
La scusa è rammentarvi che è ripreso, da circa un paio di settimane, Sons of Anarchy: siamo alla quinta stagione, dopo una quarta che da molti, me compreso, è stata considerata la migliore fin'ora. Il fatto è che, per l'ennesima volta, nel secondo episodio, Authority Vested, andato in onda lo scorso martedì 18 settembre, diretto tra l'altro da Peter Weller, meglio conosciuto come attore (Robocop, Il pasto nudo), c'è un cameo di un'attrice porno vera (e non un fake, come quella interpretata da Winter Ave Zoli). Era già accaduto nelle serie precedenti, anche con un attore, e naturalmente se ne sono accorti solo gli "esperti" del settore (scusate se mi ritengo tale). Stavolta è toccato alla splendida Chanel Preston, che potete ammirare nella foto allegata, anche se devo ammettere che non le rende abbastanza giustizia. Naturalmente sono sobbalzato sul divano.
20120923
tempo dei coraggiosi
Tiempo de valientes - di Damián Szifrón (2005)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: ganzetto
Buenos Aires, Argentina. Mariano Silverstein ed Alfredo Díaz non si conoscono. Sono lontani anni luce. Ma sono destinati a diventare migliori amici. Succede che Mariano, uno psicanalista benestante, sposato apparentemente in maniera felice, ma senza figli, con una bella casa in un bel quartiere, investe una signora mentre sta guidando, e viene giudicato colpevole; per questo motivo, viene destinato ad una pena "sociale". Dovrà far coppia con un poliziotto; il giudice decide che dovrà affiancare Alfredo, un poliziotto investigativo che ultimamente sta entrando in una sorta di depressione: ha scoperto che l'amata moglie lo tradiva. Naturalmente, all'inizio Mariano non vede l'ora che la sua "pena" termini, ed Alfredo non ci fa neppure caso, tanto ha la testa da un'altra parte. Ma, per un motivo futile, Mariano invita Alfredo a rimanere a cena. In quell'occasione, l'apparentemente distante Alfredo, intuisce dopo qualche minuto, e riesce a far confessare alla moglie di Mariano che lo ha tradito. Incredulo, Mariano va via di casa; Alfredo si dimostra insolitamente solidale, e i due pian piano diventano una vera coppia di investigatori. Alfredo sta lavorando ad un caso di doppio omicidio, e stupisce Mariano dimostrandosi un investigatore più che esperto. Le tracce, un po' alla volta, svelano una trama molto più ampia, che porta fino ai servizi segreti argentini, e ad un traffico internazionale di uranio, che dovrebbe servire alla costruzione di armi nucleari.
Secondo lungometraggio per il cinema del brillante giovane regista/sceneggiatore argentino creatore de Los Simuladores, una serie poliziesca che in Argentina ha fatto furore, e ha beneficiato di ben quattro rifacimenti (Cile, Spagna, Messico e addirittura Russia). Un po' Arma letale, ma con una freschezza e un umorismo tutto argentino, il film ha un buon ritmo e beneficia di una coppia di attori la cui alchimia funziona immediatamente. Uno è Luis Luque (Alfredo Díaz), attore di teatro e soprattutto di televisione, e l'altro è il più famoso Diego Peretti (curiosamente anche psicologo nella realtà, e ancor più curiosamente, negli ultimi tempi impegnati nel remake argentino di In Treatment), sconosciuto in Italia, ma del quale vi ho già parlato in occasione dei film di Juan Taratuto (Peretti appare in No sos vos, soy yo e in ¿Quién dice que es fácil?) e del debutto alla regia del mitico Ricardo Darín (La señal), un attore davvero degno di nota, fisicamente divertente e dotato di un discreto carisma. La prima parte regge meglio rispetto alla seconda, ma in generale si tratta di un buon film che conferma la solidità di Szifrón sia come sceneggiatore, sia come regista.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: ganzetto
Buenos Aires, Argentina. Mariano Silverstein ed Alfredo Díaz non si conoscono. Sono lontani anni luce. Ma sono destinati a diventare migliori amici. Succede che Mariano, uno psicanalista benestante, sposato apparentemente in maniera felice, ma senza figli, con una bella casa in un bel quartiere, investe una signora mentre sta guidando, e viene giudicato colpevole; per questo motivo, viene destinato ad una pena "sociale". Dovrà far coppia con un poliziotto; il giudice decide che dovrà affiancare Alfredo, un poliziotto investigativo che ultimamente sta entrando in una sorta di depressione: ha scoperto che l'amata moglie lo tradiva. Naturalmente, all'inizio Mariano non vede l'ora che la sua "pena" termini, ed Alfredo non ci fa neppure caso, tanto ha la testa da un'altra parte. Ma, per un motivo futile, Mariano invita Alfredo a rimanere a cena. In quell'occasione, l'apparentemente distante Alfredo, intuisce dopo qualche minuto, e riesce a far confessare alla moglie di Mariano che lo ha tradito. Incredulo, Mariano va via di casa; Alfredo si dimostra insolitamente solidale, e i due pian piano diventano una vera coppia di investigatori. Alfredo sta lavorando ad un caso di doppio omicidio, e stupisce Mariano dimostrandosi un investigatore più che esperto. Le tracce, un po' alla volta, svelano una trama molto più ampia, che porta fino ai servizi segreti argentini, e ad un traffico internazionale di uranio, che dovrebbe servire alla costruzione di armi nucleari.
Secondo lungometraggio per il cinema del brillante giovane regista/sceneggiatore argentino creatore de Los Simuladores, una serie poliziesca che in Argentina ha fatto furore, e ha beneficiato di ben quattro rifacimenti (Cile, Spagna, Messico e addirittura Russia). Un po' Arma letale, ma con una freschezza e un umorismo tutto argentino, il film ha un buon ritmo e beneficia di una coppia di attori la cui alchimia funziona immediatamente. Uno è Luis Luque (Alfredo Díaz), attore di teatro e soprattutto di televisione, e l'altro è il più famoso Diego Peretti (curiosamente anche psicologo nella realtà, e ancor più curiosamente, negli ultimi tempi impegnati nel remake argentino di In Treatment), sconosciuto in Italia, ma del quale vi ho già parlato in occasione dei film di Juan Taratuto (Peretti appare in No sos vos, soy yo e in ¿Quién dice que es fácil?) e del debutto alla regia del mitico Ricardo Darín (La señal), un attore davvero degno di nota, fisicamente divertente e dotato di un discreto carisma. La prima parte regge meglio rispetto alla seconda, ma in generale si tratta di un buon film che conferma la solidità di Szifrón sia come sceneggiatore, sia come regista.
20120922
sabba dal vivo
Lo so, è strano. A volte però bisogna seguire le intuizioni; il progetto di questa recensione doppia è nato dalla segnalazione dell'amico Monty a proposito di Reunion, un live dei Black Sabbath in formazione originale, del quale ignoravo l'esistenza, pensate un po'. Il collegamento è stato automatico: pensando alla mitica band inglese, che ha praticamente inventato l'heavy metal, ho ricordato l'altro disco del quale parleremo, che vede invece il compianto Ronnie James Dio alla voce. Ve ne parlerò insieme non per fare confronti, ma per sottolineare due grandi dischi di un'unica grande band; sarà naturale, comunque, fare dei paralleli.
Live Evil - Black Sabbath (1982)
La storia di Live Evil è un po' come la storia dei Sabbath stessi: difficile, tormentata. Frutto del tour seguente alla pubblicazione di Mob Rules, secondo disco con Dio dopo Heaven and Hell e primo con Vinny Appice alla batteria, subentrato dopo una delle innumerevoli fuoriuscite di Bill Ward dalla band, disco che testimonia le serate di Dallas, San Antonio e Seattle, ebbe un missaggio che scatenò un furioso litigio tra Tony Iommi e RJ Dio. Brevemente, Iommi sosteneva che Dio avesse alzato i volumi di voce e batteria a discapito di quelli di basso e chitarra (pare che la colpa sia stata poi verificata essere semplicemente di un tecnico del suono); Dio negò fortemente, e lasciò la band insieme ad Appice, formando (appunto) i Dio. Sulle note di copertina, infatti, i due componenti fuoriusciti appaiono come collaboratori, e non come parte della band. Ora, il missaggio effettivamente non è bellissimo, soprattutto il pubblico è appena percettibile; ma ciò non inficia la maestosità di questo disco dal vivo. Tra l'altro, all'epoca era il primo ed unico live ufficiale dei Sabbath, visto che Live at Last del 1980 fu pubblicato senza il permesso della band (è stato poi "riconosciuto" in seguito). La scaletta è abbastanza ben bilanciata tra vecchi classici (N.I.B., Children of the Grave, Black Sabbath, Paranoid, War Pigs e Iron Man) e pezzi tratti dai due dischi in studio del periodo RJ Dio, e, a parte la bravura dei musicisti, mostra la grandezza di Ronnie, che si confronta con i pezzi storici del periodo Ozzy senza nessun timore reverenziale, anzi, li prende di petto e li interpreta a modo suo, arrivando perfino a personalizzarli. Spazio agli assoli di chitarra e batteria, memorabile l'interminabile versione di Heaven and Hell, che in pratica si estende per circa 23 minuti (per la versione vinile, a cavallo della facciata 3 e 4), racchiudendo anche The Sign of the Southern Cross e Paranoid. La sensazione è di grande professionalità, al servizio di una band che aveva già scritto la storia della musica, e stava proseguendo con dischi più che dignitosi.
Reunion - Black Sabbath (1998)
Testimonianza delle due serate al Birmingham NEC del dicembre 1997, Reunion è un disco che fa venire i brividi tanto esprime energia e scolpisce nel marmo, anche se non ce n'era per niente bisogno, il nome di una band sulla quale si è già detto tutto. E' vero che il basso "ingombrante" e pieno di Geezer Butler, il timbro inimitabile e "pazzoide" di Ozzy Osbourne, il drumming in equilibrio tra potenza bonhamiana ed influenze jazzy di Bill Ward, caratterizzano già perfettamente il marchio Black Sabbath; ma è innegabile che il rifferama di (Anthony Frank) Tony Iommi sia imprescindibile, se si parla del sabba nero. Oltre ai pezzi storici, sono presenti canzoni meno gettonate dal grande pubblico, ma che fanno felici i fan di una vita. E' forse proprio tra questi che bisogna cercare, per arrivare al godimento estremo. La versione di Snowblind è qualcosa di inarrivabile. Tra i grandi classici, questo disco dà l'occasione per una riflessione che definirei profonda: se qualcuno chiedesse "cos'è l'heavy metal?", basterebbe far partire la versione di Children of the Grave qui contenuta, ed i giochi sarebbero fatti. La carica del disco, che traspare dalla voce di Ozzy in versione "fomentatore", è davvero rimarchevole.
Contiene due inediti, Psycho Man e Selling My Soul, decenti senza dubbio, che mostrano esattamente quanto Iommi possa estirpare, con le sole sue pennate, la vena mainstream maturata dall'Ozzy solista.
Conclusioni
La signorilità di Ronnie James Dio è eguagliata dalla rozzezza di un Ozzy in grande spolvero. Per quanto Dio abbia contribuito ad un periodo davvero bello di una band che aveva evidentemente concluso un ciclo che rimarrà nella storia, e per quanto Ozzy sia meno professionale e spesso denoti dei limiti "tecnici", la sua carica quasi perversa è parte integrante dei Black Sabbath. Consiglio a tutti l'ascolto dei due live, ma naturalmente, se aveste tempo solo per uno dei due, la scelta cadrebbe inevitabilmente su Reunion.
Live Evil - Black Sabbath (1982)
La storia di Live Evil è un po' come la storia dei Sabbath stessi: difficile, tormentata. Frutto del tour seguente alla pubblicazione di Mob Rules, secondo disco con Dio dopo Heaven and Hell e primo con Vinny Appice alla batteria, subentrato dopo una delle innumerevoli fuoriuscite di Bill Ward dalla band, disco che testimonia le serate di Dallas, San Antonio e Seattle, ebbe un missaggio che scatenò un furioso litigio tra Tony Iommi e RJ Dio. Brevemente, Iommi sosteneva che Dio avesse alzato i volumi di voce e batteria a discapito di quelli di basso e chitarra (pare che la colpa sia stata poi verificata essere semplicemente di un tecnico del suono); Dio negò fortemente, e lasciò la band insieme ad Appice, formando (appunto) i Dio. Sulle note di copertina, infatti, i due componenti fuoriusciti appaiono come collaboratori, e non come parte della band. Ora, il missaggio effettivamente non è bellissimo, soprattutto il pubblico è appena percettibile; ma ciò non inficia la maestosità di questo disco dal vivo. Tra l'altro, all'epoca era il primo ed unico live ufficiale dei Sabbath, visto che Live at Last del 1980 fu pubblicato senza il permesso della band (è stato poi "riconosciuto" in seguito). La scaletta è abbastanza ben bilanciata tra vecchi classici (N.I.B., Children of the Grave, Black Sabbath, Paranoid, War Pigs e Iron Man) e pezzi tratti dai due dischi in studio del periodo RJ Dio, e, a parte la bravura dei musicisti, mostra la grandezza di Ronnie, che si confronta con i pezzi storici del periodo Ozzy senza nessun timore reverenziale, anzi, li prende di petto e li interpreta a modo suo, arrivando perfino a personalizzarli. Spazio agli assoli di chitarra e batteria, memorabile l'interminabile versione di Heaven and Hell, che in pratica si estende per circa 23 minuti (per la versione vinile, a cavallo della facciata 3 e 4), racchiudendo anche The Sign of the Southern Cross e Paranoid. La sensazione è di grande professionalità, al servizio di una band che aveva già scritto la storia della musica, e stava proseguendo con dischi più che dignitosi.
Reunion - Black Sabbath (1998)
Testimonianza delle due serate al Birmingham NEC del dicembre 1997, Reunion è un disco che fa venire i brividi tanto esprime energia e scolpisce nel marmo, anche se non ce n'era per niente bisogno, il nome di una band sulla quale si è già detto tutto. E' vero che il basso "ingombrante" e pieno di Geezer Butler, il timbro inimitabile e "pazzoide" di Ozzy Osbourne, il drumming in equilibrio tra potenza bonhamiana ed influenze jazzy di Bill Ward, caratterizzano già perfettamente il marchio Black Sabbath; ma è innegabile che il rifferama di (Anthony Frank) Tony Iommi sia imprescindibile, se si parla del sabba nero. Oltre ai pezzi storici, sono presenti canzoni meno gettonate dal grande pubblico, ma che fanno felici i fan di una vita. E' forse proprio tra questi che bisogna cercare, per arrivare al godimento estremo. La versione di Snowblind è qualcosa di inarrivabile. Tra i grandi classici, questo disco dà l'occasione per una riflessione che definirei profonda: se qualcuno chiedesse "cos'è l'heavy metal?", basterebbe far partire la versione di Children of the Grave qui contenuta, ed i giochi sarebbero fatti. La carica del disco, che traspare dalla voce di Ozzy in versione "fomentatore", è davvero rimarchevole.
