The Master - di Paul Thomas Anderson (2013)
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Freddie Quell è un reduce della Seconda Guerra Mondiale. Non ci è dato sapere se il ragazzo avesse qualche problemino anche prima di arruolarsi, fatto sta che il ragazzo non sta per niente bene. Ossessionato dal sesso, alcolizzato, attaccabrighe, sicuramente sofferente di sindrome da stress post-traumatico, lotta per uno straccio di reinserimento della società del dopoguerra, ma non ce la fa. Trova lavoro come fotografo in un grande magazzino, e se la fa con una modella che lavora vicino a lui, ma dopo una rissa con un cliente è costretto a lasciare. Passa a fare il bracciante in una fattoria, ma il suo vizio di inventarsi bevande alcoliche artigianali avvelena uno dei lavoratori. Perso, ubriaco, senza meta, una notte salta su uno yacht ormeggiato in un porto, mentre lui sta passando sulla banchina. Lo yacht è stato dato in prestito a Lancaster Dodd, il leader di una setta, anche se lui lo definirebbe un movimento filosofico, chiamato La Causa. Si sta per celebrare il matrimonio della figlia Elizabeth (lo celebrerà lui stesso), e Lancaster, incuriosito dalla figura selvaggia di Freddie, sviluppando una dipendenza dai suoi preparati alcolici, lo invita a rimanere. Freddie, pur rimanendo uno spostato, diventa un tuttofare per Lancaster, uno di famiglia, ma la sua turbolenza causa non pochi problemi. Il rapporto con lo stesso Lancaster sarà tormentato.
Mi dispiace, il tanto attesto The Master, già acclamato a Venezia, non mi è piaciuto. Probabilmente non l'ho capito, ma mi sono abbastanza annoiato, pur apprezzando il lavoro tecnico di P.T. Anderson, sempre capace di una messa in scena che colpisce. Non so, trovo che il ragazzo, quando si mette in testa di fare il David Lynch (la presenza di Laura Dern nel cast mi ha "detto" proprio questo), non ci riesce granché bene, mentre invece dovrebbe fare cose sempre un po' dark, ma che abbiano almeno un senso. Ripercorrendo la sua carriera, mi sembra quasi di poter dire che, a parte Boogie Nights, questo film pare il suo meno sperimentale, ma manca di chiarezza, anche se ogni spettatore può provare ad immaginarsi la metafora che più preferisce (da quella più evidente, la piaga della religione, a quella più sfuocata dove ognuno che si senta un outsider può immedesimarsi nella figura zigzagante del protagonista Freddie Quell). Il percorso di Freddie sembra essere quello di una scheggia impazzita, incapace di pensare con la sua testa e di trovare quindi il suo posto nel mondo. Un personaggio che non è buono, non è cattivo, non è troppo vendicativo, capace di esplosioni di rabbia ma anche di slanci protettivi, un carattere totalmente fuori controllo che si rispecchia perfettamente in un film che sotto controllo ha solo la messa in scena per immagini, mentre la sceneggiatura sembra, esattamente come Freddie, una scheggia impazzita.
Metteteci dentro che, nonostante la presenza di Amy Adams (Peggy Dodd), attrice che come sapete amo perdutamente (ma come sapete sono anche zoccola, per cui non è la sola), quella dell'immenso Philip Seymour Hoffman (Lancaster Dodd; una prova, la sua, tutto sommato non particolarmente di rilievo, se pensiamo ai capolavori ai quali ci ha abituato), e perfino quella di Jesse Plemons (Val Dodd, ma per noi rimarrà sempre il Landry Clarke di Friday Night Lights), la figura del protagonista Freddie, affidata a Joaquin Phoenix, è per me difficile da digerire. A parte i dubbi sul personaggio, è proprio la visione di Phoenix che a me disturba: non so che problemi possa aver avuto da piccolo, ma con quella gobba e quelle spalle larghe quanto un francobollo, non capisco perché i registi insistano a fargli recitare scene a torso nudo. Perdonatemi, ma era un po' di tempo che volevo farvi partecipi: è come se facessero fare a me la parte di un culturista, col fisico che mi ritrovo. Detto questo, la prova di Phoenix è senza dubbio intensa, a parte la schizofrenia del personaggio. Tra le figure minori del cast, secondo me buca lo schermo Madisen Beaty (vista di sfuggita in No Ordinary Family) nei panni di Doris.
Insomma, no, The Master non mi è piaciuto, e nemmeno mi ha messo a disagio, condizione necessaria per riflettere. Magari è un mio limite, ma fossi in P.T. proverei a fare qualcosa di meno rarefatto, con la tecnica che si ritrova probabilmente potrebbe raggiungere risultati ancor più elevati.
No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.
20130131
20130130
Les géants
Un'estate da giganti - di Bouli Lanners (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Belgio. Due fratelli appena all'inizio dell'adolescenza, Zak e Seth, stanno passando l'estate nella casa di campagna del nonno, morto da poco. Sono soli: la madre è perennemente impegnata col lavoro (pare sia una diplomatica), il padre non è pervenuto. Stanno addirittura finendo i soldi, e non sanno più come fare, anche se la situazione per alcuni versi è divertente: ad esempio, si può guidare l'auto del nonno senza che nessuno si preoccupi più di tanto. In una delle loro disavventure, fanno amicizia con un coetaneo del luogo, Danny, anche lui abbandonato a se stesso, meglio che col fratello più grande che lo riempie di botte. per alzare qualche soldo, decidono di affittare la casa allo spacciatore locale: loro vagabonderanno in giro, un posto lo troveremo, si dicono. Le cose non vanno esattamente come pensavano.
Oggetto strano questo Les géants, del belga Bouli Lanners, attore visto in film straordinari quali Un sapore di ruggine e ossa, Kill Me Please, Louise+Michel, Mammuth, pare anche pittore, qui al terzo lungometraggio. Strano oggetto, ma mi trovo concorde con chi ha fatto notare che era dal mitico Stand By Me che non si vedeva qualche adulto riuscire a trattare l'adolescenza con tale poetica e sgangherata mano.
Il film si muove sul filo di una trama esile, e sale sulle spalle sorprendentemente larghe dei tre ragazzini protagonisti, meravigliosamente stupidi, eccezionalmente simpatici, e con l'aiuto di una colonna sonora intrigante (dei The Bony King of Nowhere), dei panorami a cavallo del Belgio e del Lussemburgo, la mano delicata e a tratti pazzoide di Lanners, ci regala un interessante piccolo film, dove gli adulti sono tutti grotteschi: sono solo gli occhi dei ragazzini a renderli così, oppure è la verità?
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Belgio. Due fratelli appena all'inizio dell'adolescenza, Zak e Seth, stanno passando l'estate nella casa di campagna del nonno, morto da poco. Sono soli: la madre è perennemente impegnata col lavoro (pare sia una diplomatica), il padre non è pervenuto. Stanno addirittura finendo i soldi, e non sanno più come fare, anche se la situazione per alcuni versi è divertente: ad esempio, si può guidare l'auto del nonno senza che nessuno si preoccupi più di tanto. In una delle loro disavventure, fanno amicizia con un coetaneo del luogo, Danny, anche lui abbandonato a se stesso, meglio che col fratello più grande che lo riempie di botte. per alzare qualche soldo, decidono di affittare la casa allo spacciatore locale: loro vagabonderanno in giro, un posto lo troveremo, si dicono. Le cose non vanno esattamente come pensavano.
Oggetto strano questo Les géants, del belga Bouli Lanners, attore visto in film straordinari quali Un sapore di ruggine e ossa, Kill Me Please, Louise+Michel, Mammuth, pare anche pittore, qui al terzo lungometraggio. Strano oggetto, ma mi trovo concorde con chi ha fatto notare che era dal mitico Stand By Me che non si vedeva qualche adulto riuscire a trattare l'adolescenza con tale poetica e sgangherata mano.
Il film si muove sul filo di una trama esile, e sale sulle spalle sorprendentemente larghe dei tre ragazzini protagonisti, meravigliosamente stupidi, eccezionalmente simpatici, e con l'aiuto di una colonna sonora intrigante (dei The Bony King of Nowhere), dei panorami a cavallo del Belgio e del Lussemburgo, la mano delicata e a tratti pazzoide di Lanners, ci regala un interessante piccolo film, dove gli adulti sono tutti grotteschi: sono solo gli occhi dei ragazzini a renderli così, oppure è la verità?
20130129
la lista
The Client List - di Suzanne Martin - Stagione 1 (10 episodi; Lifetime) - 2012
Texas. La famiglia Parks è economicamente inguaiata. Sia Kyle, l'aitante maritino, un tempo promessa del football (americano) e che adesso dopo un infortunio non è più in grado di giocare, sia Riley, ex reginetta di bellezza con un diploma di massaggiatrice, sono senza lavoro. I due hanno due figli piccoli, Travis e Katie, e la crisi galoppa. Senza possibilità di aiuti finanziari, finalmente Riley trova un'opportunità in una SPA a un'ora d'auto da dove abitano, e la coglie. Mentre Kyle è sempre più depresso per essere diventato un mantenuto, e per non riuscire a provvedere alla sua famiglia, Riley scopre che la paga non è granché, e che potrebbe fare molti più soldi con degli extra ovviamente di natura sessuale. Scandalizzata, viene rassicurata da Georgia, la proprietaria, che se non vuole essere una di quelle che "fanno" gli extra, non ci sono problemi, gli verranno passati clienti che non se li aspettano. Tornando a casa, scopre che Kyle se n'è andato, sparito, evidentemente non reggendo il peso delle responsabilità. A quel punto, disperata, decide che, non avendo più nulla da perdere, diventerà una di quelle che esegue gli extra. Essendo molto bella, e al tempo stesso, dolce e comprensiva, riscuoterà, tra i clienti, un successo strepitoso. Ma naturalmente, non è tutto oro quel che luccica.
Sempre alla ricerca di cose nuove, non so cosa mi è preso ma ho seguito una dritta di un'amica (che probabilmente non aveva neppure terminato di vedersi il pilot) e mi sono visto questa prima stagione di questa serie, che definirei orrenda, e che, pensate un po', è stata concepita dopo che era stato mandato in onda, nel 2010 su Lifetime USA, il film omonimo (del quale vi parlerò, perché naturalmente mi piace farmi male ogni tanto, e quindi l'ho ripescato). Giusto per non farvi confondere, la serie in italia è diventata Clienti speciali (Fox Life), mentre il film è "rimasto" La lista dei clienti (Sky Cinema).
Che dire di più? Un medley mal riuscito tra Hung e Secret Diary of a Call Girl, complice la crisi globale, pensato da un canale che ha un target esclusivamente femminile (e probabilmente lobotomizzato), infarcito di luoghi comuni southern e penalizzato da recitazioni da soap, l'unico motivo per vedersi questa serie credo sia da individuare nei completini di lingerie (e dalle scarpe) indossati da Jennifer Love Hewitt, che della serie è anche produttrice esecutiva e che addirittura si lancia nella regia di un episodio (cosa che aveva già fatto con qualche episodio di Ghost Whisperer); la Hewitt interpreta lo stesso ruolo che interpretava nell'omonimo film tv, cambia solo il nome (ed altre cose che poi vi dirò). Nel cast anche Cybill Sheperd (la madre della protagonista), per il resto illustri sconosciuti, e soprattutto tra le presenze maschili, imbarazzanti bellezze stile modello. Menzione particolare per i due piccoli attori che interpretano i figli dei Parks: mai visti due bambini così brutti al cinema o in televisione.
Texas. La famiglia Parks è economicamente inguaiata. Sia Kyle, l'aitante maritino, un tempo promessa del football (americano) e che adesso dopo un infortunio non è più in grado di giocare, sia Riley, ex reginetta di bellezza con un diploma di massaggiatrice, sono senza lavoro. I due hanno due figli piccoli, Travis e Katie, e la crisi galoppa. Senza possibilità di aiuti finanziari, finalmente Riley trova un'opportunità in una SPA a un'ora d'auto da dove abitano, e la coglie. Mentre Kyle è sempre più depresso per essere diventato un mantenuto, e per non riuscire a provvedere alla sua famiglia, Riley scopre che la paga non è granché, e che potrebbe fare molti più soldi con degli extra ovviamente di natura sessuale. Scandalizzata, viene rassicurata da Georgia, la proprietaria, che se non vuole essere una di quelle che "fanno" gli extra, non ci sono problemi, gli verranno passati clienti che non se li aspettano. Tornando a casa, scopre che Kyle se n'è andato, sparito, evidentemente non reggendo il peso delle responsabilità. A quel punto, disperata, decide che, non avendo più nulla da perdere, diventerà una di quelle che esegue gli extra. Essendo molto bella, e al tempo stesso, dolce e comprensiva, riscuoterà, tra i clienti, un successo strepitoso. Ma naturalmente, non è tutto oro quel che luccica.
Sempre alla ricerca di cose nuove, non so cosa mi è preso ma ho seguito una dritta di un'amica (che probabilmente non aveva neppure terminato di vedersi il pilot) e mi sono visto questa prima stagione di questa serie, che definirei orrenda, e che, pensate un po', è stata concepita dopo che era stato mandato in onda, nel 2010 su Lifetime USA, il film omonimo (del quale vi parlerò, perché naturalmente mi piace farmi male ogni tanto, e quindi l'ho ripescato). Giusto per non farvi confondere, la serie in italia è diventata Clienti speciali (Fox Life), mentre il film è "rimasto" La lista dei clienti (Sky Cinema).
Che dire di più? Un medley mal riuscito tra Hung e Secret Diary of a Call Girl, complice la crisi globale, pensato da un canale che ha un target esclusivamente femminile (e probabilmente lobotomizzato), infarcito di luoghi comuni southern e penalizzato da recitazioni da soap, l'unico motivo per vedersi questa serie credo sia da individuare nei completini di lingerie (e dalle scarpe) indossati da Jennifer Love Hewitt, che della serie è anche produttrice esecutiva e che addirittura si lancia nella regia di un episodio (cosa che aveva già fatto con qualche episodio di Ghost Whisperer); la Hewitt interpreta lo stesso ruolo che interpretava nell'omonimo film tv, cambia solo il nome (ed altre cose che poi vi dirò). Nel cast anche Cybill Sheperd (la madre della protagonista), per il resto illustri sconosciuti, e soprattutto tra le presenze maschili, imbarazzanti bellezze stile modello. Menzione particolare per i due piccoli attori che interpretano i figli dei Parks: mai visti due bambini così brutti al cinema o in televisione.
20130128
io doppio
A volte le soddisfazioni arrivano quando non te le aspetti, e parlo di cose molto personali. Su Repubblica online oggi c'è questo articolo sul tema del doppiaggio/versione originale, che come sapete a me sta molto a cuore, e che, in un passaggio, esprime un parere da me già espresso (in una recensione che leggerete tra qualche giorno).
Inoltre, a giudicare da quanto riportato nell'articolo, qualcosa si sta muovendo. Speriamo, perché devo essere sincero, negli ultimi anni andare al cinema per vedere film doppiati dalle stesse persone appartenenti alla casta dei doppiatori, sta cominciando a diventare insopportabile, almeno per me.
Inoltre, a giudicare da quanto riportato nell'articolo, qualcosa si sta muovendo. Speriamo, perché devo essere sincero, negli ultimi anni andare al cinema per vedere film doppiati dalle stesse persone appartenenti alla casta dei doppiatori, sta cominciando a diventare insopportabile, almeno per me.
Spaghetti & Coffee
Boardwalk Empire - di Terence Winter - Stagione 3 (12 episodi; HBO) - 2012
Il 1923 è appena cominciato. Jimmy Darmody è scomparso (fatto fuori da Nucky, of course) poco dopo l'assassinio di sua moglie, ed il figlioletto cresce quindi sotto la tutela della di lui madre Gillian, in un bordello. L'unico legame con la vita fuori dal bordello è Richard, che deve riposizionarsi e che inizia a sentirsi scomodo agli ordini di Gillian stessa. Nelson Van Alden, fuggito a Chicago con la figlioletta e la nuova compagna (inizialmente la babysitter, un'immigrata scandinava), si reinventa come venditore porta a porta di ferri da stiro, ma si ritrova ugualmente invischiato in storie di gangsterismo. Ma, come sempre, Atlantic City è il fulcro. Nucky rimane in sella, mentre il fratello Eli, ex sceriffo, finisce in carcere. Nucky, grazie al nuovo atteggiamento in cerca del perdono di Dio di Margaret (che però, paradossalmente, tornerà all'adulterio), diventerà un filantropo finanziando pesantemente l'ospedale locale. Ma la storyline più importante, è quella che vede co-protagonista Gyp Rosetti, uno spietato, e mentalmente instabile (con gusti sessuali sicuramente particolari, scopriremo poi), gangster italo-americano, che inizialmente vorrebbe entrare in affari con Nucky; vistosi rifiutare la partnership, Gyp comincia una guerra vera e propria: taglia letteralmente la strada al traffico di alcol di Nucky, installandosi in una (ex) tranquilla cittadina che si trova sulla strada tra Atlantic City e New York, Tabor Heights, facendone il suo quartier generale e tendendo imboscate. Mentre Gyp si prende una cotta per Gillian Darmody, che continua strenuamente a negare la morte del figlio e lottando per far funzionare il suo bordello (in società con Lucky Luciano), Nucky si invaghisce di Billie Kent, una ballerina che vuole diventare una stella del varietà. Mentre l'impero di Nucky traballa sotto i colpi di Gyp, e le alleanze tremano, perfino Margaret pensa di tradire quello che una volta pareva un personaggio inattaccabile. Ma un bravo stratega sa quando cercare nuove, e strane, alleanze.
Bisogna riconoscere che l'eliminazione del personaggio interpretato, direi magistralmente, ma Michael Pitt, alla fine della scorsa stagione, ha tolto parecchio interesse a questa serie. C'è da dire che è molto difficile, un po' come il secondo disco di caparezziana memoria, riuscire a mantenere un livello alto ad una qualsiasi serie televisiva. A questo giro, Boardwalk Empire, che pure avevamo ammirato nelle prime due stagioni, nonostante introduca immediatamente un villain "sostitutivo" e soprattutto antagonista a Nucky, e magistralmente interpretato da un superbo Bobby Cannavale (ehi, sveglia, sto parlando naturalmente di Gyp Rosetti), perde di interesse e rimane godibile quasi esclusivamente per una messa in scena eccezionale, a livello tecnico e cinematografico. Anche le scene ad effetto, quelle delle esplosioni di violenza, o dei bagni di sangue in genere (magistrale esempio quella di Gyp nudo con il collare e coperto di sangue che insegue gli "attentatori", ma molto forte anche l'uccisione del malcapitato da parte di Gillian nell'episodio 7 Sunday Best), cominciano a far insospettire: sembra siano diventate l'unico modo di tenere alto l'interesse degli spettatori. Recitazioni tutte buone, e per fortuna negli ultimi episodi un po' di spazio in più per Michael Kenneth Williams nei panni di Chalky White.