Contiene due inediti, Psycho Man e Selling My Soul, decenti senza dubbio, che mostrano esattamente quanto Iommi possa estirpare, con le sole sue pennate, la vena mainstream maturata dall'Ozzy solista.
Conclusioni
La signorilità di Ronnie James Dio è eguagliata dalla rozzezza di un Ozzy in grande spolvero. Per quanto Dio abbia contribuito ad un periodo davvero bello di una band che aveva evidentemente concluso un ciclo che rimarrà nella storia, e per quanto Ozzy sia meno professionale e spesso denoti dei limiti "tecnici", la sua carica quasi perversa è parte integrante dei Black Sabbath. Consiglio a tutti l'ascolto dei due live, ma naturalmente, se aveste tempo solo per uno dei due, la scelta cadrebbe inevitabilmente su Reunion.
20120921
dolce e selvaggia
Sweet and Wild - Jewel (2010)
Soffrendo di mancanza d'affetto, l'ho capito perfino io (ché questa è una di quelle cose che uno cerca di nascondere perfino a se stesso), tendo a cercare delle "fidanzate musicali". Ecco, tipo una quindicina d'anni fa Jewel Kilcher, in arte solo Jewel, era un po' questo. Ricordo, vi avverto, potrei avervelo già raccontato una ventina di volte, di averla vista in concerto ai tempi della sua promozione di quel gioiellino che è Pieces of You, il suo debutto del 1995, in una sera di novembre allo Zelig di Milano, insieme ad un paio di centinaia di persone tra le quali Raf. Non so se mi sono innamorato quella sera o quella dopo, ripensandoci. Poi ci siamo lasciati, sicuramente quando ho ascoltato 0304, il suo disco pop del 2003. Ma, come dice giustamente il già citato Raffaele Riefoli, "certi amori non finiscono mai", e quindi ciclicamente, anche se ultimamente sapete benissimo che sono fidanzato con Basia, mi riavvicino a lei (Jewel). Lei, nel frattempo, è diventata mediamente famosa nel Nord America, ha scritto libri, ha fatto film, è diventata perfino un personaggio televisivo, mentre io sono ancora qui che aspetto da quasi 5 anni una promozione sul lavoro. Vedete voi se la vita è giusta.
Questo Sweet and Wild, di un paio d'anni fa, seguito poi nel 2011 da The Merry Goes 'Round, è al momento l'ultimo disco con materiale originale, dato che The Merry Goes 'Round, insieme a Lullaby del 2009, sono due album diciamo "per bambini", composti da traditional, ninne nanne, e cose così. E, non starete certamente più nella pelle dalla curiosità, lo so, vi chiederete: com'è 'sto cazzo di disco? E' buono, in realtà, anche se ormai sono passati i tempi delle ballate intimiste chitarra acustica e voce, per lasciare spazio ad un country-pop degno (come se fosse) della zia di Taylor Swift (a proposito, non sto più nella pelle io, ché sta per uscire il suo nuovo disco). Certo, la voce è sempre da usignolo, strepitosa in alcuni passaggi (I Love You Forever, per dirne una). Il songwriting è convenzionale, ma sicuramente le appartiene; e, ogni tanto, riesce ancora a rapire il cuore di un ragazzo: Fading, What You Are, Bad As It Gets, ed infine la bellissima e struggente Satisfied, possono davvero farti piangere.
Come dite? Volete parlare della copertina? No, davvero, lasciamo perdere. Ascoltate Satisfied, che è meglio.
Soffrendo di mancanza d'affetto, l'ho capito perfino io (ché questa è una di quelle cose che uno cerca di nascondere perfino a se stesso), tendo a cercare delle "fidanzate musicali". Ecco, tipo una quindicina d'anni fa Jewel Kilcher, in arte solo Jewel, era un po' questo. Ricordo, vi avverto, potrei avervelo già raccontato una ventina di volte, di averla vista in concerto ai tempi della sua promozione di quel gioiellino che è Pieces of You, il suo debutto del 1995, in una sera di novembre allo Zelig di Milano, insieme ad un paio di centinaia di persone tra le quali Raf. Non so se mi sono innamorato quella sera o quella dopo, ripensandoci. Poi ci siamo lasciati, sicuramente quando ho ascoltato 0304, il suo disco pop del 2003. Ma, come dice giustamente il già citato Raffaele Riefoli, "certi amori non finiscono mai", e quindi ciclicamente, anche se ultimamente sapete benissimo che sono fidanzato con Basia, mi riavvicino a lei (Jewel). Lei, nel frattempo, è diventata mediamente famosa nel Nord America, ha scritto libri, ha fatto film, è diventata perfino un personaggio televisivo, mentre io sono ancora qui che aspetto da quasi 5 anni una promozione sul lavoro. Vedete voi se la vita è giusta.
Questo Sweet and Wild, di un paio d'anni fa, seguito poi nel 2011 da The Merry Goes 'Round, è al momento l'ultimo disco con materiale originale, dato che The Merry Goes 'Round, insieme a Lullaby del 2009, sono due album diciamo "per bambini", composti da traditional, ninne nanne, e cose così. E, non starete certamente più nella pelle dalla curiosità, lo so, vi chiederete: com'è 'sto cazzo di disco? E' buono, in realtà, anche se ormai sono passati i tempi delle ballate intimiste chitarra acustica e voce, per lasciare spazio ad un country-pop degno (come se fosse) della zia di Taylor Swift (a proposito, non sto più nella pelle io, ché sta per uscire il suo nuovo disco). Certo, la voce è sempre da usignolo, strepitosa in alcuni passaggi (I Love You Forever, per dirne una). Il songwriting è convenzionale, ma sicuramente le appartiene; e, ogni tanto, riesce ancora a rapire il cuore di un ragazzo: Fading, What You Are, Bad As It Gets, ed infine la bellissima e struggente Satisfied, possono davvero farti piangere.
Come dite? Volete parlare della copertina? No, davvero, lasciamo perdere. Ascoltate Satisfied, che è meglio.
20120920
Dormant Beauty
Bella addormentata - di Marco Bellocchio (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: assassini!
Italia, 2009. Durante gli ultimi sei giorni di "vita" di Eluana Englaro, quattro storie che hanno direttamente o indirettamente a che fare con quella, si dipanano. Uliano Beffardi è un parlamentare del PdL che è dilaniato da una crisi di coscienza: vorrebbe, per coerenza personale, votare contro al decreto presentato e voluto dal suo partito, che si opporrebbe all'eutanasia: lui stesso, qualche tempo prima, ha "staccato la spina" a sua moglie, malata terminale, sulla di lei richiesta. Sua figlia Maria, divenuta attivista del Movimento per la vita, da quel giorno ha rapporti freddissimi con lui; mentre da Roma lo richiamano per votare il decreto, lei sta per partire per Udine, dove manifesterà e pregherà con gli altri attivisti, perché Eluana non venga lasciata morire. Poi c'è Rossa, una bella eroinomane che ha deciso di suicidarsi: il dottor Pallido, al quale Rossa tenta di rubare dei soldi, decide di convincerla a non farlo, forse infatuato della donna. Infine, la storia di una famiglia di attori: la madre, di origini francesi, grande e famosissima attrice, si è ritirata dalla scena per assistere e pregare per la figlia Rosa, in coma e dipendente dai macchinari proprio come Eluana. Il marito, attore dallo scarso esito, accetta a malincuore, ma con pacatezza, di essere escluso dalla di lei vita; il figlio Federico, aspirante attore, invece è colpito dolorosamente dal fatto, e reagisce con rabbioso egoismo. Sullo sfondo, oltre appunto al trasferimento di Eluana all'hospice La Quiete di Udine e la contrapposizione dei due "schieramenti" (pro e contro l'eutanasia), lo scontro istituzionale tra il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio, il tentativo in extremis della maggioranza di governo di bloccare il distacco dai macchinari, il distacco dei politici dalla gente comune, il tentativo di cavalcare l'oggi con una cieca indifferenza al domani, tipica della politica italiana.
Di primo acchito, Bella addormentata mi è parso il film più democristiano di Bellocchio, e pur non essendo un fine conoscitore del suo cinema, negli ultimi anni ne ho visti un po'. In realtà, è vero che questo film, il quale prende a pretesto la vicenda della morte di Eluana Englaro, è l'occasione di Bellocchio per lanciare la riflessione sulla libertà di scelta. Questa parte, a mio giudizio più politica, è interessante, e fa perdonare tutta una serie di scelte di sceneggiatura altrimenti prevedibili, forzate e piuttosto pacchiane. C'è poi una parte che non esiterei a definire qualunquista, ma che almeno il regista tenta di mettere in piedi con una certa classe: i politici italiani son tutti uguali, opportunisti, corrotti e ladri. La fotografia di Daniele Ciprì, lodata da tutta la critica, non mi è parsa trascendentale, ma magari sono io che me ne intendo poco. Bellocchio è capace di creare scene interessanti, ma le storie non si amalgamano benissimo, e alla fine ci si chiede se davvero tutte quante fossero così necessarie, così come un ritmo talmente soporifero da far desiderare l'eutanasia anche allo spettatore; è vero che ci piace il cinema che dica qualcosa, ma c'è modo e modo di dirlo, ed è arrivata l'ora di non dare più giudizi positivi solo per il nome del regista. Il cast è ricco, ma il tenore del film probabilmente non stimola grandi prove. Incomprensibili, per me, le lodi alla prestazione di Maya Sansa, attrice che stimo da tempi non sospetti, che qui interpreta Rossa: la Sansa non è credibile nei panni di una eroinomane, mi dispiace. Particolarmente negativa la prova di Brenno Placido nei panni di Federico: take it easy ragazzo. Sempre straordinario invece Roberto Herlitzka (il Senatore psichiatra), dignitoso Toni Servillo (Uliano Beffardi), non particolarmente memorabile l'interpretazione della grande Isabelle Huppert (la madre di Rosa, nelle note del cast iscritta come Divina Madre), anche se la sua presenza innalza sempre di tono qualsiasi film (il regista la omaggia anche con una citazione metacinematografica: c'è una scena nella quale il figlio sta guardando un suo vecchio film alla tv; il film esiste davvero, ed è La storia vera della signora delle camelie), non pervenuto il pur bravo Michele Riondino (Roberto), d'obbligo la citazione per Alba Rohrwacher (Maria Beffardi), che però continua a darmi l'impressione di interpretare sempre la stessa parte in quasi tutti i suoi film.
PS: la locandina non vi ricorda quella famosa scena finale de Le invasioni barbariche?
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: assassini!
Italia, 2009. Durante gli ultimi sei giorni di "vita" di Eluana Englaro, quattro storie che hanno direttamente o indirettamente a che fare con quella, si dipanano. Uliano Beffardi è un parlamentare del PdL che è dilaniato da una crisi di coscienza: vorrebbe, per coerenza personale, votare contro al decreto presentato e voluto dal suo partito, che si opporrebbe all'eutanasia: lui stesso, qualche tempo prima, ha "staccato la spina" a sua moglie, malata terminale, sulla di lei richiesta. Sua figlia Maria, divenuta attivista del Movimento per la vita, da quel giorno ha rapporti freddissimi con lui; mentre da Roma lo richiamano per votare il decreto, lei sta per partire per Udine, dove manifesterà e pregherà con gli altri attivisti, perché Eluana non venga lasciata morire. Poi c'è Rossa, una bella eroinomane che ha deciso di suicidarsi: il dottor Pallido, al quale Rossa tenta di rubare dei soldi, decide di convincerla a non farlo, forse infatuato della donna. Infine, la storia di una famiglia di attori: la madre, di origini francesi, grande e famosissima attrice, si è ritirata dalla scena per assistere e pregare per la figlia Rosa, in coma e dipendente dai macchinari proprio come Eluana. Il marito, attore dallo scarso esito, accetta a malincuore, ma con pacatezza, di essere escluso dalla di lei vita; il figlio Federico, aspirante attore, invece è colpito dolorosamente dal fatto, e reagisce con rabbioso egoismo. Sullo sfondo, oltre appunto al trasferimento di Eluana all'hospice La Quiete di Udine e la contrapposizione dei due "schieramenti" (pro e contro l'eutanasia), lo scontro istituzionale tra il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio, il tentativo in extremis della maggioranza di governo di bloccare il distacco dai macchinari, il distacco dei politici dalla gente comune, il tentativo di cavalcare l'oggi con una cieca indifferenza al domani, tipica della politica italiana.
Di primo acchito, Bella addormentata mi è parso il film più democristiano di Bellocchio, e pur non essendo un fine conoscitore del suo cinema, negli ultimi anni ne ho visti un po'. In realtà, è vero che questo film, il quale prende a pretesto la vicenda della morte di Eluana Englaro, è l'occasione di Bellocchio per lanciare la riflessione sulla libertà di scelta. Questa parte, a mio giudizio più politica, è interessante, e fa perdonare tutta una serie di scelte di sceneggiatura altrimenti prevedibili, forzate e piuttosto pacchiane. C'è poi una parte che non esiterei a definire qualunquista, ma che almeno il regista tenta di mettere in piedi con una certa classe: i politici italiani son tutti uguali, opportunisti, corrotti e ladri. La fotografia di Daniele Ciprì, lodata da tutta la critica, non mi è parsa trascendentale, ma magari sono io che me ne intendo poco. Bellocchio è capace di creare scene interessanti, ma le storie non si amalgamano benissimo, e alla fine ci si chiede se davvero tutte quante fossero così necessarie, così come un ritmo talmente soporifero da far desiderare l'eutanasia anche allo spettatore; è vero che ci piace il cinema che dica qualcosa, ma c'è modo e modo di dirlo, ed è arrivata l'ora di non dare più giudizi positivi solo per il nome del regista. Il cast è ricco, ma il tenore del film probabilmente non stimola grandi prove. Incomprensibili, per me, le lodi alla prestazione di Maya Sansa, attrice che stimo da tempi non sospetti, che qui interpreta Rossa: la Sansa non è credibile nei panni di una eroinomane, mi dispiace. Particolarmente negativa la prova di Brenno Placido nei panni di Federico: take it easy ragazzo. Sempre straordinario invece Roberto Herlitzka (il Senatore psichiatra), dignitoso Toni Servillo (Uliano Beffardi), non particolarmente memorabile l'interpretazione della grande Isabelle Huppert (la madre di Rosa, nelle note del cast iscritta come Divina Madre), anche se la sua presenza innalza sempre di tono qualsiasi film (il regista la omaggia anche con una citazione metacinematografica: c'è una scena nella quale il figlio sta guardando un suo vecchio film alla tv; il film esiste davvero, ed è La storia vera della signora delle camelie), non pervenuto il pur bravo Michele Riondino (Roberto), d'obbligo la citazione per Alba Rohrwacher (Maria Beffardi), che però continua a darmi l'impressione di interpretare sempre la stessa parte in quasi tutti i suoi film.