Il 1923 è appena cominciato. Jimmy Darmody è scomparso (fatto fuori da Nucky, of course) poco dopo l'assassinio di sua moglie, ed il figlioletto cresce quindi sotto la tutela della di lui madre Gillian, in un bordello. L'unico legame con la vita fuori dal bordello è Richard, che deve riposizionarsi e che inizia a sentirsi scomodo agli ordini di Gillian stessa. Nelson Van Alden, fuggito a Chicago con la figlioletta e la nuova compagna (inizialmente la babysitter, un'immigrata scandinava), si reinventa come venditore porta a porta di ferri da stiro, ma si ritrova ugualmente invischiato in storie di gangsterismo. Ma, come sempre, Atlantic City è il fulcro. Nucky rimane in sella, mentre il fratello Eli, ex sceriffo, finisce in carcere. Nucky, grazie al nuovo atteggiamento in cerca del perdono di Dio di Margaret (che però, paradossalmente, tornerà all'adulterio), diventerà un filantropo finanziando pesantemente l'ospedale locale. Ma la storyline più importante, è quella che vede co-protagonista Gyp Rosetti, uno spietato, e mentalmente instabile (con gusti sessuali sicuramente particolari, scopriremo poi), gangster italo-americano, che inizialmente vorrebbe entrare in affari con Nucky; vistosi rifiutare la partnership, Gyp comincia una guerra vera e propria: taglia letteralmente la strada al traffico di alcol di Nucky, installandosi in una (ex) tranquilla cittadina che si trova sulla strada tra Atlantic City e New York, Tabor Heights, facendone il suo quartier generale e tendendo imboscate. Mentre Gyp si prende una cotta per Gillian Darmody, che continua strenuamente a negare la morte del figlio e lottando per far funzionare il suo bordello (in società con Lucky Luciano), Nucky si invaghisce di Billie Kent, una ballerina che vuole diventare una stella del varietà. Mentre l'impero di Nucky traballa sotto i colpi di Gyp, e le alleanze tremano, perfino Margaret pensa di tradire quello che una volta pareva un personaggio inattaccabile. Ma un bravo stratega sa quando cercare nuove, e strane, alleanze.
Bisogna riconoscere che l'eliminazione del personaggio interpretato, direi magistralmente, ma Michael Pitt, alla fine della scorsa stagione, ha tolto parecchio interesse a questa serie. C'è da dire che è molto difficile, un po' come il secondo disco di caparezziana memoria, riuscire a mantenere un livello alto ad una qualsiasi serie televisiva. A questo giro, Boardwalk Empire, che pure avevamo ammirato nelle prime due stagioni, nonostante introduca immediatamente un villain "sostitutivo" e soprattutto antagonista a Nucky, e magistralmente interpretato da un superbo Bobby Cannavale (ehi, sveglia, sto parlando naturalmente di Gyp Rosetti), perde di interesse e rimane godibile quasi esclusivamente per una messa in scena eccezionale, a livello tecnico e cinematografico. Anche le scene ad effetto, quelle delle esplosioni di violenza, o dei bagni di sangue in genere (magistrale esempio quella di Gyp nudo con il collare e coperto di sangue che insegue gli "attentatori", ma molto forte anche l'uccisione del malcapitato da parte di Gillian nell'episodio 7 Sunday Best), cominciano a far insospettire: sembra siano diventate l'unico modo di tenere alto l'interesse degli spettatori. Recitazioni tutte buone, e per fortuna negli ultimi episodi un po' di spazio in più per Michael Kenneth Williams nei panni di Chalky White.
20130127
Two Hats
Homeland - di Gideon Raff (sviluppato da Howard Gordon e Alex Gansa) - Stagione 2 (12 episodi; Showtime) - 2012
Inutile che vi dica che chi non ha visto la prima stagione, non deve assolutamente leggere quello che seguirà. Dopo l'amara fine della sua carriera alla CIA, Carrie, che ha deciso spontaneamente di sottoporsi ad elettroshock per migliorare il suo disturbo bipolare, si sta lentamente rimettendo in piedi. Prende le medicine, vive col padre, insegna inglese ad una classe di immigrati che la adorano. Certo, il suo è stato un fallimento su tutta la linea, visto che Brody, al contrario, è ormai un affermato, conosciuto e benvoluto membro del congresso degli Stati Uniti, e sta per essere candidato alla carica di Vice Presidente da Bill Walden, l'attuale Vice Presidente (e, non dimentichiamolo, l'uomo che Brody avrebbe dovuto far saltare in aria col suo giubbotto da kamikaze, il colpevole della morte, tra gli altri, del figlio di Abu Nazir), che ormai stravede per Brody. Senza contare che le rispettive mogli stanno diventando amiche, e pure tre i figli, Dana (Brody) e Finn (Walden) comincia ad esserci qualcosa. Nel frattempo, in Medio Oriente non c'è pace, Israele ha bombardato un impianto nucleare in Iran, e l'Iran minaccia ritorsioni. Saul è a Beirut, e all'improvviso Estes manda Galvez a contattare Carrie: la moglie di un comandante di Hezbollah, un'informatrice, contatta la CIA perché ha informazioni importanti ed urgenti, ma vuole parlare solo con Carrie, che a suo tempo la reclutò. Tutto torna in gioco.
Lo staff degli sceneggiatori di Homeland (che è, ricordiamocelo, ispirato alla serie israeliana Hatufim) continua a stupirmi. Sarò ingenuo, ma dopo i fuochi d'artificio della prima adrenalinica stagione mi domandavo come avrebbero fatto per rendere interessante la seconda. La risposta ha tardato un anno ad arrivare, ma è stata altrettanto eccitante e piena di cliffhanger. Homeland, a dirvela tutta, è stata la serie che, ad ogni nuovo episodio, mi lasciava con una insaziabile curiosità per quello seguente, e nel giro degli episodi stessi riusciva a spiazzarmi continuamente. Se ancora non l'avete vista (in Italia andrà in onda su Fox dal 30 gennaio 2013), non voglio anticiparvi niente, ma sappiate che fino agli ultimi episodi verrete tenuti in tensione, e quando penserete che è tutto finito, i giochi saranno continuamente riaperti.
Se qualcuno potrebbe pensare a Homeland come a una serie smaccatamente filo-statunitense e anti-araba, sappia che, seppur da un punto di visto ovviamente statunitense, non si fanno sconti neppure agli USA e alla loro politica sporca e ai maneggi per i giochi di potere.
Nel cast sempre ben amalgamato, spicca ovviamente la sempre più brava Claire Danes (Carrie Mathison), e si fa spazio la giovanissima Morgan Saylor nei panni di Dana Brody (pensate, in The Sopranos appariva nei panni della giovane Meadow, la figlia di Tony). New entry di questa stagione l'inglese Rupert Friend (Il bambino con il pigiama a righe, The Young Victoria) nei panni di Peter Quinn, un misterioso analista CIA, apparizione per F. Murray Abraham negli ultimi episodi.
Aspetto la terza stagione, che partirà probabilmente tra settembre ed ottobre del 2013, con grande interesse.
Inutile che vi dica che chi non ha visto la prima stagione, non deve assolutamente leggere quello che seguirà. Dopo l'amara fine della sua carriera alla CIA, Carrie, che ha deciso spontaneamente di sottoporsi ad elettroshock per migliorare il suo disturbo bipolare, si sta lentamente rimettendo in piedi. Prende le medicine, vive col padre, insegna inglese ad una classe di immigrati che la adorano. Certo, il suo è stato un fallimento su tutta la linea, visto che Brody, al contrario, è ormai un affermato, conosciuto e benvoluto membro del congresso degli Stati Uniti, e sta per essere candidato alla carica di Vice Presidente da Bill Walden, l'attuale Vice Presidente (e, non dimentichiamolo, l'uomo che Brody avrebbe dovuto far saltare in aria col suo giubbotto da kamikaze, il colpevole della morte, tra gli altri, del figlio di Abu Nazir), che ormai stravede per Brody. Senza contare che le rispettive mogli stanno diventando amiche, e pure tre i figli, Dana (Brody) e Finn (Walden) comincia ad esserci qualcosa. Nel frattempo, in Medio Oriente non c'è pace, Israele ha bombardato un impianto nucleare in Iran, e l'Iran minaccia ritorsioni. Saul è a Beirut, e all'improvviso Estes manda Galvez a contattare Carrie: la moglie di un comandante di Hezbollah, un'informatrice, contatta la CIA perché ha informazioni importanti ed urgenti, ma vuole parlare solo con Carrie, che a suo tempo la reclutò. Tutto torna in gioco.
Lo staff degli sceneggiatori di Homeland (che è, ricordiamocelo, ispirato alla serie israeliana Hatufim) continua a stupirmi. Sarò ingenuo, ma dopo i fuochi d'artificio della prima adrenalinica stagione mi domandavo come avrebbero fatto per rendere interessante la seconda. La risposta ha tardato un anno ad arrivare, ma è stata altrettanto eccitante e piena di cliffhanger. Homeland, a dirvela tutta, è stata la serie che, ad ogni nuovo episodio, mi lasciava con una insaziabile curiosità per quello seguente, e nel giro degli episodi stessi riusciva a spiazzarmi continuamente. Se ancora non l'avete vista (in Italia andrà in onda su Fox dal 30 gennaio 2013), non voglio anticiparvi niente, ma sappiate che fino agli ultimi episodi verrete tenuti in tensione, e quando penserete che è tutto finito, i giochi saranno continuamente riaperti.
Se qualcuno potrebbe pensare a Homeland come a una serie smaccatamente filo-statunitense e anti-araba, sappia che, seppur da un punto di visto ovviamente statunitense, non si fanno sconti neppure agli USA e alla loro politica sporca e ai maneggi per i giochi di potere.
Nel cast sempre ben amalgamato, spicca ovviamente la sempre più brava Claire Danes (Carrie Mathison), e si fa spazio la giovanissima Morgan Saylor nei panni di Dana Brody (pensate, in The Sopranos appariva nei panni della giovane Meadow, la figlia di Tony). New entry di questa stagione l'inglese Rupert Friend (Il bambino con il pigiama a righe, The Young Victoria) nei panni di Peter Quinn, un misterioso analista CIA, apparizione per F. Murray Abraham negli ultimi episodi.
Aspetto la terza stagione, che partirà probabilmente tra settembre ed ottobre del 2013, con grande interesse.
20130126
all or nothing
Tutto tutto niente niente - di Giulio Manfredonia (2012)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Italia. Il sindaco di un comune della Calabria, Cetto La Qualunque, viene arrestato per abusi vari assieme all'intero consiglio comunale. Quasi contemporaneamente, in Veneto viene arrestato Rodolfo "Olfo" Favaretto, razzista sfruttatore di immigrati, che sta mettendo in piedi un piccolo esercito per una secessione "leggera" a favore dell'Austria; credendo morto uno degli africani che lavorano al nero per lui, per un incidente su un cantiere, lo getta in un corso d'acqua senza rendersi conto che è ancora vivo. Ancora nello stesso periodo, Frengo Stoppato, da tempo emigrato in un imprecisato paese di lingua spagnola per vivere senza problemi sotto effetto della cannabis, viene arrestato per precedenti illeciti, attirato in Italia dalla madre, che lo vuole far beatificare (non si sa bene su quali basi). Ma, per chiudere, tre parlamentari, che si erano opposti a una nuova legge che il governo in carica voleva fortemente, vengono misteriosamente uccisi. Occorre rimpiazzarli: l'inquetante Sottosegretario si prende in carica il "lavoro", ed individua in Cetto, Olfo e Frengo, i tre rimpiazzi, facendoli uscire dal carcere tramite l'immunità, e sistemandoli a Roma, vicini al centro del potere, e pronti per votare qualsiasi decreto che il governo avrà in mente di far passare. Un po' per poca fedeltà, un po' perché troppo intenti a portare avanti i loro interessi personali, i tre combineranno un casino dietro l'altro, e il Sottosegretario deciderà di disfarsene, facendo votare al Parlamento l'autorizzazione ad un nuovo arresto nei loro confronti.
Come in un sequel di Qualunquemente, Albanese ed il fido Manfredonia premono sull'acceleratore della satira politica mascherata da fumetto, e c'è da dire che, seppur non risultando un capolavoro, stavolta il film funziona, a parte le gag e le battute, da agghiacciante premonizione della deriva ormai irreparabile della politica italiana. Ingaggiato un Fabrizio Bentivoglio (il Sottosegretario) travestito da Jean-Paul Gaultier, e omaggiato dalla presenza silente di un Paolo Villaggio (il Presidente del Consiglio) felliniano, Antonio Albanese, oltre al solito Cetto rispolvera il vecchio Frengo-e-stop di Mai dire gol, togliendogli il calcio e (ri)nominandolo Frengo Stoppato, e crea un Olfo Favaretto secessionista veneto nonché nostalgico austro-ungarico, dando sfogo al suo disappunto verso la deriva razzista-leghista, e mettendo in piedi un baraccone, come già detto, satirico-fumettistico-felliniano piuttosto godibile, ma sempre amaro nonostante le risate, che alla fine non sono poi così tante.
Se si pensa alle cocenti delusioni dei film precedenti del pur eccezionale comico di Olginate, travolgente in televisione e in teatro, ma sempre (o quasi) sprecato sul grande schermo, è già qualcosa.
Il titolo fa riferimento al motto di un altro personaggio di Albanese, il filosofo cocainomane.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Italia. Il sindaco di un comune della Calabria, Cetto La Qualunque, viene arrestato per abusi vari assieme all'intero consiglio comunale. Quasi contemporaneamente, in Veneto viene arrestato Rodolfo "Olfo" Favaretto, razzista sfruttatore di immigrati, che sta mettendo in piedi un piccolo esercito per una secessione "leggera" a favore dell'Austria; credendo morto uno degli africani che lavorano al nero per lui, per un incidente su un cantiere, lo getta in un corso d'acqua senza rendersi conto che è ancora vivo. Ancora nello stesso periodo, Frengo Stoppato, da tempo emigrato in un imprecisato paese di lingua spagnola per vivere senza problemi sotto effetto della cannabis, viene arrestato per precedenti illeciti, attirato in Italia dalla madre, che lo vuole far beatificare (non si sa bene su quali basi). Ma, per chiudere, tre parlamentari, che si erano opposti a una nuova legge che il governo in carica voleva fortemente, vengono misteriosamente uccisi. Occorre rimpiazzarli: l'inquetante Sottosegretario si prende in carica il "lavoro", ed individua in Cetto, Olfo e Frengo, i tre rimpiazzi, facendoli uscire dal carcere tramite l'immunità, e sistemandoli a Roma, vicini al centro del potere, e pronti per votare qualsiasi decreto che il governo avrà in mente di far passare. Un po' per poca fedeltà, un po' perché troppo intenti a portare avanti i loro interessi personali, i tre combineranno un casino dietro l'altro, e il Sottosegretario deciderà di disfarsene, facendo votare al Parlamento l'autorizzazione ad un nuovo arresto nei loro confronti.
Come in un sequel di Qualunquemente, Albanese ed il fido Manfredonia premono sull'acceleratore della satira politica mascherata da fumetto, e c'è da dire che, seppur non risultando un capolavoro, stavolta il film funziona, a parte le gag e le battute, da agghiacciante premonizione della deriva ormai irreparabile della politica italiana. Ingaggiato un Fabrizio Bentivoglio (il Sottosegretario) travestito da Jean-Paul Gaultier, e omaggiato dalla presenza silente di un Paolo Villaggio (il Presidente del Consiglio) felliniano, Antonio Albanese, oltre al solito Cetto rispolvera il vecchio Frengo-e-stop di Mai dire gol, togliendogli il calcio e (ri)nominandolo Frengo Stoppato, e crea un Olfo Favaretto secessionista veneto nonché nostalgico austro-ungarico, dando sfogo al suo disappunto verso la deriva razzista-leghista, e mettendo in piedi un baraccone, come già detto, satirico-fumettistico-felliniano piuttosto godibile, ma sempre amaro nonostante le risate, che alla fine non sono poi così tante.
Se si pensa alle cocenti delusioni dei film precedenti del pur eccezionale comico di Olginate, travolgente in televisione e in teatro, ma sempre (o quasi) sprecato sul grande schermo, è già qualcosa.
Il titolo fa riferimento al motto di un altro personaggio di Albanese, il filosofo cocainomane.
20130125
L'Atlante delle nuvole
Cloud Atlas - di Lana e Andy Wachowski, Tom Tykwer (2013)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Guardando il cielo, il vecchio Zachry racconta.
Nel 1849, il giovane avvocato statunitense Adam Ewing si reca alle isole Chatham, per concludere un affare per conto del suocero Haskell Moore. Una serie di vicissitudini fanno si che il giovane si renda conto di cosa significa la schiavitù praticata soprattutto dagli Stati del sud dell'Unione; la cosa cambierà per sempre il suo punto di vista.
Nel 1936, nel Regno Unito, Robert Frobisher, un giovane musicista bisessuale di Cambridge, innamorato (e corrisposto) di Rufus Sixsmith, trova lavoro ad Edimburgo, come copista del famoso compositore Vyvyan Ayrs. Mentre tra i due si innesca una competizione (Frobisher sta componendo per suo conto un sestetto intitolato L'Atlante delle Nuvole, ma il vecchio Ayrs se ne vuole appropriare), Frobisher trova e legge gli appunti di viaggio di Adam Ewing, e racconta la sua esperienza tramite lettere all'amato Sixsmith.
Nel 1973, a San Francisco, Luisa Rey, una giornalista figlia d'arte, si imbatte nell'anziano Sixsmith, fisico nucleare, mentre sta indagando sulla presunta insicurezza del nuovo reattore nucleare della centrale nelle vicinanze. Sixsmith si impegna ad aiutarla passandole informazioni confidenziali, e tramite Sixsmith la Rey conoscerà il sestetto composto da Frobisher.
Sempre nel Regno Unito, nel 2012, l'anziano editore Timothy Cavendish ottiene un'improvvisa impennata di guadagni quando uno dei suoi scrittori, Dermot Hoggins, legato col mondo della malavita, in preda ad una crisi di rabbia getta dal terrazzo di un grattacielo un critico letterario che aveva ridicolizzato il suo ultimo libro. Hoggins, dal carcere, invia degli scagnozzi da Cavendish per esigere i proventi dei guadagni "provocati" dal suo gesto; avendo speso praticamente tutto, l'anziano editore chiede aiuto al fratello Denholme. Il fratello, che cova del risentimento verso di lui, gli gioca un brutto tiro: lo aiuta, ma lo fa rinchiudere in una casa di riposo di lusso.