PS: la locandina non vi ricorda quella famosa scena finale de Le invasioni barbariche?
20120919
Little Black Book
Tutte le ex del mio ragazzo - di Nick Hurran (2005)
Giudizio sintetico: da evitare (1/5)
Giudizio vernacolare: come finisce?
Siamo a Boston, Massachusetts; Stacy, una giovane produttrice associata di show televisivi femminili, da qualche tempo convive con Derek, ed è convinta a fare il grande passo: Derek è l'uomo della sua vita. Circondata da "cattivi consigliere", si fa convincere a sbirciare nella sua agenda, e recupera i numeri di alcune sue ex. Spingendo sull'acceleratore, finge di organizzare dei casting/intervista per un nuovo programma, e convoca tre di queste ex di Derek per, appunto, intervistarle, e scoprire qualcosa in più di lui, apparentemente così chiuso, seppur amorevole. Quel che scopre non le fa piacere. Nel frattempo, la stessa Stacy si fa prendere la mano, divenendo amica di una di queste ex, e, sul posto di lavoro, è in atto una lotta senza quartiere per inventare nuovi format dal grande successo di pubblico, o quantomeno scovare persone che attirino grande audience. Stacy non si rende conto, ma si sta convertendo proprio in una di queste ultime...
Ha ragione chi dice che, nonostante il regista sia inglese, non c'è traccia di humour inglese in questo film. Immagino neppure nei suoi altri lavori, che per fortuna non mi è capitato di vedere neppure per caso (così come per caso mi è capitato di assistere a questo). La storia di una sorta di contrappasso (la gogna televisiva) al quale va incontro lentissimamente la protagonista Stacy, poteva anche essere un'idea quantomeno interessante, ma risulta altamente annacquata da insulsaggini varie sparse lungo tutto il cammino di questi faticosissimi 111 minuti. A dispetto di quanto mi siano simpatiche le labbra da Paperino di Brittany Murphy (Stacy), questo film è la dimostrazione palese di come si possa sprecare un cast stellare. Holly Hunter è Barb, Kathy Bates è Kippie Kann, Ron Livingston è Derek, Julianne Nicholson (Ester Randolph in Boardwalk Empire, seconda stagione) è Joyce, Stephen Tobolowksy (lo spassoso Stu Baggs di Californication) è Carl, Kevin Sussman (Stuart di The Big Bang Theory, Weeds 8) è Ira. Interessante, per gli appassionati di musica, un cameo di Gavin Rossdale nei panni del barista Random.
Giudizio sintetico: da evitare (1/5)
Giudizio vernacolare: come finisce?
Siamo a Boston, Massachusetts; Stacy, una giovane produttrice associata di show televisivi femminili, da qualche tempo convive con Derek, ed è convinta a fare il grande passo: Derek è l'uomo della sua vita. Circondata da "cattivi consigliere", si fa convincere a sbirciare nella sua agenda, e recupera i numeri di alcune sue ex. Spingendo sull'acceleratore, finge di organizzare dei casting/intervista per un nuovo programma, e convoca tre di queste ex di Derek per, appunto, intervistarle, e scoprire qualcosa in più di lui, apparentemente così chiuso, seppur amorevole. Quel che scopre non le fa piacere. Nel frattempo, la stessa Stacy si fa prendere la mano, divenendo amica di una di queste ex, e, sul posto di lavoro, è in atto una lotta senza quartiere per inventare nuovi format dal grande successo di pubblico, o quantomeno scovare persone che attirino grande audience. Stacy non si rende conto, ma si sta convertendo proprio in una di queste ultime...
Ha ragione chi dice che, nonostante il regista sia inglese, non c'è traccia di humour inglese in questo film. Immagino neppure nei suoi altri lavori, che per fortuna non mi è capitato di vedere neppure per caso (così come per caso mi è capitato di assistere a questo). La storia di una sorta di contrappasso (la gogna televisiva) al quale va incontro lentissimamente la protagonista Stacy, poteva anche essere un'idea quantomeno interessante, ma risulta altamente annacquata da insulsaggini varie sparse lungo tutto il cammino di questi faticosissimi 111 minuti. A dispetto di quanto mi siano simpatiche le labbra da Paperino di Brittany Murphy (Stacy), questo film è la dimostrazione palese di come si possa sprecare un cast stellare. Holly Hunter è Barb, Kathy Bates è Kippie Kann, Ron Livingston è Derek, Julianne Nicholson (Ester Randolph in Boardwalk Empire, seconda stagione) è Joyce, Stephen Tobolowksy (lo spassoso Stu Baggs di Californication) è Carl, Kevin Sussman (Stuart di The Big Bang Theory, Weeds 8) è Ira. Interessante, per gli appassionati di musica, un cameo di Gavin Rossdale nei panni del barista Random.
20120918
inseparable
Inseparabili - Il fuoco amico dei ricordi - di Alessandro Piperno (2012)
Sono passati più di vent'anni dal fattaccio. Dal "ritiro" dalla vita del padre Leo (poi morto), accusato ingiustamente di aver avuto una relazione con la fidanzatina di Samuel, il fratello minore di Filippo. I Pontecorvo, famiglia ebrea della Roma bene. Le vite dei due fratelli sono andate avanti; e, come per scherzo, hanno preso vie diametralmente opposte a quelle desiderate dai due. Filippo, che ha sposato una bellissima (e squilibrata) pseudo-attrice di fiction, ex ragazzina di Non è la Rai, il fratello maggiore che desiderava lavorare il meno possibile e fuggire dalla vita sociale, diventa improvvisamente famoso grazie ad un film da lui diretto e tratto da una sua graphic novel. Samuel, intrappolato dentro un rapporto di coppia che va avanti per inerzia, senza amore e soprattutto senza sesso, visto che lui stesso soffre di impotenza, Samuel che ha bruciato le tappe del mondo economico fino ad arrivare a New York, adesso, all'insaputa di tutti, alla vigilia delle nozze, è in bancarotta. E, a parte tutte queste cose, ancora nessuno, tra i due fratelli e la madre Rachel, a distanza di oltre vent'anni, ha mai parlato, pronunciato, chiarito, quel che è accaduto con il padre.
Vincitore del Premio Strega di quest'anno, Inseparabili è la seconda parte del dittico Il fuoco amico dei ricordi, dopo il precedente Persecuzione, che raccontava appunto il fattaccio occorso al padre dei protagonisti di questo secondo romanzo, e li "raccontava" da piccoli. Premettendo che non faccio granché caso ai premi, questo terzo libro di Piperno non mi è parso un lavoro talmente importante da vincere un premio. Per fare un paragone, visto che Persecuzione e Inseparabili sono le due parti di un dittico, ma che un pizzico di continuità (alcuni personaggi) esiste pure con il primo libro di Piperno Con le peggiori intenzioni, romanzo che si muoveva dentro il solito ambiente (evidentemente l'autore adesso deve dimostrarci di essere capace di conoscerne, o di saper raccontare, anche altri), quest'ultimo mi è piaciuto sicuramente di più del debutto, ma decisamente meno del precedente. Non metto in dubbio che Piperno sia uomo di cultura, ma la prosa appare scontata, inutilmente prolissa, ripetitiva, senza slanci; la storia va a strappi, e soffre di momenti piuttosto inutili. Sarà la differenza di estrazione sociale, forse, ma c'è sempre un senso di spocchia a tratti insopportabile, che, uscendo dalle righe, influenza me lettore, leggendo di questa famiglia, e che impedisce la nascita di emozioni; nel libro precedente, evidentemente, la tragedia occorsa al capofamiglia riusciva a suscitare un minimo se non di empatia, di pietà. A parte questo, probabilmente un mio problema (ma che potrebbe occorrere anche ad altri lettori), rimane l'altro fatto, e cioè quello che in generale questo libro non è certamente un capolavoro. L'impressione è che sia scritto così così, e che sia permeato di psicologia spicciola. Secondo me, un passo indietro.
Sono passati più di vent'anni dal fattaccio. Dal "ritiro" dalla vita del padre Leo (poi morto), accusato ingiustamente di aver avuto una relazione con la fidanzatina di Samuel, il fratello minore di Filippo. I Pontecorvo, famiglia ebrea della Roma bene. Le vite dei due fratelli sono andate avanti; e, come per scherzo, hanno preso vie diametralmente opposte a quelle desiderate dai due. Filippo, che ha sposato una bellissima (e squilibrata) pseudo-attrice di fiction, ex ragazzina di Non è la Rai, il fratello maggiore che desiderava lavorare il meno possibile e fuggire dalla vita sociale, diventa improvvisamente famoso grazie ad un film da lui diretto e tratto da una sua graphic novel. Samuel, intrappolato dentro un rapporto di coppia che va avanti per inerzia, senza amore e soprattutto senza sesso, visto che lui stesso soffre di impotenza, Samuel che ha bruciato le tappe del mondo economico fino ad arrivare a New York, adesso, all'insaputa di tutti, alla vigilia delle nozze, è in bancarotta. E, a parte tutte queste cose, ancora nessuno, tra i due fratelli e la madre Rachel, a distanza di oltre vent'anni, ha mai parlato, pronunciato, chiarito, quel che è accaduto con il padre.
Vincitore del Premio Strega di quest'anno, Inseparabili è la seconda parte del dittico Il fuoco amico dei ricordi, dopo il precedente Persecuzione, che raccontava appunto il fattaccio occorso al padre dei protagonisti di questo secondo romanzo, e li "raccontava" da piccoli. Premettendo che non faccio granché caso ai premi, questo terzo libro di Piperno non mi è parso un lavoro talmente importante da vincere un premio. Per fare un paragone, visto che Persecuzione e Inseparabili sono le due parti di un dittico, ma che un pizzico di continuità (alcuni personaggi) esiste pure con il primo libro di Piperno Con le peggiori intenzioni, romanzo che si muoveva dentro il solito ambiente (evidentemente l'autore adesso deve dimostrarci di essere capace di conoscerne, o di saper raccontare, anche altri), quest'ultimo mi è piaciuto sicuramente di più del debutto, ma decisamente meno del precedente. Non metto in dubbio che Piperno sia uomo di cultura, ma la prosa appare scontata, inutilmente prolissa, ripetitiva, senza slanci; la storia va a strappi, e soffre di momenti piuttosto inutili. Sarà la differenza di estrazione sociale, forse, ma c'è sempre un senso di spocchia a tratti insopportabile, che, uscendo dalle righe, influenza me lettore, leggendo di questa famiglia, e che impedisce la nascita di emozioni; nel libro precedente, evidentemente, la tragedia occorsa al capofamiglia riusciva a suscitare un minimo se non di empatia, di pietà. A parte questo, probabilmente un mio problema (ma che potrebbe occorrere anche ad altri lettori), rimane l'altro fatto, e cioè quello che in generale questo libro non è certamente un capolavoro. L'impressione è che sia scritto così così, e che sia permeato di psicologia spicciola. Secondo me, un passo indietro.
20120917
back to september
Ed eccoci all'ormai consueto post settembrino. Che ci crediate o no, non sono solo, tra i miei concittadini, ad avere la sensazione che a settembre le cose diventino di nuovo nostre, soprattutto il mare. E proprio il mare, complice il tempo, ci regala degli spettacoli simili.
Lo stabilimento balneare dove vado di solito, durante la stagione balneare. |
Marina di Bibbona, un luogo dove mi piace andare in "bassa stagione". La giornata era meno chiara, ma si può apprezzare la maggiore vicinanza dell'Isola d'Elba sullo sfondo. |
Les émotifs anonymes
Emotivi anonimi - di Jean-Pierre Améris (2011)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: ganzetto
Francia. Angélique Delange è una grandissima cioccolataia. Ama il cioccolato, è più di una droga: è la sublimazione del suo io. Solo col cioccolato riesce ad essere se stessa, pienamente e perfettamente realizzata. Non ha più paure. Perché Angélique è eccessivamente, esageratamente incredibilmente emotiva. Timida, tremolante, paranoica. Ed ecco perché, per esprimere al massimo le sue potenzialità, diventa "conosciuta" come "l'eremita": un mito tra gli amanti del cioccolato, ma nessuno conosce le sue fattezze. Nessuno sospetta che sia una donna. Ma rimane senza lavoro. E quindi, si mette, non senza enormi difficoltà, a cercarne un altro. Ovviamente, si rivolge ad altre piccole fabbriche di cioccolato. E un giorno, si presenta a quella di proprietà di Jean-René Van Den Hugde. E, indovinate un po'? Jean-René ha lo stesso, identico, spiccicato problema di Angélique. Immaginatevi il colloquio di lavoro: degno di Totò. Il risultato, però, è il preludio ad altre risate: Angélique viene assunta, ma come addetta alle vendite. Immaginatevi: una "emotiva anonima" (Angélique frequenta dei gruppi di sostegno di persone come lei, con le quali condivide le sue difficoltà) costretta, per lavoro, ad andarsene in giro per negozi per vendere il cioccolato della fabbrica artigianale di Jean-René ed i suoi collaboratori. Uno spasso. Insomma, per far girare le cose al meglio, due cose devono accadere: Angélique deve mettere in pratica le sue ricette, anziché andare in cerca di clienti, e sia lei che Jean-René devono riuscire a dichiarare l'un l'altro il loro reciproco amore. Perché è proprio così: sono fatti l'uno per l'altra.
Levigato, furbetto, ma anche delizioso film franco-belga, che in patria (nelle due, per la precisione) uscì sotto il Natale 2010, e da noi è uscito esattamente un anno dopo. Ed è risultato vincente, perché ha giustamente deliziato molti spettatori. Regia allegra che non perde occasione per piazzare nella narrazione inserti musical, due attori divertenti anche da soli, ma che insieme funzionano a meraviglia, una storia prevedibilissima, ma gentile, delicata e piena di speranza, ed il gioco è fatto.