Nel 2144, a Neo Seul in Corea, Sonmi-451 è una clone, ed era costretta al rango più basso della società: faceva la cameriera in un fast-food, costretta a subire qualsiasi tipo di insulto o lamentela senza possibilità di replica o ribellione. Ripercorriamo la sua storia durante l'interrogatorio che l'Archivista le fa prima della sua esecuzione. Con l'aiuto del ribelle Hae-Joo Chang, membro dell'Unione, movimento di ribellione contro la massificazione, si libera dal suo ruolo e fugge. Nonostante Hae-Joo e molti ribelli rimangano uccisi nell'operazione che porta all'arresto di Sonmi, e che la stessa Sonmi verrà alla fine giustiziata, il gesto della clone rimarrà a futura memoria.
Nel 2321, su Big Island, nell'arcipelago delle Hawaii, l'anziano Zachry vive con la sorella e la nipote nella Valle, in una società primitiva, evidentemente post-apocalittica (l'umanità è quasi scomparsa durante la Caduta). Il popolo della Valle venera Sonmi come una dea, e deve continuamente difendersi dagli attacchi della tribù cannibale rivale, i Kona. Continuamente ossessionato dal vecchio Georgie, l'impersonificazione che la sua tribù ha del Diavolo, e dal senso di colpa per aver lasciato morire un caro amico e suo figlio per mano dei Kona, Zachry diffida di Meronym, una Prescente, appartenente ad una civiltà avanzata, che arriva nella Valle per recarsi sulla sommità della Grande Montagna. Ma dopo che la stessa Prescente si guadagna la fiducia dell'anziano salvando la vita della nipotina punta da un pesce pietra, Zachry accetterà di farle da guida fino alla cima. Quel viaggio, e quello che accadrà dopo, cambierà il corso della vita di Zachry, che infatti...
C'è Blade Runner e il Trionfo della morte di Bruegel, in Cloud Atlas. C'è la visione forse ingenua della lotta del bene contro il male, un marxismo bambinesco, un simbolismo spicciolo di tutti i Mali Assoluti che il genere umano abbia concepito, un citazionismo grossolano alla fantascienza intelligente, uno spirito rivoluzionario adolescente, una messa in scena al tempo stesso goffa e meravigliosa, un omaggio al cinema che punta al kolossal per il gusto del grande spettacolo del grande schermo. E ci piace, cavolo se ci piace!
What is an ocean but a multitude of drops? risponde Adam Ewing al suocero che lo vorrebbe immobile, citando la Madre Teresa di Calcutta che conoscevamo prima di leggere Christopher Hitchens. E, proprio nel finale, ci rendiamo conto di aver assistito a qualcosa di epico, qualcosa che solo menti che guardano al cinema come mezzo di espressione delle idee, ma al tempo stesso come a un qualcosa che deve essere spettacolare, potevano concepire.
Ispirato all'omonimo libro (in italiano L'atlante delle nuvole) di David Mitchell, il film fortemente voluto dai fratelli Wachowski (la trilogia di Matrix) e dal tedesco terribile Tom Tykwer (Lola corre; a questo proposito vorrei sottolineare che Lana Wachowski, che era Larry e che ha cambiato sesso, con la sua pettinatura si ispira chiaramente a Franka Potente nel film di Tykwer, quindi questo matrimonio si doveva fare), è un fumettone pensante, che, una volta superato lo spaesamento (o le risatine, altra reazione che posso capire) dovuto all'uso degli stessi attori in più ruoli, lungo le sei (quasi sette, se ci mettiamo dentro il prologo e l'epilogo) storie raccontate, diverte, affascina, emoziona e avvolge. Recitazioni teatrali nella maggior parte dei casi, spesso sopra le righe, ma necessarie, effetti speciali e messa in scena grandiosa, movimenti di macchina funambolici, colonna sonora all'altezza dell'epicità del tutto; Cloud Atlas ce lo ricorderemo per un bel po'.
Il cast. Tom Hanks (eccezionale, nella versione originale, a cambiare accento ogni volta, sono sicuro che si è divertito alla grande), Halle Berry, Hugo Weaving (ormai il feticcio dei Wachowski, ma quanto è bravo?), Jim Sturgess (due cose: quando è Hae-Joo Chang, quindi in versione asiatica, il trucco lo fa somigliare a una caricatura di Keanu Reeves, che evidentemente i Wachowski non riescono a dimenticare; inoltre, fate caso alla sua performance in questo film, e poi confrontatela con quella in La migliore offerta di Tornatore. A buon intenditor...) e Hugh Grant (ve lo dico, e so che non ci crederete, ma è così: è bravissimo) sono quelli che appaiono, a volte anche per pochissimo ed irriconoscibili, in tutte e sei le storie. Molto importanti pure Jim Broadbent, Doona Bae, Ben Wishaw (se vi viene in mente di criticare il trucco, aspettate a leggere i crediti, e poi, come ho fatto io, stupitevi e controllate nuovamente il suo ruolo nella storia ambientata nel 2012), James D'Arcy, Zhou Xun, Keith David, David Gyasi e Susan Sarandon.
Altro grande film; se tutti i mesi fossero come questi, a livello di uscite cinematografiche, dovremmo smettere di guardare la televisione.
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Guardando il cielo, il vecchio Zachry racconta.
Nel 1849, il giovane avvocato statunitense Adam Ewing si reca alle isole Chatham, per concludere un affare per conto del suocero Haskell Moore. Una serie di vicissitudini fanno si che il giovane si renda conto di cosa significa la schiavitù praticata soprattutto dagli Stati del sud dell'Unione; la cosa cambierà per sempre il suo punto di vista.
Nel 1936, nel Regno Unito, Robert Frobisher, un giovane musicista bisessuale di Cambridge, innamorato (e corrisposto) di Rufus Sixsmith, trova lavoro ad Edimburgo, come copista del famoso compositore Vyvyan Ayrs. Mentre tra i due si innesca una competizione (Frobisher sta componendo per suo conto un sestetto intitolato L'Atlante delle Nuvole, ma il vecchio Ayrs se ne vuole appropriare), Frobisher trova e legge gli appunti di viaggio di Adam Ewing, e racconta la sua esperienza tramite lettere all'amato Sixsmith.
Nel 1973, a San Francisco, Luisa Rey, una giornalista figlia d'arte, si imbatte nell'anziano Sixsmith, fisico nucleare, mentre sta indagando sulla presunta insicurezza del nuovo reattore nucleare della centrale nelle vicinanze. Sixsmith si impegna ad aiutarla passandole informazioni confidenziali, e tramite Sixsmith la Rey conoscerà il sestetto composto da Frobisher.
Sempre nel Regno Unito, nel 2012, l'anziano editore Timothy Cavendish ottiene un'improvvisa impennata di guadagni quando uno dei suoi scrittori, Dermot Hoggins, legato col mondo della malavita, in preda ad una crisi di rabbia getta dal terrazzo di un grattacielo un critico letterario che aveva ridicolizzato il suo ultimo libro. Hoggins, dal carcere, invia degli scagnozzi da Cavendish per esigere i proventi dei guadagni "provocati" dal suo gesto; avendo speso praticamente tutto, l'anziano editore chiede aiuto al fratello Denholme. Il fratello, che cova del risentimento verso di lui, gli gioca un brutto tiro: lo aiuta, ma lo fa rinchiudere in una casa di riposo di lusso.
Nel 2144, a Neo Seul in Corea, Sonmi-451 è una clone, ed era costretta al rango più basso della società: faceva la cameriera in un fast-food, costretta a subire qualsiasi tipo di insulto o lamentela senza possibilità di replica o ribellione. Ripercorriamo la sua storia durante l'interrogatorio che l'Archivista le fa prima della sua esecuzione. Con l'aiuto del ribelle Hae-Joo Chang, membro dell'Unione, movimento di ribellione contro la massificazione, si libera dal suo ruolo e fugge. Nonostante Hae-Joo e molti ribelli rimangano uccisi nell'operazione che porta all'arresto di Sonmi, e che la stessa Sonmi verrà alla fine giustiziata, il gesto della clone rimarrà a futura memoria.
Nel 2321, su Big Island, nell'arcipelago delle Hawaii, l'anziano Zachry vive con la sorella e la nipote nella Valle, in una società primitiva, evidentemente post-apocalittica (l'umanità è quasi scomparsa durante la Caduta). Il popolo della Valle venera Sonmi come una dea, e deve continuamente difendersi dagli attacchi della tribù cannibale rivale, i Kona. Continuamente ossessionato dal vecchio Georgie, l'impersonificazione che la sua tribù ha del Diavolo, e dal senso di colpa per aver lasciato morire un caro amico e suo figlio per mano dei Kona, Zachry diffida di Meronym, una Prescente, appartenente ad una civiltà avanzata, che arriva nella Valle per recarsi sulla sommità della Grande Montagna. Ma dopo che la stessa Prescente si guadagna la fiducia dell'anziano salvando la vita della nipotina punta da un pesce pietra, Zachry accetterà di farle da guida fino alla cima. Quel viaggio, e quello che accadrà dopo, cambierà il corso della vita di Zachry, che infatti...
C'è Blade Runner e il Trionfo della morte di Bruegel, in Cloud Atlas. C'è la visione forse ingenua della lotta del bene contro il male, un marxismo bambinesco, un simbolismo spicciolo di tutti i Mali Assoluti che il genere umano abbia concepito, un citazionismo grossolano alla fantascienza intelligente, uno spirito rivoluzionario adolescente, una messa in scena al tempo stesso goffa e meravigliosa, un omaggio al cinema che punta al kolossal per il gusto del grande spettacolo del grande schermo. E ci piace, cavolo se ci piace!
What is an ocean but a multitude of drops? risponde Adam Ewing al suocero che lo vorrebbe immobile, citando la Madre Teresa di Calcutta che conoscevamo prima di leggere Christopher Hitchens. E, proprio nel finale, ci rendiamo conto di aver assistito a qualcosa di epico, qualcosa che solo menti che guardano al cinema come mezzo di espressione delle idee, ma al tempo stesso come a un qualcosa che deve essere spettacolare, potevano concepire.
Ispirato all'omonimo libro (in italiano L'atlante delle nuvole) di David Mitchell, il film fortemente voluto dai fratelli Wachowski (la trilogia di Matrix) e dal tedesco terribile Tom Tykwer (Lola corre; a questo proposito vorrei sottolineare che Lana Wachowski, che era Larry e che ha cambiato sesso, con la sua pettinatura si ispira chiaramente a Franka Potente nel film di Tykwer, quindi questo matrimonio si doveva fare), è un fumettone pensante, che, una volta superato lo spaesamento (o le risatine, altra reazione che posso capire) dovuto all'uso degli stessi attori in più ruoli, lungo le sei (quasi sette, se ci mettiamo dentro il prologo e l'epilogo) storie raccontate, diverte, affascina, emoziona e avvolge. Recitazioni teatrali nella maggior parte dei casi, spesso sopra le righe, ma necessarie, effetti speciali e messa in scena grandiosa, movimenti di macchina funambolici, colonna sonora all'altezza dell'epicità del tutto; Cloud Atlas ce lo ricorderemo per un bel po'.
Il cast. Tom Hanks (eccezionale, nella versione originale, a cambiare accento ogni volta, sono sicuro che si è divertito alla grande), Halle Berry, Hugo Weaving (ormai il feticcio dei Wachowski, ma quanto è bravo?), Jim Sturgess (due cose: quando è Hae-Joo Chang, quindi in versione asiatica, il trucco lo fa somigliare a una caricatura di Keanu Reeves, che evidentemente i Wachowski non riescono a dimenticare; inoltre, fate caso alla sua performance in questo film, e poi confrontatela con quella in La migliore offerta di Tornatore. A buon intenditor...) e Hugh Grant (ve lo dico, e so che non ci crederete, ma è così: è bravissimo) sono quelli che appaiono, a volte anche per pochissimo ed irriconoscibili, in tutte e sei le storie. Molto importanti pure Jim Broadbent, Doona Bae, Ben Wishaw (se vi viene in mente di criticare il trucco, aspettate a leggere i crediti, e poi, come ho fatto io, stupitevi e controllate nuovamente il suo ruolo nella storia ambientata nel 2012), James D'Arcy, Zhou Xun, Keith David, David Gyasi e Susan Sarandon.
Altro grande film; se tutti i mesi fossero come questi, a livello di uscite cinematografiche, dovremmo smettere di guardare la televisione.
20130124
W ciemności
In Darkness - di Agnieszka Holland (2013)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
1943. Mentre infuria la Seconda Guerra Mondiale, anche a Lwow, Polonia (adesso Lviv, per noi Leopoli, Ucraina), occupata dai nazisti tedeschi con l'aiuto dei collaboratori ucraini, è in atto la caccia agli ebrei. Il polacco Leopold Socha, ispettore delle fogne della città, sta in mezzo, e inizialmente è indeciso: aiutare gli ebrei in fuga, o aiutare in nazisti nel rintracciarli? L'importante è guadagnarci, e quindi, quando un bel giorno, insieme al suo aiutante, scopre un gruppo di ebrei che hanno scavato un tunnel per arrivare alle fogne, inizia a chiedere loro una sorta di pizzo. E', probabilmente, il confronto con l'amata moglie Wanda, che lo aiuta a prendere coscienza del fatto che la caccia agli ebrei è ignobile, e che i nazisti sono dei criminali. Leopold comincia pian piano a sviluppare una strana empatia con un gruppo di una quindicina di ebrei, e quando la caccia si fa sempre più serrata, si danna l'anima per trovar loro un punto in cui non possano essere scoperti. Non sarà facile.
Esce, finalmente (dopo oltre un anno; in Polonia uscì a fine 2011, ed era nella cinquina per l'Oscar al miglior film in lingua non inglese nel 2012) anche in Italia, questo film della regista polacca, molto attiva anche negli USA (anche in televisione: ha diretto episodi di The Wire e di Treme, tra gli altri). Ero molto curioso, l'ho cercato per quasi un anno, ma devo dirvi che ne è valsa la pena, e vi invito dunque ad andarlo a vedere, nonostante, diciamocelo, posso capire che non tutti abbiano voglia di vedersi l'ennesimo film su uno dei capitoli più bui della storia dell'umanità. Tratto del libro di Robert Marshall In the Sewers of Lvov, il tocco della Holland è vagamente da commedia, pur non risparmiando le carneficine e i momenti davvero intensi, ma ha dalla sua un ritmo incessante nonostante il film duri oltre due ore. Onore al montaggio, come pure ad una fotografia che, sbaglierò, mi ha ricordato quella di Delicatessen, pensate un po', così come ad un cast ben assemblato (rivederemo il protagonista Robert Wieckiewicz - qui Leopold Socha - nei panni di Walesa nel biopic a lui dedicato, regia di Andrzej Wajda attualmente in post produzione; l'unica faccia conosciuta è quella di Benno Furmann, attore tedesco visto in La principessa e il guerriero di Twyker e in North Face, qui nei panni di Mundek Margulies). Gran bel film.
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
1943. Mentre infuria la Seconda Guerra Mondiale, anche a Lwow, Polonia (adesso Lviv, per noi Leopoli, Ucraina), occupata dai nazisti tedeschi con l'aiuto dei collaboratori ucraini, è in atto la caccia agli ebrei. Il polacco Leopold Socha, ispettore delle fogne della città, sta in mezzo, e inizialmente è indeciso: aiutare gli ebrei in fuga, o aiutare in nazisti nel rintracciarli? L'importante è guadagnarci, e quindi, quando un bel giorno, insieme al suo aiutante, scopre un gruppo di ebrei che hanno scavato un tunnel per arrivare alle fogne, inizia a chiedere loro una sorta di pizzo. E', probabilmente, il confronto con l'amata moglie Wanda, che lo aiuta a prendere coscienza del fatto che la caccia agli ebrei è ignobile, e che i nazisti sono dei criminali. Leopold comincia pian piano a sviluppare una strana empatia con un gruppo di una quindicina di ebrei, e quando la caccia si fa sempre più serrata, si danna l'anima per trovar loro un punto in cui non possano essere scoperti. Non sarà facile.
Esce, finalmente (dopo oltre un anno; in Polonia uscì a fine 2011, ed era nella cinquina per l'Oscar al miglior film in lingua non inglese nel 2012) anche in Italia, questo film della regista polacca, molto attiva anche negli USA (anche in televisione: ha diretto episodi di The Wire e di Treme, tra gli altri). Ero molto curioso, l'ho cercato per quasi un anno, ma devo dirvi che ne è valsa la pena, e vi invito dunque ad andarlo a vedere, nonostante, diciamocelo, posso capire che non tutti abbiano voglia di vedersi l'ennesimo film su uno dei capitoli più bui della storia dell'umanità. Tratto del libro di Robert Marshall In the Sewers of Lvov, il tocco della Holland è vagamente da commedia, pur non risparmiando le carneficine e i momenti davvero intensi, ma ha dalla sua un ritmo incessante nonostante il film duri oltre due ore. Onore al montaggio, come pure ad una fotografia che, sbaglierò, mi ha ricordato quella di Delicatessen, pensate un po', così come ad un cast ben assemblato (rivederemo il protagonista Robert Wieckiewicz - qui Leopold Socha - nei panni di Walesa nel biopic a lui dedicato, regia di Andrzej Wajda attualmente in post produzione; l'unica faccia conosciuta è quella di Benno Furmann, attore tedesco visto in La principessa e il guerriero di Twyker e in North Face, qui nei panni di Mundek Margulies). Gran bel film.
20130123
notte fonda
Zero Dark Thirty - di Kathryn Bigelow (2013)
Giudizio sintetico: da vedere (3/5)
Quello che è accaduto l'11 settembre 2001, dovremmo ormai saperlo tutti. Probabilmente uno dovrebbe essere stato in coma negli ultimi 12 anni, per non saperlo. A scanso di equivoci, il film si apre con lo schermo nero, e le voci delle vittime. Dopo di che, comincia la storia di come è stato rintracciato ed ucciso Usama Bin Laden, da parte dell'intelligence statunitense. Si comincia dalla ricerca di informazioni sul Gruppo Saudita che ha finanziato l'attentato alle Twin Towers. In un black site della CIA, Dan, un agente esperto, conduce un interrogatorio dell'era Bush (con torture) su tale Ammar, insieme a Maya, un'agente giovane, che si trova evidentemente a disagio assistendo ad un interrogatorio così brutale. Proprio Maya, acquisendo esperienza, mettendo a frutto la sua brillante intelligenza per ottenere e processare informazioni fondamentali, diventando decisamente più spietata vedendo molti colleghi morire seguendo la ricerca del capo di Al Qaeda, sarà la persona che porterà a scoprire il compound dove si nasconde quest'ultimo, e a volere, seguendo l'operazione fino in fondo, la missione partita la notte del primo di maggio del 2011, la notte nella quale UBL* (come è abbreviato nei titoli di coda) verrà ucciso da un gruppo di Navy SEAL statunitensi.
Colgo l'occasione, parlandovi di questo atteso nuovo film di una regista sempre più importante nel panorama mondiale (ricordiamocelo, premio Oscar nel 2010 per The Hurt Locker, regista di film indimenticabili quali Near Dark, Strange Days e Point Break, assieme ad altri molto meno memorabili quali Il mistero dell'acqua e K-19), per spiegare brevemente un apparente paradosso: dare 3 su 5 ad un film, ma aggiungere che è "da vedere". Zero Dark Thirty (ce l'ho fatta smanettando sulle varie recensioni a capire cosa significa: quasi l'equivalente di madrugada in spagnolo, le ore che vanno dalla mezzanotte alle quattro del mattino, fascia oraria nella quale fu condotta e portata a termine l'operazione che portò alla morte di UBL*) è un film che dura due ore e quaranta minuti, mescolando azione (gli ultimi quaranta minuti), intelligence o spy story (le prime due ore), con una forma quasi documentaristica, raccontando un fatto universalmente conosciuto (ovviamente non con questi particolari), che riesce non solo a non annoiare, ma addirittura a crescere progressivamente di tensione. Per questo, e non solo, ritengo sia un film che si debba vedere, e che risulterà senza dubbio alcuno godibile. Il punto, o il mezzo punto, in meno rispetto a quello che, secondo me, dovrebbe essere il punteggio ideale o minimo per segnalare una pellicola pressoché indispensabile, è dato dal fatto che da una parte continua a sfuggirmi il messaggio, o la ricerca, o il senso, di quello che sta facendo l'amata Kathryn. Come già dicevo parlando di The Hurt Locker, mi fa un po' paura questa deriva militaristica di una regista che ha dimostrato di essere superbamente visionaria. C'è da capirla, in quanto statunitense, e di sicuro c'è da apprezzare un lavoro inappuntabile di ricostruzione "onesta", sui metodi (leggi tortura, ma anche sull'operazione conclusiva) usati, ma sembra che la regista, che si avvale anche stavolta della sceneggiatura di Mark Boal, giornalista di guerra già sceneggiatore Oscar per The Hurt Locker ed ispiratore di Nella valle di Elah, si schieri robustamente, e senza tentennamenti, dalla parte di chi giustifica invasioni di paesi stranieri e violazioni del diritto internazionale.
E' interessante l'uso di una donna bella e intelligente, tenace e praticamente immacolata (anche qui, mi sento di spezzare una lancia a favore della Bigelow: il 95% dei registi, non solo statunitensi, l'avrebbe fatta scopare almeno una volta, nel corso di due ore e quaranta), come filo conduttore di un'operazione così complessa, delicata e risolutiva (forse), ma lascia molti dubbi la caratterizzazione di questo che, appunto, sarebbe dovuto essere il personaggio principale, che invece di essere approfondito psicologicamente, emette sentenze e si autodefinisce motherfucker (non so come, nella scena del briefing con i vertici CIA, verrà tradotto in italiano, suppongo figlia di puttana); immaginatevi poi quando devono essere stati approfonditi i personaggi marginali, a dispetto di un cast di sicuro senza altre stelle, ma pieno zeppo di caratteristi favolosi: Jason Clarke (Dan), Kyle Chandler (Joseph Bradley), Jennifer Ehle (Jessica), Harold Perrineau (Jack), Mark Strong (con un imbarazzante parrucchino, nei panni di George), Edgar Ramírez (proprio quello di Carlos, qui nei panni di Larry), James Gandolfini (direttore della CIA, anche lui con un ennesimo parrucchino inguardabile), Stephen Dillane (responsabile della sicurezza nazionale), Joel Edgerton (Patrick, il comandante dello squadrone dei Navy SEAL, o meglio dei DEVGRU). Aggiungo alla lista Fares Fares, nei panni di Hakim, ai più sconosciuto (ma la sua faccia vi rimarrà impressa), un attore libano-svedese, fratello del regista Josef, con lui è stato protagonista negli spassosi Jalla! Jalla! e Kops.
Insomma, luci ed ombre, a mio giudizio. Ma un film superbo. Uscita italiana prima rimandata dai primi di gennaio ai primi di febbraio, al momento in cui scrivo anticipata ancora una volta a giovedì 24 gennaio. Staremo a vedere.
*UBL, Usama Bin Laden, può disorientare la traslitterazione "Usama" anziché quella alla quale ci hanno abituato (Osama), ma per chi non lo sapesse, i suoni vocalici in arabo sono 3, anziché 5, quindi quello della nostra O e della nostra U sono in realtà assimilabili.
Giudizio sintetico: da vedere (3/5)
Quello che è accaduto l'11 settembre 2001, dovremmo ormai saperlo tutti. Probabilmente uno dovrebbe essere stato in coma negli ultimi 12 anni, per non saperlo. A scanso di equivoci, il film si apre con lo schermo nero, e le voci delle vittime. Dopo di che, comincia la storia di come è stato rintracciato ed ucciso Usama Bin Laden, da parte dell'intelligence statunitense. Si comincia dalla ricerca di informazioni sul Gruppo Saudita che ha finanziato l'attentato alle Twin Towers. In un black site della CIA, Dan, un agente esperto, conduce un interrogatorio dell'era Bush (con torture) su tale Ammar, insieme a Maya, un'agente giovane, che si trova evidentemente a disagio assistendo ad un interrogatorio così brutale. Proprio Maya, acquisendo esperienza, mettendo a frutto la sua brillante intelligenza per ottenere e processare informazioni fondamentali, diventando decisamente più spietata vedendo molti colleghi morire seguendo la ricerca del capo di Al Qaeda, sarà la persona che porterà a scoprire il compound dove si nasconde quest'ultimo, e a volere, seguendo l'operazione fino in fondo, la missione partita la notte del primo di maggio del 2011, la notte nella quale UBL* (come è abbreviato nei titoli di coda) verrà ucciso da un gruppo di Navy SEAL statunitensi.
Colgo l'occasione, parlandovi di questo atteso nuovo film di una regista sempre più importante nel panorama mondiale (ricordiamocelo, premio Oscar nel 2010 per The Hurt Locker, regista di film indimenticabili quali Near Dark, Strange Days e Point Break, assieme ad altri molto meno memorabili quali Il mistero dell'acqua e K-19), per spiegare brevemente un apparente paradosso: dare 3 su 5 ad un film, ma aggiungere che è "da vedere". Zero Dark Thirty (ce l'ho fatta smanettando sulle varie recensioni a capire cosa significa: quasi l'equivalente di madrugada in spagnolo, le ore che vanno dalla mezzanotte alle quattro del mattino, fascia oraria nella quale fu condotta e portata a termine l'operazione che portò alla morte di UBL*) è un film che dura due ore e quaranta minuti, mescolando azione (gli ultimi quaranta minuti), intelligence o spy story (le prime due ore), con una forma quasi documentaristica, raccontando un fatto universalmente conosciuto (ovviamente non con questi particolari), che riesce non solo a non annoiare, ma addirittura a crescere progressivamente di tensione. Per questo, e non solo, ritengo sia un film che si debba vedere, e che risulterà senza dubbio alcuno godibile. Il punto, o il mezzo punto, in meno rispetto a quello che, secondo me, dovrebbe essere il punteggio ideale o minimo per segnalare una pellicola pressoché indispensabile, è dato dal fatto che da una parte continua a sfuggirmi il messaggio, o la ricerca, o il senso, di quello che sta facendo l'amata Kathryn. Come già dicevo parlando di The Hurt Locker, mi fa un po' paura questa deriva militaristica di una regista che ha dimostrato di essere superbamente visionaria. C'è da capirla, in quanto statunitense, e di sicuro c'è da apprezzare un lavoro inappuntabile di ricostruzione "onesta", sui metodi (leggi tortura, ma anche sull'operazione conclusiva) usati, ma sembra che la regista, che si avvale anche stavolta della sceneggiatura di Mark Boal, giornalista di guerra già sceneggiatore Oscar per The Hurt Locker ed ispiratore di Nella valle di Elah, si schieri robustamente, e senza tentennamenti, dalla parte di chi giustifica invasioni di paesi stranieri e violazioni del diritto internazionale.
E' interessante l'uso di una donna bella e intelligente, tenace e praticamente immacolata (anche qui, mi sento di spezzare una lancia a favore della Bigelow: il 95% dei registi, non solo statunitensi, l'avrebbe fatta scopare almeno una volta, nel corso di due ore e quaranta), come filo conduttore di un'operazione così complessa, delicata e risolutiva (forse), ma lascia molti dubbi la caratterizzazione di questo che, appunto, sarebbe dovuto essere il personaggio principale, che invece di essere approfondito psicologicamente, emette sentenze e si autodefinisce motherfucker (non so come, nella scena del briefing con i vertici CIA, verrà tradotto in italiano, suppongo figlia di puttana); immaginatevi poi quando devono essere stati approfonditi i personaggi marginali, a dispetto di un cast di sicuro senza altre stelle, ma pieno zeppo di caratteristi favolosi: Jason Clarke (Dan), Kyle Chandler (Joseph Bradley), Jennifer Ehle (Jessica), Harold Perrineau (Jack), Mark Strong (con un imbarazzante parrucchino, nei panni di George), Edgar Ramírez (proprio quello di Carlos, qui nei panni di Larry), James Gandolfini (direttore della CIA, anche lui con un ennesimo parrucchino inguardabile), Stephen Dillane (responsabile della sicurezza nazionale), Joel Edgerton (Patrick, il comandante dello squadrone dei Navy SEAL, o meglio dei DEVGRU). Aggiungo alla lista Fares Fares, nei panni di Hakim, ai più sconosciuto (ma la sua faccia vi rimarrà impressa), un attore libano-svedese, fratello del regista Josef, con lui è stato protagonista negli spassosi Jalla! Jalla! e Kops.
Insomma, luci ed ombre, a mio giudizio. Ma un film superbo. Uscita italiana prima rimandata dai primi di gennaio ai primi di febbraio, al momento in cui scrivo anticipata ancora una volta a giovedì 24 gennaio. Staremo a vedere.
*UBL, Usama Bin Laden, può disorientare la traslitterazione "Usama" anziché quella alla quale ci hanno abituato (Osama), ma per chi non lo sapesse, i suoni vocalici in arabo sono 3, anziché 5, quindi quello della nostra O e della nostra U sono in realtà assimilabili.
20130122
Il ritorno di Compostela
Ricevo e volentieri pubblico una sorta di riflessione dell'amico Buzz, riguardante il post che ci aveva regalato tempo fa sulla sua esperienza camminatoria. Questa volta gli voglio fare anche un applauso.
Cammino Retroscena
Di Andrea Turchi
Il post del Cammino di Santiago è stato molto letto e continua inspiegabilmente ad essere letto. Merito di Fb e dei newsgroups dove l’ho linkato. Io ne sono contento. È molto semplice e si legge in 3 minuti. Adesso lo scriverei in altro modo, lo cambierei mille volte. Non rimarrebbe niente dell’originale. Mancano le parolacce, è un po’ freddo; lo sento poco mio. Avevo troppe idee in testa ed è difficile buttare giù qualcosa con troppa confusione nel chiorbone. Inizialmente, il resoconto, l’avevo scritto per la parrocchia del mio paese. Il Cammino di Santiago, poteva interessare anche persone religiose, e amici di famiglia mi hanno chiesto un resoconto. Mi avevano fissato una data entro la quale, se volevo, potevo scrivere qualcosa ed è servita da stimolo per buttare giù idee.Senza una scadenza, conoscendomi, non avrei scritto niente, rimandando in continuazione per sempre. Poi successivamente l’ho incollato sul blog.
Perché scrivo di questo?
Perché c’è un seguito.
La parrocchia, ogni 15 giorni, stampa un giornalino reale, no internet, di carta, con notizie e appuntamenti futuri, dove è finito il mio resoconto. Un giornalino semplice, con 4 pagine e una piccola diffusione. Passato del tempo, mi sono accorto, che persone insospettabili, lo hanno letto, persone che nemmeno con la pistola
puntata alla tempia, mi avrebbero letto su internet. Insomma, sono entrato in casa di gente, con cui mai avrei parlato di persona del mio viaggio. Vicini con cui i dialoghi sono assenti, mi hanno chiesto dell’esperienza. Un amico antico, mi ha letto su questa stampa e mi chiedeva informazioni, voleva sapere, era contento per me.
Al Conad, davanti ai Pavesini, una signora anziana mi chiedeva del Cammino di Santiago.
E’ stato bello raccontarsi. Non sono qui per fare la Giovane Marmotta, ma di solito delle tue esperienze, alla gente, non importa niente. Questa volta, ho scritto quasi per forza e con molte resistenze, per fare contente altre persone, poi invece si è rivelata un occasione per raccontarsi un po' agli altri. E condividere qualcosa. La mia cosa.
Io ero contento.
Cammino Retroscena
Di Andrea Turchi
Il post del Cammino di Santiago è stato molto letto e continua inspiegabilmente ad essere letto. Merito di Fb e dei newsgroups dove l’ho linkato. Io ne sono contento. È molto semplice e si legge in 3 minuti. Adesso lo scriverei in altro modo, lo cambierei mille volte. Non rimarrebbe niente dell’originale. Mancano le parolacce, è un po’ freddo; lo sento poco mio. Avevo troppe idee in testa ed è difficile buttare giù qualcosa con troppa confusione nel chiorbone. Inizialmente, il resoconto, l’avevo scritto per la parrocchia del mio paese. Il Cammino di Santiago, poteva interessare anche persone religiose, e amici di famiglia mi hanno chiesto un resoconto. Mi avevano fissato una data entro la quale, se volevo, potevo scrivere qualcosa ed è servita da stimolo per buttare giù idee.Senza una scadenza, conoscendomi, non avrei scritto niente, rimandando in continuazione per sempre. Poi successivamente l’ho incollato sul blog.
Perché scrivo di questo?
Perché c’è un seguito.
La parrocchia, ogni 15 giorni, stampa un giornalino reale, no internet, di carta, con notizie e appuntamenti futuri, dove è finito il mio resoconto. Un giornalino semplice, con 4 pagine e una piccola diffusione. Passato del tempo, mi sono accorto, che persone insospettabili, lo hanno letto, persone che nemmeno con la pistola
puntata alla tempia, mi avrebbero letto su internet. Insomma, sono entrato in casa di gente, con cui mai avrei parlato di persona del mio viaggio. Vicini con cui i dialoghi sono assenti, mi hanno chiesto dell’esperienza. Un amico antico, mi ha letto su questa stampa e mi chiedeva informazioni, voleva sapere, era contento per me.
Al Conad, davanti ai Pavesini, una signora anziana mi chiedeva del Cammino di Santiago.
E’ stato bello raccontarsi. Non sono qui per fare la Giovane Marmotta, ma di solito delle tue esperienze, alla gente, non importa niente. Questa volta, ho scritto quasi per forza e con molte resistenze, per fare contente altre persone, poi invece si è rivelata un occasione per raccontarsi un po' agli altri. E condividere qualcosa. La mia cosa.
Io ero contento.
volo
Flight - di Robert Zemeckis (2013)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Orlando, Florida, USA. Whip Whitaker viene svegliato dalla solita telefonata di quella stronza della sua ex moglie che vuole i soldi degli alimenti per la scuola del figlio. Whip è un alcolizzato, ma anche un pilota di aerei, dipendente della compagnia SouthJet; nella stanza, con lui, c'è una delle sue assistenti di volo, Katerina Marquez, con la quale ha una relazione sessuale. Hanno passato la notte scopando, ubriacandosi e assumendo cocaina. C'è un volo tra poche ore, e per riprendersi Whip, che tutto sommato è pure un buon pilota, esperto e senza timori, si fa una botta di cocaina, infila l'uniforme e gli occhiali da sole, e via. Il volo è il 227 verso Atlanta, niente di che ma il tempo non è dei migliori. Il secondo pilota è il giovane Ken Evans, un po' titubante davanti a condizioni meteo così avverse; Whip sospende la distribuzione di alcolici a bordo, è una misura obbligatoria in casi del genere, fa annunciare che i passeggeri devono rimanere con le cinture allacciate, e parte con un'impennata a velocità massima per venir fuori dalla turbolenza ed assestarsi sopra le nuvole, manovra che manda nel panico Evans, dopo di che, in condizioni tranquille, lascia a lui i comandi e va a rovesciare tre bottigliette mignon di vodka in un succo di frutta, se lo scola, si rimette al suo posto e schiaccia un sonnellino. Quando l'aeroporto di Atlanta si avvicina, Whip è svegliato da uno scossone. Si deve essere rotto qualcosa, e l'aereo sta precipitando in picchiata. Evans è nel panico, l'equipaggio pure, figuriamoci i passeggeri. Whip però non perde la calma: sarà l'esperienza, sarà l'incoscienza, fatto sta che prendendo i comandi, facendosi aiutare sia da Evans, sia da Margaret, l'assistente capo, compie ogni manovra possibile per evitare un disastro. Arriva a capovolgere l'aereo quando capisce che l'apparecchio ha perso anche i dispositivi di frenata, mentre insieme alla torre di controllo cerca un luogo dove effettuare un atterraggio d'emergenza, visto che l'aeroporto più vicino sarebbe troppo lontano. Rallenta così la corsa dell'aereo, lo rimette a testa in su, individua uno spazio aperto, plana nonostante la velocità sia sempre troppo alta, e attende l'impatto. Perde conoscenza. Si sveglia molte ore dopo, in un ospedale di Atlanta. Nella sua camera c'è il vecchio amico Charlie Anderson, ex pilota, adesso rappresentante del sindacato. Si complimenta con Whip, gli dice che è ormai un eroe: 96 persone su 102 sono salve, grazie alle sue manovre. Tra i sei morti c'è Katerina, mentre Evans è in coma. E' naturalmente in corso un'indagine della NTSB, ma non dovrebbero esserci problemi. Ecco che arriva l'amicone Harling Mays. Più che un amico, Harling è lo spacciatore personale di Whip. Harling cerca di far capire a Whip che lui adesso è un eroe, e dovrebbere pretendere un trattamento da eroe. Whip vuole solo fumare, e l'unica cosa che gli interessa dalla visita di Harling è se gli ha portato da fumare.
Whip è abbastanza sconvolto, ma il suo corpo reagisce bene, tanto che verso sera sgattaiola nel vano scale per fumarsi una sigaretta in pace. Lì, fa conoscenza con Nicole, una bella giovane donna che sta riprendendosi da una overdose di eroina. Whip rimane colpito da Nicole.