Primo film di Améris che arriva da noi (ma non è il suo primo, assolutamente), i due protagonisti sono Benoit Poelvoorde nei panni di Jean-René (l'abbiamo visto in Mammuth e in Kill Me Please), e Isabelle Carré in quelli di Angélique (ultimamente anche in Ciliegine di Laura Morante, qualche anno fa ne I sentimenti), davvero bravi.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: ganzetto
Francia. Angélique Delange è una grandissima cioccolataia. Ama il cioccolato, è più di una droga: è la sublimazione del suo io. Solo col cioccolato riesce ad essere se stessa, pienamente e perfettamente realizzata. Non ha più paure. Perché Angélique è eccessivamente, esageratamente incredibilmente emotiva. Timida, tremolante, paranoica. Ed ecco perché, per esprimere al massimo le sue potenzialità, diventa "conosciuta" come "l'eremita": un mito tra gli amanti del cioccolato, ma nessuno conosce le sue fattezze. Nessuno sospetta che sia una donna. Ma rimane senza lavoro. E quindi, si mette, non senza enormi difficoltà, a cercarne un altro. Ovviamente, si rivolge ad altre piccole fabbriche di cioccolato. E un giorno, si presenta a quella di proprietà di Jean-René Van Den Hugde. E, indovinate un po'? Jean-René ha lo stesso, identico, spiccicato problema di Angélique. Immaginatevi il colloquio di lavoro: degno di Totò. Il risultato, però, è il preludio ad altre risate: Angélique viene assunta, ma come addetta alle vendite. Immaginatevi: una "emotiva anonima" (Angélique frequenta dei gruppi di sostegno di persone come lei, con le quali condivide le sue difficoltà) costretta, per lavoro, ad andarsene in giro per negozi per vendere il cioccolato della fabbrica artigianale di Jean-René ed i suoi collaboratori. Uno spasso. Insomma, per far girare le cose al meglio, due cose devono accadere: Angélique deve mettere in pratica le sue ricette, anziché andare in cerca di clienti, e sia lei che Jean-René devono riuscire a dichiarare l'un l'altro il loro reciproco amore. Perché è proprio così: sono fatti l'uno per l'altra.
Levigato, furbetto, ma anche delizioso film franco-belga, che in patria (nelle due, per la precisione) uscì sotto il Natale 2010, e da noi è uscito esattamente un anno dopo. Ed è risultato vincente, perché ha giustamente deliziato molti spettatori. Regia allegra che non perde occasione per piazzare nella narrazione inserti musical, due attori divertenti anche da soli, ma che insieme funzionano a meraviglia, una storia prevedibilissima, ma gentile, delicata e piena di speranza, ed il gioco è fatto.
Primo film di Améris che arriva da noi (ma non è il suo primo, assolutamente), i due protagonisti sono Benoit Poelvoorde nei panni di Jean-René (l'abbiamo visto in Mammuth e in Kill Me Please), e Isabelle Carré in quelli di Angélique (ultimamente anche in Ciliegine di Laura Morante, qualche anno fa ne I sentimenti), davvero bravi.
20120916
Intouchables
Quasi amici - di Olivier Nakache e Eric Toledano (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: eduazzione civi'a
Parigi. Driss è un giovane figlio di immigrati senagalesi, che vive nella banlieue con una famiglia numerosa. E' alla ricerca non di un lavoro, bensì di qualcuno che respinga la sua domanda di lavoro per poter avere il sussidio di disoccupazione, e tornarsene così a cazzeggiare e a fumare erba, cercando di stare lontano dai guai, e possibilmente, di farci rimanere pure uno dei fratelli, che comincia ad avere l'età per combinare casini. Driss si presenta quindi ad un colloquio di lavoro: il milionario Philippe, essendo tetraplegico, ed essendo rimasto sprovvisto di un infermiere a tempo pieno, ne cerca un altro, anche senza nessuna esperienza. naturalmente, a Driss non importa assolutamente di lasciare una buona impressione, e quindi si comporta di conseguenza. Quando torna a casa, la zia, che si prende cura di tutti, gli intima di andarsene, visto che erano mesi che Driss non dava sue notizie. Il giorno seguente, si reca nuovamente alla villa di Philippe per recuperare i documenti che attestano il rifiuto, e con sua immensa sorpresa, gli viene comunicato che è stato assunto per un periodo di prova. Comincia così una nuova fase nelle vite dei due personaggi, che non possono essere più diversi l'uno dall'altro.
Film francese campione d'incassi, ben accolto anche da noi, Quasi amici (che titolo di mmerda) è un film di un buonismo incredibilmente telefonato, prevedibile anche nelle gag che fanno indubbiamente ridere, ma che trovo veramente difficile criticare. Perché, parlando onestamente, è pure ben fatto (vedi la costruzione a flashback, con l'incipit d'azione). Ci sarebbero tutti i motivi per criticarlo: classica situazione di contrasto, due classi sociali lontane anni luce che si incontrano/scontrano, situazione in cui, essendo un film, ognuno impara qualcosa dall'altro. Verrebbe immediatamente da pensare che, nella vita reale, accadrebbe esattamente l'opposto. Ma qui c'è l'aggravante: la storia prende spunto da un fatto realmente accaduto (e la fotografia finale, che mostra i due veri protagonisti, ci svela la magia del cinema: i due sono veramente brutti!), e a questo punto, la voglia di essere cattivi lascia il posto anche ad una lacrimuccia.
E' poi sempre difficile criticare un film dove appare François Cluzet (Philippe), sempre bravissimo. Si fa apprezzare Omar Sy (Driss; lo avevamo visto anche in L'esplosivo piano di Bazil, tutte le mie amiche lo hanno qui apprezzato per la sua prestanza fisica); simpatico pure il cast di contorno.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: eduazzione civi'a
Parigi. Driss è un giovane figlio di immigrati senagalesi, che vive nella banlieue con una famiglia numerosa. E' alla ricerca non di un lavoro, bensì di qualcuno che respinga la sua domanda di lavoro per poter avere il sussidio di disoccupazione, e tornarsene così a cazzeggiare e a fumare erba, cercando di stare lontano dai guai, e possibilmente, di farci rimanere pure uno dei fratelli, che comincia ad avere l'età per combinare casini. Driss si presenta quindi ad un colloquio di lavoro: il milionario Philippe, essendo tetraplegico, ed essendo rimasto sprovvisto di un infermiere a tempo pieno, ne cerca un altro, anche senza nessuna esperienza. naturalmente, a Driss non importa assolutamente di lasciare una buona impressione, e quindi si comporta di conseguenza. Quando torna a casa, la zia, che si prende cura di tutti, gli intima di andarsene, visto che erano mesi che Driss non dava sue notizie. Il giorno seguente, si reca nuovamente alla villa di Philippe per recuperare i documenti che attestano il rifiuto, e con sua immensa sorpresa, gli viene comunicato che è stato assunto per un periodo di prova. Comincia così una nuova fase nelle vite dei due personaggi, che non possono essere più diversi l'uno dall'altro.
Film francese campione d'incassi, ben accolto anche da noi, Quasi amici (che titolo di mmerda) è un film di un buonismo incredibilmente telefonato, prevedibile anche nelle gag che fanno indubbiamente ridere, ma che trovo veramente difficile criticare. Perché, parlando onestamente, è pure ben fatto (vedi la costruzione a flashback, con l'incipit d'azione). Ci sarebbero tutti i motivi per criticarlo: classica situazione di contrasto, due classi sociali lontane anni luce che si incontrano/scontrano, situazione in cui, essendo un film, ognuno impara qualcosa dall'altro. Verrebbe immediatamente da pensare che, nella vita reale, accadrebbe esattamente l'opposto. Ma qui c'è l'aggravante: la storia prende spunto da un fatto realmente accaduto (e la fotografia finale, che mostra i due veri protagonisti, ci svela la magia del cinema: i due sono veramente brutti!), e a questo punto, la voglia di essere cattivi lascia il posto anche ad una lacrimuccia.
E' poi sempre difficile criticare un film dove appare François Cluzet (Philippe), sempre bravissimo. Si fa apprezzare Omar Sy (Driss; lo avevamo visto anche in L'esplosivo piano di Bazil, tutte le mie amiche lo hanno qui apprezzato per la sua prestanza fisica); simpatico pure il cast di contorno.
20120915
isteria
Hysteria - di Tania Wexler (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: ganzetto
Nella Londra Vittoriana, Mortimer Granville, un giovane laureato in medicina adottato dalla famiglia St. John-Smythe, lavora in decine di ospedali ma continua ad essere licenziato. Il suo problema non è l'incompetenza, bensì il suo essere in anticipo sui tempi: in ogni ospedale, sostiene strenuamente le regole igieniche di base, e si preoccupa costantemente della presenza dei germi. Credeteci o no, all'epoca la maggior parte dei dottori non credeva alla loro esistenza, per cui Granville viene costantemente messo alla porta. Alla continua ricerca di un impiego che gli permetta, prima o poi, di avere un reddito stabile e, di conseguenza, una posizione, una moglie e una famiglia, si presenta all'ambulatorio del dottor Dalrymple. Il dottore in questione è specializzato nella cura di quello che si credeva all'epoca il male del secolo: l'isteria femminile. Dalrymple ha sempre l'anticamera piena, visto che pratica il massaggio vaginale. Granville viene assunto all'istante, e l'anticamera si riempie sempre di più. Dalrymple è talmente soddisfatto di Granville, che si convince a proporgli di entrare in società con lui; inoltre, visto che le sue due figlie sono in età da marito, incoraggia Granville a corteggiare, e poi a fidanzarsi, con la più giovane, Emily, posata, docile, amante della musica e ricercatrice nel campo della frenologia. Granville è, al contrario, intimorito dall'altra figlia di Dalrymple, Charlotte: femminista, socialista, attivista ante litteram, continuamente in contrapposizione rispetto al padre e alla sorella, vive in mezzo ai poveri e alle prostitute, dirigendo (e indebitandosi) una casa-rifugio dedicata appunto a queste classi sociali. Tutto pare andare per il meglio, quando Granville comincia ad accusare fortissimi dolori alla mano destra, sottoposta a stress sempre più forti dato l'impennarsi del lavoro all'ambulatorio. Incapace di lavorare con la sinistra, Dalrymple non può far altro che licenziarlo. Granville torna a casa St. John-Smythe, dove il suo fratellastro Edmund, pseudo-inventore folle e nullafacente cronico, accoglie i suoi sfoghi e lo mette al corrente del suo ultimo studio: uno spolverino elettrico. Casualmente, Granville si accorge che la vibrazione dell'arnese dà sollievo al suo dolore. Perché non usarlo per fare il lavoro che normalmente veniva fatto con le mani?
Divertente, ritmato e ben recitato, questo terzo lungometraggio della Wexler, che con un tono apparentemente leggero e superficiale illustra tutta una serie di errori storici, e rivendica al tempo stesso un femminismo quasi anni '70 rivisitato in chiave moderna, ma con radici nel passato (appunto) vittoriano. Si ride ma si riflette, e decisamente il film è più intelligente di quanto ci si potesse aspettare dai trailer.
Ottime le prove di Hugh Dancy (Granville), Jonathan Pryce (Dalrymple) e Felicity Jones (Emily), brillanti quelle di Rupert Everett (Edmund) e di Maggie Gyllenhaal (Charlotte). Interessante quella di Sheridan Smith (Molly). Come ridere in maniera intelligente, come non essere scurrili con un tema "spinto". Conosco un sacco di gente che dovrebbe prendere lezioni dalla Wexler.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: ganzetto
Nella Londra Vittoriana, Mortimer Granville, un giovane laureato in medicina adottato dalla famiglia St. John-Smythe, lavora in decine di ospedali ma continua ad essere licenziato. Il suo problema non è l'incompetenza, bensì il suo essere in anticipo sui tempi: in ogni ospedale, sostiene strenuamente le regole igieniche di base, e si preoccupa costantemente della presenza dei germi. Credeteci o no, all'epoca la maggior parte dei dottori non credeva alla loro esistenza, per cui Granville viene costantemente messo alla porta. Alla continua ricerca di un impiego che gli permetta, prima o poi, di avere un reddito stabile e, di conseguenza, una posizione, una moglie e una famiglia, si presenta all'ambulatorio del dottor Dalrymple. Il dottore in questione è specializzato nella cura di quello che si credeva all'epoca il male del secolo: l'isteria femminile. Dalrymple ha sempre l'anticamera piena, visto che pratica il massaggio vaginale. Granville viene assunto all'istante, e l'anticamera si riempie sempre di più. Dalrymple è talmente soddisfatto di Granville, che si convince a proporgli di entrare in società con lui; inoltre, visto che le sue due figlie sono in età da marito, incoraggia Granville a corteggiare, e poi a fidanzarsi, con la più giovane, Emily, posata, docile, amante della musica e ricercatrice nel campo della frenologia. Granville è, al contrario, intimorito dall'altra figlia di Dalrymple, Charlotte: femminista, socialista, attivista ante litteram, continuamente in contrapposizione rispetto al padre e alla sorella, vive in mezzo ai poveri e alle prostitute, dirigendo (e indebitandosi) una casa-rifugio dedicata appunto a queste classi sociali. Tutto pare andare per il meglio, quando Granville comincia ad accusare fortissimi dolori alla mano destra, sottoposta a stress sempre più forti dato l'impennarsi del lavoro all'ambulatorio. Incapace di lavorare con la sinistra, Dalrymple non può far altro che licenziarlo. Granville torna a casa St. John-Smythe, dove il suo fratellastro Edmund, pseudo-inventore folle e nullafacente cronico, accoglie i suoi sfoghi e lo mette al corrente del suo ultimo studio: uno spolverino elettrico. Casualmente, Granville si accorge che la vibrazione dell'arnese dà sollievo al suo dolore. Perché non usarlo per fare il lavoro che normalmente veniva fatto con le mani?
Divertente, ritmato e ben recitato, questo terzo lungometraggio della Wexler, che con un tono apparentemente leggero e superficiale illustra tutta una serie di errori storici, e rivendica al tempo stesso un femminismo quasi anni '70 rivisitato in chiave moderna, ma con radici nel passato (appunto) vittoriano. Si ride ma si riflette, e decisamente il film è più intelligente di quanto ci si potesse aspettare dai trailer.
Ottime le prove di Hugh Dancy (Granville), Jonathan Pryce (Dalrymple) e Felicity Jones (Emily), brillanti quelle di Rupert Everett (Edmund) e di Maggie Gyllenhaal (Charlotte). Interessante quella di Sheridan Smith (Molly). Come ridere in maniera intelligente, come non essere scurrili con un tema "spinto". Conosco un sacco di gente che dovrebbe prendere lezioni dalla Wexler.