Quando Whip finalmente esce dall'ospedale, per evitare i giornalisti, si rifugia nella fattoria del nonno. Mentre passa a trovare Nicole, che sta venendo buttata fuori di casa, Whip si offre di ospitarla; al tempo stesso, il suo esame tossicologico rivela che il suo tasso alcolico al momento dell'incidente era rilevante, e che nelle ore precedenti aveva assunto sia alcol che droghe. Inizia una schermaglia con l'avvocato che la compagnia aerea mette a disposizione di Whip, Hugh Lang, che cerca di "salvargli il culo"; d'accordo con Charlie, vorrebbero che il pilota/eroe si desse una ripulita, mettendosi in riabilitazione. Mentre la storia con Nicole assume una dimensione reale, Whip non riesce ad ammettere di essere un alcolizzato e un tossicodipendente, e non vuole nessun tipo di aiuto. Charlie e Hugh sono disperati, l'inchiesta va avanti, Whip rischia diversi anni di carcere per omicidio plurimo preterintenzionale, e Nicole, già sobria da mesi, trova sempre più difficile stare insieme a lui. Ogni cosa, perfino il rifiuto da parte del figlio, sembrerebbe sufficiente per motivare Whip a dare un taglio netto alle sue dipendenze.
Come ormai sapete bene, voi che mi conoscete, quando mi dilungo così tanto nel raccontarvi una trama di un film, il significato è chiaro: quel film mi è piaciuto un bel po'. Ora, è il periodo dei film "o la va o la spacca", candidati agli Oscar, nati appositamente per raccogliere statuette, e solitamente poi, nel corso del resto dell'anno, riusciamo a scovare "piccoli" film che ti riempiono l'anima ed il cuore, che lasciano un segno indelebile dentro lo spettatore che cerca quel qualcosa in più dal cinema. Ma godiamoci il momento, quello dei "filmoni", con grandi nomi e grandi cast, grandi budget e grandi aspettative. Flight, ritorno al cinema "movimentato" di un altro grande e famosissimo regista, Robert Zemeckis, non sarà Lincoln, ma certamente è un film che vale il prezzo del biglietto (anche se, con i prezzi italiani, sarebbe l'ora di ripensare a questa frase fatta), e mette di fronte a una di quelle cose che ci piace vedere al cinema, senza possibilmente affrontarne nella vita privata: il dilemma etico. Visto che vi ho già abbastanza ammorbato con quello che doveva essere un riassunto della storia, ma è diventato un papiro, la faccio breve e non aggiungerò appesantimenti: Zemeckis, che nel 1999 aveva già affrontato le dipendenze in un documentario per Showtime (Robert Zemeckis on Smoking, Drinking and Drugging in the 20th Century), perché anche se non è un tuo problema personale quasi certamente coinvolge qualcuno dei tuoi migliori amici (tematica molto sentita negli USA), imbastisce, con la sceneggiatura di John Gatins (candidato all'Oscar per la miglior sceneggiatura originale), un film robusto, spettacolare, pirotecnico anche dal punto di vista della regia, con una colonna sonora piena di grandi classici rock, un film su, appunto, una lotta interiore di un uomo alla deriva, che rimanda, rimanda, ma alla fine, ma proprio alla fine, riesce a fare la cosa giusta. Denzel Washington (Whip Whitaker) si ricandida prepotentemente all'Oscar come miglior attore protagonista, nel cast un sempre spumeggiante John Goodman (Harling Mays), la bellissima Nadine Velazquez (Katerina Marquez, in molti la amiamo da My Name is Earl), che qui ha poco minutaggio ma si mostra in tutto il suo splendore, Don Cheadle (Hugh Lang), Bruce Greenwood (Charlie Anderson), e l'altrettanto bella Kelly Reilly (Nicole). Apparizione per la grande Melissa Leo nei panni di Ellen Block, a capo dell'inchiesta sull'incidente.
Applausi per tutti.
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Orlando, Florida, USA. Whip Whitaker viene svegliato dalla solita telefonata di quella stronza della sua ex moglie che vuole i soldi degli alimenti per la scuola del figlio. Whip è un alcolizzato, ma anche un pilota di aerei, dipendente della compagnia SouthJet; nella stanza, con lui, c'è una delle sue assistenti di volo, Katerina Marquez, con la quale ha una relazione sessuale. Hanno passato la notte scopando, ubriacandosi e assumendo cocaina. C'è un volo tra poche ore, e per riprendersi Whip, che tutto sommato è pure un buon pilota, esperto e senza timori, si fa una botta di cocaina, infila l'uniforme e gli occhiali da sole, e via. Il volo è il 227 verso Atlanta, niente di che ma il tempo non è dei migliori. Il secondo pilota è il giovane Ken Evans, un po' titubante davanti a condizioni meteo così avverse; Whip sospende la distribuzione di alcolici a bordo, è una misura obbligatoria in casi del genere, fa annunciare che i passeggeri devono rimanere con le cinture allacciate, e parte con un'impennata a velocità massima per venir fuori dalla turbolenza ed assestarsi sopra le nuvole, manovra che manda nel panico Evans, dopo di che, in condizioni tranquille, lascia a lui i comandi e va a rovesciare tre bottigliette mignon di vodka in un succo di frutta, se lo scola, si rimette al suo posto e schiaccia un sonnellino. Quando l'aeroporto di Atlanta si avvicina, Whip è svegliato da uno scossone. Si deve essere rotto qualcosa, e l'aereo sta precipitando in picchiata. Evans è nel panico, l'equipaggio pure, figuriamoci i passeggeri. Whip però non perde la calma: sarà l'esperienza, sarà l'incoscienza, fatto sta che prendendo i comandi, facendosi aiutare sia da Evans, sia da Margaret, l'assistente capo, compie ogni manovra possibile per evitare un disastro. Arriva a capovolgere l'aereo quando capisce che l'apparecchio ha perso anche i dispositivi di frenata, mentre insieme alla torre di controllo cerca un luogo dove effettuare un atterraggio d'emergenza, visto che l'aeroporto più vicino sarebbe troppo lontano. Rallenta così la corsa dell'aereo, lo rimette a testa in su, individua uno spazio aperto, plana nonostante la velocità sia sempre troppo alta, e attende l'impatto. Perde conoscenza. Si sveglia molte ore dopo, in un ospedale di Atlanta. Nella sua camera c'è il vecchio amico Charlie Anderson, ex pilota, adesso rappresentante del sindacato. Si complimenta con Whip, gli dice che è ormai un eroe: 96 persone su 102 sono salve, grazie alle sue manovre. Tra i sei morti c'è Katerina, mentre Evans è in coma. E' naturalmente in corso un'indagine della NTSB, ma non dovrebbero esserci problemi. Ecco che arriva l'amicone Harling Mays. Più che un amico, Harling è lo spacciatore personale di Whip. Harling cerca di far capire a Whip che lui adesso è un eroe, e dovrebbere pretendere un trattamento da eroe. Whip vuole solo fumare, e l'unica cosa che gli interessa dalla visita di Harling è se gli ha portato da fumare.
Whip è abbastanza sconvolto, ma il suo corpo reagisce bene, tanto che verso sera sgattaiola nel vano scale per fumarsi una sigaretta in pace. Lì, fa conoscenza con Nicole, una bella giovane donna che sta riprendendosi da una overdose di eroina. Whip rimane colpito da Nicole.
Quando Whip finalmente esce dall'ospedale, per evitare i giornalisti, si rifugia nella fattoria del nonno. Mentre passa a trovare Nicole, che sta venendo buttata fuori di casa, Whip si offre di ospitarla; al tempo stesso, il suo esame tossicologico rivela che il suo tasso alcolico al momento dell'incidente era rilevante, e che nelle ore precedenti aveva assunto sia alcol che droghe. Inizia una schermaglia con l'avvocato che la compagnia aerea mette a disposizione di Whip, Hugh Lang, che cerca di "salvargli il culo"; d'accordo con Charlie, vorrebbero che il pilota/eroe si desse una ripulita, mettendosi in riabilitazione. Mentre la storia con Nicole assume una dimensione reale, Whip non riesce ad ammettere di essere un alcolizzato e un tossicodipendente, e non vuole nessun tipo di aiuto. Charlie e Hugh sono disperati, l'inchiesta va avanti, Whip rischia diversi anni di carcere per omicidio plurimo preterintenzionale, e Nicole, già sobria da mesi, trova sempre più difficile stare insieme a lui. Ogni cosa, perfino il rifiuto da parte del figlio, sembrerebbe sufficiente per motivare Whip a dare un taglio netto alle sue dipendenze.
Come ormai sapete bene, voi che mi conoscete, quando mi dilungo così tanto nel raccontarvi una trama di un film, il significato è chiaro: quel film mi è piaciuto un bel po'. Ora, è il periodo dei film "o la va o la spacca", candidati agli Oscar, nati appositamente per raccogliere statuette, e solitamente poi, nel corso del resto dell'anno, riusciamo a scovare "piccoli" film che ti riempiono l'anima ed il cuore, che lasciano un segno indelebile dentro lo spettatore che cerca quel qualcosa in più dal cinema. Ma godiamoci il momento, quello dei "filmoni", con grandi nomi e grandi cast, grandi budget e grandi aspettative. Flight, ritorno al cinema "movimentato" di un altro grande e famosissimo regista, Robert Zemeckis, non sarà Lincoln, ma certamente è un film che vale il prezzo del biglietto (anche se, con i prezzi italiani, sarebbe l'ora di ripensare a questa frase fatta), e mette di fronte a una di quelle cose che ci piace vedere al cinema, senza possibilmente affrontarne nella vita privata: il dilemma etico. Visto che vi ho già abbastanza ammorbato con quello che doveva essere un riassunto della storia, ma è diventato un papiro, la faccio breve e non aggiungerò appesantimenti: Zemeckis, che nel 1999 aveva già affrontato le dipendenze in un documentario per Showtime (Robert Zemeckis on Smoking, Drinking and Drugging in the 20th Century), perché anche se non è un tuo problema personale quasi certamente coinvolge qualcuno dei tuoi migliori amici (tematica molto sentita negli USA), imbastisce, con la sceneggiatura di John Gatins (candidato all'Oscar per la miglior sceneggiatura originale), un film robusto, spettacolare, pirotecnico anche dal punto di vista della regia, con una colonna sonora piena di grandi classici rock, un film su, appunto, una lotta interiore di un uomo alla deriva, che rimanda, rimanda, ma alla fine, ma proprio alla fine, riesce a fare la cosa giusta. Denzel Washington (Whip Whitaker) si ricandida prepotentemente all'Oscar come miglior attore protagonista, nel cast un sempre spumeggiante John Goodman (Harling Mays), la bellissima Nadine Velazquez (Katerina Marquez, in molti la amiamo da My Name is Earl), che qui ha poco minutaggio ma si mostra in tutto il suo splendore, Don Cheadle (Hugh Lang), Bruce Greenwood (Charlie Anderson), e l'altrettanto bella Kelly Reilly (Nicole). Apparizione per la grande Melissa Leo nei panni di Ellen Block, a capo dell'inchiesta sull'incidente.
Applausi per tutti.
20130121
Abraham
Lincoln - di Steven Spielberg (2013)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
1865: negli Stati Uniti d'America infuria la Guerra di Secessione. Il Presidente è l'avvocato Abraham Lincoln, sposato a Mary Todd e padre di quattro figli (due già morti nel 1865), repubblicano, amatissimo dal popolo, soprattutto dopo il Discorso di Gettysburg, e abilissimo politico. Il film ci racconta gli ultimi quattro mesi di vita di Lincoln, sovrapponendo ed incrociando la corsa all'approvazione del XIII Emendamento, e le trattative per la fine della guerra. Lincoln era stato autore, nel 1862, del Proclama di emancipazione, che liberava gli schiavi degli Stati Confederati, come era stato causa, in parte, col suo atteggiamento e le sue idee, dell'inizio della guerra stessa. Anche se tutt'oggi, la sua posizione nei confronti degli afro-americani non è ancora chiara, è indubbio che il suo operato, aprì la strada alla totale integrazione degli stessi negli USA. Dipinto, probabilmente a ragione, come autoritario, rimane senza dubbio una figura fondamentale per gli Stati Uniti d'America, un politico vero, nel senso che sicuramente amava il potere ma serviva il popolo. Se conoscete la storia, sapete come finì.
La scheda Wikipedia dice che Abraham Lincoln "è il terzo personaggio storico sul quale si è maggiormente scritto in termini di biografie, saggi e articoli" dopo Gesù Cristo e William Shakespeare. Basti pensare che la famosissima O Capitano! Mio Capitano! di Walt Whitman, resa ancor più immortale da L'attimo fuggente, è dedicata proprio al sedicesimo Presidente degli USA. Steven Spielberg, probabilmente il più famoso regista vivente, non poteva esimersi dal confronto, e noi spettatori nonché amanti appassionati di cinema possiamo solo rallegrarci, perché Spielberg, checché se ne dica, è sempre Spielberg, e Lincoln è grande cinema, cinema spettacolare, storico, toccante, commovente, epico e tremendamente coinvolgente. Basato in parte sul libro di Doris Kearns Goodwin Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln, sceneggiato da Tony Kushner (già sceneggiatore di Munich per Spielberg, e autore dell'opera teatrale Angels in America: A Gay Fantasia on National Themes, vincitrice del Pulitzer ed ispiratrice della bellissima miniserie omonima Angels in America; ecco, una delle note curiose è che i dubbi sulla sessualità del Presidente non siano stati minimamente sfiorati, ma aspettarsi una cosa del genere da Spielberg era da illusi), il film di Spielberg, candidato a dodici premi Oscar, è, a dispetto delle due ore e mezzo di durata, un vero spettacolo di messa in scena, recitazione, fotografia (quasi completamente a lume di candela, potremmo scomodare Von Trier e il suo Dogma), e chi più ne ha più ne metta. Costruzione mirabile, già dall'apertura, dove Spielberg ci ricorda che una delle sue ossessioni è la guerra, mettendo un scena una porzione di Guerra di Secessione, sfumandola in un siparietto che potrebbe anche far sorridere, il Presidente che parla con alcuni soldati semplici e fa battute, Lincoln è, lo ripeto, grande cinema fin da quando iniziano le immagini. A un immenso Daniel Day-Lewis nei panni di Lincoln, fa da spalla un David Strathairn dimesso ma non meno intenso nella parte del Segretario di Stato William Seward; all'ennesima strabiliante prova dell'inesauribile Sally Field (Mary Todd Lincoln) fa da contraltare un altrettanto inesauribile Tommy Lee Jones semplicemente meraviglioso nei panni di Thaddeus Stevens. C'è Joseph Gordon-Levitt (Robert Lincoln), un imbolsito James Spader (W.N.Bilbo), l'immarcescibile Hal Holbrook (Preston Blair), un terzetto di attori favolosi quali John Hawkes (Robert Latham), Jackie Earle Haley (Alexander Stephens) e Tim Blake Nelson (Richard Schell), e via discorrendo. Io mi sono emozionato fin dai primi secondi, ma so che non faccio testo: però Lincoln è un gran film.
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
1865: negli Stati Uniti d'America infuria la Guerra di Secessione. Il Presidente è l'avvocato Abraham Lincoln, sposato a Mary Todd e padre di quattro figli (due già morti nel 1865), repubblicano, amatissimo dal popolo, soprattutto dopo il Discorso di Gettysburg, e abilissimo politico. Il film ci racconta gli ultimi quattro mesi di vita di Lincoln, sovrapponendo ed incrociando la corsa all'approvazione del XIII Emendamento, e le trattative per la fine della guerra. Lincoln era stato autore, nel 1862, del Proclama di emancipazione, che liberava gli schiavi degli Stati Confederati, come era stato causa, in parte, col suo atteggiamento e le sue idee, dell'inizio della guerra stessa. Anche se tutt'oggi, la sua posizione nei confronti degli afro-americani non è ancora chiara, è indubbio che il suo operato, aprì la strada alla totale integrazione degli stessi negli USA. Dipinto, probabilmente a ragione, come autoritario, rimane senza dubbio una figura fondamentale per gli Stati Uniti d'America, un politico vero, nel senso che sicuramente amava il potere ma serviva il popolo. Se conoscete la storia, sapete come finì.
La scheda Wikipedia dice che Abraham Lincoln "è il terzo personaggio storico sul quale si è maggiormente scritto in termini di biografie, saggi e articoli" dopo Gesù Cristo e William Shakespeare. Basti pensare che la famosissima O Capitano! Mio Capitano! di Walt Whitman, resa ancor più immortale da L'attimo fuggente, è dedicata proprio al sedicesimo Presidente degli USA. Steven Spielberg, probabilmente il più famoso regista vivente, non poteva esimersi dal confronto, e noi spettatori nonché amanti appassionati di cinema possiamo solo rallegrarci, perché Spielberg, checché se ne dica, è sempre Spielberg, e Lincoln è grande cinema, cinema spettacolare, storico, toccante, commovente, epico e tremendamente coinvolgente. Basato in parte sul libro di Doris Kearns Goodwin Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln, sceneggiato da Tony Kushner (già sceneggiatore di Munich per Spielberg, e autore dell'opera teatrale Angels in America: A Gay Fantasia on National Themes, vincitrice del Pulitzer ed ispiratrice della bellissima miniserie omonima Angels in America; ecco, una delle note curiose è che i dubbi sulla sessualità del Presidente non siano stati minimamente sfiorati, ma aspettarsi una cosa del genere da Spielberg era da illusi), il film di Spielberg, candidato a dodici premi Oscar, è, a dispetto delle due ore e mezzo di durata, un vero spettacolo di messa in scena, recitazione, fotografia (quasi completamente a lume di candela, potremmo scomodare Von Trier e il suo Dogma), e chi più ne ha più ne metta. Costruzione mirabile, già dall'apertura, dove Spielberg ci ricorda che una delle sue ossessioni è la guerra, mettendo un scena una porzione di Guerra di Secessione, sfumandola in un siparietto che potrebbe anche far sorridere, il Presidente che parla con alcuni soldati semplici e fa battute, Lincoln è, lo ripeto, grande cinema fin da quando iniziano le immagini. A un immenso Daniel Day-Lewis nei panni di Lincoln, fa da spalla un David Strathairn dimesso ma non meno intenso nella parte del Segretario di Stato William Seward; all'ennesima strabiliante prova dell'inesauribile Sally Field (Mary Todd Lincoln) fa da contraltare un altrettanto inesauribile Tommy Lee Jones semplicemente meraviglioso nei panni di Thaddeus Stevens. C'è Joseph Gordon-Levitt (Robert Lincoln), un imbolsito James Spader (W.N.Bilbo), l'immarcescibile Hal Holbrook (Preston Blair), un terzetto di attori favolosi quali John Hawkes (Robert Latham), Jackie Earle Haley (Alexander Stephens) e Tim Blake Nelson (Richard Schell), e via discorrendo. Io mi sono emozionato fin dai primi secondi, ma so che non faccio testo: però Lincoln è un gran film.
20130120
Tipitina
Treme - di David Simon e Eric Overmyer - Stagione 3 (10 episodi; HBO) - 2012
Due anni dopo Katrina (l'uragano, per chi arrivasse adesso da Saturno), la vita va avanti a New Orleans, e, per qualcuno, anche a New York o ad Indianapolis.