20120914
enrico
Henry - di Alessandro Piva (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: un ce n'è romani a Roma?
Roma, oggi. Se una volta si diceva che Roma era caput mundi, adesso lo è davvero, e non perché comanda l'Impero. Gianni è un tossico con poche speranze, fidanzato con la bellissima Nina, insegnante di aerobica col vizietto della droga pure lei, ma leggermente meno dipendente rispetto a Gianni. Rocco è il compagno di sballo di Gianni. Per via della maledetta astinenza, e della cronica mancanza di denaro, si ritrovano coinvolti non solo nell'omicidio di Spillo, il loro pusher di fiducia, ma soprattutto in mezzo alla lotta senza quartiere tra due bande, per la (non) spartizione del mercato dell'eroina romano. Da una parte i meridionali, che l'hanno sempre avuta in mano, dall'altra gli africani, che in mano hanno soltanto un prodotto micidiale e nuovissimo, chiamato Henry. Come se non bastasse, c'è perfino la polizia che indaga, con una coppia che sembra assortita dal caso: il commissario Silvestri, bravo, intuitivo, ma fin troppo ligio alle regole, ed il suo assistente Bellucci, consumatore regolare di cocaina e, probabilmente, con troppi film polizieschi visti alle spalle. Difficile che da tutto questo esca qualcosa di buono...
Alessandro Piva, a mio parere, è un regista più che interessante. La sua evidente difficoltà a lavorare e ad "essere visto" in Italia, è un segno dello stato dell'arte. Qualcuno si ricorderà il suo delizioso debutto, La CapaGira, visibile 12 anni fa nei circuiti d'essai, che ricevette vari osanna dalla critica. Il suo secondo film, Mio cognato, meno apprezzato, proseguiva comunque un discorso che valeva la pena di essere ascoltato. Questo terzo film, Henry, del 2010 ma arrivato con enormi difficoltà nelle sale italiane quest'anno, completamente autoprodotto, è l'ennesimo tassello di una carriera che meriterebbe ben altri responsi, ma che in Italia passa praticamente inosservata. A dispetto del suo possibile inquadramento nel film di genere, Henry è un lavoro che denota una mano personale, mette in mostra un cast di tutto rispetto, mantiene la tensione e racconta la realtà italiana della grandi città come altre produzioni non riescono a fare. Ennesima prova da sottolineare per Michele Riondino (Gianni), nel cast anche Carolina Crescentini (Nina), Claudio Gioé (Silvestri), Pietro De Silva (Rocco), Paolo Sassanelli (Bellucci), Max Mazzotta (Spillo), David Coco (Ciccio) e l'immancabile Dino Abbrescia nei panni di Martino, un gangster con un acconciatura improponibile. Da sostenere.
Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: un ce n'è romani a Roma?
Roma, oggi. Se una volta si diceva che Roma era caput mundi, adesso lo è davvero, e non perché comanda l'Impero. Gianni è un tossico con poche speranze, fidanzato con la bellissima Nina, insegnante di aerobica col vizietto della droga pure lei, ma leggermente meno dipendente rispetto a Gianni. Rocco è il compagno di sballo di Gianni. Per via della maledetta astinenza, e della cronica mancanza di denaro, si ritrovano coinvolti non solo nell'omicidio di Spillo, il loro pusher di fiducia, ma soprattutto in mezzo alla lotta senza quartiere tra due bande, per la (non) spartizione del mercato dell'eroina romano. Da una parte i meridionali, che l'hanno sempre avuta in mano, dall'altra gli africani, che in mano hanno soltanto un prodotto micidiale e nuovissimo, chiamato Henry. Come se non bastasse, c'è perfino la polizia che indaga, con una coppia che sembra assortita dal caso: il commissario Silvestri, bravo, intuitivo, ma fin troppo ligio alle regole, ed il suo assistente Bellucci, consumatore regolare di cocaina e, probabilmente, con troppi film polizieschi visti alle spalle. Difficile che da tutto questo esca qualcosa di buono...
Alessandro Piva, a mio parere, è un regista più che interessante. La sua evidente difficoltà a lavorare e ad "essere visto" in Italia, è un segno dello stato dell'arte. Qualcuno si ricorderà il suo delizioso debutto, La CapaGira, visibile 12 anni fa nei circuiti d'essai, che ricevette vari osanna dalla critica. Il suo secondo film, Mio cognato, meno apprezzato, proseguiva comunque un discorso che valeva la pena di essere ascoltato. Questo terzo film, Henry, del 2010 ma arrivato con enormi difficoltà nelle sale italiane quest'anno, completamente autoprodotto, è l'ennesimo tassello di una carriera che meriterebbe ben altri responsi, ma che in Italia passa praticamente inosservata. A dispetto del suo possibile inquadramento nel film di genere, Henry è un lavoro che denota una mano personale, mette in mostra un cast di tutto rispetto, mantiene la tensione e racconta la realtà italiana della grandi città come altre produzioni non riescono a fare. Ennesima prova da sottolineare per Michele Riondino (Gianni), nel cast anche Carolina Crescentini (Nina), Claudio Gioé (Silvestri), Pietro De Silva (Rocco), Paolo Sassanelli (Bellucci), Max Mazzotta (Spillo), David Coco (Ciccio) e l'immancabile Dino Abbrescia nei panni di Martino, un gangster con un acconciatura improponibile. Da sostenere.
20120913
Oswald State Correctional Facility
Oz - di Tom Fontana - 6 stagioni (56 episodi; HBO) - 1997/2003
Negli USA, in un luogo imprecisato, c'è Oz. Che non è altro che una prigione, di massima sicurezza per giunta; Oz, infatti, è il diminutivo, usato sia dai carcerati che dai secondini, dai dirigenti e dai dipendenti, di Oswald, prima Oswald State Penitentiary, poi Oswald State Correctional Facility, maximum-security prison level 4. La prigione consta di diversi bracci, tra cui naturalmente pure quello della morte, e le eventuali condanne capitali vengono in un primo momento effettuate facendo scegliere il metodo al condannato (in seguito le scelte verranno ristrette). Il direttore del penitenziario, che dipende direttamente dal viscido Governatore Devlin, è Leo Glynn, anni prima guardia carceraria proprio nella stessa prigione. Uno dei suoi collaboratori principali è Tim McManus, un idealista che crede fermamente nel potere riabilitativo della detenzione; McManus dirige il braccio chiamato Emerald City (sempre per rimanere in tema Il mago di Oz), che nella versione italiana è diventato Il Paradiso. In questo braccio sperimentale, fortemente voluto dal succitato McManus, le celle non hanno sbarre, ma vetri, e per questo sono chiamate acquari. La "popolazione" è fortemente controllata, quasi tutti lavorano, e sono praticamente divisi in gruppi etnici: latinos, italiani, afroamericani, gay, irlandesi, musulmani, ariani, motociclisti, e gli altri. Augustus Hill, un giovane afroamericano (non "affiliato") finito su una sedia a rotelle proprio al momento del suo arresto, è la guida, il cantastorie: introduce, sottolinea, punteggia e chiosa ogni episodio, rivelando il tema per mezzo di statistiche e citazioni. Tobias Beecher è il punto di vista forse più "normale": un ex brillante avvocato, che per un problema di alcool travolge e uccide una bambina, e viene incarcerato proprio ad Oz. Seguiremo il suo percorso, così come quello di molti altri prigionieri: Miguel Alvarez è un giovane latino restio ad affiliarsi al suo gruppo, Simon Adebisi è un gigantesco afroamericano assetato di potere, Vernon Schillinger è il capo della fratellanza ariana ad Oz (e prenderà sotto la sua "ala" Beecher), Kareem Said è l'imam della comunità musulmana, Ryan O'Reily è l'irlandese manipolatore. Oltre ai prigionieri, ci sono alcuni personaggi di rilievo che lavorano come dipendenti o volontari ad Oz. Sorella Peter Marie è una suora psicologa che manda avanti un consultorio ed organizza riunioni cicliche per i tossicodipendenti (e all'occorrenza per altre problematiche), la dottoressa Nathan è a capo dell'infermeria, padre Mukada è il cappellano cattolico della prigione. La vita ad Oz è davvero dura, e questa serie ce la mostra, per così dire, senza veli.
E' innegabile, ed ormai appurato, che le serie televisive sono la nuova frontiera dell'arte visuale: ormai il cinema è robetta. C'è da capire in quale momento il vento sia girato. Molti pensano a The Sopranos come spartiacque, ma ci si dimentica molto spesso di Oz, che è partito due anni prima, probabilmente perché in Italia è stato fatto vedere solo dopo otto anni (nel 2005), e nemmeno in maniera completa (le ultime due stagioni sono ancora oggi inedite nel nostro paese).
Detto questo, Tom Fontana dev'essere un bel tipetto. Sessantenne di Buffalo, New York, scrittore anche di teatro, ha avuto fortune alterne con le serie tv, ma questa l'ha davvero indovinata. La tematica, le scelte di regia e di narrazione, lo stile aggressivo che mostra praticamente tutto (sesso, sodomia, pestaggi e nudi frontali maschili sono all'ordine del giorno), fanno di Oz un vero punto di rottura con tutto ciò che c'era prima, rispetto a tutto quello che è venuto dopo (e di HBO LA rete). Alcune trovate (il Macbeth, il varietà) sono poi superlative. Cast infinito, con molti volti che abbiamo rivisto soprattutto in altre serie tv che ci sono piaciute: Edie Falco (Diane Whittlesey), Lauren Vélez (la dottoressa Nathan), Zeljko Ivanek (il Governatore), J.K. Simmons (Schillinger), Mark Margolis (Antonio Nappa), Christopher Meloni (Keller), Jon Seda (Ortolani), David Zayas (Morales). Grandi apparizioni di facce note: Luke Perry (il reverendo Cloutier), Tony Musante (Nino Schibetta), LL Cool J (Walker), Luis Guzmàn (Hernandez), Rick Fox (Vahue), Tom Atkins (sindaco Loewen); eccezionale cameo di Bobby Cannavale nella sesta stagione, proprio verso la fine, nei panni di Torquemada. Bravi bravissimi i protagonisti Kirk Acevedo (Alvarez), Adewale Akinnuoye-Agbaje (Adebisi), Terry Kinney (McManus), Dean Winters (O'Reily), Eamonn Walker (Kareem Said), eccezionali le prove di Lee Tergesen nei panni di Beecher, e di Harold Perrineau Jr in quelli di Augustus Hill.
Se ve lo siete perso all'epoca, probabilmente perché ancora non c'era il sentore del "sorpasso" della tv sul cinema, fate come me: recuperatelo.
Negli USA, in un luogo imprecisato, c'è Oz. Che non è altro che una prigione, di massima sicurezza per giunta; Oz, infatti, è il diminutivo, usato sia dai carcerati che dai secondini, dai dirigenti e dai dipendenti, di Oswald, prima Oswald State Penitentiary, poi Oswald State Correctional Facility, maximum-security prison level 4. La prigione consta di diversi bracci, tra cui naturalmente pure quello della morte, e le eventuali condanne capitali vengono in un primo momento effettuate facendo scegliere il metodo al condannato (in seguito le scelte verranno ristrette). Il direttore del penitenziario, che dipende direttamente dal viscido Governatore Devlin, è Leo Glynn, anni prima guardia carceraria proprio nella stessa prigione. Uno dei suoi collaboratori principali è Tim McManus, un idealista che crede fermamente nel potere riabilitativo della detenzione; McManus dirige il braccio chiamato Emerald City (sempre per rimanere in tema Il mago di Oz), che nella versione italiana è diventato Il Paradiso. In questo braccio sperimentale, fortemente voluto dal succitato McManus, le celle non hanno sbarre, ma vetri, e per questo sono chiamate acquari. La "popolazione" è fortemente controllata, quasi tutti lavorano, e sono praticamente divisi in gruppi etnici: latinos, italiani, afroamericani, gay, irlandesi, musulmani, ariani, motociclisti, e gli altri. Augustus Hill, un giovane afroamericano (non "affiliato") finito su una sedia a rotelle proprio al momento del suo arresto, è la guida, il cantastorie: introduce, sottolinea, punteggia e chiosa ogni episodio, rivelando il tema per mezzo di statistiche e citazioni. Tobias Beecher è il punto di vista forse più "normale": un ex brillante avvocato, che per un problema di alcool travolge e uccide una bambina, e viene incarcerato proprio ad Oz. Seguiremo il suo percorso, così come quello di molti altri prigionieri: Miguel Alvarez è un giovane latino restio ad affiliarsi al suo gruppo, Simon Adebisi è un gigantesco afroamericano assetato di potere, Vernon Schillinger è il capo della fratellanza ariana ad Oz (e prenderà sotto la sua "ala" Beecher), Kareem Said è l'imam della comunità musulmana, Ryan O'Reily è l'irlandese manipolatore. Oltre ai prigionieri, ci sono alcuni personaggi di rilievo che lavorano come dipendenti o volontari ad Oz. Sorella Peter Marie è una suora psicologa che manda avanti un consultorio ed organizza riunioni cicliche per i tossicodipendenti (e all'occorrenza per altre problematiche), la dottoressa Nathan è a capo dell'infermeria, padre Mukada è il cappellano cattolico della prigione. La vita ad Oz è davvero dura, e questa serie ce la mostra, per così dire, senza veli.
E' innegabile, ed ormai appurato, che le serie televisive sono la nuova frontiera dell'arte visuale: ormai il cinema è robetta. C'è da capire in quale momento il vento sia girato. Molti pensano a The Sopranos come spartiacque, ma ci si dimentica molto spesso di Oz, che è partito due anni prima, probabilmente perché in Italia è stato fatto vedere solo dopo otto anni (nel 2005), e nemmeno in maniera completa (le ultime due stagioni sono ancora oggi inedite nel nostro paese).
Detto questo, Tom Fontana dev'essere un bel tipetto. Sessantenne di Buffalo, New York, scrittore anche di teatro, ha avuto fortune alterne con le serie tv, ma questa l'ha davvero indovinata. La tematica, le scelte di regia e di narrazione, lo stile aggressivo che mostra praticamente tutto (sesso, sodomia, pestaggi e nudi frontali maschili sono all'ordine del giorno), fanno di Oz un vero punto di rottura con tutto ciò che c'era prima, rispetto a tutto quello che è venuto dopo (e di HBO LA rete). Alcune trovate (il Macbeth, il varietà) sono poi superlative. Cast infinito, con molti volti che abbiamo rivisto soprattutto in altre serie tv che ci sono piaciute: Edie Falco (Diane Whittlesey), Lauren Vélez (la dottoressa Nathan), Zeljko Ivanek (il Governatore), J.K. Simmons (Schillinger), Mark Margolis (Antonio Nappa), Christopher Meloni (Keller), Jon Seda (Ortolani), David Zayas (Morales). Grandi apparizioni di facce note: Luke Perry (il reverendo Cloutier), Tony Musante (Nino Schibetta), LL Cool J (Walker), Luis Guzmàn (Hernandez), Rick Fox (Vahue), Tom Atkins (sindaco Loewen); eccezionale cameo di Bobby Cannavale nella sesta stagione, proprio verso la fine, nei panni di Torquemada. Bravi bravissimi i protagonisti Kirk Acevedo (Alvarez), Adewale Akinnuoye-Agbaje (Adebisi), Terry Kinney (McManus), Dean Winters (O'Reily), Eamonn Walker (Kareem Said), eccezionali le prove di Lee Tergesen nei panni di Beecher, e di Harold Perrineau Jr in quelli di Augustus Hill.
Se ve lo siete perso all'epoca, probabilmente perché ancora non c'era il sentore del "sorpasso" della tv sul cinema, fate come me: recuperatelo.
20120912
nove lune
Nueve lunas - di Gabriela Wiener (2009)
Già da un po' J non si separava dall'orologio, e si appuntava la frequenza delle mie contrazioni. Io avevo alle spalle già due ore almeno soffrendo per delle frustate che si portavano dietro echi di dolori alla schiena e alla pancia. Camminavo ondeggiando da un lato all'altro della casa. Nel mezzo delle contrazioni abbracciavo J come se stessero cadendo bombe sopra di noi. Nonostante il dolore, affrettai un ultimo sforzo civile e improvvisai una lavanda gastrica, come un'attrice porno che si prepara per una doppia penetrazione, dignitosissima.
Riprendendo un breve racconto presente nel suo precedente Sexografìas (nella traduzione italiana Corpo a corpo), la scrittrice e giornalista-gonzo peruviana ormai trapiantata a Barcellona insieme al suo compagno, decide di scrivere un intero libro sulla sua gravidanza. Nove capitoli, uno per ogni mese. Se avete letto qualcosa della Wiener, anche solo un articolo, potete immaginare che cosa vi aspetta.
Non era la prima volta che dormivo con un uomo in questo letto, però era la prima volta che ci dormivo con un uomo che chiamavo marito. Di fatto, un tempo, quando pensavo che era il massimo per essere una figlia alla quale la madre consentiva certi comportamenti, mia madre era solita portare la colazione a me e al ragazzo che mi ero portata a letto quella notte. Non che fosse una madre strettamente liberale. Le era costato accettarmi come una ragazza sessualmente attiva, pero tutti sanno che non c'è niente di meglio per una madre che averti sotto lo stesso tetto, nonostante quello che fai sotto questo tetto sia, per esempio, sesso anale.
Diverso dal libro precedente, sicuramente più introspettivo, decisamente ostico per un uomo (ma non per questo meno interessante), Nueve lunas è senza dubbio un altro passo avanti per la Wiener. Divertente, sboccato, irregolare, lunatico, altalenante come l'umore di una donna incinta, appunto, più che trasgressivo difficile da inquadrare, particolarissimo, senza peli sulla lingua. Non è stato ancora tradotto in italiano (per cui prendete gli estratti con le molle, perché ne ho fatto una traduzione sicuramente scorretta, ma che mirava soprattutto a renderne il senso più possibile), ma non è detto non accada presto, così come è stato per il libro precedente.
Se la nascita di un bambino è un rituale consumistico, Ikea è il tempio consacrato al quale ogni futura madre proletaria deve recarsi come un'assidua devota. [...] Mi ha sempre sorpreso la quantità di cose che non voglio fare e finisco per fare, tanto come la quantità di cose che voglio fare e non posso fare. Sono stata bollata come "comunista del Corte Inglés" (una catena di supermercati spagnoli, la più importante, nati da una catena di sartorie) per il modo in cui si scontravano la mia teoria e la mia pratica.
Già da un po' J non si separava dall'orologio, e si appuntava la frequenza delle mie contrazioni. Io avevo alle spalle già due ore almeno soffrendo per delle frustate che si portavano dietro echi di dolori alla schiena e alla pancia. Camminavo ondeggiando da un lato all'altro della casa. Nel mezzo delle contrazioni abbracciavo J come se stessero cadendo bombe sopra di noi. Nonostante il dolore, affrettai un ultimo sforzo civile e improvvisai una lavanda gastrica, come un'attrice porno che si prepara per una doppia penetrazione, dignitosissima.
Riprendendo un breve racconto presente nel suo precedente Sexografìas (nella traduzione italiana Corpo a corpo), la scrittrice e giornalista-gonzo peruviana ormai trapiantata a Barcellona insieme al suo compagno, decide di scrivere un intero libro sulla sua gravidanza. Nove capitoli, uno per ogni mese. Se avete letto qualcosa della Wiener, anche solo un articolo, potete immaginare che cosa vi aspetta.
Non era la prima volta che dormivo con un uomo in questo letto, però era la prima volta che ci dormivo con un uomo che chiamavo marito. Di fatto, un tempo, quando pensavo che era il massimo per essere una figlia alla quale la madre consentiva certi comportamenti, mia madre era solita portare la colazione a me e al ragazzo che mi ero portata a letto quella notte. Non che fosse una madre strettamente liberale. Le era costato accettarmi come una ragazza sessualmente attiva, pero tutti sanno che non c'è niente di meglio per una madre che averti sotto lo stesso tetto, nonostante quello che fai sotto questo tetto sia, per esempio, sesso anale.
Diverso dal libro precedente, sicuramente più introspettivo, decisamente ostico per un uomo (ma non per questo meno interessante), Nueve lunas è senza dubbio un altro passo avanti per la Wiener. Divertente, sboccato, irregolare, lunatico, altalenante come l'umore di una donna incinta, appunto, più che trasgressivo difficile da inquadrare, particolarissimo, senza peli sulla lingua. Non è stato ancora tradotto in italiano (per cui prendete gli estratti con le molle, perché ne ho fatto una traduzione sicuramente scorretta, ma che mirava soprattutto a renderne il senso più possibile), ma non è detto non accada presto, così come è stato per il libro precedente.
Se la nascita di un bambino è un rituale consumistico, Ikea è il tempio consacrato al quale ogni futura madre proletaria deve recarsi come un'assidua devota. [...] Mi ha sempre sorpreso la quantità di cose che non voglio fare e finisco per fare, tanto come la quantità di cose che voglio fare e non posso fare. Sono stata bollata come "comunista del Corte Inglés" (una catena di supermercati spagnoli, la più importante, nati da una catena di sartorie) per il modo in cui si scontravano la mia teoria e la mia pratica.
20120911
Luftslottet som sprängdes
La regina dei castelli di carta - di Daniel Alfredson (2010)
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: macchiélelì, ramba?
Attenzione: la breve recensione che segue contiene spoiler, che possono riferirsi anche ai due film precedenti, Uomini che odiano le donne e La ragazza che giocava con il fuoco.
Lisbeth è in ospedale, conciata piuttosto male. Due camere più in là, Alexander Zalachenko, alias suo padre, è messo quasi peggio. Ormai però, è conclamato il legame strettissimo tra Zalachenko ed i servizi segreti svedesi, per cui il tentativo di quest'ultimo di liquidare la figlia, viene rivoltato, e Lisbeth viene messa sotto accusa per il di lui tentato omicidio. Lisbeth si decide quindi a rivelare il suo passato pieno di soprusi, e Mikael sarà al suo fianco per darle una mano: non sarà affatto facile.
Conclusione della trilogia Millennium, tratto sempre dall'omonimo romanzo di Stieg Larsson, diretta dallo stesso regista del secondo "episodio". Meno azione, viraggio verso il film da tribunale, con la divertente "presentazione" di Lisbeth in aula con cresta e borchie. Per il resto, intreccio che rimane interessante, ma risultato un po' più debole degli altri due film. Non è una serie, e quindi è giusto così: ogni cosa finisce. Da vedere giusto per chiudere il cerchio, anche se ormai Noomi Rapace, grazie a questi tre film, è diventata una diva lanciatissima. Se lo merita. Da seguire anche Michael Nyqvist, l'interprete di Mikael Blomkvist, buon attore anche se decisamente meno carismatico.
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: macchiélelì, ramba?
Attenzione: la breve recensione che segue contiene spoiler, che possono riferirsi anche ai due film precedenti, Uomini che odiano le donne e La ragazza che giocava con il fuoco.
Lisbeth è in ospedale, conciata piuttosto male. Due camere più in là, Alexander Zalachenko, alias suo padre, è messo quasi peggio. Ormai però, è conclamato il legame strettissimo tra Zalachenko ed i servizi segreti svedesi, per cui il tentativo di quest'ultimo di liquidare la figlia, viene rivoltato, e Lisbeth viene messa sotto accusa per il di lui tentato omicidio. Lisbeth si decide quindi a rivelare il suo passato pieno di soprusi, e Mikael sarà al suo fianco per darle una mano: non sarà affatto facile.
Conclusione della trilogia Millennium, tratto sempre dall'omonimo romanzo di Stieg Larsson, diretta dallo stesso regista del secondo "episodio". Meno azione, viraggio verso il film da tribunale, con la divertente "presentazione" di Lisbeth in aula con cresta e borchie. Per il resto, intreccio che rimane interessante, ma risultato un po' più debole degli altri due film. Non è una serie, e quindi è giusto così: ogni cosa finisce. Da vedere giusto per chiudere il cerchio, anche se ormai Noomi Rapace, grazie a questi tre film, è diventata una diva lanciatissima. Se lo merita. Da seguire anche Michael Nyqvist, l'interprete di Mikael Blomkvist, buon attore anche se decisamente meno carismatico.
20120910
faccialibro
Una delle domande/affermazioni più ricorrenti che mi è stata rivolta negli ultimi anni è: "te non ci sei su facebook" (punto interrogativo facoltativo). No, infatti, non ci sono. Non ho un profilo facebook. Sapete benissimo che sono snob su alcune cose, ma non è questo il caso. Credo di aver capito, più o meno, come funziona il suddetto social network, e la mia decisione è stata di dedicare il mio tempo libero da altri impegni/piaceri a questo blog. Perché, believe it or not, l'impegno che metto in questo blog è notevole (come siano poi i risultati, sta a voi deciderlo). Non escludo di cambiare idea in futuro, ma per il momento la mia "posizione" è questa.
il Faust
Faust - di Alexandr Sokurov (2011)
Giudizio sintetico: si può vedere (preparati) (2,5/5)
Giudizio vernacolare: zzzzzzzzzzzzzzzzzz
Nella Germania sette-ottocentesca, Heinrich Faust è uno scienziato ma anche una sorta di filosofo. Alla ricerca del senso dell'esistenza, disseziona cadaveri alla ricerca del posizionamento dell'anima. In realtà, è senza un soldo, e questa cosa lo cruccia, oltre che a fargli dolere lo stomaco. Sepolto nel suo studio sporco e polveroso, il problema si fa sempre più pressante, e si sa, con la fame si filosofeggia pochino. Ecco comparire un prestasoldi, che in breve diventa il suo migliore amico nonché consigliere. Mauricius, questo il suo nome, è un essere strano, deforme, ma convinto di essere una sorta di superuomo. Il prestasoldi gli rivela nuovi orizzonti, e tra questi c'è la bella, giovane, innocente Margarete: Faust la vede, se ne invaghisce, ne diviene ossessionato. Alla ricerca di qualcosa di più sul suo conto, Faust arriva ad uccidere accidentalmente (forse) suo fratello, in una rissa dentro una taverna. Ormai vicino a lei, non resiste, deve averla: Mauricius gli rivela che la può avere. In cambio, Faust deve cedergli nientemeno che la sua anima. Faust accetta, e il prestasoldi richiede un contratto scritto e firmato col sangue.
Presentato alla stampa come l'ultimo capitolo della tetralogia formata da Moloch, Toro e Il Sole, Faust, ispirato al (capo)lavoro di Goethe ma scritto dallo stesso Sokurov e dai due suoi collaboratori Marina Koreneva e Yuri Arabov, è un classico film d'autore, di quelli che spesso fanno domandare allo spettatore comune, alla fine della visione e dopo averne letto lodi sperticate da parte della critica: "ma non è che ho visto un altro film?". Io, che alla fine un po' come tutti gli italiani, sono di atteggiamento democristiano, verso il cinema, provo quantomeno a capire. Faust è una sorta di viaggio intellettuale, probabilmente anche un po' spocchioso, nel senso della vita. Il cammino verso la conoscenza trova ostacoli nella lussuria, o qualcosa del genere. La sete di potere porta alla dannazione eterna. Sokurov ci mette due ore e venti minuti a dire tutto questo, con una fotografia tutta tendente al verde marcio, tanto che in alcune scene sembra quasi di sentire il tanfo, e una messa in scena piuttosto teatrale, con scenografie tetre, e abbastanza povere.
Bravi bravissimi i tre protagonisti: Johannes Zeiler (tedesco) è Faust, Anton Adasinsky (mimo e clown russo) è il prestasoldi, Isolda Dychauk (anche lei russa, è Lucrezia Borgia nei Borgia di Tom Fontana) è Margarete. Film pesantissimo e davvero difficile da intendere.
Giudizio sintetico: si può vedere (preparati) (2,5/5)
Giudizio vernacolare: zzzzzzzzzzzzzzzzzz
Nella Germania sette-ottocentesca, Heinrich Faust è uno scienziato ma anche una sorta di filosofo. Alla ricerca del senso dell'esistenza, disseziona cadaveri alla ricerca del posizionamento dell'anima. In realtà, è senza un soldo, e questa cosa lo cruccia, oltre che a fargli dolere lo stomaco. Sepolto nel suo studio sporco e polveroso, il problema si fa sempre più pressante, e si sa, con la fame si filosofeggia pochino. Ecco comparire un prestasoldi, che in breve diventa il suo migliore amico nonché consigliere. Mauricius, questo il suo nome, è un essere strano, deforme, ma convinto di essere una sorta di superuomo. Il prestasoldi gli rivela nuovi orizzonti, e tra questi c'è la bella, giovane, innocente Margarete: Faust la vede, se ne invaghisce, ne diviene ossessionato. Alla ricerca di qualcosa di più sul suo conto, Faust arriva ad uccidere accidentalmente (forse) suo fratello, in una rissa dentro una taverna. Ormai vicino a lei, non resiste, deve averla: Mauricius gli rivela che la può avere. In cambio, Faust deve cedergli nientemeno che la sua anima. Faust accetta, e il prestasoldi richiede un contratto scritto e firmato col sangue.