Antoine Batiste sta diventando un uomo, ed un musicista, nuovo, grazie anche a Desiree, che lo tiene sulla "retta via", e che in questa stagione trova il tempo per essere coinvolta in un comitato di protesta contro l'abbattimento indiscriminato delle case danneggiate da parte della municipalità (e si trova, indirettamente, a scontrarsi con Nelson Hidalgo, sempre alla ricerca di nuovi affari, nuovi finanziamenti, nuove mammelle da mungere). Janette Desautel continua a lavorare a New York, con crescente apprezzamento, ma New Orleans è come una calamita: le si presenterà l'opportunità di tornare. La famiglia Lambreaux si trova a fronteggiare dapprima una nuova situazione di tranquillità e di apprezzamento per il "loro" album di crossover di indian-jazz, e una sorta di inversione dei ruoli (Delmond è preoccupato che l'album non sia pienamente compreso, ed è preoccupato del giudizio degli altri, mentre ad Albert non gliene può fregare di meno: la scena durante la quale sente un loro pezzo in radio e si bulla con i suoi nuovi colleghi è esattamente il contrario di come avrebbe reagito nelle scorse stagioni), ma qualcosa di brutto sta arrivando: come accade spesso nella vita reale, in casi come questi, la famiglia si compatterà ancora di più. Nella famiglia Bernette, l'elaborazione del lutto, che sembrava essere cosa fatta, si rivela più complessa. Toni trova un nuovo, giovane alleato nel giornalista L.P. Everett, un personaggio che si rivelerà fondamentale per questa stagione, illustrando come ci si può innamorare di una città che non è la tua, se questa città è New Orleans, mentre Sofia sembra aver trovato una certa stabilità col suo fidanzato musicista, che però Toni non approva per la differenza d'età; ma le battaglie di Toni creeranno una situazione decisamente sgradevole per la famiglia, e coinvolgeranno pure L.P. LaDonna continua ad affrontare il processo sul suo stupro con enorme dignità, ma non mancheranno i momenti difficili; la sistemazione insieme alla cognata durerà pochissimo, suo marito la asseconderà, da bravissima persona qual è, e l'agguerrita cinquantenne conoscerà pure Albert Lambreaux, con il quale instaurerà un rapporto dolcissimo che ci farà versare qualche lacrima. Sonny, praticamente un'altra persona, deve però continuare a combattere col suo inferno personale, mentre realizza che è davvero innamorato di Linh, e che il di lei padre è davvero una brava persona, a dispetto dei modi e delle tradizioni. Che sia davvero giunto il momento di mettere la cosiddetta testa a posto? DJ Davis torna in radio e lavora al suo grandioso progetto di una jazz-opera, mentre mette in piedi un tour turistico dei luoghi storici della musica a New Orleans (spassoso); il suo rapporto con Annie va alla grande, ma la ragazza si trova un manager come si deve, e la sua musica comincia a piacere in giro, non soltanto a New Orleans. Infine c'è Terry Colson, che pensavamo maggiormente distrutto dal mancato funzionamento della sua storia con Toni. Invece, Terry è alle prese con la presa di coscienza del suo non essere nativo di New Orleans, ma del fatto di amarla ugualmente. La scena col mago in bicicletta è qualcosa di straordinario, è poesia allo stato puro. Durante questa stagione, Terry affronterà un ostracismo tremendo sul posto di lavoro, verrà costretto al limite delle dimissioni, ma la sua cocciutaggine aprirà le porte per un minimo di giustizia. E, proprio sul finale...
Il pezzo scritto appositamente da Steve Earle, e che, come potete notare, fa da tagline alla terza stagione.
Ancora una volta grazie a serialmente.com (i pochi fan di questa serie devono per forza aggregarsi, ma quello che mi stupisce, fino ad un certo punto, è che i giudizi, anche sulle piccole cose, sono identici), ho trovato lo slogan perfetto per definire il rapporto che ho con questa serie, ed è il titolo di un articolo di indiewire: "Why Treme is the greatest show you can never get your friends to watch" (perchè Treme è il più grande show che non riesci a far vedere ai tuoi amici). E i motivi li sappiamo benissimo, senza che indiewire ce li ricordi: Treme non è una serie di azione, non ci sono le storie d'amore patinate, i colpi di scena, il montaggio serrato, la storyline principale e quelle secondarie, i personaggi inutili che possono morire senza che lo show ne risenta o che possono semplicemente scomparire senza motivo. Se guardi Treme devi solo sapere che ti metterai lì, davanti a quello schermo, per un'ora, ed amerai qualsiasi cosa facciano i protagonisti, soffrirai per le ingiustizie che subiscono, crescerà in te la rabbia che provano loro, vorrai commettere i loro sbagli per crescere come persona, e una gita in bicicletta lungo gli argini ti regalerà un momento indicibile di felicità, così come assistere ad uno spettacolo teatrale ti farà commuovere fino ai singhiozzi perché ti ricorderà qualcuno che non c'è più. Soffrirai per un amore che sta per finire, ma un momento dopo ti ritroverai a tifare per una storia vecchia che si riapre.
Treme è una specie di Report di Rai Tre sotto forma di fiction, poliziotti corrotti sotto accusa, giornalisti freelance che rompono il cazzo su omicidi insabbiati, pattuglie che per rappresaglia pedinano e fermano tutti per intimorire. Azioni che si spiegano lentissime, come nella vita di tutti i giorni. Questo è quello che è accaduto ad una città. Poi c'è quello che di quella città rappresenta la spina dorsale, la storia, l'essenza. La musica. Ci sono momenti in Treme che ti toccano il cuore anche se quel genere che sta scorrendo sullo schermo non è quello per cui impazzisci. Chi, come me, come voi, sa che la musica è una delle caratteristiche che vi rende quello che siete, può capire. Poi c'è la cucina. Che secondo me, una serie che riesce a parlarmi di cultura del cibo senza annoiarmi è qualcosa di straordinario. E poi ci sono gli indiani e il Mardi Gras, sempre più favolosi. L'episodio 7, Promised Land, tra parentesi diretto da Tim Robbins, è favoloso. Il carnevale, il giornalista metallaro che rimane entusiasta della festa, ubriaco perso, i colori degli indians e tutti quelli che cuciono i vestiti, le ceneri sparse nel fiume (e quelle di Harley, il personaggio interpretato da Steve Earle, dentro la custodia della chitarra), il documentario sull'uragano, la marching band dei ragazzi di Antoine e quella dei marines. Mi commuovo solo ricordandolo. Potrei continuare, ma mi fermo. Vi ricordo solo l'apparizione di Isabella Rossellini nella parte della madre di Annie. Non dico niente sul cast, sarebbe inutile: favolosi. Come ho detto più volte, un po' per le loro interpretazioni, un po' per i loro personaggi, ti viene voglia di abbracciarli come appaiono sullo schermo. Quasi tutti.
Nel 2013, Treme tornerà per la quarta stagione, composta da cinque soli episodi, che saranno anche gli ultimi. Avete tutto il tempo per recuperare questa serie, e quando vi deciderete, mi ringrazierete per aver insistito.
Due anni dopo Katrina (l'uragano, per chi arrivasse adesso da Saturno), la vita va avanti a New Orleans, e, per qualcuno, anche a New York o ad Indianapolis.
Antoine Batiste sta diventando un uomo, ed un musicista, nuovo, grazie anche a Desiree, che lo tiene sulla "retta via", e che in questa stagione trova il tempo per essere coinvolta in un comitato di protesta contro l'abbattimento indiscriminato delle case danneggiate da parte della municipalità (e si trova, indirettamente, a scontrarsi con Nelson Hidalgo, sempre alla ricerca di nuovi affari, nuovi finanziamenti, nuove mammelle da mungere). Janette Desautel continua a lavorare a New York, con crescente apprezzamento, ma New Orleans è come una calamita: le si presenterà l'opportunità di tornare. La famiglia Lambreaux si trova a fronteggiare dapprima una nuova situazione di tranquillità e di apprezzamento per il "loro" album di crossover di indian-jazz, e una sorta di inversione dei ruoli (Delmond è preoccupato che l'album non sia pienamente compreso, ed è preoccupato del giudizio degli altri, mentre ad Albert non gliene può fregare di meno: la scena durante la quale sente un loro pezzo in radio e si bulla con i suoi nuovi colleghi è esattamente il contrario di come avrebbe reagito nelle scorse stagioni), ma qualcosa di brutto sta arrivando: come accade spesso nella vita reale, in casi come questi, la famiglia si compatterà ancora di più. Nella famiglia Bernette, l'elaborazione del lutto, che sembrava essere cosa fatta, si rivela più complessa. Toni trova un nuovo, giovane alleato nel giornalista L.P. Everett, un personaggio che si rivelerà fondamentale per questa stagione, illustrando come ci si può innamorare di una città che non è la tua, se questa città è New Orleans, mentre Sofia sembra aver trovato una certa stabilità col suo fidanzato musicista, che però Toni non approva per la differenza d'età; ma le battaglie di Toni creeranno una situazione decisamente sgradevole per la famiglia, e coinvolgeranno pure L.P. LaDonna continua ad affrontare il processo sul suo stupro con enorme dignità, ma non mancheranno i momenti difficili; la sistemazione insieme alla cognata durerà pochissimo, suo marito la asseconderà, da bravissima persona qual è, e l'agguerrita cinquantenne conoscerà pure Albert Lambreaux, con il quale instaurerà un rapporto dolcissimo che ci farà versare qualche lacrima. Sonny, praticamente un'altra persona, deve però continuare a combattere col suo inferno personale, mentre realizza che è davvero innamorato di Linh, e che il di lei padre è davvero una brava persona, a dispetto dei modi e delle tradizioni. Che sia davvero giunto il momento di mettere la cosiddetta testa a posto? DJ Davis torna in radio e lavora al suo grandioso progetto di una jazz-opera, mentre mette in piedi un tour turistico dei luoghi storici della musica a New Orleans (spassoso); il suo rapporto con Annie va alla grande, ma la ragazza si trova un manager come si deve, e la sua musica comincia a piacere in giro, non soltanto a New Orleans. Infine c'è Terry Colson, che pensavamo maggiormente distrutto dal mancato funzionamento della sua storia con Toni. Invece, Terry è alle prese con la presa di coscienza del suo non essere nativo di New Orleans, ma del fatto di amarla ugualmente. La scena col mago in bicicletta è qualcosa di straordinario, è poesia allo stato puro. Durante questa stagione, Terry affronterà un ostracismo tremendo sul posto di lavoro, verrà costretto al limite delle dimissioni, ma la sua cocciutaggine aprirà le porte per un minimo di giustizia. E, proprio sul finale...
Il pezzo scritto appositamente da Steve Earle, e che, come potete notare, fa da tagline alla terza stagione.
Ancora una volta grazie a serialmente.com (i pochi fan di questa serie devono per forza aggregarsi, ma quello che mi stupisce, fino ad un certo punto, è che i giudizi, anche sulle piccole cose, sono identici), ho trovato lo slogan perfetto per definire il rapporto che ho con questa serie, ed è il titolo di un articolo di indiewire: "Why Treme is the greatest show you can never get your friends to watch" (perchè Treme è il più grande show che non riesci a far vedere ai tuoi amici). E i motivi li sappiamo benissimo, senza che indiewire ce li ricordi: Treme non è una serie di azione, non ci sono le storie d'amore patinate, i colpi di scena, il montaggio serrato, la storyline principale e quelle secondarie, i personaggi inutili che possono morire senza che lo show ne risenta o che possono semplicemente scomparire senza motivo. Se guardi Treme devi solo sapere che ti metterai lì, davanti a quello schermo, per un'ora, ed amerai qualsiasi cosa facciano i protagonisti, soffrirai per le ingiustizie che subiscono, crescerà in te la rabbia che provano loro, vorrai commettere i loro sbagli per crescere come persona, e una gita in bicicletta lungo gli argini ti regalerà un momento indicibile di felicità, così come assistere ad uno spettacolo teatrale ti farà commuovere fino ai singhiozzi perché ti ricorderà qualcuno che non c'è più. Soffrirai per un amore che sta per finire, ma un momento dopo ti ritroverai a tifare per una storia vecchia che si riapre.
Treme è una specie di Report di Rai Tre sotto forma di fiction, poliziotti corrotti sotto accusa, giornalisti freelance che rompono il cazzo su omicidi insabbiati, pattuglie che per rappresaglia pedinano e fermano tutti per intimorire. Azioni che si spiegano lentissime, come nella vita di tutti i giorni. Questo è quello che è accaduto ad una città. Poi c'è quello che di quella città rappresenta la spina dorsale, la storia, l'essenza. La musica. Ci sono momenti in Treme che ti toccano il cuore anche se quel genere che sta scorrendo sullo schermo non è quello per cui impazzisci. Chi, come me, come voi, sa che la musica è una delle caratteristiche che vi rende quello che siete, può capire. Poi c'è la cucina. Che secondo me, una serie che riesce a parlarmi di cultura del cibo senza annoiarmi è qualcosa di straordinario. E poi ci sono gli indiani e il Mardi Gras, sempre più favolosi. L'episodio 7, Promised Land, tra parentesi diretto da Tim Robbins, è favoloso. Il carnevale, il giornalista metallaro che rimane entusiasta della festa, ubriaco perso, i colori degli indians e tutti quelli che cuciono i vestiti, le ceneri sparse nel fiume (e quelle di Harley, il personaggio interpretato da Steve Earle, dentro la custodia della chitarra), il documentario sull'uragano, la marching band dei ragazzi di Antoine e quella dei marines. Mi commuovo solo ricordandolo. Potrei continuare, ma mi fermo. Vi ricordo solo l'apparizione di Isabella Rossellini nella parte della madre di Annie. Non dico niente sul cast, sarebbe inutile: favolosi. Come ho detto più volte, un po' per le loro interpretazioni, un po' per i loro personaggi, ti viene voglia di abbracciarli come appaiono sullo schermo. Quasi tutti.
Nel 2013, Treme tornerà per la quarta stagione, composta da cinque soli episodi, che saranno anche gli ultimi. Avete tutto il tempo per recuperare questa serie, e quando vi deciderete, mi ringrazierete per aver insistito.
20130119
la redazione
The Newsroom - di Aaron Sorkin - Stagione 1 (10 episodi; HBO) - 2012
Manhattan, New York. Alla Atlantic Cable News, ACN, una rete tv via cavo, Will McAvoy è la star dei notiziari, ma c'è in corso una sorta di rimpasto nella sua redazione. Charlie Skinner, il Presidente della divisione news, ha deciso di assumere MacKenzie McHale come executive producer di News Night, il telegiornale di informazione ed approfondimento serale, condotto appunto da Will. Ci sono alcune cose da sottolineare: Mac è una ex inviata di guerra, brava, esigente, inglese, una delle migliori produttrici in giro, ma soprattutto è la ex di Will. E c'è da aggiungere che la storia è finita davvero male: Will scoprì che Mac l'aveva tradito con un altro giornalista (della carta stampata), ma in realtà lei era ancora innamorata di Will. I due, probabilmente, sono ancora innamorati l'uno dell'altra. Ma Will, da quella atroce scottatura, è diventato un altro tipo d'uomo. Sempre sulla breccia, cambia accompagnatrice praticamente ogni sera, preferibilmente donne vistose, giovani, dalla conversazione semplice. Sfrutta, in pratica, la notorietà. I due, di nuovo accanto, anche se per lavoro, c'è da immaginarselo, faranno scintille. Ma non c'è solo il lato sentimentale, anzi, e non ci sono sono loro in redazione. Mac conserva i "vecchi" collaboratori, ma si porta dietro James Jim Harper, un giovane produttore un po' timido ma brillante. Mac è decisa a cambiare radicalmente l'atteggiamento del programma, e di Will, almeno sul piano professionale. News Night diventa una mitragliatrice, sempre sul pezzo, che incalza i politici e le corporation. E questo non piace ad una parte della dirigenza, facendo si che l'amministratrice delegata della Atlantis World Media, la società madre della ACN, Leona Lansing, cominci quasi immediatamente dopo l'avvio della versione 2.0 di News Night, a minacciare chiusure, censure e licenziamenti.
Per essere onesto, ho letto un sacco di critiche su questa nuova serie ideata da Aaron Sorkin (per chi capitasse per la prima volta su questo blog, sceneggiatore di Moneyball, The Social Network, Il Presidente - Una storia d'amore ed ideatore di Studio 60, Sports Night, The West Wing), e mi sono sembrate davvero eccessive, anche se motivate, credo, dal fatto che dai migliori si pretende, e ci si aspetta, sempre il massimo ed oltre. Queste critiche, però, a me sono servite, perché proprio da queste sono partito per vedermi interamente, prima di scrivere questa recensione su The Newsroom, che presumibilmente ci accompagnerà per alcuni anni, Sports Night e The West Wing, appunto. C'è da dire che Sorkin è riconoscibile, oltre che dalla sovrabbondanza di dialoghi e dal walk and talk, per la sua predilezione a trattare temi alti (etica professionale, rettitudine morale) nei vari campi delle professioni "pubbliche" (giornalismo, già affrontato a livello sportivo con Sports Night, adesso con The Newsroom, televisione, già affrontata con Studio 60, adesso ci torna con l'informazione anziché un programma comico, politica, già affrontata con The West Wing, e adesso ci risiamo: è chiaro che The Newsroom è un punto d'arrivo, una sorta di crossover dei temi già affrontati in passato, una summa), e pure ad infarcire questi temi alti ed importanti con storie d'amore. Ma, tanto per scendere ancora più nei particolari, le storie d'amore descritte da Sorkin, non sono mai quelle semplici, della coppia che si conosce al liceo, si sposa, fa una nidiata di figli e vive felice e contenta, bensì sono quelle costellate da divorzi anche amichevoli, o addirittura, e questa c'è da dire che è la sua favorita, quelle tra persone incapaci di comunicare la loro attrazione, o addirittura quelle tra una ex coppia che sa benissimo di non poter tornare assieme, ma non riesce a smettere di pensare a sé e all'altro come coppia.
Ecco, potrei fermarmi qui, che vi ho già detto tutto. Ma voglio dirvi che, a dispetto delle storie d'amore a volte telefonate, dei déjà vu sorkiniani, a me The Newsroom è molto piaciuto, sarà perché trovare qualcuno che riesce a parlare di etica e morale in una società che sembra relegare certe cose nella scatola della vergogna, e posso dirvi di aspettare a braccia aperte la seconda stagione. E' vero che Sorkin è evidentemente un nostalgico (i titoli di testa, l'avversione per la tecnologia), è vero che spesso gli intrecci sono telefonati (come già detto), ma c'è tempo per limare il tutto, mentre si parla di un mondo migliore e si spara a zero sui Tea Party.
Cast di tutto rispetto, dove Jeff Daniels (Will McAvoy) la fa da padrone e dove vediamo sempre con piacere una Jane Fonda (Leona Lansing) sempre in gran forma. Buffo vedere Olivia Munn (Sloan Sabbith), bellissima, in una parte da economista intelligente ma socialmente impedita. Di sicuro, almeno per chi è attratto dal genere femminile, il livello estetico sarebbe stato più alto se Marisa Tomei avesse accettato il ruolo poi andato ad Emily Mortimer.
Insomma, dateci News Night 2.0 pure a noi, al posto di Porta a Porta.
Manhattan, New York. Alla Atlantic Cable News, ACN, una rete tv via cavo, Will McAvoy è la star dei notiziari, ma c'è in corso una sorta di rimpasto nella sua redazione. Charlie Skinner, il Presidente della divisione news, ha deciso di assumere MacKenzie McHale come executive producer di News Night, il telegiornale di informazione ed approfondimento serale, condotto appunto da Will. Ci sono alcune cose da sottolineare: Mac è una ex inviata di guerra, brava, esigente, inglese, una delle migliori produttrici in giro, ma soprattutto è la ex di Will. E c'è da aggiungere che la storia è finita davvero male: Will scoprì che Mac l'aveva tradito con un altro giornalista (della carta stampata), ma in realtà lei era ancora innamorata di Will. I due, probabilmente, sono ancora innamorati l'uno dell'altra. Ma Will, da quella atroce scottatura, è diventato un altro tipo d'uomo. Sempre sulla breccia, cambia accompagnatrice praticamente ogni sera, preferibilmente donne vistose, giovani, dalla conversazione semplice. Sfrutta, in pratica, la notorietà. I due, di nuovo accanto, anche se per lavoro, c'è da immaginarselo, faranno scintille. Ma non c'è solo il lato sentimentale, anzi, e non ci sono sono loro in redazione. Mac conserva i "vecchi" collaboratori, ma si porta dietro James Jim Harper, un giovane produttore un po' timido ma brillante. Mac è decisa a cambiare radicalmente l'atteggiamento del programma, e di Will, almeno sul piano professionale. News Night diventa una mitragliatrice, sempre sul pezzo, che incalza i politici e le corporation. E questo non piace ad una parte della dirigenza, facendo si che l'amministratrice delegata della Atlantis World Media, la società madre della ACN, Leona Lansing, cominci quasi immediatamente dopo l'avvio della versione 2.0 di News Night, a minacciare chiusure, censure e licenziamenti.
Per essere onesto, ho letto un sacco di critiche su questa nuova serie ideata da Aaron Sorkin (per chi capitasse per la prima volta su questo blog, sceneggiatore di Moneyball, The Social Network, Il Presidente - Una storia d'amore ed ideatore di Studio 60, Sports Night, The West Wing), e mi sono sembrate davvero eccessive, anche se motivate, credo, dal fatto che dai migliori si pretende, e ci si aspetta, sempre il massimo ed oltre. Queste critiche, però, a me sono servite, perché proprio da queste sono partito per vedermi interamente, prima di scrivere questa recensione su The Newsroom, che presumibilmente ci accompagnerà per alcuni anni, Sports Night e The West Wing, appunto. C'è da dire che Sorkin è riconoscibile, oltre che dalla sovrabbondanza di dialoghi e dal walk and talk, per la sua predilezione a trattare temi alti (etica professionale, rettitudine morale) nei vari campi delle professioni "pubbliche" (giornalismo, già affrontato a livello sportivo con Sports Night, adesso con The Newsroom, televisione, già affrontata con Studio 60, adesso ci torna con l'informazione anziché un programma comico, politica, già affrontata con The West Wing, e adesso ci risiamo: è chiaro che The Newsroom è un punto d'arrivo, una sorta di crossover dei temi già affrontati in passato, una summa), e pure ad infarcire questi temi alti ed importanti con storie d'amore. Ma, tanto per scendere ancora più nei particolari, le storie d'amore descritte da Sorkin, non sono mai quelle semplici, della coppia che si conosce al liceo, si sposa, fa una nidiata di figli e vive felice e contenta, bensì sono quelle costellate da divorzi anche amichevoli, o addirittura, e questa c'è da dire che è la sua favorita, quelle tra persone incapaci di comunicare la loro attrazione, o addirittura quelle tra una ex coppia che sa benissimo di non poter tornare assieme, ma non riesce a smettere di pensare a sé e all'altro come coppia.
Ecco, potrei fermarmi qui, che vi ho già detto tutto. Ma voglio dirvi che, a dispetto delle storie d'amore a volte telefonate, dei déjà vu sorkiniani, a me The Newsroom è molto piaciuto, sarà perché trovare qualcuno che riesce a parlare di etica e morale in una società che sembra relegare certe cose nella scatola della vergogna, e posso dirvi di aspettare a braccia aperte la seconda stagione. E' vero che Sorkin è evidentemente un nostalgico (i titoli di testa, l'avversione per la tecnologia), è vero che spesso gli intrecci sono telefonati (come già detto), ma c'è tempo per limare il tutto, mentre si parla di un mondo migliore e si spara a zero sui Tea Party.
Cast di tutto rispetto, dove Jeff Daniels (Will McAvoy) la fa da padrone e dove vediamo sempre con piacere una Jane Fonda (Leona Lansing) sempre in gran forma. Buffo vedere Olivia Munn (Sloan Sabbith), bellissima, in una parte da economista intelligente ma socialmente impedita. Di sicuro, almeno per chi è attratto dal genere femminile, il livello estetico sarebbe stato più alto se Marisa Tomei avesse accettato il ruolo poi andato ad Emily Mortimer.
Insomma, dateci News Night 2.0 pure a noi, al posto di Porta a Porta.
20130118
L'ora
The Hour - di Abi Morgan - 2 stagioni (12 episodi; BBC) - 2011/2012
Inghilterra, 1956. Freddie Lyon è un giovane, ambizioso giornalista, devoto al credo della professione: dire sempre la verità, scavare fino in fondo, non mollare no matter what. Ma al momento si sente bloccato lavorando per il cinegiornale della BBC. Vorrebbe passare alla televisione, un mezzo che secondo lui ha enormi, inespresse potenzialità, rappresenta il futuro e la possibilità di arrivare a una moltitudine di persone. La sua più cara amica nonché collega (produttrice), Bel Rowley, con la quale condivide un rapporto complesso, di amore inespresso, necessità, rivalità, sfida, gelosia e quant'altro, è contattata da Clarence Fendley, un po' lo scopritore di entrambi, per affidarle la produzione di un nuovissimo newsmagazine, che viene chiamato The Hour. Freddie viene tenuto all'oscuro da Bel, finché scopre di essere stato da lei scelto per curare la parte delle notizie nazionali, mentre lui avrebbe ambito a quelle estere, che invece Bel affida all'esperta ex inviata di guerra Lix Storm. Freddie non la prende bene; ad aggravare la frizione tra i due amici per la pelle, la scelta dell'anchorman, che cade su Hector Madden, bello, ricco, affascinante, e che immediatamente "punta" Bel. La redazione viene completata da altri personaggi che cominciano a legare, fatta eccezione per Thomas Kish, un traduttore dall'arabo, al quale vengono affidate le traduzioni delle notizie che arrivano dall'Egitto: l'escalation della crisi del canale di Suez è dietro l'angolo.
Nello stesso tempo, Freddie viene avvicinato da Ruth Elms, una carissima amica, quasi una sorella, dato che la madre di Freddie era stata impiegata presso la casa dei genitori di Ruth (e Freddie stesso era stato ospitato dagli Elms durante la guerra). Ruth gli chiede di indagare sulla morte di Peter Darrall, un professore a lei molto legato, morte avvenuta pochi giorni prima. Elemento non secondario, il padre di Ruth, Lord Elms, è membro della Camera.
Sollecitato dal mormorio della rete e dall'amico Massi, mi sono avvicinato a questo prodotto della BBC proprio durante la messa in onda della seconda stagione, ma ho seguito religiosamente l'ordine cronologico. Sono quindi partito dalla prima stagione, e devo dire che, d'accordo con Sam Wollaston su The Guardian, ho trovato la partenza molto lenta, soprattutto i primi 3/4 episodi. La struttura è stata composta da sei episodi per stagione, con gli stessi episodi della durata di un'ora. Girato soprattutto in interni, la serie si potrebbe riassumere (come ho fatto nella top ten) con un Mad Men meets The Newsroom: una redazione intenta a cambiare le regole dell'informazione, ad "alzare l'asticella", scrollandosi di dosso l'informazione addomesticata dalle veline governative e dall'accarezzamento dell'opinione pubblica, ma calata nella fine degli anni '50 (quindi un po' precedente all'ambientazione principale di Mad Men), quindi nel pieno della Guerra Fredda, della paura nucleare, in un mondo ancora in divenire, dove l'informazione ancora stentava a diventare una parte importante della programmazione televisiva, e delle nostre vite. La Morgan, che, ricordiamolo, è una sceneggiatrice che per il cinema ha avuto risultati non sempre brillantissimi (è la sceneggiatrice di Brick Lane, di The Iron Lady, ma pure di Shame), ha forse presunto troppo inizialmente, innestando su queste storylines già abbastanza importanti, un'altra linea narrativa fondamentale, dal tono decisamente giallo. E', quindi, quasi fisiologico che l'intera struttura stenti a decollare. Ma se la prima stagione diventa davvero interessante e quasi incalzante solo verso il quarto episodio, la seconda, al contrario, è decisamente superiore fin dall'inizio, sia dal punto di vista delle scelte di regia, sia da quello dell'ampliamento dei caratteri dei personaggi anche secondari (qui sto pensando decisamente a quello di Marnie Madden, la moglie dell'anchorman Hector, interpretato dalla sempre più affascinante Oona Castilla Chaplin, che come ormai avrete capito sta diventando il mio oggetto del desiderio preferito, ma c'è da dire che anche il personaggio di Lix Storm, una superba Anna Chancellor, diventa importante più che nella prima stagione). Non ultimo, l'inserimento del personaggio di Randall Brown, interpretato da un sempre straordinario Peter Capaldi, attore che purtroppo da noi non è per niente conosciuto (ma che dovreste invece conoscere assolutamente, non fosse altro che per il suo favoloso Malcolm Tucker interpretato in In The Loop ed in The Thick of It). Il cast "fisso" è formato da Ben Wishaw (Io non sono qui, l'ultimo 007 - Skyfall - e prossimamente in Cloud Atlas) nei panni di Freddie Lyon, che fa un lavoro direi eccezionale, da Dominic West (il McNulty di The Wire, Centurion, 300, qui mi è parso appositamente ingrassato) che è Hector Madden, e da Romola Garai (Espiazione), che è anche lei molto brava nella parte di Bel Rowley. Rimarchevole anche il lavoro di Julian Rhind-Tutt nella parte di Angus McCain. Nella seconda stagione da segnalare anche l'innesto di Peter Sullivan (già visto in The Borgias, è il cardinale Ascanio Sforza) nei panni del comandante Stern, e di un paio di bellissime attrici inglesi quali Hannah Tointon (Kiki Delaine) e Hannah John-Kamen (Rosa Maria Ramirez). C'è anche Lizzie Brocheré (Camille), che ritroveremo a breve nel cast di American Horror Story - Asylum.
In definitiva, anche se a volte la sceneggiatura sembra dimenticarsi il quadro generale, soprattutto la seconda stagione è di grandissimo livello.
Inghilterra, 1956. Freddie Lyon è un giovane, ambizioso giornalista, devoto al credo della professione: dire sempre la verità, scavare fino in fondo, non mollare no matter what. Ma al momento si sente bloccato lavorando per il cinegiornale della BBC. Vorrebbe passare alla televisione, un mezzo che secondo lui ha enormi, inespresse potenzialità, rappresenta il futuro e la possibilità di arrivare a una moltitudine di persone. La sua più cara amica nonché collega (produttrice), Bel Rowley, con la quale condivide un rapporto complesso, di amore inespresso, necessità, rivalità, sfida, gelosia e quant'altro, è contattata da Clarence Fendley, un po' lo scopritore di entrambi, per affidarle la produzione di un nuovissimo newsmagazine, che viene chiamato The Hour. Freddie viene tenuto all'oscuro da Bel, finché scopre di essere stato da lei scelto per curare la parte delle notizie nazionali, mentre lui avrebbe ambito a quelle estere, che invece Bel affida all'esperta ex inviata di guerra Lix Storm. Freddie non la prende bene; ad aggravare la frizione tra i due amici per la pelle, la scelta dell'anchorman, che cade su Hector Madden, bello, ricco, affascinante, e che immediatamente "punta" Bel. La redazione viene completata da altri personaggi che cominciano a legare, fatta eccezione per Thomas Kish, un traduttore dall'arabo, al quale vengono affidate le traduzioni delle notizie che arrivano dall'Egitto: l'escalation della crisi del canale di Suez è dietro l'angolo.
Nello stesso tempo, Freddie viene avvicinato da Ruth Elms, una carissima amica, quasi una sorella, dato che la madre di Freddie era stata impiegata presso la casa dei genitori di Ruth (e Freddie stesso era stato ospitato dagli Elms durante la guerra). Ruth gli chiede di indagare sulla morte di Peter Darrall, un professore a lei molto legato, morte avvenuta pochi giorni prima. Elemento non secondario, il padre di Ruth, Lord Elms, è membro della Camera.
Sollecitato dal mormorio della rete e dall'amico Massi, mi sono avvicinato a questo prodotto della BBC proprio durante la messa in onda della seconda stagione, ma ho seguito religiosamente l'ordine cronologico. Sono quindi partito dalla prima stagione, e devo dire che, d'accordo con Sam Wollaston su The Guardian, ho trovato la partenza molto lenta, soprattutto i primi 3/4 episodi. La struttura è stata composta da sei episodi per stagione, con gli stessi episodi della durata di un'ora. Girato soprattutto in interni, la serie si potrebbe riassumere (come ho fatto nella top ten) con un Mad Men meets The Newsroom: una redazione intenta a cambiare le regole dell'informazione, ad "alzare l'asticella", scrollandosi di dosso l'informazione addomesticata dalle veline governative e dall'accarezzamento dell'opinione pubblica, ma calata nella fine degli anni '50 (quindi un po' precedente all'ambientazione principale di Mad Men), quindi nel pieno della Guerra Fredda, della paura nucleare, in un mondo ancora in divenire, dove l'informazione ancora stentava a diventare una parte importante della programmazione televisiva, e delle nostre vite. La Morgan, che, ricordiamolo, è una sceneggiatrice che per il cinema ha avuto risultati non sempre brillantissimi (è la sceneggiatrice di Brick Lane, di The Iron Lady, ma pure di Shame), ha forse presunto troppo inizialmente, innestando su queste storylines già abbastanza importanti, un'altra linea narrativa fondamentale, dal tono decisamente giallo. E', quindi, quasi fisiologico che l'intera struttura stenti a decollare. Ma se la prima stagione diventa davvero interessante e quasi incalzante solo verso il quarto episodio, la seconda, al contrario, è decisamente superiore fin dall'inizio, sia dal punto di vista delle scelte di regia, sia da quello dell'ampliamento dei caratteri dei personaggi anche secondari (qui sto pensando decisamente a quello di Marnie Madden, la moglie dell'anchorman Hector, interpretato dalla sempre più affascinante Oona Castilla Chaplin, che come ormai avrete capito sta diventando il mio oggetto del desiderio preferito, ma c'è da dire che anche il personaggio di Lix Storm, una superba Anna Chancellor, diventa importante più che nella prima stagione). Non ultimo, l'inserimento del personaggio di Randall Brown, interpretato da un sempre straordinario Peter Capaldi, attore che purtroppo da noi non è per niente conosciuto (ma che dovreste invece conoscere assolutamente, non fosse altro che per il suo favoloso Malcolm Tucker interpretato in In The Loop ed in The Thick of It). Il cast "fisso" è formato da Ben Wishaw (Io non sono qui, l'ultimo 007 - Skyfall - e prossimamente in Cloud Atlas) nei panni di Freddie Lyon, che fa un lavoro direi eccezionale, da Dominic West (il McNulty di The Wire, Centurion, 300, qui mi è parso appositamente ingrassato) che è Hector Madden, e da Romola Garai (Espiazione), che è anche lei molto brava nella parte di Bel Rowley. Rimarchevole anche il lavoro di Julian Rhind-Tutt nella parte di Angus McCain. Nella seconda stagione da segnalare anche l'innesto di Peter Sullivan (già visto in The Borgias, è il cardinale Ascanio Sforza) nei panni del comandante Stern, e di un paio di bellissime attrici inglesi quali Hannah Tointon (Kiki Delaine) e Hannah John-Kamen (Rosa Maria Ramirez). C'è anche Lizzie Brocheré (Camille), che ritroveremo a breve nel cast di American Horror Story - Asylum.
In definitiva, anche se a volte la sceneggiatura sembra dimenticarsi il quadro generale, soprattutto la seconda stagione è di grandissimo livello.
20130117
Django senza catene
Django Unchained - di Quentin Tarantino (2013)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Nel 1858, in Texas, i fratelli Speck stanno trasportando un gruppo di schiavi neri alla vendita. Vengono fermati dal dottor King Schultz, un ex dentista tedesco, che chiede se tra gli schiavi c'è qualcuno che proviene dalla piantagione dei fratelli Brittle. Uno schiavo di nome Django gli dice che lui viene da lì, e Schultz, incurante degli Speck che gli intimano di non parlare agli schiavi, chiede a Django se saprebbe riconoscere i Brittle. Quando lo schiavo gli risponde affermativamente, Schultz libera Django, uccide uno dei due fratelli Speck e ferisce l'altro, portando con sé Django e liberando gli altri schiavi. Schultz si rivela: in realtà, adesso è un cacciatore di taglie, e sta cercando di Brittle da un bel po' di tempo. Se Django lo aiuterà nella cattura (o nell'uccisione dei tre), Schultz gli darà la libertà e qualche soldo. Schultz, nonostante sia uno spietato bounty killer, è un brav'uomo: quando Django gli racconta che il suo sogno è liberare sua moglie, Broomhilda, un po' per la storia, un po' perché Django è affidabile, un po' perché il nome di sua moglie gli fa venire in mente la terra natìa, prende l'aiutante davvero a cuore. Tant'è che, trovati ed uccisi i Brittle, Schultz propone a Django un altro patto, che l'ormai ex schiavo accetta di buon grado.