Presentato alla stampa come l'ultimo capitolo della tetralogia formata da Moloch, Toro e Il Sole, Faust, ispirato al (capo)lavoro di Goethe ma scritto dallo stesso Sokurov e dai due suoi collaboratori Marina Koreneva e Yuri Arabov, è un classico film d'autore, di quelli che spesso fanno domandare allo spettatore comune, alla fine della visione e dopo averne letto lodi sperticate da parte della critica: "ma non è che ho visto un altro film?". Io, che alla fine un po' come tutti gli italiani, sono di atteggiamento democristiano, verso il cinema, provo quantomeno a capire. Faust è una sorta di viaggio intellettuale, probabilmente anche un po' spocchioso, nel senso della vita. Il cammino verso la conoscenza trova ostacoli nella lussuria, o qualcosa del genere. La sete di potere porta alla dannazione eterna. Sokurov ci mette due ore e venti minuti a dire tutto questo, con una fotografia tutta tendente al verde marcio, tanto che in alcune scene sembra quasi di sentire il tanfo, e una messa in scena piuttosto teatrale, con scenografie tetre, e abbastanza povere.
Bravi bravissimi i tre protagonisti: Johannes Zeiler (tedesco) è Faust, Anton Adasinsky (mimo e clown russo) è il prestasoldi, Isolda Dychauk (anche lei russa, è Lucrezia Borgia nei Borgia di Tom Fontana) è Margarete. Film pesantissimo e davvero difficile da intendere.
20120909
This Means War
Una spia non basta - di McG (2012)
Giudizio sintetico: si può perdere (1,5/5)
Giudizio vernacolare: è finito?
FDR (cazzo di nome è?) e Tuck sono due agenti operativi della CIA (anche se Tuck è smaccatamente inglese): nella loro ultima operazione a Hong Kong, andata male, si inimicano il trafficante d'armi internazionale Heinrich causando la morte del di lui fratello. Il loro capo Collins, temendo ritorsioni contro di loro, li "mette in punizione" assegnando loro temporaneamente del lavoro d'ufficio. Tuck (la cui copertura è agente di viaggio), al contrario di FDR (copertura: capitano di navi da crociera) che passa da una donna all'altra, ha una ex moglie (Katie) e un figlio piccolo (Joe); ha perso smalto, e ha problemi ad uscire con le donne, non ne è più capace. FDR lo iscrive a sua insaputa ad un sito di appuntamenti online. Contemporaneamente, Trish, la migliore amica di Lauren, una manager di un'impresa testatrice di prodotti, fa lo stesso per la sua amica, che stenta a dimenticare il suo ultimo ex, e la iscrive. Il sito "accoppia" Lauren e Tuck, e i due si preparano a questo strano primo appuntamento. FDR insiste per "spalleggiare" Tuck, e rimane nei paraggi. Non sapendo l'identità di Lauren, quando lei sta venendo via dall'incontro, che è andato molto bene dato che i due si sono ripromessi di vedersi quanto prima per un'uscita vera e propria, FDR la abborda. Lauren lo respinge, inquadrandolo immediatamente come un donnaiolo, ma FDR rimane affascinato dalla ragazza, e si intrufola in uno dei suoi gruppi per i test: alla fine, le strappa un appuntamento. Nel giro di poco tempo, Tuck e FDR realizzano che stanno uscendo con la stessa ragazza: FDR propone di tirarsi indietro, ma Tuck accetta la sfida. I due stipulano un gentlemen's agreement: fare finta di non conoscersi, non interferire con gli appuntamenti dell'altro, non fare sesso con Lauren. Lauren, da parte sua, non si sente a suo agio ad uscire con due uomini, ma Trish la convince che così fan tutti.
Film leggerissimo e appena appena divertente, variazione sul tema romcom. Chissà la reazione della già bistrattata CIA al vedere un film su due agenti che usano tecniche di intercettazione, intromissione nella privacy e sorveglianza a fini romantici. Hanno declinato l'offerta delle parti maschili Sam Worthington, Bradley Cooper e perfino Seth Rogen. Mezzo punto in meno, e per una volta mi metto dalla parte di chi ama vedere gli uomini un po' svestiti, perché Tom Hardy, sempre amabile col suo accento british, non si vede mai a torso nudo. Mezzo punto in più per Reese Whiterspoon (il mento sporgente più bello del mondo del cinema e scarpe col plateau comprese).
Giudizio sintetico: si può perdere (1,5/5)
Giudizio vernacolare: è finito?
FDR (cazzo di nome è?) e Tuck sono due agenti operativi della CIA (anche se Tuck è smaccatamente inglese): nella loro ultima operazione a Hong Kong, andata male, si inimicano il trafficante d'armi internazionale Heinrich causando la morte del di lui fratello. Il loro capo Collins, temendo ritorsioni contro di loro, li "mette in punizione" assegnando loro temporaneamente del lavoro d'ufficio. Tuck (la cui copertura è agente di viaggio), al contrario di FDR (copertura: capitano di navi da crociera) che passa da una donna all'altra, ha una ex moglie (Katie) e un figlio piccolo (Joe); ha perso smalto, e ha problemi ad uscire con le donne, non ne è più capace. FDR lo iscrive a sua insaputa ad un sito di appuntamenti online. Contemporaneamente, Trish, la migliore amica di Lauren, una manager di un'impresa testatrice di prodotti, fa lo stesso per la sua amica, che stenta a dimenticare il suo ultimo ex, e la iscrive. Il sito "accoppia" Lauren e Tuck, e i due si preparano a questo strano primo appuntamento. FDR insiste per "spalleggiare" Tuck, e rimane nei paraggi. Non sapendo l'identità di Lauren, quando lei sta venendo via dall'incontro, che è andato molto bene dato che i due si sono ripromessi di vedersi quanto prima per un'uscita vera e propria, FDR la abborda. Lauren lo respinge, inquadrandolo immediatamente come un donnaiolo, ma FDR rimane affascinato dalla ragazza, e si intrufola in uno dei suoi gruppi per i test: alla fine, le strappa un appuntamento. Nel giro di poco tempo, Tuck e FDR realizzano che stanno uscendo con la stessa ragazza: FDR propone di tirarsi indietro, ma Tuck accetta la sfida. I due stipulano un gentlemen's agreement: fare finta di non conoscersi, non interferire con gli appuntamenti dell'altro, non fare sesso con Lauren. Lauren, da parte sua, non si sente a suo agio ad uscire con due uomini, ma Trish la convince che così fan tutti.
Film leggerissimo e appena appena divertente, variazione sul tema romcom. Chissà la reazione della già bistrattata CIA al vedere un film su due agenti che usano tecniche di intercettazione, intromissione nella privacy e sorveglianza a fini romantici. Hanno declinato l'offerta delle parti maschili Sam Worthington, Bradley Cooper e perfino Seth Rogen. Mezzo punto in meno, e per una volta mi metto dalla parte di chi ama vedere gli uomini un po' svestiti, perché Tom Hardy, sempre amabile col suo accento british, non si vede mai a torso nudo. Mezzo punto in più per Reese Whiterspoon (il mento sporgente più bello del mondo del cinema e scarpe col plateau comprese).
20120908
non dirlo a nessuno
Ne le dis à personne - di Guillame Canet (2006)
Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: popo' di 'asino dé
Parigi. Alexandre Beck è uno stimato pediatra, reduce da un dramma che ha lasciato il segno: otto anni prima, durante un weekend romantico, la bella moglie Margot è stata uccisa barbaramente, e lui ha rischiato di essere incriminato per la di lei uccisione. Nonostante il tempo curi tutte le ferite, la sua si sta rimarginando lentamente. E' per questo che, quando riceve un paio di email piuttosto strane, diventa insostenibilmente adrenalinico. La prima gli dà un link sul quale cliccare, in occasione dell'anniversario di matrimonio. Il giorno seguente, su questo link gli appare una webcam, e, in mezzo ad uno scenario cittadino, una donna che sembra essere proprio l'amata Margot. Nel frattempo, vicinissimo al luogo dove Margot sarebbe stata uccisa, vengono ritrovati due cadaveri "freschi". La polizia, che non ha mai preso bene lo scagionamento di Alex, lo interroga, gli preleva sangue per una prova del DNA, lo inserisce nella lista dei sospettati. Pochi giorni dopo, viene uccisa Charlotte, la migliore amica di Margot: Alex scatta in cima alla lista dei sospettati, ma dato che è sempre più convinto che la moglie sia ancora viva, comincia a seguire una sua pista, seppur stia diventando latitante. Il malvivente Bruno, a cui Alex ha salvato il figlioletto, gli sarà d'aiuto in questo sconfinamento al di fuori dalla legge.
Osannato in Francia, pochissimo considerato in Italia (leggendo la sua bio, più volte mi è venuta la balzana idea che fosse un problema di invidia, visto che il giovanotto è stato prima sposato con Diane Kruger, poi si è fidanzato con Marion Cotillard, con la quale ha avuto un figlio l'anno scorso), Guillame Canet, attore sceneggiatore e regista, nel 2006 adatta (assieme a Philippe Lefebvre) il thriller statunitense di Harlan Coben Tell No One, spostando l'azione dagli USA a Parigi e dintorni, usando un cast francofono di tutto rispetto, dettando i tempi in maniera ottima e rilasciando un gran bel film che, a dispetto delle oltre due ore di durata, regge alla grande, non annoia ed avvince. Nonostante si possa perfino trovare la lista dei doppiatori italiani, non mi risulta sia uscito in Italia, neppure in dvd. Stessa fine fece il suo primo lungometraggio per il cinema Mon idole, mentre il suo film seguente, Piccole bugie tra amici, ha avuto un ritardo di due anni nella distribuzione.
L'ormai grande François Cluzet è Alex (a suo agio sia nella commedia, sia nei drammi che nei thriller), la bella Marie-Josée Croze è Margot. Ci sono inoltre André Dussollier (il padre di Margot), Kristin Scott Thomas (è Hélène, l'amante della sorella di Alex), Nathalie Baye (l'avvocato Feldman), Gilles Lellouche (Bruno), François Berléand, Jean Rochefort e lo stesso regista in una piccola parte. A mio giudizio un buon thriller.
Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: popo' di 'asino dé
Parigi. Alexandre Beck è uno stimato pediatra, reduce da un dramma che ha lasciato il segno: otto anni prima, durante un weekend romantico, la bella moglie Margot è stata uccisa barbaramente, e lui ha rischiato di essere incriminato per la di lei uccisione. Nonostante il tempo curi tutte le ferite, la sua si sta rimarginando lentamente. E' per questo che, quando riceve un paio di email piuttosto strane, diventa insostenibilmente adrenalinico. La prima gli dà un link sul quale cliccare, in occasione dell'anniversario di matrimonio. Il giorno seguente, su questo link gli appare una webcam, e, in mezzo ad uno scenario cittadino, una donna che sembra essere proprio l'amata Margot. Nel frattempo, vicinissimo al luogo dove Margot sarebbe stata uccisa, vengono ritrovati due cadaveri "freschi". La polizia, che non ha mai preso bene lo scagionamento di Alex, lo interroga, gli preleva sangue per una prova del DNA, lo inserisce nella lista dei sospettati. Pochi giorni dopo, viene uccisa Charlotte, la migliore amica di Margot: Alex scatta in cima alla lista dei sospettati, ma dato che è sempre più convinto che la moglie sia ancora viva, comincia a seguire una sua pista, seppur stia diventando latitante. Il malvivente Bruno, a cui Alex ha salvato il figlioletto, gli sarà d'aiuto in questo sconfinamento al di fuori dalla legge.
Osannato in Francia, pochissimo considerato in Italia (leggendo la sua bio, più volte mi è venuta la balzana idea che fosse un problema di invidia, visto che il giovanotto è stato prima sposato con Diane Kruger, poi si è fidanzato con Marion Cotillard, con la quale ha avuto un figlio l'anno scorso), Guillame Canet, attore sceneggiatore e regista, nel 2006 adatta (assieme a Philippe Lefebvre) il thriller statunitense di Harlan Coben Tell No One, spostando l'azione dagli USA a Parigi e dintorni, usando un cast francofono di tutto rispetto, dettando i tempi in maniera ottima e rilasciando un gran bel film che, a dispetto delle oltre due ore di durata, regge alla grande, non annoia ed avvince. Nonostante si possa perfino trovare la lista dei doppiatori italiani, non mi risulta sia uscito in Italia, neppure in dvd. Stessa fine fece il suo primo lungometraggio per il cinema Mon idole, mentre il suo film seguente, Piccole bugie tra amici, ha avuto un ritardo di due anni nella distribuzione.
L'ormai grande François Cluzet è Alex (a suo agio sia nella commedia, sia nei drammi che nei thriller), la bella Marie-Josée Croze è Margot. Ci sono inoltre André Dussollier (il padre di Margot), Kristin Scott Thomas (è Hélène, l'amante della sorella di Alex), Nathalie Baye (l'avvocato Feldman), Gilles Lellouche (Bruno), François Berléand, Jean Rochefort e lo stesso regista in una piccola parte. A mio giudizio un buon thriller.
20120907
Win Win
Mosse vincenti - di Thomas McCarthy (2011)
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: la miseria è brutta
Nel New Jersey, l'avvocato Mike Flaherty, allenatore della squadra scolastica di lotta per passione, sta andando in bancarotta. Tiene all'oscuro la moglie Jackie e le due figliolette Abby e Stella, un po' per non farle preoccupare, un po' perché si vergogna come un cane, ma il fatto è che non ha i soldi neppure per far tagliare un ceppo di un vecchio albero che sta da anni in mezzo al suo giardino. Quando non sa più davvero come andare avanti, ecco il colpo di genio: un cliente, Leo Poplar, affetto da demenza senile, deve essere affidato ad un tutore o ad una casa di riposo. Visto che nessuno dei suoi parenti è rintracciabile, Mike convince il giudice ad affidare Leo a lui: divenendo suo tutore, beneficerà di 1500 dollari al mese. Mike affida ugualmente Leo ad una casa di cura, anche se continua a preoccuparsi per lui e ad andarlo a trovare. Il problema non è completamente risolto, ma è sulla buona strada. Dopo qualche tempo, spunta fuori il giovane nipote di Leo, Kyle. All'incirca quindicenne, arriva dall'Ohio per vivere con il nonno; timido e di poche parole, fugge da una madre tossicomane attualmente in riabilitazione, e dal di lei fidanzato, che a lui non va troppo a genio. Mike e Jackie lo accolgono in casa loro, con un'iniziale riluttanza da parte di Jackie che, in seguito, diverrà la sua più strenua difenditrice. Mike scopre inoltre che Kyle è un ottimo lottatore, e lo iscrive quindi a scuola in modo da renderlo parte della sua squadra: Kyle si integra, si fa nuovi amici, vince le gare, diventa un fratello maggiore fantastico ed amorevole per Abby e Stella. Ma d'un tratto, la situazione Win-win (tutti vincitori) viene interrotta dall'arrivo di Cindy, la madre di Kyle, appena uscita dalla riabilitazione. Pretende che il figlio torni con lei, e l'affidamento del padre. E così facendo, si scopre pure che Mike...