Vi giuro che non lo faccio di proposito. Mi sono messo alla visione cancellando, o almeno tentando di cancellare, ogni preconcetto legato al fatto che, secondo me, Tarantino è finito già da diversi anni; forse ce l'ho fatta, forse no, fatto sta che mentre l'hype creato a bella posta intorno alla nuova uscita tarantiniana (esce esattamente oggi) finisce, i critici accreditati si strappano già le vesti ed osannano il nuovo capolavoro, io mi son visto queste due ore e quarantacinque minuti (avete capito bene) di esercizio di stile senza rimanerne incantato. Grandissimo amante del cinema, questo è superfluo ma bisogna riconoscerglielo, Tarantino stavolta omaggia il western all'italiana in tutte le maniere possibili, ricreandone perfino lo stile nei titoli di testa e di coda (e perfino nelle sovraimpressioni), ingaggia Franco Nero per un cameo (era lui il Django di uno dei film che ha maggiormente ispirato questo lavoro, quello di Sergio Corbucci del 1966; nel cameo Franco Nero in pratica "dice" questo) ed Ennio Morricone, che compone per Elisa Ancora qui (una delle varie "stonature" della pellicola, il pezzo non c'entra assolutamente niente), per la colonna sonora, e mette su un filmone dove cerca di ricreare atmosfere epiche alla Sergio Leone. Cast enorme, che fa naturalmente da grande richiamo, Tarantino costruisce una storia di vendetta (dichiarando che questo Django Unchained è la seconda parte della trilogia della vendetta cominciata con Inglorious Basterds) che, dopo aver affrontato l'orrore della Seconda Guerra Mondiale, adesso "fa i conti" col Paese che gli ha dato i natali, quegli Stati Uniti d'America che si macchiarono del peccato originale della schiavitù nei confronti degli africani, reiterandolo fino all'arrivo del Lincoln di Spielberg (scherzo), e quindi sceglie come protagonista un nero al quale, come detto, un cacciatore di taglie restituisce la libertà, e "istruisce" a dovere su come ottenere l'agognata vendetta, riscattando l'amata contro i bianchi schiavisti e crudeli, ma pure contro i neri leccapiedi e razzisti a loro volta.
Nonostante tutto ciò, Django Unchained non mi ha coinvolto, disturbandomi con le recitazioni tutte sopra le righe, e spesso esagerando decisamente con splatter, ultraviolenza ed esplosioni, cadendo, sempre a mio modestissimo parere, nel ridicolo. Così facendo, anche il messaggio anti-razzista affoga nel grottesco.
Buffissimo l'inglese ottocentesco (perfino troppo esente da accento) di Christoph Waltz (Schultz), l'unico sobrio, paradossalmente, risulta Jamie Foxx nei panni del protagonista Django Freeman, massiccio e misurato, anche se il finale esagerato sciupa un po' il tutto. Ci sono pure Leonardo DiCaprio (Calvin Candie), Samuel L.Jackson (il perfido leccaculo Stephen), Walton Goggins (si, quello di The Shield, che vedrete anche in Lincoln, qui nei panni di Billy Crash) e James Remar (si, il padre di Dexter, qui uno dei tirapiedi di Candie). Cameo anche per il regista stesso. Grande regia, naturalmente, colonna sonora spesso stridente, non sempre indovinata.
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Nel 1858, in Texas, i fratelli Speck stanno trasportando un gruppo di schiavi neri alla vendita. Vengono fermati dal dottor King Schultz, un ex dentista tedesco, che chiede se tra gli schiavi c'è qualcuno che proviene dalla piantagione dei fratelli Brittle. Uno schiavo di nome Django gli dice che lui viene da lì, e Schultz, incurante degli Speck che gli intimano di non parlare agli schiavi, chiede a Django se saprebbe riconoscere i Brittle. Quando lo schiavo gli risponde affermativamente, Schultz libera Django, uccide uno dei due fratelli Speck e ferisce l'altro, portando con sé Django e liberando gli altri schiavi. Schultz si rivela: in realtà, adesso è un cacciatore di taglie, e sta cercando di Brittle da un bel po' di tempo. Se Django lo aiuterà nella cattura (o nell'uccisione dei tre), Schultz gli darà la libertà e qualche soldo. Schultz, nonostante sia uno spietato bounty killer, è un brav'uomo: quando Django gli racconta che il suo sogno è liberare sua moglie, Broomhilda, un po' per la storia, un po' perché Django è affidabile, un po' perché il nome di sua moglie gli fa venire in mente la terra natìa, prende l'aiutante davvero a cuore. Tant'è che, trovati ed uccisi i Brittle, Schultz propone a Django un altro patto, che l'ormai ex schiavo accetta di buon grado.
Vi giuro che non lo faccio di proposito. Mi sono messo alla visione cancellando, o almeno tentando di cancellare, ogni preconcetto legato al fatto che, secondo me, Tarantino è finito già da diversi anni; forse ce l'ho fatta, forse no, fatto sta che mentre l'hype creato a bella posta intorno alla nuova uscita tarantiniana (esce esattamente oggi) finisce, i critici accreditati si strappano già le vesti ed osannano il nuovo capolavoro, io mi son visto queste due ore e quarantacinque minuti (avete capito bene) di esercizio di stile senza rimanerne incantato. Grandissimo amante del cinema, questo è superfluo ma bisogna riconoscerglielo, Tarantino stavolta omaggia il western all'italiana in tutte le maniere possibili, ricreandone perfino lo stile nei titoli di testa e di coda (e perfino nelle sovraimpressioni), ingaggia Franco Nero per un cameo (era lui il Django di uno dei film che ha maggiormente ispirato questo lavoro, quello di Sergio Corbucci del 1966; nel cameo Franco Nero in pratica "dice" questo) ed Ennio Morricone, che compone per Elisa Ancora qui (una delle varie "stonature" della pellicola, il pezzo non c'entra assolutamente niente), per la colonna sonora, e mette su un filmone dove cerca di ricreare atmosfere epiche alla Sergio Leone. Cast enorme, che fa naturalmente da grande richiamo, Tarantino costruisce una storia di vendetta (dichiarando che questo Django Unchained è la seconda parte della trilogia della vendetta cominciata con Inglorious Basterds) che, dopo aver affrontato l'orrore della Seconda Guerra Mondiale, adesso "fa i conti" col Paese che gli ha dato i natali, quegli Stati Uniti d'America che si macchiarono del peccato originale della schiavitù nei confronti degli africani, reiterandolo fino all'arrivo del Lincoln di Spielberg (scherzo), e quindi sceglie come protagonista un nero al quale, come detto, un cacciatore di taglie restituisce la libertà, e "istruisce" a dovere su come ottenere l'agognata vendetta, riscattando l'amata contro i bianchi schiavisti e crudeli, ma pure contro i neri leccapiedi e razzisti a loro volta.
Nonostante tutto ciò, Django Unchained non mi ha coinvolto, disturbandomi con le recitazioni tutte sopra le righe, e spesso esagerando decisamente con splatter, ultraviolenza ed esplosioni, cadendo, sempre a mio modestissimo parere, nel ridicolo. Così facendo, anche il messaggio anti-razzista affoga nel grottesco.
Buffissimo l'inglese ottocentesco (perfino troppo esente da accento) di Christoph Waltz (Schultz), l'unico sobrio, paradossalmente, risulta Jamie Foxx nei panni del protagonista Django Freeman, massiccio e misurato, anche se il finale esagerato sciupa un po' il tutto. Ci sono pure Leonardo DiCaprio (Calvin Candie), Samuel L.Jackson (il perfido leccaculo Stephen), Walton Goggins (si, quello di The Shield, che vedrete anche in Lincoln, qui nei panni di Billy Crash) e James Remar (si, il padre di Dexter, qui uno dei tirapiedi di Candie). Cameo anche per il regista stesso. Grande regia, naturalmente, colonna sonora spesso stridente, non sempre indovinata.
20130116
il colpo alla torre
Giudizio sintetico: si può perdere (2/5)
Josh Kovaks è il manager del Tower, un grattacielo destinato ad abitazioni di lusso, nella zona di Central Park a New York. E' bravo ad organizzare le cose, è un bravo capo, umano. E' naturalmente molto gentile con tutti gli inquilini, ma naturalmente riserva un trattamento di favore ad Arthur Shaw, un ricco operatore finanziario, che possiede uno degli appartamenti più lussuosi, e vive decisamente nell'opulenza. Improvvisamente, una mattina Josh assiste a quello che gli sembra nettamente un rapimento, ai danni di Shaw; Josh fa di tutto per opporsi, finché viene fermato dall'affascinante ma decisa Claire Denham, che si identifica come agente speciale dell'FBI. Denham spiega ad un confuso Josh che Shaw non solo stava per essere arrestato per frode, ma addirittura stava tentando di fuggire. L'accusa è di aver messo in atto un colossale schema di Ponzi, e aver derubato centinaia di persone. Josh, distrutto, riunisce il personale per metterli al corrente del fatto: non solo quello che pensavano essere una brava persona è un delinquente, ma tutti loro hanno perso i loro risparmi. Infatti, tutti i loro fondi pensione erano stati dati in gestione ad Arthur Shaw. Tra i lavoratori, c'è perfino chi tenta il suicidio; Josh per primo si sente colpevole, per essere stato quello che ha più insistito per affidare a Shaw i fondi. Il massimo della frustrazione viene raggiunto quando Shaw viene messo agli arresti domiciliari, proprio sotto il loro naso. Josh rischia grosso, affrontandolo in casa sua e rompendo un vetro della Ferrari d'epoca che Shaw tiene esposta in salotto, dalla rabbia. Il general manager dell'edificio è costretto a licenziare lui e chi ha accompagnato Josh nella sua bravata, suo cognato Charlie, che fungeva da concierge e che è in attesa di diventare padre, ed Enrique, il ragazzo dell'ascensore. Qualche giorno più tardi, Josh incontra l'agente Denham, e lei lo invita ad ubriacarsi; mentre bevono, Denham sottolinea che Shaw doveva avere un fondo di sicurezza in contanti o qualcosa di valore, e scherzando gli suggerisce di trovarlo e rubarlo. Ma Josh e gli altri mica scherzano.
Tower Heist, diretto dal regista di The Family Man, Rush Hour e capolavori di questo tipo, è una sorta di parodia di Ocean's Eleven. Si ride, la storia è "giustificata" dalla crisi finanziaria globale, il cast è ricchissimo, ma è finita lì. Mi pare non ci sia altro da aggiungere, se non che il budget è piuttosto elevato, e si vede.
Ben Stiller è Josh, Eddie Murphy è Slide, Casey Affleck è Charlie, Alan Alda è Shaw, Matthew Broderick è mister Fitzhugh, Judd Hirsch è mister Simon, Téa Leoni è Denham, Michael Peña è Enrique, Gabourey Sidibe è Odessa.
20130115
un posto nel mondo
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Argentina. Ernesto torna nel luogo dove è nato e dove ha trascorso la sua infanzia, Santa Rosa de Conlara, un luogo ben diverso dalla capitale Buenos Aires. Inizia a ricordare fatti importanti, come quando attaccando il carro al cavallo, faceva a gara con il treno merci che ogni giorno passava di lì. Durante quegli anni, era innamorato di una bambina, Luciana, figlia di un contadino che lavorava alle dipendenze di Andrada, il proprietario terriero più potente della zona. Luciana non frequentava la scuola, ed Ernesto decise di insegnarle a leggere. Nel frattempo, i suoi genitori erano alle prese con le loro lotte. Mario e Ana erano due idealisti, che dopo l'autoesilio in Spagna per fuggire dal regime militare in Argentina, tornati in Patria si erano trasferiti in quel luogo remoto per vivere secondo i loro dettami etici. Mario era il presidente di una cooperativa di allevatori di pecore, nel commercio della lana; Ana era un medico dedito alla cura di tutti quelli che ne avevano bisogno (e lì ce n'era molto); l'aiutava la suora novizia Nelda. Entrambi erano lì per condividere, ma soprattutto, essendo culturalmente di livello più elevato del popolino, per aiutare queste persone a crescere in tutti i sensi. L'arrivo di Hans, un geologo spagnolo assunto da Andrada per sondare le possibilità di incontrare petrolio nel sottosuolo, spariglia le carte. Da una parte, si comincia a capire che lo Stato vuole impiantare una grande diga nella valle, quindi Andrada non è interessato al petrolio, ma a comprare le terre dei contadini a buon mercato per poi rivenderle allo Stato e guadagnarci. Hans, che a livello di convinzioni è sicuramente più vicino a Mario e Ana rispetto ad Andrada, fa quel che può, dando anche lezioni di geologia nella scuola locale, diventando un buon amico della coppia e di Nelda, ma rimane uno stipendiato di Andrada.
Dell'argentino Aristarain avevo visto solo l'ottimo Martin (hache) del 1997, e non ricordo neppure come sono arrivato a questo Un lugar en el mundo (probabilmente per via del cast). Magari un po' retorico e sentimentale, ma in definitiva un buon film, orientato politicamente a sinistra, che parla di temi comprensibili se si tiene conto della storia argentina degli ultimi ottant'anni. Un po' impacciato il cast di contorno, ottimi invece gli attori principali. Lo spagnolo José Sacristán è Hans, l'argentina Leonor Benedetto è Nelda, e la coppia dal nome "pesante" Federico Luppi/Cecilia Roth sono Mario e Ana. Luppi lo avrete visto in almeno uno dei film di Guillermo Del Toro (Il labirinto del Fauno, La spina del diavolo) oppure in Machuca, la Roth sicuramente in Tutto su mia madre (ma per Almodóvar era anche in Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio, Labirinto di passioni e L'indiscreto fascino del peccato), o in Kamchatka. Addirittura, l'ho saputo spulciando la sua bio, ha lavorato con i fratelli Taviani per lo sceneggiato RAI Luisa Sanfelice.
Curiosa la storia del film per quanto riguarda la nomination per l'Oscar come miglior film in lingua non inglese. Non riuscendo ad accaparrarsi quella per rappresentare l'Argentina, Aristarain si presentò per l'Uruguay, e ottenne l'ingresso nella cinquina finale. Fu poi ritirata, visto che era del tutto una produzione argentina (l'Oscar quell'anno andò ad Indocina).
20130114
missione sesso
Seksmisja - di Juliusz Machulski (1984)
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Polonia 1991. Albert e Maks sono scelti per il primo esperimento di ibernazione umana. Sono ibernati per essere svegliati pochi anni dopo. Quando si svegliano, però, capiscono poco a poco che è passato molto più tempo. Infatti, sono nel 2044. Le sorprese non sono terminate: dopo un apocalisse atomica, l'umanità si è ritirata in strutture completamente sotterranee, ed i maschi sono scomparsi. Esistono solo femmine, che si riproducono per partenogenesi. Non solo una società così concepita non ha bisogno del maschio, ma lo odia proprio. Viene insegnato al popolo che sotto gli uomini, le donne sono sempre state relegate ad un ruolo secondario, e hanno sofferto estremamente. I due maschi non comprendono bene che cosa vogliono fare di loro le donne; la maggior parte, vuole sottoporli ad un cambio di sesso. Ma alcune di loro subiscono un repentino cambiamento di atteggiamento nelle loro vicinanze. In particolare, una delle scienziate che li ha studiati fin dal primo giorno del loro risveglio, li aiuterà nel loro piano semi-suicida: meglio morire fuori che essere costretti ad un cambio così radicale per sopravvivere. Scopriranno allora...
Particolarissimo film di fantascienza polacco, con l'eccezionale partecipazione di un giovane Jerzy Stuhr (Maks), che seppur goffamente (ma del resto il tono è estremamente comico), si lascia vedere con grande semplicità, mettendo in scena una bella allegoria dei regimi comunisti del blocco oltre cortina. Divertentissime le due prove recitative del già citato Stuhr e del "compare" Olgierd Lukaszewicz (Albert).
Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Polonia 1991. Albert e Maks sono scelti per il primo esperimento di ibernazione umana. Sono ibernati per essere svegliati pochi anni dopo. Quando si svegliano, però, capiscono poco a poco che è passato molto più tempo. Infatti, sono nel 2044. Le sorprese non sono terminate: dopo un apocalisse atomica, l'umanità si è ritirata in strutture completamente sotterranee, ed i maschi sono scomparsi. Esistono solo femmine, che si riproducono per partenogenesi. Non solo una società così concepita non ha bisogno del maschio, ma lo odia proprio. Viene insegnato al popolo che sotto gli uomini, le donne sono sempre state relegate ad un ruolo secondario, e hanno sofferto estremamente. I due maschi non comprendono bene che cosa vogliono fare di loro le donne; la maggior parte, vuole sottoporli ad un cambio di sesso. Ma alcune di loro subiscono un repentino cambiamento di atteggiamento nelle loro vicinanze. In particolare, una delle scienziate che li ha studiati fin dal primo giorno del loro risveglio, li aiuterà nel loro piano semi-suicida: meglio morire fuori che essere costretti ad un cambio così radicale per sopravvivere. Scopriranno allora...
Particolarissimo film di fantascienza polacco, con l'eccezionale partecipazione di un giovane Jerzy Stuhr (Maks), che seppur goffamente (ma del resto il tono è estremamente comico), si lascia vedere con grande semplicità, mettendo in scena una bella allegoria dei regimi comunisti del blocco oltre cortina. Divertentissime le due prove recitative del già citato Stuhr e del "compare" Olgierd Lukaszewicz (Albert).
20130113
gay a oltranza
Lo so, ci sarebbero un centinaio di cose più importanti, decine e decine di notizie senza dubbio attuali e drammatiche, da commentare prima e in maniera approfondita. Ma in fondo è giusto così, agire d'istinto e via. Del resto, è un blog, mica la fusione fredda.
A me, tutte queste persone che sono pateticamente attaccate al passato fanno quasi tenerezza. Sto parlando delle centinaia di migliaia di persone che hanno manifestato a Parigi contro nozze e adozioni gay, e di quelle, sicuramente molte di più, che sono contro senza manifestare.
Probabilmente alcune di loro saranno ancora vive quando le due cose diventeranno normalissime. E chissà se continueranno a guardare storto i gay e i figli di coppie dello stesso sesso. Magari no. Magari si abitueranno.
Chissà. Ma statene certi, la direzione è tracciata. Non ho alcun dubbio. Vi conviene arrendervi.
Anche in Caprica c'è il matrimonio gay, e pure l'adozione. Mettetevi l'anima in pace, voi, Le Pen, il papa e chissà chi altro.
A me, tutte queste persone che sono pateticamente attaccate al passato fanno quasi tenerezza. Sto parlando delle centinaia di migliaia di persone che hanno manifestato a Parigi contro nozze e adozioni gay, e di quelle, sicuramente molte di più, che sono contro senza manifestare.
Probabilmente alcune di loro saranno ancora vive quando le due cose diventeranno normalissime. E chissà se continueranno a guardare storto i gay e i figli di coppie dello stesso sesso. Magari no. Magari si abitueranno.
Chissà. Ma statene certi, la direzione è tracciata. Non ho alcun dubbio. Vi conviene arrendervi.
Anche in Caprica c'è il matrimonio gay, e pure l'adozione. Mettetevi l'anima in pace, voi, Le Pen, il papa e chissà chi altro.
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