Caratterista interessante (a parte il cinema, era in The Wire), regista di belle speranze, sceneggiatore altrettanto valido (oltre ai suoi film è anche uno degli scrittori di Up), McCarthy ci aveva affascinato con il suo debutto The Station Agent e convinto definitivamente col seguente L'ospite inatteso; abituati così bene, questo Win Win (solita traduzione inefficace in italiano, Mosse vincenti), film discreto, ben diretto e ben recitato, storia edificante e non troppo dolorosa, risulta molto meno incisivo e non lascia il segno, a differenza dei due film citati in precedenza. Questo, nonostante (come al solito) un cast di tutto rispetto: c'è l'immenso Paul Giamatti nei panni di Mike, Amy Ryan è Jackie, una pletora di caratteristi micidiali (Bobby Cannavale, Jeffrey Tambor, Burt Young, Margo Martindale) e un debutto impressionante, quello di Alex Shaffer nei panni di Kyle. La storia, pur toccando il problematico tema della recessione, ed altri, come la tossicodipendenza o l'abbandono dei figli a se stessi, solo di striscio, sembra non affondare mai, e l'atmosfera risulta sempre un po' troppo buonista. Dopo un film meraviglioso, un film così così. Attendiamo comunque il suo prossimo progetto da sceneggiatore, ancora senza regista: per il momento si intitola Million Dollar Arm, parla di un rappresentante di sportivi professionisti che si mette a reclutare giocatori asiatici di cricket per farli giocare a baseball nella Major League, ed il protagonista sarà Don Draper. Scusate, Jon Hamm.
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: la miseria è brutta
Nel New Jersey, l'avvocato Mike Flaherty, allenatore della squadra scolastica di lotta per passione, sta andando in bancarotta. Tiene all'oscuro la moglie Jackie e le due figliolette Abby e Stella, un po' per non farle preoccupare, un po' perché si vergogna come un cane, ma il fatto è che non ha i soldi neppure per far tagliare un ceppo di un vecchio albero che sta da anni in mezzo al suo giardino. Quando non sa più davvero come andare avanti, ecco il colpo di genio: un cliente, Leo Poplar, affetto da demenza senile, deve essere affidato ad un tutore o ad una casa di riposo. Visto che nessuno dei suoi parenti è rintracciabile, Mike convince il giudice ad affidare Leo a lui: divenendo suo tutore, beneficerà di 1500 dollari al mese. Mike affida ugualmente Leo ad una casa di cura, anche se continua a preoccuparsi per lui e ad andarlo a trovare. Il problema non è completamente risolto, ma è sulla buona strada. Dopo qualche tempo, spunta fuori il giovane nipote di Leo, Kyle. All'incirca quindicenne, arriva dall'Ohio per vivere con il nonno; timido e di poche parole, fugge da una madre tossicomane attualmente in riabilitazione, e dal di lei fidanzato, che a lui non va troppo a genio. Mike e Jackie lo accolgono in casa loro, con un'iniziale riluttanza da parte di Jackie che, in seguito, diverrà la sua più strenua difenditrice. Mike scopre inoltre che Kyle è un ottimo lottatore, e lo iscrive quindi a scuola in modo da renderlo parte della sua squadra: Kyle si integra, si fa nuovi amici, vince le gare, diventa un fratello maggiore fantastico ed amorevole per Abby e Stella. Ma d'un tratto, la situazione Win-win (tutti vincitori) viene interrotta dall'arrivo di Cindy, la madre di Kyle, appena uscita dalla riabilitazione. Pretende che il figlio torni con lei, e l'affidamento del padre. E così facendo, si scopre pure che Mike...
Caratterista interessante (a parte il cinema, era in The Wire), regista di belle speranze, sceneggiatore altrettanto valido (oltre ai suoi film è anche uno degli scrittori di Up), McCarthy ci aveva affascinato con il suo debutto The Station Agent e convinto definitivamente col seguente L'ospite inatteso; abituati così bene, questo Win Win (solita traduzione inefficace in italiano, Mosse vincenti), film discreto, ben diretto e ben recitato, storia edificante e non troppo dolorosa, risulta molto meno incisivo e non lascia il segno, a differenza dei due film citati in precedenza. Questo, nonostante (come al solito) un cast di tutto rispetto: c'è l'immenso Paul Giamatti nei panni di Mike, Amy Ryan è Jackie, una pletora di caratteristi micidiali (Bobby Cannavale, Jeffrey Tambor, Burt Young, Margo Martindale) e un debutto impressionante, quello di Alex Shaffer nei panni di Kyle. La storia, pur toccando il problematico tema della recessione, ed altri, come la tossicodipendenza o l'abbandono dei figli a se stessi, solo di striscio, sembra non affondare mai, e l'atmosfera risulta sempre un po' troppo buonista. Dopo un film meraviglioso, un film così così. Attendiamo comunque il suo prossimo progetto da sceneggiatore, ancora senza regista: per il momento si intitola Million Dollar Arm, parla di un rappresentante di sportivi professionisti che si mette a reclutare giocatori asiatici di cricket per farli giocare a baseball nella Major League, ed il protagonista sarà Don Draper. Scusate, Jon Hamm.
20120906
Violeta è andata in cielo
Violeta se fue a los cielos - di Andrés Wood (2011)
Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: la mamma dell'intillimani
Violeta del Carmen Parra Sandoval nasce nella Provincia di Nuble (il luogo preciso è ancora oggi controverso, conteso tra San Carlos e San Fabián de Alico, non distanti tra di loro), in Cile, ai piedi delle Ande, a sud di Santiago, il 4 ottobre 1917. Fu musicista, cantautrice, e in seguito pittrice, scultrice e ceramista. Visse un'infanzia di gravi ristrettezze, alle quali, insieme ai genitori e ai fratelli (ne ebbe cinque, più due fratellastri), cercò di far fronte con la musica. La madre Clarisa era contadina. Il padre, Nicanor, era professore di musica; morì quando Violeta aveva 14 anni, ma le insegnò a suonare la chitarra (così come ai fratelli): a 9 anni suonava lo strumento, a 12 cominciò a scrivere canzoni. Cambiò residenza più volte, cominciò, anche con i fratelli, ad esibirsi dappertutto fin da piccola. A 18 anni, con la madre e i fratelli, arrivò a Santiago; si sposò per la prima volta a 21 anni, con Luis Cereceda, dal quale ebbe i primi due figli Angel e Isabel. Cereceda, militante del Partito Comunista, introdusse Violeta alla politica, dando così il via all'impegno sociale della cantante, che da sempre dette voce ai più poveri. Inizia un immenso lavoro di riscoperta del folklore latino (peruviano, messicano, spagnolo, canti contadini cileni); si sposa per la seconda volta con Luis Arce (con il quale ha le figlie Carmen Luisa e Rosita Clara), escono i suoi primi dischi (con la sorella Hilda). Sempre più conosciuta in patria grazie ai suoi dischi, nel 1954 canta per un programma alla Radio Chilena (Canta Violeta Parra), vince il premio Caupolicán come miglior cantante di folklore dell'anno, che le vale un invito al Festival della Gioventù di Varsavia. Inizia così la sua esperienza europea, che la porterà anche in Russia e a Parigi (dove rimarrà un paio d'anni). Torna in Cile nel 1957, dopo aver saputo che la figlia Rosita Clara, nel frattempo, è morta. Si scopre pittrice, continuando l'attività di ricerca musicale, viaggiando per tutto il paese diffondendo la cultura del folklore, lavorando per l'Università di Concepción. Nel 1961 si trasferisce in Argentina, si riunisce con i figli (Angel e Isabel, insieme ai quali pubblicherà un disco sotto il nome Los Parra de Chile) e qualche nipote, riparte per l'Europa (Finlandia, Russia, Germania, Italia), si ferma ancora una volta a Parigi dove si esibisce, e lavora sia alla musica, sia alla pittura che alla scultura e alla decorazione. Scrive perfino un libro sulla poesia popolare andina, e nel 1964 segna una tappa storica: è la prima latinoamericana ad esporre al Louvre. Violeta ha modo di re-incontrare quello che sarà il grande amore della sua vita, il musicologo e antropologo Gilbert Favré; il loro rapporto segnerà l'ultima parte della carriera della cantante, a lui si ispirerà per scrivere le sue canzoni più conosciute. Nel 1965 Violeta torna in Cile, e mette in pratica quello che sarà il suo ultimo progetto: una grande tenda a La Reina, sopra Santiago, dove intende, insieme ai figli e ad alcuni intellettuali e cantanti, creare il più importante centro di cultura del folk. L'operazione non ebbe grande successo; la cosa demotivò fortemente Violeta, ed insieme all'abbandono di Gilbert, che andrà in Bolivia per perseguire i suoi obiettivi, e li si sposò, provocherà in lei una profonda depressione, che la porterà al suicidio di lì a poco.
Il regista di Machuca e di La buena vida mette in scena tutto questo, con l'aiuto di una prova straordinaria dell'attrice protagonista Francisca Gavilán. Insieme, rendono giustizia ad una figura da noi conosciuta pochissimo, ma al contrario importantissima: la canzone Grazie alla vita (Gracias a la vida), reinterpretata tra gli altri da Gabriella Ferri, Ginevra Di Marco, Banda Bassotti, ma pure da Joan Baez e Mercedes Sosa, credo la conosciate tutti. Tratto dal libro omonimo del 2006 di Angel Parra, il figlio, il film è lungo ma neppure troppo, racchiude tutti gli eventi importanti dandogli il giusto spazio, e come detto si avvale di un'interpretazione davvero notevole. Davvero un bel film. Quest'anno, ha vinto il Gran Premio della giuria al Sundance; non è uscito in Italia.
Giudizio sintetico: si può vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: la mamma dell'intillimani
Violeta del Carmen Parra Sandoval nasce nella Provincia di Nuble (il luogo preciso è ancora oggi controverso, conteso tra San Carlos e San Fabián de Alico, non distanti tra di loro), in Cile, ai piedi delle Ande, a sud di Santiago, il 4 ottobre 1917. Fu musicista, cantautrice, e in seguito pittrice, scultrice e ceramista. Visse un'infanzia di gravi ristrettezze, alle quali, insieme ai genitori e ai fratelli (ne ebbe cinque, più due fratellastri), cercò di far fronte con la musica. La madre Clarisa era contadina. Il padre, Nicanor, era professore di musica; morì quando Violeta aveva 14 anni, ma le insegnò a suonare la chitarra (così come ai fratelli): a 9 anni suonava lo strumento, a 12 cominciò a scrivere canzoni. Cambiò residenza più volte, cominciò, anche con i fratelli, ad esibirsi dappertutto fin da piccola. A 18 anni, con la madre e i fratelli, arrivò a Santiago; si sposò per la prima volta a 21 anni, con Luis Cereceda, dal quale ebbe i primi due figli Angel e Isabel. Cereceda, militante del Partito Comunista, introdusse Violeta alla politica, dando così il via all'impegno sociale della cantante, che da sempre dette voce ai più poveri. Inizia un immenso lavoro di riscoperta del folklore latino (peruviano, messicano, spagnolo, canti contadini cileni); si sposa per la seconda volta con Luis Arce (con il quale ha le figlie Carmen Luisa e Rosita Clara), escono i suoi primi dischi (con la sorella Hilda). Sempre più conosciuta in patria grazie ai suoi dischi, nel 1954 canta per un programma alla Radio Chilena (Canta Violeta Parra), vince il premio Caupolicán come miglior cantante di folklore dell'anno, che le vale un invito al Festival della Gioventù di Varsavia. Inizia così la sua esperienza europea, che la porterà anche in Russia e a Parigi (dove rimarrà un paio d'anni). Torna in Cile nel 1957, dopo aver saputo che la figlia Rosita Clara, nel frattempo, è morta. Si scopre pittrice, continuando l'attività di ricerca musicale, viaggiando per tutto il paese diffondendo la cultura del folklore, lavorando per l'Università di Concepción. Nel 1961 si trasferisce in Argentina, si riunisce con i figli (Angel e Isabel, insieme ai quali pubblicherà un disco sotto il nome Los Parra de Chile) e qualche nipote, riparte per l'Europa (Finlandia, Russia, Germania, Italia), si ferma ancora una volta a Parigi dove si esibisce, e lavora sia alla musica, sia alla pittura che alla scultura e alla decorazione. Scrive perfino un libro sulla poesia popolare andina, e nel 1964 segna una tappa storica: è la prima latinoamericana ad esporre al Louvre. Violeta ha modo di re-incontrare quello che sarà il grande amore della sua vita, il musicologo e antropologo Gilbert Favré; il loro rapporto segnerà l'ultima parte della carriera della cantante, a lui si ispirerà per scrivere le sue canzoni più conosciute. Nel 1965 Violeta torna in Cile, e mette in pratica quello che sarà il suo ultimo progetto: una grande tenda a La Reina, sopra Santiago, dove intende, insieme ai figli e ad alcuni intellettuali e cantanti, creare il più importante centro di cultura del folk. L'operazione non ebbe grande successo; la cosa demotivò fortemente Violeta, ed insieme all'abbandono di Gilbert, che andrà in Bolivia per perseguire i suoi obiettivi, e li si sposò, provocherà in lei una profonda depressione, che la porterà al suicidio di lì a poco.
Il regista di Machuca e di La buena vida mette in scena tutto questo, con l'aiuto di una prova straordinaria dell'attrice protagonista Francisca Gavilán. Insieme, rendono giustizia ad una figura da noi conosciuta pochissimo, ma al contrario importantissima: la canzone Grazie alla vita (Gracias a la vida), reinterpretata tra gli altri da Gabriella Ferri, Ginevra Di Marco, Banda Bassotti, ma pure da Joan Baez e Mercedes Sosa, credo la conosciate tutti. Tratto dal libro omonimo del 2006 di Angel Parra, il figlio, il film è lungo ma neppure troppo, racchiude tutti gli eventi importanti dandogli il giusto spazio, e come detto si avvale di un'interpretazione davvero notevole. Davvero un bel film. Quest'anno, ha vinto il Gran Premio della giuria al Sundance; non è uscito in Italia.
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